Fico (Presidente Camera): “la vera emergenza è la lotta alle mafie” di Marco Di Caterino Il Mattino, 31 agosto 2018 La vera emergenza del Paese? Le mafie: la polemica a distanza con Salvini, che si occupa quasi a tempo pieno di immigrazione, è esplicita, ma il presidente della Camera Roberto Fico non se ne preoccupa. E insiste: “Se non ci liberiamo dalle mafie non saremo mai un Paese libero”, dice ai giornalisti non appena sceso dall’auto, nel polveroso spiazzo di masseria Ferraioli, ad Afragola, uno dei beni confiscati alla camorra, e tra i più estesi come superficie tra Napoli e la sua provincia. Fico è qui per commemorare il quarantesimo anniversario della barbara uccisione di Antonio Esposito Ferraioli, trucidato il 30 agosto 1978, in via Zito, a Pagani. La vittima era il cuoco della mensa della Fatme di Pagani e in quest’ambiente, secondo quanto ricostruito, era maturato il suo omicidio: Ferraioli dava fastidio per il suo impegno a favore dei diritti dei lavoratori ma soprattutto perché “indagava” sull’uso di carne di provenienza sospetta, forse dai Tir rapinati nella zona, e cucinata poi all’interno della mensa. “Siamo qui per commemorare una vittima di camorra: niente politica”, risponde l’esponente 5 Stelle a che gli chiede se, trovandosi ad Afragola nota come la città dell’aglio, ne abbia acquistato una treccia per la sua “poltrona sfortunata”, come l’aveva definita Matteo Salvini dopo le critiche di Fico sulla questione della nave Diciotti. Puntuale sulla tabella di marcia, alle 18 in punto Roberto Fico, pantaloni kaki e camicia bianca, è arrivato in quella che un tempo era l’ampia aia della masseria dei Magiulo, la cosca di Afragola sterminata dal clan Moccia, nel corso di una delle faide più sanguinarie che la storia della camorra ricordi. Ad accogliere il presidente della Camera Mario Esposito Ferraioli, fratello della vittima, l’onorevole Iolanda Di Stasio, del M5S, il sindaco di Afragola Claudio Grillo con il consigliere regionale pentastellato Tommaso Malerba, e i rappresentati delle quattro associazioni alle quali, dopo un bando pubblico, è stato affidato il bene sequestrato alla camorra. Struggente e appassionato è stato il ricordo di Antonio da parte di Mario Esposito Ferraioli, che ha invitato tutti a “fare memoria” del sangue innocente versato, e a tenere nella normale quotidianità quei piccoli gesti di coraggio, amore e onestà che sono i primo mattoni per costruire una società migliore. Poi l’uomo ha consegnato a Fico “la ricetta della legalità”, stilata oltre quarant’anni fa dal fratello e ancora straordinariamente attuale. “La prima vera emergenza del nostro tempo è quella della criminalità organizzata - ha detto nel suo intervento il presidente della Camera - Il male che fanno mafia, ndrangheta, camorra e sacra corona unita si riflette quotidianamente su tutti noi, sulle nostre vite, sul tessuto produttivo, arrivando a inquinare anche la politica a tutti i livelli. Se non ci liberiamo dalle mafie non saremo mai un Paese libero, è questa la vera emergenza del Paese. È una lotta che non va dimenticata - ha concluso - neanche per un secondo perché le nostre terre spesso sono sotto scacco della camorra e delle varie mafie. Dobbiamo combatterle in tutti i modi. Io, sono fiducioso, perché la nostra terra è terra di combattenti”. Uno dei rappresentati delle quattro associazioni ha poi illustrato le attività messe in campo. E tra queste, quella gli orti sociali, appezzamenti di terreno di piccole dimensioni dove è possibile avviare delle coltivazioni da parte di chi ne fa richiesta. In questo modo si restituisce ai cittadini, ha sottolineato il volontario, quello che la criminalità ha tolto alla comunità sana del Paese. La visita si è conclusa con un lungo giro tra i poderi della masseria, dove tra pomodori e frutteti è nata una nuova speranza di riscatto sociale. Una mafia negata ma molto imprenditrice di Anna Piscopo La Repubblica, 31 agosto 2018 Puglia: “porta d’Oriente”, terra dove il torpore della calura estiva avvolge le anime, madre della “quarta mafia”. Dietro il volto di un paesaggio incontaminato, la Puglia è la prima terra per le operazioni di sbarco delle organizzazioni criminali dell’est e zona di confine con le con altre regioni controllate da ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra. Anche se in ritardo rispetto alle altre regioni, la Puglia è stata costretta a svestire i panni di isola felix e mostrare se stessa: un territorio con forti potenzialità di sviluppo e con uno straordinario dinamismo economico e imprenditoriale spesso schiacciati dalle mafie. Che inquinano, inibiscono e continuano a servirsi di giovani leve, manovali della delinquenza lasciate allo sbando. Le organizzazioni criminali pugliesi nate tra gli anni ‘70 e ‘80, in parte come filiazione della Camorra e accomunate sotto il nome di “Sacra corona unita”, hanno ereditato alcuni caratteri arcaici delle mafie tradizionali in un’ottica di innovazione e autonomia. (Palmieri 2013) In Puglia colui che ha dato impulso alle formazioni delle varie organizzazioni è stato Raffaele Cutolo, ‘o professore. Evaso dal manicomio giudiziario nel 1979, il boss campano riunì una quarantina di capi di organizzazioni criminali pugliesi nell’Hotel Florio di Lucera (Fg): è l’embrione della Società, la mafia foggiana. Inoltre, Cutolo pensa a una delocalizzazione delle attività criminali e alla creazione di una cellula come base operativa vicina a quella campana da cui pretende fino al 40% dei guadagni. Ma questa richiesta finisce con il provocare una reazione da parte di alcuni gruppi, i quali si oppongono al disegno del boss. Uno di questi prende il nome di Sacra Corona Unita fondata da Giuseppe Rogoli. Inizia così a insediarsi il germe che porterà alla diramazione delle associazioni che percorreranno strade diverse ma parallele: la Famiglia Salentina Libera di Salvatore Rizzi, e a Taranto i fratelli Modeo aderirono alla Nuova Camorra Pugliese di Cutolo. Ci sono voluti anni per arrivare a una definizione semantica e giuridicamente valida del fenomeno. Era il 1982 quando con la legge Rognoni-La Torre è stato introdotto nel codice penale l’art. 416-bis, secondo cui si è in presenza di associazioni di tipo mafioso “quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza intimidatrice del vincolo associativo”. Mentre in una sentenza emessa dal Tribunale di Bari il 12 gennaio 1991 si legge: […] D’altra parte, per fortuna, non è che il nostro territorio abbia prodotto “cultura mafiosa” (almeno fino ad ora) anche se purtroppo il degrado sociale e, soprattutto, morale è tale da farne prevedere la possibile diffusione. Tra scetticismo e tentativi di minimizzazione da parte di certe istituzioni, la Puglia si definiva come “regione a rischio” e territorio della “quarta mafia”. Nuovo polo della questione criminale che si aggiungeva alla mappa dell’antistato dopo il triangolo Sicilia, Calabria, Campania. La mancata o debole azione di denuncia che ha riguardato non solo la Puglia, ma l’intero Paese, ha contribuito a consolidare le mafie e a renderle interlocutrici dei poteri locali e non solo. Di qui la necessità di considerare il radicamento del germe mafioso attraverso due livelli di analisi. La posizione geografica della Puglia infatti gioca un ruolo fondamentale nello scacchiere internazionale. Le coste tirreniche, e oggi soprattutto quelle adriatiche, fungono da viatico per le attività illecite, tra cui contrabbando, riciclaggio, usura, traffici di droga, di armi e di immigrati contribuendo a definire i nuovi scenari del crimine organizzato. Il secondo livello vede l’ampio territorio regionale sotto lo scacco dei diversi gruppi criminali che se lo contendono. Clan per lo più organizzati su base familiare, privi di una strategia unitaria ma spietati nel modo di esercitare il controllo. La frammentarietà delle cosche che emerge dalle relazioni della Dia (Direzione Investigativa Antimafia) fotografa tre “subregioni” con caratteristiche e peculiarità proprie: la terra di Bari, l’area foggiana e quella salentina, come si è detto compagine originaria della Sacra corona unita. A queste sono da aggiungere la BAT (provincia di Barletta-Andria-Trani) e Taranto, che da sola conta quasi venti clan. Riciclaggio, traffico di sostanze stupefacenti, usura, legami con il settore dell’edilizia, del turismo, con lo smaltimento dei rifiuti: sono questi i maggiori canali di approvvigionamento dei gruppi criminali che, pur in mancanza di una struttura verticistica del potere, continuano a rigenerarsi e a dominare il territorio. Con la straordinaria capacità di adeguarsi al mutare dei tempi e delle condizioni. Come nel caso del caporalato, fenomeno al centro dei fatti di cronaca per aver contribuito a far luce sui ghetti situati nel fazzoletto di terra tra San Severo e Rignano Garganico. Il lavoro nero che si muove nella zona d’ombra tra sistema criminale e illegalità fa della “mafia caporale” (Palmisano 2017) un sistema “liquido”, per usare un’abusata espressione di Bauman. Liquido non solo perché è capace di insinuarsi velocemente nel tessuto sociale, ma anche perché questa metamafia per restare in piedi ha bisogno di drenaggio di liquidi: di denaro. Che accumula sui salari di braccianti, camerieri, commercialisti, prostitute, blogger. Una mafia che esce allo scoperto non con i colpi di pistola. Quello con cui oggi ci si ritrova a fare i conti è un sistema intriso di miseria e corruzione, che assomiglia ai tentacoli di una piovra: ti corteggia, ti “sfotte”, e alla fine non ti lascia più andare. Quello che ha caratterizzato la Puglia è stato un percorso in ascesa, da “criminalità negata” a “mafia imprenditrice”. Vero e proprio salto di qualità reso possibile grazie a politiche conniventi ed omertose alla base del sistema. Che non risparmia neppure l’informazione per piegare e orientare l’opinione pubblica. Le minacce, l’uso intimidatorio delle querele e delle cause per diffamazione che colpiscono i giornalisti che cercano di fare il proprio mestiere sono espressione di una legislazione che riporta evidenti falle. Terreno fertile per ostentare una libertà di stampa troppe volte soffocata. Non di certo aiutata dagli assetti proprietari “bordeline” dei giornali nelle terre di mafie e dalla precarietà dello status sociale degli operatori dell’informazione. I dati forniti dall’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” rilevano che negli ultimi otto anni in Puglia sono state ricevute duecento minacce, undici dall’inizio del 2018. In cima alla lista c’è la querela per diffamazione ritenuta pretestuosa seguita da lievi aggressioni fisiche e dagli insulti. Andrea Morrone, Marilù Mastrogiovanni, Luigi Abbate sono soltanto alcuni esempi di giornalisti a cui si è tentato di porre un bavaglio. E infine Maria Grazia Mazzola, giornalista Rai, aggredita, a febbraio di quest’anno, nel quartiere Libertà di Bari mentre cercava informazioni sul clan Strisciuglio dalla moglie del boss Lorenzo Caldarola. Una battaglia culturale che necessita, oggi più che mai, di segnali in controtendenza affinché il crimine sia inteso come un grande problema etico, prima che economico e sociale. Per questo sta prendendo forma in questi ultimi tempi, a Bari, il Movimento Antimafia di Base. Obiettivo: restituire ai cittadini gli spazi privatizzati dalla criminalità organizzata. Con lo spaccio, con il controllo illecito e prepotente. Affinché le piazze del capoluogo pugliese tornino a risplendere del loro originario significato di “agorà sociale” e smettere di “puzzare” di mafia. Bartolozzi (Fi): e se eleggessimo i Pm? di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 agosto 2018 Giusi Bartolozzi, deputata di Forza Italia e giudice in aspettativa, commenta col “Dubbio” la vicenda-Patronaggio. Altri reati a carico di Matteo Salvini relativamente alla vicenda della nave Diciotti. La notizia, anticipata ieri dal quotidiano La Repubblica, è stata poi confermata dal diretto interessato nel corso della mattinata di ieri durante un incontro pubblico a Venezia. Dopo il sequestro di persona, l’arresto illegale, l’abuso d’ufficio, è ora il turno del sequestro di persona a scopo di coazione e dell’omissione di atti di ufficio. Il continuo proliferare di reati, comunicati tramite stampa al ministro dell’Interno, insieme alle modalità di conduzione dell’indagine, con il sopralluogo sulla nave da parte del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio in diretta televisiva, stanno facendo in queste ore molto discutere. Autorevoli toghe, come l’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio o il giudice di Cassazione Alfredo Mantovano, hanno preso pubblicamente posizione manifestando la loro “perplessità”. Per i due magistrati, i pm con questa indagine corrono il rischio di “sostituirsi” ai politici. Patronaggio è stato invece difeso dalle correnti progressiste della magistratura associata e dall’Anm per bocca dell’attuale presidente, il pm Francesco Minisci. Anche Autonomia& Indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo, ha diramato un duro comunicato per stigmatizzare le “ingerenze della politica” nell’azione del pm agrigentino. Ma se dopo il clamore mediatico - la notizia dell’indagine a carico di Salvini è stata ripresa dai principali network internazionali finisse tutto in un nulla di fatto? Per Giusi Bartolozzi, giudice penale fuori ruolo presso la Corte d’Appello di Roma e attuale deputata di Forza Italia, la vicenda Diciotti offre lo spunto per una seria riflessione sulla necessità di procedere quanto prima alla separazione delle carriere dei magistrati e alla creazione di due distinti Csm. “Senza commentare i reati che Patronaggio - dichiara la parlamentare azzurra a Il Dubbio - contesta a Salvini, l’iscrizione in se rimane legittima. Il problema è se l’indagine non avesse alcuno sbocco concreto e portasse ad una archiviazione: il pm sarebbe chiamato a risponderne?”. “L’Italia - ricorda Bartolozzi è l’unico Paese in cui esiste un “potere” senza responsabilità. Il pm è a capo della polizia giudiziaria e dirige le indagini con una discrezionalità che può anche sconfinare nell’arbitrio”. La memoria corre alle innumerevoli volte in cui la comunicazione di un’informazione di garanzia ha condizionato la vita politica di un parlamentare, di un governo e talvolta di una intera legislatura. Tale “potere”, secondo la parlamentare di Forza Italia, “dovrebbe essere bilanciato da una equivalente responsabilità”. E a tal riguardo il modello di riferimento potrebbe essere quello americano dove il pm è controllato dalla volontà popolare, in quanto il District Attorney è eletto dai cittadini. “Invece nel nostro sistema il pm gode delle stesse garanzie di indipendenza e autonomia del giudice”, precisa Bartolozzi, secondo cui “il pm può imbastire processi lunghi, costosi o anche basati su meri teoremi accusatori senza alcuna conseguenza negativa se vengono poi smentiti dal dibattimento. Ciò in considerazione dell’ombrello protettivo dell’obbligatorietà dell’azione penale”. La responsabilità civile del magistrato non è un deterrente. “Nel passato, condizionati dallo slogan del “chi sbaglia paga”, invece di incidere sulle cause degli errori giudiziari, come appunto il potere illimitato dei pubblici ministeri, si è preferito agire sull’effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie. Scelta inutile, perché ci penserà l’assicurazione, ed irragionevole perché la toga inetta o ignorante non va multata, ma va destituita, come ha detto Nordio”, sottolinea la deputata forzista. “Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha però già dichiarato che la separazione delle carriere non è una priorità, dimostrando ancora una volta di non comprendere la complessità del problema”, conclude Giusi Bartolozzi. La guerra sugli stupratori senza pensare alle vittime di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 31 agosto 2018 Ci si preoccupa ossessivamente del colore e della nazionalità del malfattore in una logica politica tribale senza “pietas”. E le donne spariscono. Un’ossessione e una crudeltà che si rinnova ad ogni atroce violenza sessuale, ultime quelle di Parma e di Menaggio, sul lago di Como: la disputa politica sul colore degli stupri, o meglio, degli stupratori. Prima ancora di rivolgere un pensiero alle vittime dello stupro, si corre con avida curiosità a scoprire l’identikit del malfattore, o del gruppo dei malfattori. Da dove viene? È italiano? È un immigrato? È bianco o nero? L’identikit serve a confermare una tesi, anzi un pregiudizio, anzi una catena di pregiudizi. Se lo stupratore è di colore, è quello che arriva a fare un immigrato preferibilmente clandestino, uno straniero, uno che infesta le nostre strade, allora l’equazione politica è chiara: ecco la prova che ci stanno invadendo, che la delinquenza è indisturbata, che la sicurezza è a rischio, che le nostre donne sono preda dei nuovi barbari, che dobbiamo buttarli fuori tutti, che l’accoglienza è una truffa. Se lo stupratore è bianco, italiano, socialmente inserito, allora è la prova che “italiani brava gente” è un’impostura e pure “prima gli italiani”, che l’attentato alla sicurezza non è una peculiarità degli immigrati anzi, che l’allarmismo sugli stranieri nasconde la vera natura di noi italiani, che la guerra ai clandestini è un riflesso xenofobo. Sui social è la guerra. Se lo stupratore è italiano, fioriscono i commenti sarcastici dei pro-accoglienza, mentre i “prima gli italiani” se ne stanno in disparte, come se avessero perduto un derby. Se lo stupratore è di colore, “di origine nordafricana” come si legge nei primi dispacci di polizia, allora i pro-accoglienza tacciono e si scatenano i sovranisti anti-clandestini. E le donne che hanno subito la violenza? Spariscono. E le vittime? Vengono messe a tacere, sopraffatte da un chiacchiericcio malmostoso e impietoso. Come se le donne violentate fossero un trofeo conquistato di volta in volta da uno dei due schieramenti. Svanisce la pietas. Tutto viene ridotto a arma polemica, a ideologia, a guerra civile simulata sul corpo delle ragazze martirizzate. Scoprono che i violentatori sono due frequentatori di una scuola di polizia, ecco la rissa sul ministro dell’Interno. Il quale ministro dell’Interno, frequentatore compulsivo dei social, non esita un attimo a dare del “verme” allo stupratore di colore con precedenti penali. Ma tace quando l’aggressore, il prepotente, lo stupratore è italianissimo. È una novità, questa feroce guerra al peggio, questa sensazione di trionfo se si scopre che il carnefice ha esattamente il colore della pelle che vorremmo avesse, che conferma i nostri stereotipi, che assesta un brutto colpo di immagine allo schieramento nemico. Una sensazione di trionfo che si gioca sulla pelle di chi subisce una violenza umiliante e terribile e che davvero, nel trauma dell’aggressione subita, l’ultima cosa al mondo che le interessa conoscere è la nazionalità del bruto o dei bruti che hanno agito come bestie. E dato che statisticamente è sempre possibile l’una o l’altra attribuzione etnica, questo repellente gioco al trionfo sulla pelle e sulla carne delle donne non può che ripetersi con impressionante continuità. Ed è un gioco contagioso: alzi la mano chi non si presta in silenzio, nel segreto di un semplice clic, a questo funesto gioco dell’identikit. Magari solo per prevedere le reazioni: lo stupratore è un immigrato, adesso si scatenano i “sovranisti”, è un bianco, adesso i profeti dell’accoglienza faranno festa. Le donne, i loro corpi martoriati, il loro spirito umiliato, cessano di esistere. Ed è la conseguenza più grave di questa immonda corsa al “chi è” dello stupratore. Le donne violentare sono ancora più sole, strumentalizzate, rese pedine di un torneo che non avrebbero mai voluto giocare. Con tutta la sequenza di stereotipi che questa assurda guerra politico-mediatica si porta dietro, a cominciare dallo stereotipo della donna preda, delle “nostre donne” esposte al pericolo che dobbiamo difendere, in un caso, delle “nostre donne” che sono in pericolo proprio a causa di chi dovrebbe difenderle, in un altro. Siamo peggiorati anche in questo, incapaci di una solidarietà autentica, prigionieri di una logica tribale e senza pietas. E dovremmo vergognarcene. Le pur alte pene previste non assicurano deterrenza e dissuasione di Ugo Ruffolo Il Giorno, 31 agosto 2018 Il problema è culturale. Dilagano le violenze sessuali eclatanti (che si cumulano a quelle domestiche). Quali rimedi? Pene adeguate sono condizioni necessarie, ma non sufficienti. Il problema è altresì culturale. Culturale, non etnico: aspetti spesso confondibili solo per talune coincidenze tra provenienza geografica e dominanza di culture meno stigmatizzanti la discriminazione e predazione della donna. Le pur alte pene previste non assicurano deterrenza e dissuasione. Vanno inasprite, soprattutto graduandole. C’è troppa poca differenza fra approccio pesante sgradito, violenza “completa” e stupro atroce. Le aggravanti edittali non bastano. Le gravi lesioni alle vittime (e quelle psicologiche lo sono quasi sempre) non dovrebbero subire diminuzioni da cumulo. E vanno corrette le generali norme su sconti di pena, concorso di reati e procedure premianti. La carcerazione preventiva dovrebbe essere meno aleatoria e breve, per l’elevato rischio di reiterazione. Soprattutto per chi ha molti alias e nessuna fissa dimora. E qui veniamo al politicamente scorretto. Perché la incidenza di “migranti” responsabili di stupri è considerevole. Quando il problema è culturale (non razziale), e aggravato dalla durezza d’animo generata dalla terribile odissea vissuta, sbarcare in uno Stato di diritto, dove (per fortuna) la polizia “non mena” e i giudici sono (giustamente) garantisti, fa scemare la deterrenza. Il rimedio non è imbarbarirci, ma far prevedere come certe e non eludibili le reazioni dell’ordinamento. Se si sa che la pena la si sconta davvero tutta, e che la carcerazione preventiva è ineludibile, la deterrenza cresce. Arresto Ue, no alla consegna se è provato il radicamento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 39240/2018. Il contratto di collaborazione professionale con uno studio legale italiano e la presenza in Italia della famiglia sono i segnali di un radicamento sul territorio, che ostacolano la consegna del cittadino rumeno allo Stato d’origine, nell’ambito del mandato d’arresto europeo. Né il giudice può mantenere la custodia in carcere, basandosi solo sulla gravità dei reati, senza considerare i segnali di ravvedimento, in contrasto con il supposto rischio di fuga. La Corte di cassazione, con la sentenza 39240 depositata ieri, accoglie il ricorso della difesa dell’uomo, condannato in Romania con sentenza irrevocabile e sottoposto alla custodia in carcere subito dopo la convalida dell’arresto. La Corte d’appello aveva detto no alla richiesta di sostituzione della misura in esecuzione, con il divieto di espatrio o con un’altra che gli consentisse di lavorare e di vivere in famiglia. Per la Cassazione i giudici di appello si erano limitati a considerare non sufficiente, a provare il radicamento nel Paese, il rapporto di lavoro con uno studio legale. In più, nel ritenere reale il rischio di fuga, aveva pesato la gravità dei reati. E la Suprema corte non è d’accordo. La volontà di allontanarsi dal Paese non può essere desunta dai reati commessi in passato. Per essere in linea con la legge di riforma delle misure cautelari personali (legge 47/2015) serve la dimostrazione che il pericolo sia concreto e attuale. La Corte d’appello non ha considerato il fattore tempo: il crimine per quale il ricorrente era stato condannato risaliva a cinque anni prima. Sarebbe stato dunque necessario spiegare perché i comportamenti pregressi erano sintomatici del pericolo di fuga. In più c’erano altri elementi, oltra alla collaborazione con l’avvocato italiano, a favore dell’imputato del tutto trascurati. Il trasferimento della residenza in un paese in provincia di Como, con la compagna e la figlia, e la conseguente consegna alle autorità dei dati personali. C’erano poi da considerare la registrazione del contratto di affitto, l’apertura di un conto alla posta, le cure mediche ricevute in Italia utilizzando le proprie generalità e l’assegnazione di un codice fiscale. Tutti dati significativi di uno stabile trasferimento in Italia. La Corte territoriale avrebbe dovuto comunque valutarli, anche se al solo scopo di negare il loro significato positivo e dimostrare la strumentalità del comportamento “trasparente”. Anche per quanto riguarda la custodia in carcere, come unica misura adeguata ad evitare la fuga la Corte d’appello non ha convinto i giudici di legittimità. Non è, infatti, rintracciabile, alcuna considerazione sulla non idoneità dei domiciliari - magari “rafforzati” dal braccialetto elettronico - a scongiurare il rischio di allontanamento. Nella motivazione i giudici avevano solo individuato un nesso di strumentalità tra custodia in esecuzione e consegna. Ma per l’ordinamento attuale non basta. Reati fiscali, la Svizzera esce dall’assistenza giudiziaria di Paolo Bernasconi e Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2018 Dopo la rinuncia alla riforma del diritto penale tributario - annunciata nel 2013, accantonata a fine 2017 - il governo svizzero ha affossato anche l’assistenza giudiziaria (cioè la collaborazione internazionale) per i reati fiscali. La decisione, resa pubblica l’altro ieri dall’amministrazione federale, avrà in realtà un impatto molto limitato per gli Stati che necessitano di notizie utili a perseguire i propri contribuenti infedeli. La Confederazione, infatti, tra il 2018 e il 2019 metterà a regime la piena adesione agli standard Ocse dello scambio automatico di dati fiscali “in uscita”: a settembre il primo invio riguarderà i primi 38 Paesi (tra cui l’Italia), il prossimo anno seguiranno gli altri 41 ritenuti “meno affidabili” da Berna. Dal punto di vista sostanziale, per l’Italia poco o nulla cambierà. È infatti la sinergia fra diversi strumenti giuridici a caratterizzare, dal 2018, la cooperazione italo-svizzera. Le autorità fiscali possono cooperare utilizzando: 1) le domande di mezzi di prova, sia isolate, collettive, o di gruppo, fondate sul Protocollo di revisione della Convenzione contro la doppia imposizione nell’interesse di procedimenti per tassazione nonché per sanzione di omessa dichiarazione e di frode fiscale; 2) la cooperazione spontanea; 3) lo scambio automatico di informazioni finanziarie. Da settembre l’agenzia delle Entrate riceverà informazioni dall’Amministrazione federale delle contribuzioni e potrà reagire con domande fondate sulla suddetta convenzione. Resta poi aperto anche lo strumento della “trasmissione di mezzi di prova”, compresi i documenti bancari, su richiesta di pubblici ministeri per procedimenti penali per frode fiscale ma, come finora, non per omessa dichiarazione. La novità decisiva è la cooperazione per riciclaggio e autoriciclaggio del provento di reati fiscali qualificati, poiché commessi mediante uso di documenti falsi, se il risparmio fiscale indebito supera 300mila franchi/anno. Il 1° gennaio 2020 entrerà poi in vigore in Svizzera una nuova versione della Convenzione di diligenza delle banche e dell’Ordinanza antiriciclaggio della Finma (la Consob svizzera) e, successivamente, anche una nuova versione della legge federale antiriciclaggio. Queste norme sono applicabili anche al riciclaggio di carattere fiscale. La manifesta infondatezza della domanda non esclude l’indennizzo per la causa “lumaca” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 30 agosto 2018 n. 21421. La manifesta infondatezza della domanda alla base del giudizio presupposto, non basta ad escludere il risarcimento per il processo “lumaca”, previsto dalla legge Pinto. A meno che l’amministrazione non provi la lite temeraria, e dunque che la parte ha resistito in giudizio pur consapevole di avere torto. Né l’indennizzo può essere negato in caso di una rivendicazione sindacale di “gruppo”. La Corte di cassazione, con la sentenza 21421, accoglie il ricorso contro la decisione della Corte d’Appello di negare il ristoro, sia per l’esiguità della posta in gioco, sia per la presenza di numerosi precedenti giurisprudenziali sfavorevoli ai ricorrenti. Un no giustificato anche dalla sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale sulla norma impugnata. Per la Cassazione aveva sbagliato la Corte d’Appello a presupporre un abuso del processo, sull’assunto della manifesta infondatezza del dubbio di incostituzionalità sollevato con la domanda. All’inizio, infatti, il giudizio instaurato dai ricorrenti non poteva dirsi pretestuoso. Il diritto all’indennizzo viene meno solo dal momento in cui la Consulta si è espressa. Il venire meno del patema d’animo e dello stress in attesa del verdetto finisce, infatti, quando non c’è più incertezza sul verdetto. Lombardia: allarme carceri per mancanza di agenti penitenziari Giornale di Mantova, 31 agosto 2018 A sollevare i velo sulla inquietante situazione è L’Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan. Allarme per le carceri mantovane: troppi detenuti, poche guardie. A sollevare i velo sulla inquietante situazione è L’Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan che ha pubblicato il Secondo Libro Bianco sulle carceri Lombarde. Libro bianco sulle carceri - “Se non è zuppa è pan bagnato. La riforma Orlando proposta e non approvata dal governo Gentiloni è stata seguita da quella cestinata dal Governo Conte ma il risultato è lo stesso col governo del cambiamento e col governo che è stato cambiato. A fronte di una situazione grave nulla è stato fatto per riportare le carceri italiane nell’alveo della costituzione più bella del mondo”. Allarme per il carcere di Mantova: troppi detenuti, poche guardie - Il sodalizio ha analizzato in particolare la situazione delle case di pena Lombarde e quella di Mantova, purtroppo, spicca non certo per eccellenza. “La grave mancanza di agenti penitenziari di Lecco (meno 15%) e Mantova (meno 26%) tenendo conto del personale in più che servirebbe in base al sovraffollamento va a meno 41% e a meno 44%. “Il record del sovraffollamento va a Vigevano col 68%. Seguono Opera al 46% e Lecco al 43%”. Roma: detenuto a Regina Coeli è cieco, diabetico e in dialisi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 agosto 2018 È uno dei casi che la delegazione del Partito Radicale ha riscontrato nella visita alle carceri romane. Un uomo cieco, diabetico in dialisi e che si muove con il girello senza l’ausilio di un piantone, ma con l’aiuto volontario da parte di un detenuto nel centro clinico di Regina Coeli. Non solo sovraffollamento, quindi, ma diverse situazioni che colpiscono individualmente i detenuti durante la loro quotidianità. C’è assenza della magistratura di sorveglianza, discriminazione dei detenuti stranieri, internati che attendono in carcere un posto libero per le rems, criticità strutturali come la presenza dei wc a vista, situazioni sanitarie con ristretti che hanno evidenti problemi fisici come quel detenuto cieco, oppure quello con seri problemi cardiaci, o un altro ancora affetto da epatite B che ha avuto 13 cambi di cella e ora si trova in una sezione di seconda accoglienza assieme a detenuti con problemi psichiatrici. Questo e altro ancora ha riscontrato la delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini durante la visita di ferragosto nei penitenziari romani di Rebibbia Nuovo Complesso e Regina Coeli. Una visita effettuata con la presenza - e Rita Bernardini ha apprezzato molto la diponibilità pervenuta dal ministro della giustizia - del nuovo capo del Dipartimento per gli affari di giustizia (Dag) Giuseppe Corasaniti. Durante la visita, molti detenuti lamentano l’assenza e quindi le mancate risposte da parte dei magistrati di sorveglianza. “Effettivamente - spiega Rita Bernardini - i detenuti pongono domande anche semplici di vita quotidiana che non trovano risposta”. Fa l’esempio degli stranieri a Rebibbia quando affermano che per loro i giorni di liberazione anticipata vengono concessi con ancora più ritardo rispetto agli altri detenuti. E ciò va a pesare anche agli agenti penitenziari. “La scarsa figure professionali “trattamentali” - sottolinea Rita Bernardini - determina l’affidamento esclusivo per qualsiasi problema agli agenti presenti in sezione che subiscono lo stress di continue richieste alle quali non sono in grado di dare risposte”. Tanti poi sono i detenuti che si trovano in carcere per l’indisponibilità dei braccialetti elettronici. Gap che potrebbe risolversi a partire da ottobre, come già ha annunciato Fastweb a Il Dubbio, quando la società delle telecomunicazioni darà il via alla produzione di 1000 dispositivi al mese. Per quanto riguarda il carcere di Rebibbia, la delegazione del Partito Radicale ha riscontrato un grave sovraffollamento, a ciò si accompagnano le criticità strutturali, la quasi assenza dei mediatori culturali indispensabili per comunicare con gli stranieri che non sanno alcunché del loro procedimento penale e quali siano i propri diritti. Poi c’è la criticità sanitaria come i ritardi nelle visite e gli interventi. “È facilissimo trovare nei giri che facciamo - spiega Bernardini, detenuti in vero e proprio abbandono sanitario. Con la chiusura degli Opg, i casi psichiatrici in carcere sono aumentati a dismisura, tanto da condizionare spesso la serenità della vita in sezione anche laddove l’istituto prevede la sezione di osservazione psichiatrica perché non ci sono posti per tutti”. Vengono poi riscontrate diverse problematiche individuali come un rumeno che da 4 mesi non riesce a parlare con i figli, oppure come un detenuto in alta sicurezza che è in sciopero della fame da 26 giorni perché, nonostante le promesse, gli verrebbe preclusa la possibilità di avere un colloquio con il centro alcolisti e si lamenta che nel corso dello sciopero della fame non sarebbe stato seguito dal alcun sanitario. Poi c’è la sezione per le transessuali dove le detenute lamentano la negazione della loro identità sessuale da parte dell’amministrazione penitenziaria, sia quando ci si rivolge a loro al maschile, sia nel trattamento materiale: “Molte sono povere - spiega Rita Bernardini - e non hanno vestiario e Rebibbia fornisce soltanto abiti maschili”. A Regina Coeli rimane ancora irrisolta la situazione della sezione dedicata ai “nuovi giunti”, dove i detenuti sono ancora costretti a rimanere in cella per 23 ore al giorno. “Tre detenuti sistemati - racconta Rita Bernardini - in letti a castello a tre piani e in condizioni igieniche a dir poco scadenti”. In generale, dalle sezioni visitate emergono problemi igienici come i materassi di gommapiuma scaduti e sudici, ci sono celle con ancora le finestre chiamate “bocche di lupo” - vietate dalla Cedu, strutture in metallo che coprono la vista impedendo a luce e aria di entrare. Così come non mancano nove internati che dovrebbero stare in una Rems, ma sono in lista d’attesa dentro il carcere. Una detenzione, di fatto, illegale. Napoli: carcere di Poggioreale, scontro ministero-Sappe Il Roma, 31 agosto 2018 Agenti aggrediti, il guardasigilli smentisce ma il sindacato attacca: “Tutti devono sapere”. Nessun episodio dì “inaudita violenza”, nessuna “giornata nera vissuta a Poggioreale”. Il ministero della Giustizia “smentisce nel modo più assoluto quanto riportato agli organi di stampa dal Sindacalo Autonomo di Polizia Penitenziaria. Quanto accaduto in due episodi avvenuti il 28 agosto scorso nella casa circondariale - si sottolinea in una nota in cui si parla di false ricostruzioni - rappresenta interventi di routine”, come ha scritto il Direttore dell’istituto in una lettera con la quale ha stigmatizzato le dichiarazioni del Sappe. Il primo episodio ha riguardato un “detenuto particolarmente agitato da problematiche psichiatriche”; il secondo intervento è stato attuato “per evitare comportamenti scorretti”. Non solo: “In nessuno dei due casi vi è stata aggressione premeditata” e, continua il direttore, “i poliziotti che sono intervenuti hanno proseguito normalmente il loro servizio. Che nelle carceri possano accadere episodi drammatici e viversi momenti di alta tensione è assolutamente plausibile, nonostante gli sforzi, la professionalità e lo spirito di abnegazione e sacrificio di chi vi opera, a partire dagli uomini della polizia penitenziaria. Ma speculare sui fatti, ingigantendone la portata in modo approssimativo e senza cognizione di causa, è ben più grave. E, soprattutto, un siffatto operato da parte dì un sindacato, non rende un buon servizio né all’immagine né all’operato delle donne e degli uomini appartenenti al Corpo che negli istituti lavorano quotidianamente e con grande spirito di servizio”, conclude la nota. Secca la replica del Sappe al comunicato del ministero della Giustizia che tenta attenuare la portata degli episodi di violenza contro i poliziotti penitenziari in servizio: “Il direttore del carcere di Poggioreale può anche tentare di sminuire la grave tensione subita ancora una volta dai poliziotti penitenziari, come sempre in prima linea a gestire, peraltro con grande professionalità, questi continui eventi critici - spiega Emilio Fatterello, segretario nazionale per la Campania del Sappe - conseguenza anche dell’eccessiva tolleranza verso chi dovrebbe scontare una pena con responsabilità e non mettendo a soqquadro l’ordine e la sicurezza. Ma la realtà dei fatti è evidente a tutti, a lei per prima, e non si deve omettere di fare conoscere all’opinione pubblica quel che accade nelle carceri”. “La sconsiderata violenza di alcuni detenuti a Poggioreale deve fare seriamente riflettere anche sulle pericolose condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari - aggiunge Donato Capcce, segretario generale del Sappe - che ogni giorno di più rischiano la propria vita nelle incendiarie celle delle carceri italiane”. Padova: “Il suicidio in ambienti custodiali. Strategie di prevenzione”, incontro informativo padovaoggi.it, 31 agosto 2018 Nella giornata mondiale per la prevenzione del suicidio ideata dal professor Diego De Leo, il 10 settembre la De Leo Fund Onlus organizza un doppio appuntamento per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del suicidio, con un evento a Palazzo Moroni. Programma - Dalle 9 alle 13 in sala Anziani si terrà un evento formativo rivolto ai giornalisti dal titolo: “Suicidio e Media. Informare con sensibilità, umanità e responsabilità”. La giornata formativa prevede gli interventi di Gianluca Amadori, presidente dell’Ordine Giornalisti del Veneto; Paolo Brinis di Mediaset; Diego De Leo, presidente De Leo fund Onlus; Alessandro Pagnini dell’Università di Firenze; Marco Sarchiapone dell’Università del Strategie Molise e di Ines Testoni dell’Università di Padova. Durante la giornata formativa si introdurrà anche il De Leo Fund Media Awards, un riconoscimento all’appropriatezza dei servizi giornalistici relativi alle condotte suicidarie. Il premio è articolato in tre sezioni: articoli su carta stampata, web e TV e verrà consegnato ai vincitori il 10 settembre del prossimo anno. La seconda parte della giornata che si terrà dalle 15 alle 18 sempre in sala Anziani è aperta al pubblico e titola: “Il suicidio in ambienti custodiali. Strategie di prevenzione” e prevede gli interventi degli addetti ai lavori circa il suicidio nelle carceri italiane (Giulio Castelpietra, AAS2 Friuli), nelle residenze per anziani (Corrado Caraballese, Casa di Dio onlus Brescia) e negli ospedali (Diego De Leo - Griffith University). Il fondatore - Diego De Leo (doctor of Science in Psicogeriatria e suicidologia e direttore emerito del Centro collaborativo dell’Oms per la ricerca e la formazione sulla prevenzione del suicidio della Griffith University di Brisbane) racconta: “La giornata mondiale per la prevenzione del suicidio che ho creato coinvolge ormai 130 Paesi, realtà che si traducono in manifestazioni, marce, opere di sensibilizzazione culturale che sollecitano interventi sul suicidio”. Informazioni: eventi@deleofunonlus.org, 049.8766309. Torino: oltre le sbarre del carcere, cercasi comparse per un documentario di Cinzia Gatti torinoggi.it, 31 agosto 2018 Domenica 2 settembre al Parco del Valentino verranno realizzate alcune scene di Vrfree (We Are Free) di Milad Tangshir. Far conoscere il mondo dietro le sbarre e permettere al tempo stesso ai detenuti di superarle: è questo l’obiettivo Vrfree (We Are Free), un documentario di Milad Tangshir. Vincitore del bando “Under 35 Digital Video Contest - Giovani protagonisti” promosso da Film Commission Torino Piemonte. Vrfree rappresenta il primo esperimento in Italia di prodotto realizzato interamente con riprese 360 gradi (realtà aumentata) applicate ai luoghi della detenzione e nello specifico presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Il film indaga la vita, gli spazi - e il modo di percepire il tempo e l’habitat - di giovani detenuti: la tecnologia utilizzata permetterà allo spettatore di esplorarli. Per contrastare la deprivazione affettiva ai carcerati sarà data la possibilità, viceversa, attraverso dei visori di realtà aumentata, di rivivere alcuni momenti della loro quotidianità che, a causa della condizione detentiva, non possono più provare: tra questi ultimi un pic-nic al Parco del Valentino. Per questo motivo l’Associazione Museo Nazionale del Cinema ha lanciato un appello per trovare comparse volontarie. L’appuntamento è fissato per domenica 2 settembre, dalle 16, con ritrovo davanti al Fluido del polmone verde di San Salvario. “Cerchiamo persone”, spiegano, “tra i 18 e i 35 anni d’età, non sono richieste ulteriori caratteristiche salienti, ma solo la propria unicità e la disponibilità a portare con sé strumenti musicali, giochi, bevande e vettovaglie per un classico pic-nic all’aria aperta.” “Sulla mia pelle”. Parla la sceneggiatrice: “ho avuto gli incubi per tre mesi” di Ilaria Ravarino Leggo, 31 agosto 2018 Sei mesi di preparazione, studio e scrittura a partire da più di 10.000 pagine di atti processuali: dietro al rigore di Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini sul caso Cucchi, presentato oggi a Venezia e dal 12 settembre su Netflix, c’è il lavoro attento e competente di Lisa Nur Sultan, sceneggiatrice alla Mostra con due film (l’altro è “Saremo giovani e bellissimi”, di Letizia Lamartire). Cucchi: un film sulla banalità del male? Direi piuttosto sulla mediocrità del bene. È un film che racconta quanto la gente, pur essendo in grado di fare quel che è giusto fare, a volte non si spinga oltre ciò che le compete. Una cosa che non provoca danni se rimane circoscritta al singolo. Ma se è una moltitudine, a non fare fino in fondo quel che sarebbe giusto fare, si rischia la tragedia. In quei giorni almeno 140 persone hanno visto Stefano Cucchi. Pochi l’hanno aiutato, molti si sono girati dall’altra parte. Alcuni hanno delle colpe pesanti, su cui finalmente i giudici stanno indagando. Anche la burocrazia ha le sue responsabilità. La burocrazia è un castello di carta kafkiano. Per colpa della burocrazia non solo Stefano non è riuscito a salvarsi, ma la famiglia stessa non ce l’ha fatta. Chissà cosa sarebbe successo se si fossero parlati, se si fossero ritrovati. Fortunatamente, grazie a questo caso, le norme di contatto tra i detenuti in terapia protetta e i loro familiari sono state cambiate. C’era una scena, che è stata tagliata, in cui i medici dicevano ai genitori di Stefano: “Non sapevamo che foste qui fuori”. La famiglia Cucchi che dice del film? La sorella, più battagliera, è preparata a vederlo. Per i genitori forse è troppo doloroso. Si sono fidati di noi, aprendosi con pudore. E hanno avuto un gran rispetto per il nostro lavoro, permettendoci di raccontare Stefano esattamente come volevamo. Potevate farne una vittima. Invece, nel film, è aspro. Riottoso. Non fidandosi più di nessuno, non è riuscito a farsi aiutare nemmeno da quei pochi che ci volevano provare. Il suo caso è un concorso di cause e di colpe in cui è entrata, purtroppo, anche la sfortuna. Persino le poche volte che si è aperto, Stefano lo ha fatto con le persone sbagliate. I dialoghi con i detenuti sono veri? Il detenuto Marco è l’unico personaggio di finzione: lo abbiamo interpretato come una proiezione mentale di Stefano, figlia della solitudine. Tutti gli altri personaggi sono reali, derivati dagli atti del processo. Tutto quello che dicono, e che fanno, è accaduto davvero. Anche le battute di Stefano? Nel film ha una specie di umorismo nero. Al novantanove percento sono battute sue. Era una persona sarcastica, aveva la risposta pronta, alla romana. Era irriverente, non si formalizzava. Finisce che gli vuoi bene, alla sua asprezza. Avete lavorato solo sugli atti del processo? Sì, su 10.000 pagine. Ci siamo stati sopra per sei mesi, praticamente senza fare altro. Abbiamo visto tutte le puntate su Cucchi di Un giorno in pretura, ascoltato gli audio, letto il libro della sorella. Con il regista sono stata nella stanza di Stefano, a casa dei genitori. Non me lo dimenticherò mai. Dopo tre mesi con gli incubi ci siamo dovuti distaccare, ci serviva lucidità per scrivere. Cremonini voleva un film “raggelato”. Il titolo in lavorazione era Cronaca di un arresto. Netflix lo distribuirà in 190 paesi. All’estero che effetto farà? È una storia universale, di ingiustizia e dolore familiare. Qualcosa che risuona nella paura ataviche dei genitori di essere separati dai figli, e in quella dei figli di deludere i genitori. Perché fa male dirlo, ma qui si parla anche di un ragazzo che muore pensando di aver deluso la sua famiglia, pensando di essere stato abbandonato. Tre carabinieri saranno processati per la morte di Stefano. Seguirete il processo? Sì, certo. Finalmente si sta imboccando la strada giusta. Questo non è un film che smuove le acque, perché per fortuna le acque sono già state smosse. Speriamo che magari aiuti a non far succedere più una cosa del genere. “La Camorra prima di Gomorra”. Quando su Napoli regnava Cutolo di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 31 agosto 2018 Il docu-film di Francesco Patierno, creato con immagini degli archivi Rai, sarà proiettato domenica al Festival del Cinema di Venezia. Degrado e criminalità di una subcultura. “Spero che io non cadrei malato perché se cadessi malato io il sangue me lo farei dare da lui, perché è un sangue nobile e degno d’essere amato”. Lo sgarrupato elogio di un abitante di Ottaviano, tratto da vecchie interviste, mostra quanto fosse marcio il rapporto tra tanti napoletani affogati nel degrado e Don Raffae. Raffaele Cutolo era allora il capo indiscusso della Nuova camorra organizzata, era finito in galera giovanissimo per aver ucciso un bullo reo di una battuta sulla sorella Rosetta, aveva raccolto dal carcere un esercito di tremila pronti a tutto per lui (“si vede che ho seminato bene”), era indicato come il padrino spietato che aveva deciso decine di omicidi ma i paesani lo chiamavano “O professore” perché sapeva leggere e scrivere e parlavano di lui con dedizione: “È un uomo semplice, sincero e leale...”. “Siamo nati con lui e moriremo con lui”. “È come il nostro santo protettore”. Ed è lui, col contorno di orridi alveari urbani, di una umanità sfatta e violenta, di panzute matrone del contrabbando e tredicenni che sniffano eroina e capitelli devozionali e passanti che scansano i cadaveri sul selciato, il perno di “Camorra”, il documentario di Francesco Patierno che sarà presentato domenica alla Mostra del cinema di Venezia per poi andare in onda martedì prossimo su Rai3. Il cambio di pelle - Scritto col saggista Isaia Sales da sempre nemico della lebbra che “infetta Napoli e le province tutte” (primo rapporto governativo del 1861), secco come il titolo, privo di ogni indulgenza e ogni cenno a “pizza & mandolino”, costruito coi filmati straordinari degli archivi Rai, il docu-film non pretende di raccontare tutto. Ma, come spiega il regista, mettere a fuoco un momento storico preciso, a cavallo tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta, quando la camorra cambia pelle e “da malavita di campagna, di territorio, senza struttura, senza cupole” viene contaminata dai boss mafiosi sciaguratamente inviati in domicilio coatto in quelle aree a rischio. È lì che “lascia la “guapponeria” al teatro e fa il salto di qualità”. Diventando sempre più ingorda, cinica, feroce. Allungando i suoi tentacoli sul racket più asfissiante, il traffico di droga, i rifiuti tossici, il “cemento di sabbia” della ricostruzione corrotta dopo il terremoto. E poi omicidi, omicidi, omicidi. A decine. A centinaia. Un Pompei non sepolta - Napoli è “la più misteriosa città d’Europa, la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia”, scriveva Curzio Malaparte ne La Pelle, “La sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta”. Ma quella era la “sua” Napoli. Quella raccontata da Roberto Saviano in “Gomorra” è un’altra cosa. Ecco, spiega Patierno, “il nostro film è la camorra prima di Gomorra”. Patto infame - Prima. Ed ecco gli sciuscià che passano dal rubacchiare caramelle a rapinare con la pistola i vecchi pensionati: “Non ti ha fatto pena, quel vecchio?”. “No”. E i corrieri delle “bionde” con le ricetrasmittenti e il mangiadischi che sparano a tutto volume “Torna a Surriento” per dire ai complici di rientrare alla base se ci sono in giro troppi carabinieri. E il sindaco pci Maurizio Valenzi che accusa i grandi trafficanti ma scusa quelle “due, tre, quattromila persone che si arrangiano vendendo le sigarette per la strada le quali lo considerano un lavoro, una specie di piccolo commercio”. E il ragazzino che gira col coltello: “Voglio uccidere mio padre”. E “Delitto a Posillipo” che racconta della giovanissima Pupetta Maresca che vendicò il marito “Pascalone ‘e Nola” sparando a “Totonno ‘e Pomigliano”. E il patto infame tra camorra e Br col sequestro di Ciro Cirillo e le trattative nel carcere di Ascoli condotte coi camorristi Vincenzo Casillo e Corrado Iacolare che “forse erano latitanti”. Il castello a Ottaviano - E su tutti “Don Raffae”, che “entra in scena con un obiettivo ambizioso: strappare la camorra dal controllo della mafia siciliana e fare della Nuova camorra organizzata un unico comando militare ed economico” e costruisce un impero parallelo dominato ‘ncoppa a Ottaviano da un castello longobardo con 365 camere e un ampio parco, piscina, campo da tennis “abitato fino a qualche hanno fa dagli eredi dei Medici” dove “i neofiti si sottopongono alla cerimonia del giuramento”. Camorrista lui, Raffaele? “Quando mai!”, risponde Rosetta Cutolo in una strepitosa intervista al mitico inviato Rai Giuseppe “Joe” Marrazzo: “Mio fratello è abituato a fare sempre delle cose belle e tutt’ora fa cose belle”. Se uno deve chiedere un piacere... “chiede a mio fratello e mio fratello, giustamente, si rivolge a chi insomma gli fa il piacere. È andata una signora che le serviva il posto per il marito e mio fratello ha scritto alla persona incaricata e gli ha fatto avere il posto”. Chissà chi era... Magari una parente del “brigadiero” Pasquale Cafiero, che nella canzone di Massimo Bubola e Fabrizio De André implora don Raffaè: “Voi vi basta una mossa, una voce / C’ha ‘sto Cristo ci levano ‘a croce”... Quei vaglia ai bambini - Cambio scena. “In quanti abitate in questa stanza?”, chiede un cronista a una donna dei bassi napoletani. “Eeeeh! Dodici persone”. “Dodici persone solo in questa stanza? E dove mettete i letti?” “Qua, là...”. Eccone un’altra. Urla: “Vogliamo la pulizia! Vogliamo la casa! Dentro queste chiaviche non vogliamo più stare! Basta! Siamo pieni di topi!”. Alla larga da prediche e sociologismi. Ma è lì, nelle sentine di una città abbandonata all’abbruttimento che ha avuto tante sommosse “ma mai una rivoluzione”, che Cutolo tirava su la “paranza”. “Se io ho dei soldi, li mando all’umanità sofferente”, spiega il boss in giacca, cravatta e schiavettoni ai polsi in quella raggelante intervista a Joe Marrazzo: “Non li mando come dicono solo ai carcerati. Potete vedere nelle carceri. Io faccio tutti i giorni dei vaglia a bambini, bambine... Forse perché ho bisogno d’affetto, non so”. Vaglia. A tutti... La conta dei morti - Macché boss! “Lo dicono gli altri. Sono un uomo che a modo mio si è messo contro la società”. Insomma, “uno che combatte contro le ingiustizie”. “Un Robin Hood, diciamo?”. “Diciamo...”. “E i 200 morti in un anno e mezzo?”. “Il terremoto, il terremoto...”. “No, i morti ammazzati”. “Qualcuno c’ha l’abbonamento con le pompe funebri… Fa i morti, no?”. Comunque, ovvio, “la vita umana è una cosa sacra”... sono passati tanti anni, da allora. E chi ama Napoli con tutta la disperazione che merita una città meravigliosa e tragica non può schiodarsi dalla testa la canzone di Meg, dei “99 posse”, che scorre sui titoli di coda: “Una corona di spine / è così facile da portare / dopo un po’ non ti fa più male”. “Isis, tomorrow”. Il punto di vista dei “colpevoli”, anime perdute di Mosul di Giovanna Branca Il Manifesto, 31 agosto 2018 Venezia 75. Francesca Mannocchi racconta il documentario fuori concorso realizzato insieme ad Alessio Romenzi, “Isis, tomorrow”. Le macerie di Mosul, e la disperazione che la guerra si è lasciata dietro: un paese diviso e impossibile da riconciliare, le perdite insanabili, gli odi reciproci, il desiderio di vendetta, la brace che cova sotto le ceneri di un’esile “vittoria”. Il documentario Isis Tomorrow, The Lost Souls of Mosul di Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi, presentato fuori concorso, racconta la città e il suo supplizio durante e soprattutto dopo la lunga battaglia per sottrarla all’Isis dal punto di vista dei “colpevoli” - gli adolescenti e i bambini arruolati dall’Isis - e già dal titolo guarda al domani: cosa ne sarà delle “anime perdute” di Mosul e non solo? Ne abbiamo parlato con Francesca Mannocchi. Quando avete deciso di testimoniare quello che stava succedendo a Mosul? Stavamo già seguendo la guerra in Iraq perché è il nostro lavoro, Alessio un fotografo, io scrivo e lavoro per la Tv. Nel raccontare quella guerra - iper mediatica, con centinaia di telecamere ovunque - ci sembrava ogni giorno di più che mancasse un tassello: e cioè la voce dei colpevoli, non banalizzata o sintetizzata - ma in quanto esseri umani. Eravamo abituati a vedere questi bambini nei video di propaganda e non ci siamo mai chiesti chi fossero, se sarebbero riusciti a perdonare i loro padri per averli costretti a imparare a usare un kalashnikov. Volevamo ridare umanità a un fenomeno che era stato anche “romanzato” dalla comunicazione propagandistica dell’Isis da un lato, e dal giornalismo che l’ha raccontato dall’altro. Come avete lavorato proprio con i video di propaganda dell’Isis che si vedono nel vostro film? Ci siamo interrogati a lungo e ci siamo dati delle regole molto semplici: tutto va mostrato ma anche spiegato. L’unico limite che ci siamo imposti di non superare era quello della morbosità rispetto alla guerra, la morte e agli stessi racconti della violenza. Ma la guerra è fatta di morti, e i morti ci sono ancora a distanza di un anno dalla fine del conflitto: non mostrare i cadaveri e quel dolore sarebbe stato ipocrita. Quelle cose esistono così come i video di propaganda, serve avere gli strumenti per metterli in un contesto che li renda comprensibili a chi guarda. I bambini sono al cuore del film. Come vi siete rapportati a loro? Con una totale assenza di pregiudizi e con una grande curiosità umana, etica, morale e storica. Volevamo capire perché un bambino di 16 anni possa volersi far saltare in aria. Ed è stata l’unica vera regola alla base del film: un infinito desiderio di capire cosa c’era dietro l’Isis, a un fenomeno che in tutti questi anni è stato banalizzato e semplificato. Uno dei ragazzi sottolinea come tutto sia iniziato molto prima dell’arrivo dell’Isis, con i bombardamenti americani, Al Qaeda… I bambini e le donne con cui abbiamo parlato hanno un’idea profonda e molto radicata della circolarità degli eventi della Storia. Che invece manca a chi racconta questi fenomeni, a chi fa sembrare che l’Isis sia nato dal nulla e che la guerra quando è vinta è finita. Questi ragazzi invece sanno che oggi l’”organizzazione” sta vivendo il suo momento “di bassa marea”. Sanno che devono essere pazienti, perché è quello che gli hanno insegnato i loro padri e la Storia. Migranti. Il Dl Sicurezza taglierà i costi per l’accoglienza di Valentina Errante Il Mattino, 31 agosto 2018 Una stretta sull’accoglienza con nuove regole e tagli per i richiedenti asilo, nuove norme per accelerare la confisca dei beni ai mafiosi e una soluzione per l’attuazione del piano straordinario di assunzioni per le forze dell’ordine, giù previsto dalla manovra dì bilancio e slittato per mancanza di copertura. Il cosiddetto decreto sicurezza, che il Viminale punta a definire entro settembre, riguarda soprattutto il tema immigrazione, non comprenderà invece le modifiche della legge sulla legittima difesa, sulla quale non è ancora stata trovata un’intesa con il ministero della Giustizia, e quelle sugli sgomberi, che potrebbero essere varate in tempi ancora più stretti con una direttiva. I punti definiti riguardano una rimodulazione del sistema di accoglienza con nuove norme che consentirebbero un notevole risparmio. Uno dei punti certi del decreto riguarda l’accoglienza nel sistema Sprar, quello gestito dai comuni volontari con il supporto economico del Viminale, Sarà limitato a quanti abbiano già ottenuto lo status di rifugiato o la protezione internazionale e non più anche ai richiedenti asilo. Una misura che garantirà dei tagli alla spesa destinata all’integrazione. Facendo passare dalla cifra che si aggira intorno ai 35 euro, previsti attualmente per la prima e la seconda accoglienza per ciascun migrante, a circa 20 pro capite. Il grande flusso di sbarchi ha spesso reso necessario il ricorso ai Cas (centri di accoglienza straordinaria) per far fronte all’emergenza, ma adesso i richiedenti dovrebbero essere dirottati in questi centri utilizzati per sopperire alla mancanza di posti. Strutture, sempre individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative e albergatori dove non sono previsti progetti di integrazione, come corsi di lingua, educazione civica e formazione professionale. Inoltre i richiedenti asilo non potranno più iscriversi all’anagrafe del Comune di residenza, una misura in passato già richiesta da alcuni sindaci, per evitare che la presenza di un numero maggiore di cittadini gravasse sui bilanci. Come annunciato si estende l’elenco di reati che determineranno il diniego e la revoca della protezione internazionale. E mentre sarà revocato lo status di rifugiato a quanti rientrino nei paesi d’origine, il progetto prevede di istituire in alcune prefetture sezioni delle Unità Dublino, addette a verificare a quale stato spetti prendere in carico la domanda dei profughi ed eventuali precedenti penali a carico dei migranti. Il decreto prevedere anche tempi più lunghi di trattenimento dei migranti economici, ossia quelli che non hanno diritto allo status di rifugiato, nei Cpr (Centri per il rimpatrio) finora fissato in 90 giorni. Previste anche nuove misure per accelerare i tempi delle confische dei beni di mafia. “Rispettare i diritti dei migranti”: la lettera a Salvini del Garante dei detenuti globalist.it, 31 agosto 2018 Palma scrive al Viminale sul caso Diciotti: “valgono le stesse salvaguardie previste dalla procedura di relocation europea, cinclusa la richiesta del consenso degli interessati prima di eventuali trasferimenti in Paesi terzi”. Sul caso Diciotti torna ad intervenire il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma. Dopo aver espresso nei giorni scorsi preoccupazione per la situazione di stallo che si era creata nel porto di Catania e parlato di migranti privati di fatto della libertà in violazione della Costituzione, ha scritto una lettera al Viminale per ricordare che vanno garantiti i diritti dei migranti e le salvaguardie previste dalla procedura di relocation europea. Palma ha inviato una lettera al capo di gabinetto del ministro dell’Interno, prefetto Matteo Piantedosi, indagato insieme a Matteo Salvini dalla procura di Agrigento, evidenziando la posizione espressa nei giorni scorsi sulla permanenza forzata di alcune decine di migranti sulla nave Diciotti. “Il Garante nazionale Palma - spiega una nota sulla lettera inviata al Viminale - ha preso atto del fatto che tutte le persone sono da qualche giorno sbarcate e possono ricevere l’assistenza e accoglienza dovute, nonché le altrettanto dovute informazioni procedurali relative alla possibilità di richiedere asilo”. “Il Garante nazionale continua nella propria azione di monitoraggio anche per quanto riguarda le fasi successive allo sbarco dei migranti dalla Nave”. “A questo fine - chiarisce la nota - nella stessa lettera il Garante ha richiesto alcune informazioni riguardanti la sistemazione delle persone sbarcate, raccomandando che si garantiscano le stesse salvaguardie previste dalla procedura di relocation europea, che include la richiesta del consenso degli interessati prima di eventuali trasferimenti in Paesi terzi”. Migranti. In Europa manca l’accordo, Italia pronta a rompere di Carlo Lania Il Manifesto, 31 agosto 2018 L’Europa nel tunnel. No dei ministri della Difesa alla proposta italiana sui porti. Trenta: “Delusa dall’Europa”. E oggi tocca a Moavero Milanesi. Le ministre della Difesa francese e tedesca fanno sapere di aver molto apprezzato i toni pacati e il senso di responsabilità mostrato dalla collega Elisabetta Trenta, ma almeno per ora il piano operativo della missione europea Sophia non cambia e i migranti continueranno a essere sbarcati in Italia. “Ho trovato alcune porte aperte ma altre decisamente chiuse”, spiega la ministra italiana senza nascondere la delusione per l’esito negativo del vertice, avuto ieri a Vienna, con i colleghi della Difesa dei 28. E a questo punto le possibilità che l’Italia abbandoni la missione - della quale è al comando fin dalla sua nascita nel 2015 - si fanno più concrete. “È chiaro che dovremo fare le nostre considerazioni, ogni decisione verrà presa insieme al governo e al premier Giuseppe Conte”, ammette la ministra. Al tavolo viennese l’Italia si è presentata ieri mattina con una proposta che prevede la rotazione tra gli Stati membri dei porti di sbarco e la successiva divisione dei migranti. Un meccanismo semplice, che permetterebbe di superare le polemiche degli ultimi mesi. L’idea è stata però accolta con la solita freddezza dai partner europei, da sempre contrari a una riscrittura delle regole prima della scadenza naturale della missione prevista per la fine di dicembre. A fare muro, in particolare, sono stati i paesi del Nord Europa. “Oggi mi sento molto delusa, ho visto che l’Europa non c’è o non è presente”, prosegue la ministra. “La scadenza delle missione è tra tre mesi, rivedere le regole oggi o tra tre mesi cosa cambia?”. La realtà è che gli Stati puntano a rimandare il più possibile modifiche che potrebbero dar vita a meccanismi automatici di condivisione dei migranti che nessuno vuole davvero. A partire da Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia, quel blocco Visegrad con il quale il ministro degli Interni Matteo Salvini spera di rovesciare gli attuali equilibri dell’Ue. Le possibilità di riuscire a cambiare le regole della missione Sophia a questo punto sono sempre più risicate, anche se la ministra Trenta continua a fare esercizio di ottimismo. Ieri, al termine del vertice, ha avuto un lungo colloquio a quattr’occhi con la collega francese Florence Parly e contatti ci sono stati anche con la tedesca Ursula von der Leyen. “Qualche Paese potrebbe fare una dichiarazione un po’ diversa”, aggiunge Trenta pensando al secondo vertice in programma a Vienna oggi, quello dei ministri degli Esteri dove, in teoria, con Germania e Francia potrebbe schierarsi anche la Spagna, il Paese attualmente maggiormente interessato dagli sbarchi dei migranti. Molto più dell’Italia, dove invece si sono ridotti ormai da mesi. “Chiediamo la solidarietà dei Paesi Ue e speriamo ancora che arrivi, prima o poi. E che non sia troppo tardi”, ha spiegato il titolare della Farnesina Enzo Moavero Milanesi, che oggi ha il compito di guidare una trattativa al limite del possibile. L’esito più probabile è che come al solito non si decida niente, rimandando tutto al Consiglio europeo del 20 settembre a Salisburgo. Il pretesto tecnico ci sarebbe: i ministri della Difesa e degli Esteri possono stabilire l’apertura dei porti, ma l’eventuale successiva divisione dei migranti tra i Paesi è una decisione che spetta ai capi di Stato e di governo. Il rinvio sarebbe anche un modo per scavalcare il 31 agosto, data ultima entro la quale, in caso di mancata soluzione, l’Italia ha minacciato di “fare da sola” e abbandonare la missione. Anche per questo a Bruxelles sarebbe già pronto un piano B che prevedrebbe il trasferimento alla Spagna del comando della missione, con conseguente perdita di prestigio e aumentato isolamento per l’Italia. Tutte cose che non sembrano preoccupare Matteo Salvini, che anche ieri è tornato a minacciare: “Ho chiesto di condividere i porti di sbarco”, ha detto il ministro degli Interni. “Se anche a fronte di questa nuova richiesta otterremo un no dovremo valutare se continuare a spendere soldi per una missione che sulla carta è internazionale ma di fatto è tutta a carico di 60 milioni di italiani e di un solo Paese. Poi faremo da soli, di sicuro non ci mancano la fantasia e la capacità”. Migranti. Open Arms ammaina le vele: mai più salvataggi davanti alla Libia di Giuseppe Gaetano Corriere della Sera, 31 agosto 2018 Via anche l’ultima Ong rimasta nel Mediterraneo centrale, d’ora in poi opererà davanti alla Spagna. Mogherini difende la missione Sophia ma ammette: “In Ue non c’è consenso”. Da oggi davanti alla Libia non c’è più nessuna ong a soccorrere i migranti dai naufragi delle carrette della disperazione. Anche Open Arms vira dallo specchio di mare di fronte al paese nordafricano, punto d’imbarco verso l’Italia: l’ong protagonista di accesi scambi di accuse via social con Matteo Salvini e del recupero in mare a metà luglio di Jospephine, la profuga con lo sguardo scioccato rimasta in acqua per ore insieme ai cadaveri di una madre e del suo figlioletto, annuncia che cesserà i salvataggi nel Mediterraneo centrale e si ritirerà in Spagna, per colpa della “criminalizzazione delle organizzazioni non governative”. “Siamo in balia della speculazione politica - ha dichiarato qualche giorno fa al Corriere il fondatore Oscar Camps, l’Unione europea alimenta i populismi: pagano Erdogan, milioni di euro, pagano la Libia, e i trafficanti siamo noi”. Una nuova vittoria dunque per il ministro dell’Interno, che già lunedì, dopo l’annuncio del rientro a Marsiglia della Aquarius (la nave di SOS Mediterranée e Medici senza Frontiere che ha effettuato due importanti salvataggi quest’estate), aveva cinguettato: “Abbiamo fatto più noi in tre mesi di governo che il Pd in 5 anni. Andiamo avanti senza paura, non saranno inchieste o minacce a fermarci”. L’altra nave dei volontari francesi, la Lifeline, è tuttora sequestrata a La Valletta. In Spagna la nuova frontiera dell’immigrazione - “Nelle prossime settimane ci uniremo alle operazioni di salvataggio nello Stretto di Gibilterra e nel Mare di Alboran” che separano Marocco e Spagna, si legge nel comunicato di Open Arms, arrivata a un passo dalla denuncia nel braccio di ferro col Viminale e costretta per tre volte, tra giugno e agosto, a far sbarcare i migranti a Barcellona, Palma di Maiorca e Algesiras anziché sulle nostre coste. “L’avvio di politiche disumane ha provocato non solo la chiusura dei porti di Italia e Malta - prosegue la nota, ma la paralisi di numerose organizzazioni umanitarie, come pure l’aumento del flusso migratorio verso il sud della Spagna”. Superando Italia e Grecia, la penisola iberica è diventata quest’anno la prima porta di accesso all’Europa per i richiedenti asilo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, da gennaio ne sono arrivati circa 28mila a bordo di imbarcazioni di fortuna, tanti quanti erano ne sono arrivati in tutto il 2017. Mogherini: “In Ue non c’è consenso” - La gestione degli sbarchi nei porti del vecchio continente resta intanto in alto mare: “Al momento non c’è consenso sulle soluzioni pratiche, ma c’è sulla necessità di trovarle” riferisce il rappresentante degli Esteri europeo, Federica Mogherini, al termine della riunione dei ministri della Difesa a Vienna. “Non sarà facile” su questo versante ottenere risultati concreti. L’unico risultato ottenuto al vertice di giovedì “è quello del pieno supporto di tutti gli stati membri all’operazione Sophia”, la missione europea anti-scafisti volta a smantellare il traffico di esseri umani dalla Libia. Migranti. Sono definiti “Centri di accoglienza”, ma spesso vi accadono le peggiori cose di Alessandro Giuli Italia Oggi, 31 agosto 2018 Come reagire di fronte all’inchiesta choc pubblicata ieri dal Corriere dell’Umbria e relativa all’incresciosa accoglienza riservata agli immigrati da quel sordido albergo dell’Arci alle porte di Perugia? Che cosa opporre alla realtà misera di qualche stanzetta popolata da scarafaggi, priva d’igiene essenziale e di conforto medico? Si può lasciar correre la banale indignazione umanitaria, naturalmente, bersagliando la scaltra disumanità di chi ha di più e offre così poco e così male ai bisognosi d’ogni ordine e grado. Ci sta, ma è una reazione pigra, generica, sentimentale, sempre meno popolare e comprensibile agli occhi del cittadino che in tali realtà misura anche, se non soprattutto, la sopraggiunta povertà dell’Italia. Oltreché l’ipocrisia di chi professa l’obbligo dell’inclusione ma poi trasforma la carità in un reddito personale. Oppure si può alzare il livello del discorso, astrarre dalla sorda dialettica tra immigrazionisti e sovranisti, per fare un discorso di verità fondato sul buon senso. La verità dice che l’Italia è punteggiata da centri di accoglienza aperti negli anni dei governi passati, proliferati in omaggio alla logica delle braccia aperte purchessia, dell’accoglienza indiscriminata in cambio di qualche elemosina da parte dell’Unione europea. In tempi di relativo benessere, alle sinistre e a certo cattolicesimo terzomondista faceva comodo salvarsi l’anima così: porti spalancati e una grande quantità di soldi pubblici dispersi a pioggia per finanziare improbabili ostelli sui quali di rado sono state fatte le opportune verifiche. Con il risultato di ingrassare le finanze di qualche cooperativa (non tutte, ovvio, c’è chi lavora con buona fede e onestà) dimenticando poi i bisognosi stranieri e i cittadini italiani che intorno ai presunti luoghi d’accoglienza, nelle stazioni e nelle periferie dei centri abitati subiscono il moltiplicarsi della delinquenza e del degrado. Di qui insofferenze, violenze, povertà che si sommano ad altre povertà. Il primo errore commesso da classi dirigenti inappropriate fu questo: illudersi di poter gestire l’emergenza migratoria con la stessa trascuratezza impiegata nell’ordinaria amministrazione e nella cattiva manutenzione della cosa pubblica. Il secondo errore, oggi, sta nel negare gli effetti del primo e fingere che dietro i numeri dell’immigrazione (di per sé non ancora allarmanti) non vi siano problemi abissali di organizzazione civile e di convivenza culturale. Per non dire del peggiore dei dati: con una disoccupazione giovanile al 30%, nessuno può assicurare agli immigrati (per lo più giovani maschi in età fertile) una prospettiva diversa da un assistenzialismo pubblico elementare, se non proprio scadente. E sempre a spese del magro contribuente italiano. L’assenza di politiche realistiche, di piani securitari e di disponibilità economiche adeguate, insomma, fa sì che l’immigrazione sia percepita (e vissuta!) come una minaccia e un’ingiustizia per tutti. Questi fatti ci ricordano che, di là dalle battaglie ideologiche, a volte la beneficenza malriposta concima la povertà invece di sradicarla. Egitto. Caso Regeni, i 5 Stelle e l’offensiva cosmetica dell’uguale di Federica Graziani e Luigi Manconi Il Manifesto, 31 agosto 2018 “Giulio uno di noi”. Negli ultimi quaranta giorni ben tre ministri della Repubblica si sono recati in Egitto, eppure nessuna informazione inedita, nessun impegno concreto, nessun tangibile spiraglio per l’accertamento della verità è venuto fuori. Secondo il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, il despota egiziano Al Sisi avrebbe dichiarato: “Giulio Regeni era uno di noi”. Cosa significhi una simile frase, tanto offensiva quanto spaventosa, è difficile a dirsi. Si potrebbe ipotizzare che quell’affermazione si riferisca al comune destino del ricercatore italiano e delle migliaia di egiziani scomparsi, torturati e uccisi. Ma è improbabile che Al Sisi intendesse stabilire quel parallelismo, finendo così col denunciare le responsabilità criminali del regime di cui è massima espressione. Deve pensarsi, piuttosto, che quella incredibile definizione sia il più recente - e non necessariamente l’ultimo - atto di una sequenza che ha indicato via via Giulio Regeni come spia di questa o quella potenza straniera, agente provocatore, corruttore di cittadini egiziani, nonché consumatore di sostanze stupefacenti e titolare di uno stile di vita perlomeno ambiguo. Ma questo riguarda Al Sisi, e il suo sistema di potere e di propaganda. Di fronte a ciò, qual è oggi l’atteggiamento del governo italiano? Deve notarsi innanzitutto il suo incessante, quasi febbrile, attivismo. Negli ultimi quaranta giorni ben tre ministri della Repubblica (Interno, Esteri e Sviluppo Economico e del Lavoro) si sono recati in Egitto in visita ufficiale e tutt’e tre le volte si è venuto a sapere, con modalità più o meno formali, che fra i temi degli incontri c’è stata la sorte di Giulio Regeni. Eppure, nessuna informazione inedita, nessun impegno concreto, nessun tangibile spiraglio per l’accertamento della verità. Noi, che seguiamo questa storia sin dall’inizio, abbiamo ripetutamente criticato il comportamento dei precedenti governi di centro-sinistra, insistendo sulla inconcludenza che li ha connotati. Ma ora c’è quasi da rimpiangere la svagatezza e le omissioni di alcune risposte dei precedenti ministri degli Esteri al confronto con l’amicizia verso un regime liberticida, ostentata dalle parole e dai comportamenti dell’attuale esecutivo. Si consideri solo, come ha ricordato il Foglio di ieri, il formidabile rovesciamento delle parti nel passaggio di uno dei partner della coalizione gialloverde dall’opposizione al governo. A pochi giorni dalla morte di Giulio Regeni, l’allora responsabile Esteri del partito 5stelle, Manlio Di Stefano, invocava l’apertura di una commissione d’inchiesta Onu per accertare fatti e responsabili, intimava al governo Renzi di interrompere ogni relazione diplomatica con l’Egitto per non “macchiarsi ulteriormente”, chiosava che gli ammiccamenti ad Al Sisi fossero “il prezzo che oggi l’Italia paga della sua politica estera senza scrupoli, intessendo affari sporchi con i regimi in cui viene applicata una repressione feroce, di cui stavolta, se le notizie emerse dovessero essere confermate, a caderne vittima è stato Giulio Regeni”. Quel Manlio Di Stefano, appena citato, è verosimilmente lo stesso Manlio Di Stefano che, diventato sottosegretario del ministero degli Esteri, il mese scorso così rispondeva a un’interrogazione parlamentare: “L’arrivo dell’ambasciatore italiano Cantini a Il Cairo ha consentito di portare avanti un’assidua azione di sensibilizzazione nei confronti delle autorità egiziane, a tutti i livelli, che allo stallo nelle indagini dell’anno e mezzo precedente ha fatto seguire risultati positivi, non scontati”. Non è un semplice problema di coerenza o delle asprezze, o presunte tali, del passaggio dallo stato di movimento a quello di istituzione. Piuttosto, è un caso esemplare di dissimulazione politica. La semplice verità è che dopo l’insediamento dell’ambasciatore Cantini a Il Cairo nulla, proprio nulla, è cambiato. E nessun risultato positivo, proprio nessuno, è stato conseguito. Possiamo spingerci fino a dire che non siamo qui in presenza della tutela di informazioni riservate, di dossier ancora al vaglio degli investigatori o di fascicoli tuttora protetti sulle scrivanie di pubblici ministeri. Qui la segretezza sottintesa dietro l’evocazione della continua e proficua interlocuzione con le autorità egiziane che consentirebbe quei “nuovi e importanti progressi nella cooperazione tra organi investigativi sul caso Regeni” rimanda a una cosmetica del nulla. E dell’uguale. Il governo del cambiamento, almeno in questo campo, non ha cambiato - appunto - nulla. La torpida inerzia degli esecutivi precedenti prosegue e si perfeziona nella torpida inerzia di quello attuale: solo più euforicamente rivendicata. Ucraina. Nelle carceri italiane più di cento cittadini ucraini Nova, 31 agosto 2018 Nelle carceri italiane ci sono 108 cittadini ucraini detenuti per il reato di traffico di immigrati clandestini. Lo ha dichiarato Lyudmila Denisova, rappresentante per i diritti umani della Verkhovna Rada (il parlamento monocamerale di Kiev) in un commento pubblicato sulla sua pagina Facebook. Denisova ha detto di aver discusso della situazione dei detenuti con l’ambasciatore italiano in Ucraina, Davide La Cecilia. La rappresentante per i diritti umani ha inoltre nuovamente accusato la Russia di riluttanza nello scambio “prigionieri politici”, in particolare del regista Oleg Sentsov. Denisova ha chiesto all’Italia, in quanto paese membro dell’Osce, di esercitare la propria influenza sulla Russia. La situazione inerente la detenzione del regista ucraino in Russia è stata anche discussa durante il colloquio telefonico dello scorso 23 agosto fra il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. Secondo quanto riferito dalla diplomazia russa con una nota, “Pompeo ha sollevato la questione di Sentsov, che sta scontando una condanna con l’accusa di coinvolgimento in attività terroristiche, e (Pompeo) ha ricevuto spiegazioni rilevanti”, si legge nella dichiarazione del ministero degli Esteri di Mosca. Scozia. Sigarette elettroniche distribuite gratis ai detenuti nelle carceri sigmagazine.it, 31 agosto 2018 Sigarette elettroniche distribuite gratuitamente nelle carceri. Succede in Scozia per decisione del ministero della salute in accordo con il ministero della giustizia. I detenuti delle carceri scozzesi riceveranno per due mesi a partire da novembre un kit del valore di 65 euro per poter svapare in carcere. L’iniziativa coincide con l’introduzione del totale divieto di fumo nei locali carcerari. Si stima che circa l’80 per cento della popolazione carceraria - compresi gli addetti amministrativi e i poliziotti penitenziari - siano fumatori: il kit per il vaping consentirebbe di abbattere notevolmente la percentuale e allo stesso tempo favorire la riduzione del danno su ogni singolo utilizzatore. Il governo ha stanziato nella fase iniziale del progetto 200mila sterline. Analoghe sperimentazioni sono già state avviate anche in Inghilterra, Isola di Man e Francia. In Italia si è provato l’anno scorso ma, nonostante la circolare del direttore nazionale dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo avallata anche dal ministero della salute, l’iter si è arrestato a causa di “problemi tecnici”. Ovvero: le sigarette elettroniche in circolazione in Italia sono dotate di filo elettrico di ricarica e per questo non possono essere distribuite ai detenuti perché considerate pericolose. Turchia. L’amnistia che libera evasori e malavitosi, ma non gli oppositori di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 31 agosto 2018 La proposta per alleggerire le carceri, piene dopo le epurazioni, arriva dalla destra governativa dell’Mhp: esclusi reati contro donne e minori e quelli di terrorismo, termine ampio utilizzato contro deputati, attivisti e giornalisti. Con decine di migliaia di persone che languono nelle carceri riempite dalle purghe, in Turchia si torna a parlare di amnistia. La proposta non giunge però dai partiti d’opposizione colpiti dal pugno di ferro di Erdogan, ma dal suo alleato più stretto, Devlet Bahceli, leader del partito ultranazionalista Mhp. Alle ultime elezioni, Bahceli ha conquistato un ruolo determinante per la tenuta della maggioranza parlamentare. Ora batte cassa e si prepara a presentare una proposta che non trova entusiasmo nel partito di governo Akp. Le opposizioni restano alla finestra: l’idea piace (le carceri scoppiano e la tensione sociale cresce), ma c’è il timore che da destra arrivi un provvedimento sin troppo mirato. Bahceli ha infatti annunciato di voler escludere i crimini violenti verso donne, minori ma soprattutto i reati di terrorismo. Significherebbe l’esclusione di buona parte degli oppositori politici, dietro le sbarre per la contestata legge antiterrorismo turca. Ne beneficerebbero altre tipologie di reato, tra cui quelli fiscali, in un momento in cui il governo adotta provvedimenti per far rientrare capitali dall’estero, anche senza certificarne la provenienza, pur di tamponare la crisi della lira. La discussione s’incendia quando entrano in scena figure della criminalità organizzata turca, come ad esempio il boss Alaattin Cakici, condannato per decine di omicidi. Bahceli lo aveva visitato in ospedale prima delle elezioni e lo aveva definito un “uomo innamorato della patria e dei suoi valori”. Personaggi come Cakici sono da tempo considerati gli esponenti di punta di quelle collusioni tra i Lupi grigi dell’estrema destra turca, i servizi segreti e la criminalità organizzata. La Turchia aveva già promosso un’amnistia nel 2000. Una successiva sentenza della Corte costituzionale aveva fatto cadere i paletti messi al provvedimento, estendendolo oltre gli scopi voluti dalla politica. E forse proprio a questo puntano oggi le opposizioni, qualora la proposta sbarcasse in parlamento. Turchia. Osservatori di Amnesty al “sabato delle Madri” del 1° settembre di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 agosto 2018 Dopo il rovinoso intervento delle forze di polizia turche che a Istanbul, sabato 25 agosto, hanno disperso una manifestazione pacifica dei parenti degli scomparsi, Amnesty International ha chiesto l’avvio di indagini immediate, indipendenti ed efficaci sulle denunce relative all’uso non necessario ed eccessivo della forza da parte degli agenti di polizia e ai maltrattamenti inflitti alle persone che stavano prendendo parte all’iniziativa. La manifestazione era stata indetta nel quartiere di Beyoglu per celebrare la 700ma delle proteste settimanali iniziate nel maggio 1995 col nome di “sabati delle Madri”, per chiedere giustizia per le centinaia di vittime delle sparizioni forzate degli anni Ottanta e Novanta. Della maggior parte di esse non si conosce il destino e nessuno dei responsabili è stato mai portato di fronte alla giustizia. Contro i manifestanti - tra cui c’erano anche difensori dei diritti umani, avvocati, giornalisti e parlamentari - le forze di polizia sono intervenute con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni e proiettili di plastica, picchiando e arrestando 47 persone, trattenendole ferite per sette ore a bordo di autobus per poi rilasciarle. La magistratura ha aperto un’inchiesta per “violazione della Legge sulle riunioni e sulle manifestazioni”, in quanto la protesta non sarebbe stata autorizzata. I “sabati delle Madri” sono stati spesso osteggiati dalle autorità a tal punto che gli organizzatori hanno deciso di sospenderle dal 1999 al 2009 (la foto di Bianet si riferisce alla manifestazione n. 269). La prossima manifestazione si terrà sabato 1° settembre in piazza Galatasaray, a dispetto di un preoccupante comunicato diffuso il 27 agosto dal ministero dell’Interno, che ha annunciato il futuro divieto di manifestazioni del genere. Amnesty International invierà propri osservatori per monitorare l’operato delle forze di polizia e denunciare eventuali violazioni dei diritti umani. Birmania. Rohingya, Onu: “Aung San Suu Kyi si sarebbe dovuta dimettere” La Repubblica, 31 agosto 2018 L’Alto commissario per i diritti umani uscente Zeid Ràad Al Hussein alla Bbc: meglio tornare agli arresti domiciliari che giustificare gli abusi dei militari contro la minoranza musulmana. Il Comitato per il Nobel della pace: “Impossibile revocarle il premio”. La leader birmana Nobel per la pace Aung San Suu Kyi “avrebbe dovuto dimettersi” dopo la violenta campagna militare contro la minoranza musulmana Rohingya dell’anno scorso. Lo dice alla “Bbc” l’Alto commissario Onu per i diritti umani uscente Zeid Ràad Al Hussein. I tentativi del Nobel di giustificare le azioni dei militari sono “profondamente deplorevoli”, ha aggiunto. Il pesante giudizio dell’Alto commissario arriva dopo la pubblicazione lunedì del rapporto della missione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che chiede l’incriminazione dei leader militari birmani per genocidio e crimini di guerra contro i Rohingya. Un rapporto che il governo birmano ha respinto. Suu Kyi “avrebbe potuto fare qualcosa”, ha detto Zeid Ràad Al Hussein. “Avrebbe potuto restare in silenzio o, meglio ancora, avrebbe potuto rassegnare le dimissioni”. E poi: “Non c’era alcun bisogno che lei fosse il portavoce dell’esercito birmano. Non era costretta a dire che si trattava di un iceberg di disinformazione. Erano menzogne”. Meglio ritornare agli arresti domiciliari, ha aggiunto, che “diventare un accessorio”. Aung San Suu Kyi, 73 anni, ha trascorso 16 anni agli arresti domiciliari tra il 1989 e il 2010. Il Comitato per il Nobel della pace mercoledì ha chiarito che, malgrado le accuse dell’Onu, non può esserle revocato il Nobel per la pace che le è stato conferito nel 1991.