No, il Garante dei detenuti non è una “barzelletta” di Mauro Palma Il Dubbio, 30 agosto 2018 Gentile Direttore, caro Piero ho letto con un certo stupore l’intervento di Francesco Damato su Il Dubbio di martedì 28 a proposito della recente vicenda della permanenza forzata di decine di migranti sulla nave Diciotti. A Damato la notizia della visita effettuata giovedì scorso dal Garante nazionale dei detenuti sulla nave “sembra una barzelletta”, perché “considerare detenuti” i migranti trattenuti sulla Diciotti, sarebbe “paradossale”. Stupisce l’assoluta non conoscenza da parte dell’articolista dell’istituzione che critica nel suo intervento. Innanzitutto, perché all’Organismo che ho l’onore di presiedere è stato attribuito per legge un nome più esteso, forse un po’ ridondante ai fini della comunicazione giornalistica, ma che ha senso qui ricordare a scopo chiarificatorio, e cioè: Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Non si tratta, quindi, di tutela dei soli detenuti. Trovo meritorio del resto che il Legislatore abbia previsto una competenza del Garante anche sulle situazioni di privazione della libertà diverse dalla detenzione penale. A informare l’attività del Garante nazionale, oltre a tale puntuale previsione legislativa, si aggiunge poi un’altra fonte normativa, sovranazionale, che è quella del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, ratificato dal nostro Parlamento nel 2012. Il Protocollo prevede, infatti, l’istituzione in ogni Paese firmatario di un Meccanismo nazionale di prevenzione - che lo Stato italiano ha ritenuto di individuare proprio nello stesso Garante nazionale - il cui sguardo di vigilanza debba abbracciare anche le situazioni di privazione o limitazione della libertà che di fatto si realizzano anche qualora non siano de iure definite come tali. Ritengo che nelle democrazie avanzate come la nostra il fenomeno delle restrizioni informali rivesta una forte attualità, come mostra appunto il caso della nave Diciotti. Il fatto che in Italia esista dal 2016 un Organismo che si occupa di tutelare, in uno spirito costruttivo di collaborazione fra le istituzioni dello Stato, i diritti fondamentali delle persone private della libertà e che lo faccia in via soprattutto preventiva rispetto all’intervento della magistratura, mi sembra un sintomo di notevole vitalità del nostro vivere comune. Quindi restituisco senz’altro la barzelletta al mittente. Risponde Francesco Damato Mi spiace che il mio articolo si sia prestato a una così distorta interpretazione. La “barzelletta” da me lamentata non consisteva nella visita della rappresentante del Garante, la cui figura apprezzo, per carità, ma nel fatto che quella visita potesse essere o apparire una prova che sulla nave Diciotti ci fossero dei detenuti. Che il pubblico ministero di Agrigento ha ritenuto essere stati arrestati illegalmente, con tanto di contestazione del corrispondente reato al ministro dell’Interno e al suo capo di Gabinetto, chiamati a risponderne con le procedure e le competenze del cosiddetto tribunale dei ministri. Colgo l’occasione per condividere una volta tanto un’osservazione di Marco Travaglio sull’insospettabile Fatto Quotidiano, dove pur nel contesto di un attacco al “cazzaro verde” Salvini si fa notare che il sequestro di persona e l’arresto illegale, contemporaneamente contestati al ministro dell’Interno oltre al solito abuso d’ufficio, si elidono a vicenda. O c’è stato un arresto illegale o c’è stato un sequestro di persona, ma tutti e due insieme non stanno in piedi, come non starebbe in piedi scambiare la visita di un Darante dei detenuti, e di persone private comunque della libertà, per una prova che il pattugliatore della Guardia Costiera ancorato nel porto di Catania fosse ormai diventato in quei giorni un carcere galleggiante. Riforma, giustizia riparativa e minorile all’esame delle Commissioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2018 Il 6 settembre esprimeranno il parere sui due decreti, poi ci dovrebbe essere il via libera del governo. Continua l’iter della riforma. Il 6 settembre le commissioni Giustizia di Camera e Senato daranno il loro parere sugli ultimi due schemi di decreto legislativo della riforma dell’ordinamento penitenziario riguardanti la giustizia riparativa e quella minorile. Ricordiamo che erano stati trasmessi alle Camere, per l’espressione del parere, quattro schemi di decreto legislativo in attuazione della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario contenuta nella legge n. 103 del 2017. Le procedure di esercizio della delega, il cui termine di scadenza era il 3 agosto 2018, sono state avviate dal governo Gentiloni a cavallo tra la XVII e l’attuale legislatura. Sul più ampio degli schemi di decreto legislativo, relativo alla complessiva riforma dell’ordinamento penitenziario, le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno espresso un parere contrario. Il 2 agosto 2018 il governo legastellato ha approvato in esame preliminare un nuovo schema di decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario, sul quale dovranno pronunciarsi le commissioni. Il 21 maggio 2018, il governo Gentiloni ha trasmesso alle Camere lo schema di decreto legislativo attuativo della delega relativa alla giustizia riparativa e alla mediazione reo- vittima, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative. Il provvedimento, che si inserisce in un quadro normativo in cui la posizione della vittima assume un ruolo sempre più centrale, anche sulla spinta di obblighi e sollecitazioni di natura sovranazionale, fornisce la nozione di giustizia riparativa, disciplina i presupposti dell’attività, l’oggetto e l’esito dei programmi nonché gli obblighi di formazione dei mediatori. A questo si affianca quello minorile. Il 24 aprile 2018 il governo Gentiloni ha trasmesso alle Camere lo schema di decreto legislativo sull’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, assegnato alle commissioni Giustizia. Il provvedimento si propone di introdurre una normativa speciale per l’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni e dei giovani al di sotto dei venticinque anni (cd. giovani adulti), al fine di adattare la disciplina dell’ordinamento penitenziario alle specifiche esigenze di tali soggetti, con particolare riguardo al peculiare percorso educativo e di reinserimento sociale di cui gli stessi necessitano in ragione della giovane età. L’intervento legislativo mira ad adeguare il quadro normativo alle numerose pronunce della Corte costituzionale e agli impegni assunti dall’Italia con la sottoscrizione di svariati atti internazionali ed europei. In particolare, il provvedimento introduce e disciplina le misure penali di comunità, quali misure alternative alla detenzione qualificate dall’essere destinate ai condannati minorenni e giovani adulti. Si tratta di affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in prova con detenzione domiciliare, detenzione domiciliare, semilibertà e affidamento in prova terapeutico. L’ammissione alla misura di comunità, nonché la revoca, sono di competenza del tribunale di sorveglianza per i minorenni, mentre l’applicazione in via provvisoria è demandata al magistrato di sorveglianza. Quanto alla concessione la riforma prevede che il provvedimento possa essere adottato su richiesta dell’interessato, del difensore e dell’esercente la potestà genitoriale se il condannato è minorenne o su proposta del pm o dell’ufficio di servizio sociale per i minorenni. La riforma detta inoltre disposizioni circa l’intervento educativo e l’organizzazione degli istituti penitenziari per i minorenni, con particolare riferimento: alle caratteristiche delle camere di pernottamento (due persone, al massimo quattro); alle ore di permanenza all’aperto (almeno 4 ore al giorno); alla formazione professionale. Si prevede che i detenuti siano ammessi a frequentare i corsi di istruzione, formazione professionale, previa intesa con istituzioni, imprese, cooperative o associazioni così da consentire ai minori di perfezionare all’esterno le loro capacità per ricevere un’adeguata preparazione per l’accesso al mondo lavorativo; alla tutela dell’affettività dei minori reclusi (colloqui mensili, colloqui telefonici, supporto psicologico, visite prolungate con familiari); alle regole di comportamento all’interno degli istituti penitenziari minorili, alla sorveglianza dinamica e alle forme di custodia attenuata e alla fase di dimissione del detenuto minorenne (nei sei mesi precedenti l’ufficio di servizio sociale per i minorenni, in collaborazione con l’area trattamentale, deve preparare e curare la dimissione). Permangono però gli ostacoli del 4 bis per accedere ai benefici. Entrambi gli schemi, tuttora in esame, il 6 settembre riceveranno i pareri di entrambe le camere e saranno trasmessi al consiglio dei ministri per l’approvazione finale, oppure preliminare se intenderà riscrivere anche questi. Lo stato di diritto non è violabile di Giovanni Maria Flick, Luigi Manconi, Vladimiro Zagrebelsky Il Foglio, 30 agosto 2018 Gli stati di diritto e le società civili si distinguono da quelli barbari per il fatto che accettano limiti. Accettano e si impongono l’idea che vi son cose che non si possono fare, mai, in nessuna circostanza, per nessun motivo. Ma il governo italiano ha preteso di fare gli interessi dei cittadini usando i corpi di un centinaio di persone in fuga da paesi in guerra, per cercare di costringere altri paesi europei a farsene carico. Di fronte a quanto accade l’opinione pubblica si divide tra chi prova vergogna e chi è incapace di vergogna. La Costituzione riconosce a tutti gli individui i diritti fondamentali e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà. Non solo le prescrizioni del diritto, ma anche l’etica fondamentale per cui gli italiani vantano la loro umanità richiede di considerare ogni essere umano come persona, da rispettare nella sua individuale dignità: non numero anonimo in una massa, ma persona. A ciascun individuo si riferiscono i precetti di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te (Vangelo) e di non usare le persone altrui come mezzo, anziché come fine (Kant). La posta in gioco è grande e terribile. A venir insidiato è l’imperativo etico del soccorso a chi si trovi in pericolo. Un’obbligazione giuridica e politica che viene prima di ogni ordinamento e di ogni norma e che è alla base dei processi di formazione delle comunità e delle organizzazioni sociali. Attacco allo Stato di diritto di Leonardo Filippi Left, 30 agosto 2018 Roma, 24 agosto 2017. Nella centralissima piazza Indipendenza, i getti degli idranti della polizia del capo Gabrielli e del ministro dell’Interno Minniti investono volti e corpi dei rifugiati eritrei che si erano accampati in strada. I manganelli d’ordinanza librano in aria e si abbattono sui presenti, tra cui molte donne. Colpevoli, insieme alle loro famiglie, di resistere al nuovo sgombero, dopo che alcuni giorni prima erano stati allontanati dal palazzo in cui vivevano da circa quattro anni, in 800 circa, nella adiacente via Curtatone. Tutto si svolge di fronte agli occhi terrorizzati dei bambini, in lacrime. Il bilancio sarà di più d’una dozzina di feriti, e alcune persone portate in ospedale. Catania, 24 agosto 2018. Un gruppo di migranti, 150, sopravvivono da giorni bloccati a bordo del pattugliatore della Guardia costiera Diciotti. In gravi condizioni fisiche (casi di tubercolosi, scabbia, polmonite) e psicologiche. A disposizione, due bagni chimici per tutti, un tubo con acqua fredda per la doccia, il ponte della nave come giaciglio. Sono stati soccorsi a ferragosto nel Mediterraneo. I 27 minori imbarcati insieme a loro erano stati fatti scendere, dopo una lunga settimana di attesa. Grazie anche agli interventi di Garante dei detenuti prima, e Procura dei minorenni di Catania poi. “Abbiamo accolto 27 scheletrini”, ha commentato eloquente un’operatrice umanitaria di Terre des hommes. A tenere in ostaggio la pattuglia di migranti, mediante un cavillo amministrativo datato 2015 che lascia al Viminale il compito di dare semaforo verde allo sbarco, il ministro dell’Interno, Salvini. Ora indagato per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. Rimettendosi alle sue esternazioni, l’assurdo ricatto di tenere sotto scacco ad oltranza una nave dell’esercito del proprio Paese colma di migranti avrebbe dovuto convincere l’Ue ad essere maggiormente solidale nell’accoglienza. Talmente assurdo che l’Ue rimane in silenzio, e tira dritto. Ad accogliere i migranti, poi, si fanno avanti Dublino e Tirana, singoli Paesi. Insieme alla Conferenza episcopale, che ne prende in carico un centinaio e li smista in alcuni Centri che fanno parte della rete italiana di accoglienza. La situazione, dunque, si sblocca. Gli adulti scendono, nella notte tra il 25 e il 26 agosto. Neanche una donna, tra le superstiti, era stata risparmiata da abusi sessuali durante l’odissea che le ha condotte in quella che immaginavano terra amica. Come confermano i medici della sanità portuale. Diverso luogo, diverso (?) governo, medesima dinamica. Forti con i deboli. E medesime vittime: i sopravvissuti della Diciotti, oltre ad alcune persone provenienti da Bangladesh, Siria, Egitto, Somalia, Isole Comore, sono anch’essi in massima parte eritrei. Fuggiti da una leva obbligatoria che spesso si tramuta in lavori forzati, da persecuzioni e una repressione del dissenso fatta di abusi e punizioni corporali. Violenze che rappresentano il prolungamento ideale di quelle del regime italiano, che nel corno d’Africa aveva insediato la propria colonia. Ma si tratta di considerazioni distanti anni luce dai tweet di Salvini, che grida vittoria. Per ora. “Il caso Diciotti è gravissimo, da molti punti di vista”, commenta Francesca De Vittor, ricercatrice in diritto internazionale all’Università Cattolica. “Innanzitutto, la dichiarazione esplicita di Salvini di aver bloccato per giorni queste persone per ottenere un intervento dell’Europa, rende palese come il trattenimento sia sprovvisto di base giuridica nell’ordinamento italiano e non rientri in nessuno dei casi in cui l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo legittimerebbe. Le scelte politiche sono libere ma non possono essere perseguite violando la legge di Bruno Tinti Italia Oggi, 30 agosto 2018 La legge va osservata da tutti. E quindi anche da Salvini. I fini giusti non si possono raggiungere con metodi illegali. L’incriminazione di Matteo Salvini per I fatti della Diciotti li ha scatenati. Sono di nuovo tutti in trincea, Non può parlarsi di arresto illegale perché manca un provvedimento formale di arresto. Astrattamente potrebbe parlarsi di sequestro di persona ma il reato sarebbe comunque insussistente per via della scriminante dell’adempimento di un dovere. I magistrati stanno ostacolando i diritti politici dei cittadini. E poi. Chi comanda in Italia, la Politica o la Magistratura? Esiste una frangia golpista di magistrati che vogliono eliminare per via giudiziaria gli eletti dal popolo sovrano. La democrazia è in pericolo, la magistratura vuole sostituirsi alla politica. Insomma, il consueto armamentario, un misto di scempiaggine politica e inconsistenza giuridica. È vero, la contestazione di arresto illegale non regge. Potrebbe costituire reato se fosse presente un provvedimento formale emesso al di fuori dei casi consentiti dalla legge. Ma tale elemento manca. Gridare vittoria per questo ricorda tanto il governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro che espresse la sua soddisfazione per essere stato condannato a 5 anni di reclusione per favoreggiamento, con esclusione dell’aggravante mafiosa. Il sequestro di persona (articolo 605 codice penale) consiste nel privare taluno della libertà personale. È irrilevante che il sequestrato sia entrato di sua volontà nel luogo dove poi è stato costretto a rimanere. I migranti della Diciotti avevano il diritto di sbarcare e di essere condotti presso il Centro dove sarebbero stati identificati, al che sarebbe conseguito il diritto di ricevere asilo politico o di ricorrere alla Commissione territoriale, al Tribunale e alla Cassazione (articolo 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione). Questo diritto gli è stato negato per 5 giorni. Attenzione: è giurisprudenza assolutamente costante che il reato di sequestro di persona sussiste quando la privazione della libertà personale si sia protratta anche solo per un tempo brevissimo (mezz’ora). La Procura di Agrigento ha scelto questa contestazione in luogo di quella (più grave) di cui all’articolo 289 ter, che prevede il sequestro di persona finalizzato a costringere uno Stato o un’organizzazione internazionale di Stati a fare o omettere qualcosa. Se fosse provato che il sequestro sia avvenuto allo scopo di costringere l’Ue a ripartire i migranti tra vari Stati (come ha proclamato più volte lo stesso Salvini) questa sarebbe la contestazione più corretta. La responsabilità penale non dipende necessariamente da atti formali. È sufficiente istigare o suggerire (articolo 110 codice penale), tanto più utilizzando un’eventuale qualità personale che renda l’istigazione autorevole. I proclami di un ministro dell’Interno sono certamente autorevoli per i suoi sottoposti. Naturalmente si tratta di ipotesi di reato da vagliare con un processo. Potranno risultare fondate o meno, esattamente come avviene nelle migliaia di processi che si celebrano ogni giorno. Chi si indigna (simulatamente o meno) per l’incriminazione di Salvini dimostra di essere privo di elementare cultura giuridica/costituzionale. E veniamo alle lamentazioni politiche. La democrazia non c’entra niente. Qualsiasi Stato deve agire nel rispetto della legge, irrilevante essendo la sua forma istituzionale. Democrazia, monarchia, dittatura possono governare legittimamente o meno, dipende dall’osservanza delle leggi che esse stesse si sono date. Una democrazia governata da una maggioranza legittimamente eletta, se uccidesse i suoi oppositori, non sarebbe diversa dalla più sanguinaria dittatura africana od orientale. Certamente ogni governo ha il dovere di agire nell’interesse del Paese che amministra. È una sua prerogativa specifica che non può essere condizionata da alcuno, meno che meno da altri Poteri dello Stato. Esiste però un limite insuperabile: il rispetto della legge. Per quanto sia giusto e ragionevole lo scopo perseguito, nessun governo può attuarlo con condotte illegali. Questo significa Stato di Diritto. Non è difficile rendersene conto. E possibile, anzi certo, che la diffusione del Cristianesimo mettesse in pericolo l’assetto istituzionale dell’Impero romano; ma la sua difesa non poteva essere attuata ammazzando i cristiani. Le condizioni del popolo francese erano miserevoli; ma ghigliottinare decine di migliaia di persone fu un crimine ingiustificabile. Certamente gli ebrei controllavano l’economia e la finanza della Germania pre-nazista; ma il controllo statale di questi fondamentali settori non poteva essere conseguito con il genocidio. Insomma, non è la giustizia sostanziale dell’intento che può giustificare l’adozione di metodi criminali per conseguirlo. Nessuno contesta il dovere del ministro Salvini di risolvere il gravissimo problema dell’immigrazione nel nostro Paese. Ed è certo che differenti ideologie sull’accoglienza dei migranti non possono essergli opposte attraverso l’utilizzo strumentale del potere giudiziario; meno che meno se questo utilizzo strumentale fosse funzionale a una generica opposizione politica. Per fare un esempio banale, la decisione del governo di subordinare l’assenso al bilancio europeo a una condivisione europea della migrazione costituisce (a mio parere) un’apprezzabile e intelligente soluzione politica. Così come lo è stata il divieto di sbarco opposto alle navi delle Ong. Così come lo sarebbe (sempre a mio parere) il ritiro delle navi militari dal canale di Sicilia, in modo da garantire la fine del servizio taxi che, volente o nolente, l’Italia ha svolto per anni nel Mediterraneo. Attività politica che mai potrebbe essere contrastata con iniziative giudiziarie; che infatti non vi sono state e che, se vi fossero, sarebbero illegittime. Ma cosa del tutto diversa è ricorrere a mezzi illegali per conseguire finalità politiche, anche se giuste. Così i vari Alemanno, che vuole addirittura denunciare i pm per ostacolo ai diritti politici del cittadino, come se commettere reati fosse un “diritto politico”; Bongiorno, che ritiene legittimato il sequestro di persona dalla discriminante dell’adempimento del dovere (articolo 51 codice penale: dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell’Autorità), dimenticando che le scelte politiche di Salvini non sono imposte da alcuna norma giuridica (sono appunto scelte) e nemmeno conseguenti a ordine (legittimo) di suoi superiori; Bellachioma, che addirittura minaccia i magistrati che hanno incriminato Salvini; e tutti gli altri che li seguiranno e li imiteranno, rendono un pessimo servizio alla politica del ministro. Trasformano la sua giusta e doverosa fermezza in una prepotenza da bullo che va a tutti i costi giustificata; ne rivelano i limiti e la superficialità; barattano il consenso elettorale con l’interesse del Paese. Non basta l’archiviazione: l’indagato resta in banca dati per venti anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 21362/2018. I dati e le informazioni della persona sottoposta a indagini penali, restano nella banca dati della polizia, anche in caso di accertamento dell’estraneità ai fatti, per venti anni dalla data di archiviazione. E trascorsa la metà del tempo, dunque dieci anni, la sola tutela sta nella certezza che saranno visibili ai soli operatori interessati. La Corte di cassazione (sentenza 21362) analizza per la prima volta il Dpr 15/2018 con il quale sono stati attuati i principi del codice della privacy relativi al trattamento effettuato per ragioni di polizia. Una completa analisi di una norma che, per la sua natura sostanziale, è applicabile anche a casi come quello esaminato, in cui l’acquisizione dei dati, come la domanda di cancellazione dal Ced del Viminale, ci sia stata prima dell’entrata in vigore. A chiedere di uscire dall’archivio dati interforze, era stato un professionista sottoposto ad indagini penali, la cui posizione era stata stralciata, dopo l’accertamento della sua estraneità ai fatti. L’iscrizione non rimossa, a suo avviso, non era di alcuna utilità alla polizia e danneggiava la sua immagine professionale. La Cassazione però respinge il ricorso, con una decisione che tiene conto delle norme nazionali, della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo sul rispetto della vita privata, dei regolamenti e delle raccomandazioni comunitarie, e anche delle norme sul diritto all’oblio. La Suprema corte ricorda che, in generale la norma, per i trattamenti automatizzati, fissa dei termini massimi tarati sulla natura del provvedimento o delle attività alle quali si riferiscono. La regola è che trascorsa la metà del tempo massimo di conservazione, se uguale o superiore ai quindici anni, ai dati possono accedere solo gli operatori abilitati e designati. Termini su cui, proprio il Garante privacy, ha espresso le sue perplessità. Per la Cassazione le norme trovano un difficile bilanciamento tra l’interesse collettivo alla prevenzione e alla repressione dei reati e alla tutela dell’ordine pubblico e quello individuale alla riservatezza. Nel conto c’è dunque l’esigenza di garantire un corretto trattamento e la possibilità, prevista, di ottenere la cancellazione quando viene meno lo scopo che ne ha giustificato la conservazione. Il decreto per i giudici è in linea con l’articolo 8 della Cedu che, nell’escludere l’ingerenza della pubblica autorità nella vita privata, fa salva l’ipotesi in cui l’intromissione sia funzionale, in un Paese democratico, alla salvaguardia di alti valori: dalla tutela dell’ordine pubblico, alla protezione dei diritti e della libertà altrui. Il Dpr del 2018 si occupa poi di casi, come quello esaminato, in cui le informazioni sono relative ad attività della polizia giudiziaria che si sono concluse con un procedimento di archiviazione: fissando a venti anni dall’emissione dell’atto il tempo per la cancellazione. Con l’avvertenza che la decisione di archiviare va inserita subito in banca dati. La Cassazione analizza anche le norme interne ed europee che hanno contribuito a definire il cosiddetto diritto all’oblio, teso ad evitare la divulgazione dei dati quando questa non è più giustificata da un interesse attuale? Garanzie che riguardano anche il trattamento dei dati per finalità di polizia. Ma il diritto è rispettato dalle restrizioni poste dal Decreto del 2018, che limita la diffusione e valorizza gli scopi del trattamento. Niente tassa sui rifiuti per il detenuto di Ferruccio Bogetti e Filippo Cannizzaro Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2018 Non va addebitata la tassa per servizio di raccolta e smaltimento rifiuti relativamente agli anni in cui il contribuente risulta essere stato detenuto in carcere. Ciò perché manca il presupposto impositivo, dato che trattasi di corrispettivo inerente un servizio di cui il contribuente non ha potuto certamente usufruire, dato il suo stato di condanna. A stabilirlo è la Ctp Treviso con la sentenza 173/1/2018. Nello specifico, le tasse sui rifiuti (nei vari anni denominate Tarsu, Tia, Tarsi, eccetera), non possono essergli addebitate relativamente all’immobile di sua proprietà, perché: il contribuente risulta essere detenuto per periodo di oltre quindici anni; è stato condannato altresì con espulsione dall’Italia, e quindi non può essere soggetto a tasse e tributi inerenti servizi di cui non ha potuto usufruire; in base al suo status era certamente impossibilitato di essere conoscente circa fatti inerenti la sussistenza di tali debiti. L’amministratore appena nominato “paga” per il vecchio di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 39230/2018. Il nuovo amministratore risponde del reato di omessa dichiarazione anche per gli anni nei quali il legale rappresentante era diverso: si tratta, infatti, di una violazione facilmente riscontrabile al momento di assunzione dell’incarico. A fornire questo importante principio è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 39230 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società veniva condannato per il reato di omessa dichiarazione Ires e Iva per il 2011 e per i precedenti periodi di imposta. Si difendeva eccependo che era stato nominato solo il 14 ottobre 2011 e pertanto non poteva rispondere delle omissioni commesse dal precedente amministratore. La Corte di appello confermava la condanna e il legale rappresentante ricorreva in Cassazione. I giudici di legittimità hanno preliminarmente rilevato che ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di omessa dichiarazione occorre il mancato adempimento dichiarativo con il fine di evadere le imposte e il superamento della soglia di punibilità. Secondo la Cassazione l’amministratore che subentra nella carica ha l’onere di verificare la contabilità, i bilanci e le ultime dichiarazioni dei redditi, in caso contrario, non solo sarà chiamato a rispondere del reato del mancato versamento di imposte in precedenza non versate, ma anche del reato di omessa presentazione della dichiarazione. La responsabilità per i delitti tributari è di norma attribuita all’amministratore pro-tempore che rappresenta e gestisce l’ente e quindi, chi assume la carica di amministratore accetta volontariamente anche le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Nel momento in cui si assume la rappresentanza legale di una società di capitali, è indispensabile venga posta in essere un’attività ricognitiva finalizzata a rilevare almeno le più evidenti anomalie contabili e fiscali in modo da evitare, in futuro, contestazioni sull’operato altrui. La Cassazione, in proposito, ha ritenuto necessario tali controlli in particolar modo per i reati per i quali con un minimo di diligenza, il subentrante sia in condizione di poter facilmente verificare la sussistenza di violazioni. Ad esempio, un omesso versamento di imposte dovute o l’omessa presentazione della dichiarazione, sono riscontrabili fin dal momento di assunzione dell’incarico. Diversamente, la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false non è immediatamente riscontrabile, poiché richiederebbe un’analisi difficilmente attuabile in tempi brevi. La Suprema Corte ha altresì precisato che non poteva escludersi la responsabilità penale per il solo fatto che il nuovo amministratore avesse ripetutamente richiesto la documentazione contabile al precedente tuttavia senza riscontro, infatti, dell’inerzia di quest’ultimo, avrebbe dovuto presentare denuncia nei suoi confronti. La decisione è particolarmente rigorosa e impone, in sostanza, che il nuovo amministratore prima di assumere l’incarico verifichi le violazioni fiscali commesse in precedenza. In tale contesto, potrebbe rivelarsi particolarmente utile il ravvedimento operoso anche per i benefici sotto il profilo penale. Nel reato di minaccia non è necessario che il soggetto si sia sentito realmente intimidito Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2018 Reato di minaccia - Integrazione - Lesione reale del bene tutelato - Non necessaria. Il reato di minaccia (articolo 612 c.p.) è un reato formale di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale; la valutazione dell’idoneità della minaccia a realizzare tale finalità va fatta avendo di mira un criterio di medialità che rispecchi le reazioni dell’uomo comune. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 26 luglio 2018 n. 35817. Reato di minaccia - Elemento essenziale - Limitazione della libertà psichica - Prospettazione del pericolo di un male ingiusto alla persona offesa. Elemento essenziale del reato di minaccia è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato, dal colpevole, alla parte offesa; se è vero che non è necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente nella vittima, bastando, poiché si tratta di reato di pericolo - la sola attitudine ad intimorire, è indispensabile, però, che il male ingiusto possa essere dedotto dalla situazione contingente. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 10 dicembre 2014 n. 51246. Reato di minaccia - Natura - Reato di pericolo - Elemento oggettivo - Fattispecie. La fattispecie di cui all’ articolo 612 cod. pen., integrando reato di pericolo, sussiste quando la minaccia, che deve valutarsi con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sia idonea a cagionare effetti intimidatori sul soggetto passivo anche se il turbamento psichico non si verifichi in concreto. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 10 gennaio 2014 n. 644. Reato di minaccia - Configurazione - Non è necessario che il soggetto si sia sentito effettivamente intimorito. Ai fini dell’integrazione del reato di minaccia, non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente che la condotta posta in essere dall’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla liberta’ morale del soggetto passivo. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 18 ottobre 2016, n. 44128. Bari: tribunale pericolante, ma emergenza sospesa di Marco Demarco Corriere della Sera, 30 agosto 2018 La nuova sede è prevista, ma non si vede. E del prosieguo dell’attività giudiziaria si occupa il sindaco incompetente anziché il ministro delegato. Il Tribunale è pericolante, ma non troppo. È da sgomberare, ma non subito. E l’emergenza è aperta, ma sospesa. Fosse stata presa prima di Genova, la decisione di concedere quattro mesi di proroga per lo svuotamento degli uffici giudiziari di Bari avrebbe certo fatto discutere. Ma è stata presa dal sindaco senza il consenso del locatario (il ministero della Giustizia), dopo il crollo del ponte Morandi, con tutto il carico di consapevolezza che viene da quel contesto, e questo aggrava le cose. Tanto più che era stato lo stesso Comune di Bari ad accogliere l’allarme-crollo dei magistrati. Da allora, da giugno scorso, tutto è venuto di conseguenza: la dichiarazione di inagibilità del Tribunale, che il Comune valutò allora a rischio di collasso imminente; il ricorso, in estate, a tende di fortuna per udienze assolate e sudaticce, variamente contestate; la sospensione dei processi, al fine di smantellare la tendopoli da giustizia terremota non più gradita al nuovo governo. Più che un ossimoro burocratico, l’ultimo atto della vicenda barese sembra dunque un guanto di sfida lanciato alle leggi della logica e dell’ingegneria strutturale. Per questo, il ministro Buonafede ha parlato di decisione “irresponsabile”. Tuttavia, il sindaco Decaro ha rimandato l’accusa al mittente, perché nel frattempo il ministero avrebbe dovuto trovare una sede alternativa e non lo ha fatto. Il risultato è che il Tribunale è pericolante, ma anche no. Si sgombera, ma è ingombro. La nuova sede è prevista, ma non si vede. E del prosieguo dell’attività giudiziaria si occupa il sindaco incompetente anziché il ministro delegato. All’inizio della vicenda, dicemmo che un paese senza Tribunale sarebbe apparso un paese senza Stato. Oggi si può ben dire che lo Stato visto a Bari rivela un paese senza il tribunale principale, quello della ragione. Massa Carrara: emergenza idrica in carcere, il Garante chiede immediata soluzione gonews.it, 30 agosto 2018 Nella Casa di reclusione di Massa, che ospita 219 detenuti, c’è una situazione di emergenza per l’acqua. Il garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, ha fatto visita al carcere questa mattina, mercoledì 29 agosto, e ha rilevato alcune criticità “che devono essere affrontate immediatamente, affinché questa struttura rimanga un modello e non vengano messe in discussione la sua fama e le sue potenzialità”. Il problema dell’acqua presenta tre diversi aspetti: “Il piano terra della sezione B, quello che dovrebbe ospitare l’infermeria, è chiuso e inutilizzato a causa di perdite dai tubi sotto il pavimento. L’acqua zampilla, specie quando piove, nonostante la sezione sia stata oggetto di ristrutturazione pochi anni fa. Si tratta di una situazione inaccettabile, il direttore ha contestato i lavori alla ditta esecutrice. Al contempo - prosegue Corleone, nel resto del carcere, dove si trovano i detenuti, c’è una carenza d’acqua per via della portata non sufficiente. C’è un impegno di Gaia (il gestore idrico dell’area, ndr) ad effettuare un sopralluogo, forse già lunedì prossimo, e verificare quali interventi siano necessari”. Il terzo aspetto, spiega ancora Corleone, “riguarda un pozzo artesiano, che sopperiva in qualche modo alle carenze, ma al momento non è utilizzabile a causa della rottura di una pompa”. Il garante aveva deciso la visita a seguito di alcune lettere di detenuti che segnalavano queste e altre criticità esistenti. “La Casa di reclusione di Massa è una struttura che non deve perdere le proprie caratteristiche - sostiene Corleone. Occorre risolvere subito i problemi evidenziati”. Dei 219 detenuti presenti, “186 sono con condanna definitiva. Si fanno molte lavorazioni, soprattutto tessili: un centinaio di persone produce coperte, lenzuola, è presente un laboratorio di sartoria. E poi c’è l’orto. Fino a poco tempo fa si svolgeva anche un’attività di riparazione di macchine da caffè”. Riguardo alle lavorazioni, “occorre definire ora programmi di formazione per la sicurezza sul lavoro e sistemi di sicurezza antincendio”. A Massa, rileva ancora Corleone, “non c’è la figura del garante cittadino, mi attiverò per sollecitare il Comune. C’è da fare un lavoro per rafforzare il rapporto con la città e con il volontariato”. Nella Casa di reclusione, “la quota di detenuti per violazione dell’articolo 73 della legge antidroga è alta: sono 62, dei quali una quindicina in trattamento metadonico”. Tra le altre criticità evidenziate, “si rileva la necessità di rafforzamento della struttura amministrativa e va rafforzata anche l’area educativa. Ho parlato con gli operatori e con il direttore della Casa di reclusione, Paolo Basco”. Basco occupa la carica in reggenza, “è il direttore del carcere di Arezzo. Presto, Massa dovrà avere un direttore a tempo pieno”. Lecco: i Radicali “carcere sovraffollato e carenze di personale” lecconotizie.com, 30 agosto 2018 “A fronte di una situazione grave nulla è stato fatto per riportare le carceri italiane nell’alveo della costituzione più bella del mondo”. L’Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan è la associazione che nel 2017 si è presa carico della promozione delle attività del Partito Radicale a Milano e in altre zone della Lombardia, commentando la situazione delle carceri lombarde. Dati raccolti nel Secondo Libro Bianco della Carceri, redatto dalla stesso movimento politico. Per i Radicali, il penitenziario di Pescarenico a Lecco non fa eccezione e viene sottolineata “la grave mancanza di agenti penitenziari (meno 15%)” così come a Mantova (meno 26%). Secondo i dati pubblicati nello studio, Lecco dispone di 29 agenti contro i 34 previsti dalla pianta organica, a fronte di 76 detenuti contro i 53 posti di capienza regolamentare, tanto da far balzare il penitenziario di Pescarenico al terzo posto per sovraffollamento dopo quello di Vigevano e Opera. Tenendo conto proprio del numero di detenuti in eccesso, secondo le stime dei Radicali, Pescarenico dovrebbe avere a disposizione almeno 49 agenti, ne mancherebbero quindi una ventina all’appello. A Lecco mancano anche gli educatori: la struttura di Pescarenico, ricorda l’associazione, “deve gestire il 62% di detenuti tossicodipendenti (47 su 76 detenuti totali), dovendo quindi svolgere il lavoro di una comunità di recupero essendone privo dei mezzi. Più ridotta per fortuna la presenza di pazienti psichiatrici”. Attualmente ci sarebbe un solo educatore nel penitenziario, ne sarebbero necessari almeno tre tenendo conto del sovraffollamento. Lo scorso 23 giugno, una delegazione dei Radicali aveva fatto visita al carcere lecchese. “Purtroppo - spiegano a seguito di un provvedimento del Ministero della Giustizia quando il titolare era Orlando sono stati bloccati i questionari che sottoponevamo agli istituti che visitavamo, per cui questo anno molti dati non sono disponibili, e ne risulta carente la sezione del libro bianco sul lavoro”. Del resto, la situazione di carenze nell’organico era stata denunciata nei mesi scorsi anche dal sindacato di categoria degli agenti penitenziari della Cisl. Firenze: il viceministro Ferraresi a Sollicciano. Il direttore: “serve più personale” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 agosto 2018 Vittorio Ferraresi ha visitato il carcere di Sollicciano martedì pomeriggio. Un lungo incontro durante il quale il viceministro, accompagnato dal capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, ha voluto toccare con mano le numerose problematiche del carcere fiorentino. Tra queste, la questione dei passeggi chiusi per rischio crolli e della conseguente libertà limitata per i reclusi. Sul tema, gli stessi detenuti, insieme al cappellano don Vincenzo Russo, avevano scritto una lettera al ministro Alfonso Bonafede chiedendo di sbloccare urgentemente la situazione per poter usufruire dell’ora d’aria. “È una questione che abbiamo affrontato - spiega il direttore di Sollicciano, Fabio Prestopino. Il problema è in via di risoluzione, nell’arco di qualche giorno”. La visita del viceministro è stata l’occasione per illustrare al Governo la carenza di personale. “Prime fra tutte - dice Prestopino - la manutenzione della struttura e l’organico sottodimensionato”. Non è una novità l’obsolescenza del carcere, con infiltrazioni e tetti inadeguati. “L’impegno del Governo su questo fronte - aggiunge Prestopino - si aggira sui 10 milioni. E poi mancano agenti, educatori, contabili, addetti alla segreteria”. Ieri ha fatto visita a Sollicciano il senatore Achille Totaro (Fdi): “A Sollicciano sono attualmente presenti 740 detenuti, di questi circa il 70% sono stranieri. Chiediamo al governo di far scontare la pena agli stranieri nei loro paesi di provenienza”. Castelvetrano (Tp): incontro tra volontari e detenuti all’insegna del riscatto trapanioggi.it, 30 agosto 2018 Quattordici ragazzi della provincia di Milano hanno vissuto, anche quest’anno, un’esperienza di carità - su iniziativa della Caritas diocesana - nel carcere di Castelvetrano. Accolti e accompagnati dalle suore di Carità (dette di Maria Bambina), i giovani hanno incontrato il comandante della Polizia Penitenziaria, Linda De Maio, l’educatrice Selenia Conigliaro e i detenuti insieme, tra gli altri, al direttore della Caritas diocesana Girolamo Errante Parrino. I detenuti sono 65 ma solo 30 di loro, durante l’anno, partecipano ai laboratori di scrittura e lettura e ai laboratori artistici, organizzati dai volontari con il materiale offerto dalla Caritas. “A noi si è aperto un mondo sconosciuto - ha detto Davide, uno dei volontari arrivati dalla Lombardia - il rumore delle porte di ferro che si chiudevano dietro le nostre spalle ci ha fatto capire che la vita dentro il carcere è molto diversa da quella esterna. Siamo stati accolti con simpatia e affetto dai ragazzi detenuti che chiedevano solo di passare un po’ di tempo insieme per colorare la loro giornata e, fra risate e canzoni, piano piano ci hanno aperto il loro cuore e mostrato le loro ferite e le cicatrici e la loro voglia di riscatto”. “Essere detenuto non è solo un castigo per riflettere sugli sbagli commessi, è anche perdita di odori, di emozioni che una persona prova in libertà. Quando si è detenuti da molto tempo, arriva il giorno in cui ti rendi conto che le tue suole delle scarpe sono pulite mentre le scarpe delle volontarie hanno preso il colore dell’asfalto. Confrontarti con persone giovani che lasciano la propria famiglia, a migliaia di chilometri di distanza, per venire in carcere, ti fa capire che fuori c’è tanta umiltà e voglia di amare il prossimo” ha testimoniato Rino, uno dei detenuti. Don Nicola Altaserse ha celebrato la messa in carcere alla presenza dei detenuti e dei volontari ricordando che Gesù ha posto la visita ai carcerati, e l’accoglienza degli immigrati, tra le opere di misericordia (“Ero in carcere e siete venuti a trovarmi, ero forestiero e mi avete ospitato, Matteo 25, 35-37”). Il gruppo di volontari ha anche affiancato l’Unità di strada della Caritas diocesana impegnata per combattere il sistema che porta alcune donne nigeriane a prostituirsi. Saluzzo (Cn): dal carcere le voci dei detenuti nello spettacolo “Fuori di Testa” targatocn.it, 30 agosto 2018 Lo spettacolo sarà allestito come gli anni precedenti dalla compagnia “Voci Erranti” proveniente dalla struttura detentiva di Saluzzo. Anche quest’anno si potrà assistere allo spettacolo “Fuori di Testa” che andrà in scena, presso la Casa di Reclusione di Saluzzo, da giovedì 27 a domenica 30 settembre. L’iniziativa nasce all’interno del carcere di Saluzzo, una scatola fuori dall’abitato, fuori dal tempo e fuori dal mondo. Il detenuto è uno “spostato”, costretto a cambiare sezione, cella, carcere senza volerlo e strappato ai propri cari. Capita, a volte, che qualcosa di mal spostato lo manda fuori di testa. Franco Basaglia ha dedicato tutta la sua vita a queste persone, al fine di restituire loro la voce e la propria dignità. Sebbene siano passati 40 anni dall’emanazione della legge 180 che ha chiuso definitivamente la scatola manicomio, i detenuti hanno a volte la sensazione di vivere in un manicomio: una nave dei folli, che recita una farsa per anestetizzare e tranquillizzare le coscienze. Una scatola per contenere quelli che sono andati fuori-legge e per raddrizzare quelli che stanno sempre fuori dalle righe. E cosa fanno i detenuti? Si allenano per prepararsi alle tante follie che li attendono, per essere pronti al “nuovo mondo” e per cercare la terapia giusta, quella che, finalmente, li farà diventare “ normali”. Con questa premessa, il percorso teatrale di Voci Erranti con i detenuti del carcere di Saluzzo presenta una nuova tappa, “Voci Erranti”. È questa una realtà artistica molto significativa sul territorio nazionale che vede, ogni anno, la partecipazione di mille spettatori e di millecinquecento studenti coinvolti nel Progetto Carcere/Scuola con le repliche che si effettuano per gli Istituti Scolastici nell’ambito dell’Educazione alla Legalità. La compagnia “Voci Erranti” esce dal carcere ogni mese per esibirsi in trasferta senza scorta: un caso unico a livello nazionale. Tutto questo è realizzabile grazie alla volontà del Direttore, Dott. Giorgio Leggieri, al Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Cuneo, alle responsabili dell’Area Educativa Dott.sse Cinzia Sannelli e Maria Andolina, al Comandante Ramona Orlando e alla volontà di tante persone che partecipano al Progetto. Il film su Stefano Cucchi, una forte denuncia su un delitto di Stato di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 agosto 2018 Il racconto fin di vita della morte di un cittadino tossicodipendente accusato di spaccio, che doveva essere processato ed eventualmente condannato, non ucciso. Il rumore metallico di celle e chiavistelli che si aprono e chiudono, come dei passi perduti lungo interminabili corridoi, accompagnano tutto il film e rappresentano il sigillo delle istituzioni sulla morte di Stefano Cucchi. Un delitto di Stato, perché avvenuto ai danni di un cittadino che allo Stato e alle sue strutture era affidato: tre stazioni dei carabinieri, le camere di sicurezza del tribunale, un carcere, un ospedale, il reparto detentivo di un Policlinico. Fatti di sbarre, serrature blindate e lunghi corridoi, per l’appunto. Lì dentro lo Stato ha ridotto in fin di vita e lasciato morire un tossicodipendente accusato di spaccio, che doveva essere processato ed eventualmente condannato; non ucciso, come invece è successo. Per questo la vicenda di Stefano Cucchi è diventata un caso, e adesso una sceneggiatura tratta dagli atti dell’inchiesta giudiziaria, oltre che dalla testimonianza di una famiglia decisa a non archiviare la storia nell’ordinaria amministrazione di prigioni che producono morti (172 solo in quel 2009). Se ancora oggi se ne parla è perché prima i genitori e la sorella di Stefano, e poi due indagini della magistratura hanno svelato l’incredibile via crucis dove alle percosse si sono aggiunte le regole assurde di una burocrazia impermeabile ai diritti (per esempio il colloquio di un detenuto con il suo avvocato) e invalicabile per un padre e una madre che hanno potuto vedere il figlio solo dopo una settimana di inutili pellegrinaggi. Quando ormai era un cadavere. Un percorso interpretato da attori che con grande somiglianza con i veri protagonisti (nei caratteri, prima ancora che nelle fattezze) percorrono ogni tappa dell’ultima, assurda settimana di vita di Stefano Cucchi. Compresa la sua ritrosia a raccontare le botte prese, nella convinzione che accusare uomini in divisa avrebbe determinato conseguenze peggiori; o l’incomunicabilità con una famiglia da cui forse temeva ramanzine prima che aiuto e protezione. Mancano alcuni dettagli che nel processo-bis tuttora in corso a carico di cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia (dopo il primo contro agenti penitenziari e medici, tutti assolti) sono fatti accertati: ad esempio la cancellazione dall’apposito registro delle tracce del fotosegnalamento, durante il quale potrebbe essere avvenuto il pestaggio. I giudici diranno se quello e altri elementi raccolti nell’indagine giudiziaria sono anche prove di colpevolezza. Nel frattempo sono diventate un film-denuncia importante, grazie alla tenacia della famiglia Cucchi e a un pezzo di Stato capace di mandare alla sbarra un altro pezzo di Stato per la morte di un cittadino italiano. Quando accade è il sintomo che nelle istituzioni qualcosa non funziona; ma anche un segno di speranza che davanti all’ingiustizia vale la pena non arrendersi. La “normalità” della tragedia nel silenzio dei testimoni di Silvana Silvestri Il Manifesto, 30 agosto 2018 “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini. La settimana di agonia di Stefano Cucchi, morto in carcere nel 2009. Durissimo e preciso nel colpire là dove deve andare a segno senza deviazioni di percorso Sulla mia pelle di Alessio Cremonini accompagna con rara umanità fino alla morte la settimana di agonia di Stefano Cucchi. È noto il caso della morte in carcere del giovane geometra arrestato per detenzione, spaccio e uso di stupefacenti, il più conosciuto dei 176 casi di decessi in carcere nel 2009. Presentato in concorso nella sezione Orizzonti il primo film italiano in programma alla Mostra è stato accolto con grande consenso ed emozione, asciutto e convincente, un crescendo drammatico di pietas e di denuncia. Il rigore del film è costruito sugli atti dei processi e sull’impostazione che si mantiene apparentemente distante da accuse dirette, allargando il discorso da un eclatante caso specifico a una più generale denuncia della violazione dei diritti umani. In questo senso colpisce la maturità di una costruzione cinematografica così capace di mettersi in diretto contatto con un pubblico internazionale. Il film procede con interventi progressivi di rara abilità nel sintetizzare inizialmente i tratti della personalità del giovane, poi il crescendo drammatico per ellissi, senza interventi declamatori, senza sbavature, senza creare artificiosamente vittime e carnefici, nella normalità della tragedia. Una quantità di testimoni potrebbe dare una spiegazione ai lividi e ai dolori lancinanti del ragazzo, che al contrario come per un’omertà da quieto vivere, per una legge non scritta e parallela dietro le sbarre, passano per la normalità. Il regista dice che di questi testimoni muti ne sono stati contati ben 140 venuti a contatto con il detenuto in “custodia” cautelare, ognuno di loro chiuso nell’ambito della sua funzione, avvocati, giudici, detenuti, medici, infermieri, superiori, piantoni o assistenti che fossero. Più che un’interpretazione quella di Alessandro Borghi per Cucchi sembra essere un pressante desiderio di riportarlo in vita tanta è la forza che trasmette pur nel raccontarne la lenta agonia, una rara immedesimazione fatta di ruvido calore, di rabbia impotente che nella seconda fase del film diventa una complessa veglia funebre. L’attore dice di essere stato preso da una sana paura alla proposta di interpretare Stefano Cucchi di cui da anni seguiva la vicenda, “una storia che doveva essere raccontata”. Nel rigore di una sceneggiatura che scandisce gli eventi e i giorni Cucchi è costretto sempre di più nel suo isolamento, nel chiuso delle celle, delle stanze di ospedale, della cecità di chi gli si avvicina, dei familiari tenuti lontani dalle ferree procedure carcerarie e perfino dalla incomprensibile assenza dell’avvocato. Perde un po’ alla volta ogni contatto che non sia quello del dolore che prova. Questo isolamento è descritto alla perfezione e anticipato dalla dolorosa esperienza in comunità, dalla sofferenza procurata ai familiari (tutto interiorizzato in Max Tortora) e dalla durezza della sorella (Jasmine Trinca entrata rispettosamente in un’area privatissima) sviluppa la qualità del racconto tutto fatto di equilibrio e di misura, cosa rara trattandosi di una denuncia di violazione dei diritti che si può applicare a varie situazioni non solo nazionali. Il regista che ha esordito con Border e prima ancora è stato assistente di Ettore Scola e sceneggiatore per Franco Giraldi e Saverio Costanzo, dice: “Sono un garantista, i film non sono un’aula di giustizia. La mia è la storia di un ragazzo che ha passato giorni infernali, degno del rispetto che garantisce la Costituzione”. Per realizzarlo sono state studiate (non lette, ma studiate ci tiene a precisare) diecimila pagine di verbali. E non è facile fare diventare carne viva la carta: “Con grande umiltà e spirito francescano, senza pregiudizi abbiamo cercato di capire cosa era successo a Stefano. Le vittime non ci sono più, loro non possono rispondere e allora diventi come un archeologo che cerca le spiegazioni nelle testimonianze, nello studio comparato di diverse opinioni. Tutti hanno parlato - dice - ma la cosa che mi ha colpito di più è l’impossibilità di difendersi, di parlare, da parte della vittima.” Il film nasce dal desiderio di strappare Cucchi alla fissità di quelle terribili, ben conosciute fotografie che lo ritraggono sul letto di morte, e ridargli la parola. Con ostinazione e conoscendo l’ambiente lui avrebbe ripetuto ancora una volta di “essere caduto dalle scale”. Sulla mia pelle uscirà il 12 settembre nelle sale e in contemporanea sulla piattaforma streaming Netflix in 140 paesi. Angosciante e impietosa: ecco la foto più reale dell’agonia di Cucchi di Luigi Mascheroni Il Giornale, 30 agosto 2018 L’opera di Cremonini racconta i sette giorni di “calvario” del giovane. Tra violenza e dolore. Film manifesto? In parte. Di denuncia? Anche. Un dovere civile? Così lo considerano regista e cast. Un titolo già in odore di polemiche? Di certo. Un bel film? Sulla mia pelle, la pellicola di Alessio Cremonini sul “caso Cucchi” che ieri ha aperto la sezione Orizzonti qui a Venezia, è più che altro un film necessario (sette minuti di lacrime e applausi alla proiezione ufficiale). Al netto della bravura del protagonista, un irriconoscibile e applauditissimo Alessandro Borghi nella parte di Stefano Cucchi, morto nel 2009 “non per cause naturali” (certo non “per una caduta dalle scale”) mentre era detenuto nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini di Roma, è soprattutto un film necessario. Attenzione: studiato e costruito sulle testimonianze e sulle carte, oltre 10mila pagine di verbali alla base della sceneggiatura, Sulla mia pelle non è una sentenza. Peraltro c’è un processo aperto, e il “presunto” pestaggio infatti non è mostrato sulla scena. Ma è un atto dovuto. Dà voce (e soprattutto corpo: martoriato, emaciato, sofferente; un film fatto di luci livide e di ecchimosi che parlano) all’unica persona che non ha mai parlato, cioè la vittima. Stefano Cucchi. Racconta i sette giorni di calvario che separano il suo arresto da una morte “inspiegabile”. E soprattutto mette in croce un sistema, cioè il Sistema, e non solo carcerario, italiano. “Stefano viene a contatto con 140 persone tra carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri ha detto il regista - e pochissimi hanno intuito il dramma che stava vivendo”. Nessuno parla, al massimo cerca di discolpare se stesso. E alla fine ne escono male tutti. I Carabinieri (“Non ci hanno aiutato minimamente durante la produzione del film, abbiamo dovuto ricostruire tutto, ci hanno perfino negato i permessi per filmare gli esterni del carcere di Regina Coeli, dove invece le troupe televisive hanno accesso”), gli avvocati (letteralmente inesistenti), giudici e pm (sono delle sfingi). L’aspetto più shockante del film duro, claustrofobico, angosciante: e il fatto che prima ancora di entrare in sala la cronaca ci abbia già detto come andrà a finire, non smussa di un fotogramma la drammaticità del racconto - è proprio il fatto che chiunque si sia trovato davanti alla storia di Cucchi si sia voltato dall’altra parte. Eppure bastava guadarlo in faccia, ascoltare i suoi rantoli (e Alessandro Borghi è identico al “prigioniero” che interpreta, non solo perché è dimagrito 18 chili, ma perché le loro voci sono completamente sovrapponibili, come svela sui titoli di cosa l’audio originale di una dichiarazione in aula di Stefano Cucchi). Ma nessuno allora ha parlato. E così parlano altri, oggi. Parla la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria (interpretata da Jasmine Trinca, è l’icona della vicenda, mentre ci getta in faccia la gigantografia del cadavere del fratello sul lettino autoptico), la quale da una parte dedica polemicamente il film al ministro dell’Interno Matteo Salvini, e dall’altra si è commossa (ri)vedendo ieri il film qui al Lido: all’attore protagonista Alessandro Cucchi ha detto: “Io non so come tu ci sia riuscito, ma sei uguale a Stefano”. Parla il regista: “Non è il cinema, ma la magistratura che deve condannare. Quello che è certo, e noi lo abbiamo racconta, è che c’è qualcosa che non ha funzionato allora, e non funziona ancora oggi: Stefano Cucchi è solo uno dei 176 morti in carcere quell’anno, il 2009. Noi abbiamo raccontato una storia. Ma dietro ce ne sono tante altre, uguali”. E ne parleranno coloro che vedranno il film, che richiama tutti noi alle nostre (ir)responsabilità. Film di poche parole (Sulla mia pelle vuole opporsi alla più grande delle ingiustizie, il silenzio), molto misurato (non è un film “cattivo”, ma impietoso: che è diverso), e che pone una domanda precisa (come mai un cittadino italiano, colpevole, perché è in flagranza di reato, di avere 20 grammi di hashish addosso, viene arrestato, ma dopo sei giorni muore mentre è nel carcere di un ospedale?), Sulla mia pelle è il primo film della Mostra di Venezia a fare discutere. Qui al festival. Ma lontano dal Lido, dove andrà? Uscirà il 12 settembre, su Netflix (venduto a 190 Paesi, e doppiato in inglese) e contemporaneamente, cosa che ha fatto arrabbiare gli esercenti, in una trentina di sale. “Molti hanno da subito rifiutato di prenderlo perché contrari alla logica della contemporaneità su altre piattaforme”, ha spiegato il produttore Andrea Occhipinti. E così è già servita anche la seconda polemica. E in questo caso non solo italiana. Ilaria Cucchi: “Salvini, il film su mio fratello lo dedico a te” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 agosto 2018 Sulla mia pelle ha aperto ieri la sezione Orizzonti della 75 ª Mostra del cinema: è il racconto degli ultimi drammatici giorni di vita di Stefano Cucchi, morto nove anni fa all’ospedale Pertini di Roma mentre era sotto la custodia dello Stato. Il film, che vede protagonisti Alessandro Borghi e Jasmine Trinca, per la prima volta in Italia uscirà contemporaneamente il 12 settembre sia in sala che su Netflix, disponibile in 190 Paesi del mondo. Come ha spiegato il regista Alessio Cremonini “Sulla mia pelle nasce dal desiderio di strappare Stefano alla drammatica fissità delle terribili foto che tutti noi conosciamo, quelle che lo ritraggono morto sul lettino autoptico, per ridargli vita, movimento, parola”. La giustizia dopo nove lunghissimi anni ancora non è riuscita a mettere un punto definitivo sull’intera vicenda. Ma la famiglia che ha soprattutto il volto della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, non ha mai smesso di cercare la verità sulla morte del ragazzo. Ilaria Cucchi, cosa pensa di questo film e quale funzione creda possa assumere? È un film molto attuale e assume una funzione importantissima soprattutto in questo momento in cui si vogliono convincere le persone che i diritti di qualcuno possano essere sacrificabili in nome di presunti interessi superiori, come se il nostro benessere fosse legato al sacrificio di queste persone e dei loro diritti. Serve affinché non cali mai il silenzio su questa drammatica vicenda e su realtà simili in cui si negano i diritti dell’essere umano. Non bisogna mai voltarsi dall’altra parte quando accadono certe cose. A chi dedica questo film? Oggi questo film lo dedico a Matteo Salvini (il vice premier disse che la sorella di Cucchi si sarebbe dovuta vergognare per aver pubblicato la foto del carabiniere indagato per la morte del fratello, ndr) e a tutti coloro che non hanno voluto vedere dietro quel volto, dietro Stefano Cucchi, un essere umano e che avrebbero voluto che di questa storia non se ne parlasse più. È in corso processo Cucchi Bis che vede accusati per omicidio preterintenzionale i tre agenti che lo arrestarono - Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco - oltre al maresciallo Mandolini per calunnia e falso e Nicolardi che, insieme a Tedesco, deve rispondere di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria precedentemente processati per la stessa vicenda e poi assolti. A che punto è il procedimento e che cosa si aspetta? Siamo in una fase completamente nuova, in una fase di verità, in un momento in cui dopo tanto tempo si parla delle cose per quelle che sono e per come sono andate, ossia di un violentissimo pestaggio nei confronti di mio fratello. Finalmente dopo anni e anni di battaglie siamo riusciti a far riconoscere che Stefano non era morto per cause naturali. Ogni nostro piccolo passi avanti, ogni nostra vittoria nelle aule giudiziarie e fuori, come nel caso di questo film, rappresentano un passo avanti per tanti altri, per coloro che hanno bisogno di continuare a credere che possa esistere una giustizia davvero giusta e uguale per tutti. Che giudizio dà dell’intera vicenda processuale? La storia di mio fratello è simile a tante altre vicende in cui la prima cosa che si tenta di fare un attimo dopo il verificarsi di queste tragedie è la spersonalizzazione dei morti, è la colpevolizzazione delle vittime. Con una nota il Sappe, il sindacato di Polizia Penitenziaria, ha replicato alle considerazioni espresse dall’editorialista del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, nell’articolo “Stefano Cucchi, un film ricorda una storia da non dimenticare”: ribadiscono che gli agenti di polizia penitenziaria sono stati assolti dalle accuse. Che idea si è fatta di questa polemica? Battista faceva un discorso molto più ampio rispetto a quello che sostiene Donato Capece del Sappe. Battista scrive di violazione dei diritti dei cittadini privati della libertà personale in stato di detenzione: ciò è intollerabile. Poi leggo che Capece esprime solidarietà a me e alla mia famiglia. Sinceramente tutta questa solidarietà non la vedo: lui insieme ad altri suoi colleghi è imputato per averci offeso. Tra le battaglie dell’Associazione Stefano Cucchi c’è quella contro la tortura. Esiste già una proposta per abolire il reato da poco introdotto. Tra i favorevoli Giorgia Meloni che vorrebbe eliminarlo per permettere alle forze dell’ordine di “svolgere meglio il proprio lavoro”. Come risponde? Giorgia Meloni, in qualche maniera, sta dicendo che per fare i poliziotti bisogna essere dei picchiatori. Stenderei dunque un velo sulle sue parole. Fermiamo i robot killer, prima che sia troppo tardi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 agosto 2018 È in corso in questi giorni a Ginevra la riunione del Gruppo di esperti sui sistemi autonomi d’arma letali, istituito dalla Convenzione sulle armi convenzionali. La riunione è un momento-chiave per affrontare le questioni e le minacce poste sul piano etico, di sicurezza e di diritti umani dall’uso di sistemi d’arma completamente autonomi. A partire dai droni, l’avanzamento della tecnologia nel campo degli armamenti rischia di rendere inadeguate le norme vigenti del diritto internazionale sui diritti umani. E ora che i robot killer non appartengono più al mondo della fantascienza, c’è da stare veramente attenti. In prospettiva, tali sistemi d’arma potrebbero essere usati non solo in scenari bellici ma anche in contesti di ordine pubblico. Già ora esistono droni in grado di lanciare dardi contenenti scariche elettriche, gas lacrimogeni e contenitori di sostanze urticanti. La maggior parte degli stati che fanno parte della Convenzione sulle armi convenzionali si è già espressa a favore dell’importanza di mantenere il controllo, dal punto di vista dei diritti umani, sui sistemi d’arma autonomi e di adeguare in questo senso il diritto internazionale. Ventisei paesi hanno chiesto l’introduzione di un bando totale. La Cina ha chiesto l’adozione di un nuovo protocollo alla Convenzione che proibisca l’uso di sistemi d’arma completamente autonomi. Ma i paesi che si oppongono, molti dei quali hanno già sviluppato sistemi del genere, non sono di scarso peso: parliamo, tra gli altri, di Usa, Regno Unito, Russia, Francia e Israele. Amnesty International chiede che siano sviluppati standard legali vincolanti per assicurare che i diritti umani siano al centro delle cosiddette “funzioni-chiave” dei sistemi d’arma autonomi già esistenti, come i droni: identificazione, selezione e ingaggio del e col bersaglio. Quanto ai robot killer, le organizzazioni per i diritti umani riunite in un’apposita campagna (per l’Italia ne fanno parte, tra le altre, Amnesty International e Rete italiana per il disarmo) chiedono un bando totale su sviluppo, produzione e uso. I rischi insiti nel lasciare a una macchina la decisione su chi prendere di mira e colpire con forza letale sono inaccettabilmente alti. Migranti. Il grido degli schiavi in Libia: “salvateci” Marina Pupella Avvenire, 30 agosto 2018 “Venite a tirarci fuori, vogliamo tornare a casa, siamo qui a Zawiya, stiamo morendo ogni giorno. Oggi ne sono morti due, siamo rinchiusi in questa prigione e usati come schiavi a lavorare”. È un grido di dolore, l’appello rivolto attraverso un video al governo nigeriano, alle Nazioni Unite e all’Europa, fatto girare tramite Whatsapp da un gruppo di nigeriani, imprigionati in un luogo di detenzione nella cittadina situata nella costa nord-occidentale della Libia. Una richiesta di aiuto per uscire dall’inferno libico e tornare nei propri Paesi d’origine, cui si aggiungono centinaia di messaggi e commenti di giovani migranti pubblicati negli ultimi due mesi sulla pagina Facebook del documentario Reserve slaves (Schiavi di riserva), creata dal regista italiano Michelangelo Severgnini. Ragazzi e ragazze, di età compresa fra i 18 e i 25 anni, che sopravvivono nei quartieri ghetto di Tripoli, Khomis, Sorman, Zuwara, dove si rintanano i migranti di colore, molti dei quali in Libia erano arrivati anni fa per lavorare, costretti ora a sfuggire alle milizie locali che gestiscono le prigioni della zona. Vite in balia dell’orrore, storie più volte documentate da Avvenire nei suoi reportage e nelle sue inchieste. “I ghetti, dove si ritrovano i neri per proteggersi dalle violenze dei libici (e mi riferisco anche ad adolescenti armati che li spogliano di tutto se li incontrano per strada) - spiega Severgnini - funzionano come serbatoi di schiavi per le milizie irregolari, che all’occorrenza effettuano retate prelevando con la forza la manodopera di cui hanno bisogno per i lavori nei campi, la costruzione di edifici e strade”. La schiavitù in Tripolitania non è episodio, “ma è diventata sistema di produzione, perché - continua - anche quei rari guadagni che riescono ad ottenere i migranti attraverso l’impiego in aziende locali, non possono essere spediti a casa dato che in Libia i pochi istituti di credito del territorio non ne consentono l’invio all’estero. Al tempo stesso, numerosi sono i casi di datori di lavoro che si sono riappropriati dei soldi con un’arma in mano, buttando per strada il migrante sfruttato”. Quando possono attraverso internet questi giovani stanno offrendo una descrizione della loro non-vita nel Paese nordafricano, di certo un porto non sicuro, arrivando persino a fare i nomi dei loro carnefici e a supplicare i loro governanti di riportarli in patria. A.A., un giovane nigeriano di cui riportiamo solo le iniziali del nome per tutelarne l’incolumità, in un messaggio vocale spedito l’11 agosto scorso, racconta: “Ho attraversato il Sahara, con la speranza di arrivare in Europa, ma quando sono arrivato qui la storia è cambiata in un modo che non mi aspettavo. Ragazze vendute come schiave del sesso e ragazzi obbligati a lavorare sotto la minaccia delle armi nelle fattorie. Se ti rifiuti ti sparano alle gambe o ti fanno secco. Qualche volta riesci a imbarcarti, ma poi vieni ripreso e riportato in prigione, soltanto se paghi di più Oussama (è il nominativo di un ghanese, fatto da diversi migranti che sostengono appartenga a una organizzazione internazionale, ndr) ti promette di prendere una barca più sicura che eluderà i controlli della guardia costiera. Le nostre famiglie si indebitano, vendono case e proprietà per riscattarci dalle reti di schiavisti, che riscuotono il denaro prelevandolo direttamente nelle nostre città attraverso i loro complici”. Al forte desiderio di tornare a casa si contrappone però l’onta di aver rovinato la propria famiglia e di tornare a mani vuote. L’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) ha calcolato che nei primi sei mesi dell’anno sono stati 8.938 i rimpatri di persone provenienti da 30 Paesi dell’Africa e dell’Asia, un numero estremamente esiguo rispetto alle 700mila presenze, stimate in Libia dall’Organizzazione nel novembre 2017. Torture in Libia: giallo sulle foto viste dal Papa di Luca Romano Il Giornale, 30 agosto 2018 Papa Francesco aveva voluto vedere le immagini delle torture nei lager libici. Ma sulle immagini pubblicate sorgono alcuni dubbi. Da giorni non si fa che parlare di quella fotografia: un uomo a petto nudo legato ad una corda. È l’immagine simbolo delle violenze nelle carceri libiche che papa Francesco ha voluto vedere per denunciare gli abusi subiti dai migranti. Nei lager libici i trafficanti torturano le loro vittime per estorcere ulteriore denaro alle famiglie di origine. Il papa, come rivelato nei giorni scorsi da Avvenire che aveva pubblicato anche due fermo immagine, aveva voluto prendere visione dei video, per poi invitare tutti a “pensarci bene” prima di rispedire in Libia gli immigrati approdati coi barconi in Europa. Il fatto è che queste due immagini, come riporta l’Agi, già comparivano in un articolo di Snopes, portale che si occupa di fact-checking. Le fotografie risalirebbero al 24 novembre del 2017 e sono state pubblicate su Facebook da un utente, Rayon Pyne. Bene. Secondo Snopes, di quelle sette immagini ben cinque non riguardano il traffico di migranti in Libia. Per quanto riguarda i due fermo immagine pubblicati da Avvenire, invece, - scrive l’Agi - “non si riesce a risalire alla fonte e quindi a dare un’indicazione certa su dove è stata scattata e quando”. Non che non esistano torture in quei campi libici. In particolare in quelli non ufficiali del governo, come sottolineato da Matteo Salvini. Il fatto è che, spiega l’Agi, “per la foto dell’uomo di colore a petto nudo e legato, Snopes non è riuscito a individuare la fonte originale”. L’immagine è apparsa più volte qua e là su qualche sito, attribuita anche ad alcuni fotografi come Alessio Romenzi, “ma non sono state trovate prove a conferma”. Per quanto riguarda la fotografia con tre uomini legati a testa in giù per i piedi, il sito non è riuscito a trovare una fonte attendibile o l’origine dello scatto. “La prima apparizione - spiega l’Agi - risalirebbe al 25 ottobre 2017 in un sito nigeriano: citando un utente Facebook, si sostiene che gli uomini siano stati attaccati da alcuni giovani dopo aver commesso un non meglio precisato crimine”. Bisogna anche dire che Avvenire, che ha pubblicato per prima quegli scatti in Italia, ha scritto che papa Franesco “ha voluto che gli venissero mostrati quei video dei lager libici arrivati attraverso il tam tam degli smartphone”. E poi ha specificato che “una Procura della Repubblica ha richiesto e acquisito, il 28 agosto, i video dei lager libici mostrati a papa Francesco di cui Avvenire ha dato notizia. I reportage del nostro giornale sui centri in Libia sono stati acquisiti dalla Corte Internazionale di giustizia dell’Aja”. Libia. Altro che fake: i filmati delle torture ai migranti sono veri Nello Scavo Avvenire, 30 agosto 2018 Pochissimi li hanno visti eppure alcuni hanno deciso che sono falsi sulla scorta di un lavoro di fact checking su alcune foto. Noi abbiamo sbagliato due didascalie ma i video sono veri. Ci sono due filmati con orribili torture che pochissimi hanno visto ma che tanti hanno già deciso essere falsi. Eppure chi li ha visti, non ha dubbi: contengono immagini orrende e con protagonisti profughi. Lo si capisce da alcuni riferimenti chiari che rimandano a centri di detenzione libici. Sono quindi impubblicabili per le regole morali e deontologiche della professione giornalistica e per la nostra coscienza di cristiani. Ma allora, perché tanti hanno deciso che sono falsi? Tutto nasce da due foto da noi usate per illustrare l’articolo che raccontava di questi filmati mostrati al Papa, consegnati al medico di Lampedusa Pietro Bartolo (responsabile delle prime visite a tutti i migranti che sbarcano a Lampedusa) da alcuni richiedenti asilo. Il dottore li ha dati al cardinale Montenegro, presidente della Caritas, il quale li ha portati a papa Francesco. Nel creare la didascalia delle foto abbiamo erroneamente scritto che erano frame tratti dai filmati. Invece si tratta di foto, anche queste consegnate da alcuni richiedenti asilo. Cosa di cui ovviamente ci scusiamo. Ma i filmati esistono, sono drammatici e sono stati consegnati alla magistratura inquirente. Ed è di questi che parla il nostro articolo. Detto questo, però, restiamo alle critiche che ci sono state mosse per le foto. Il sito americano di fact checking Snopes aveva già analizzato queste e altre foto nel 2017. Esattamente un pacchetto di 7 fotografie, arrivando alla conclusione “che cinque non riguardano la tratta di esseri umani in Libia” e di due “non si riesce a risalire alla fonte e quindi a dare un’indicazione certa su dove sono state scattate e quando”. Sono proprio queste ultime due, quelle usate da Avvenire. Di quelle non attribuibili al commercio di schiavi in Libia sulle nostre pagine non c’è traccia. L’analisi di Snopes parte dalle foto pubblicate su Facebook il 24 novembre 2017 da un utente, Rayon Pyne, che denunciava l’indifferenza di fronte al “commercio di schiavi attualmente in corso in Libia”. Nei mesi precedenti, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) aveva rivelato l’esistenza di mercati per la vendita di schiavi in Libia e Niger; una notizia successivamente confermata dalla Cnn, che aveva mostrato un filmato con le aste in cui i migranti venivano acquistati e venduti tra indicibili sofferenze e torture. Torniamo alle due foto pubblicate da Avvenire. Per la foto dell’uomo di colore a petto nudo e legato, Snopes non è riuscito a individuare la fonte originale. Scrive il sito americano di fact checking “l’immagine è apparsa nel blog italiano Social Popular News due volte tra febbraio e marzo 2017, mentre ad agosto è stata postata nel blog Milano in Movimento che l’accreditava al fotografo italiano Alessio Romenzi, ma non sono state trovate prove a conferma”. La seconda immagine da noi mostrata è quella di tre uomini seminudi, legati ai piedi e appesi a testa in giù contro un muro. Neanche di questa il sito è riuscito a individuare con precisione l’origine. “La prima apparizione risalirebbe al 25 ottobre 2017 in un sito nigeriano: citando un utente Facebook, si sostiene che gli uomini siano stati attaccati da alcuni giovani dopo aver commesso un non meglio precisato crimine”. Quindi? Quindi è partita la contraerea. Siccome le due foto non sono riconducili con certezza alla tratta dei migranti in Libia, allora tutto è falso. I filmati (che, ripetiamo, pochissimi hanno visto) sono “falsi” e così via col solito armamentario di offese e di ironie. Meglio ribadirlo: sono state sbagliate due didascalie. Purtroppo succede di sbagliare anche a chi cerca di lavorare sempre col massimo dello scrupolo e facendo tutte le verifiche. Per la cronaca: alcuni giornalisti e blogger che stanno attaccando Avvenire sono stati invitati a visionare quei filmati, per rendersi conto di persona della gravità di ciò che contengono. Sinora non se la sono sentita di venire a vederli. Una procura della Repubblica ha invece richiesto e acquisito i video dei lager libici mostrati al Papa e di cui Francesco aveva parlato in aereo durante il viaggio di ritorno da Dublino, a seguito dell’Incontro mondiale delle famiglie. “Ho visto un filmato in cui si vede cosa succede a coloro che sono mandati indietro. Sono ripresi i trafficanti, le torture più sofisticate. Prima di rimandarli in Libia bisogna pensarci bene”. I reportage del nostro giornale del 2017 e del 2018 sui centri in Libia sono stati invece acquisiti dalla Corte Internazionale di giustizia dell’Aja. Libia. I torturatori li paghiamo noi? di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 30 agosto 2018 Forse non è ben chiaro a tutti quale sia la portata delle responsabilità italiane. Non siamo responsabili di non aver fatto nulla pur sapendo dei lager libici e delle atrocità che vi si commettono: siamo responsabili di averli finanziati. Abbiamo comprato la diminuzione degli sbarchi remunerando le attività della guardia costiera, delle milizie e delle tribù libiche, vale a dire il sistematico rastrellamento di decine di migliaia di persone da costringere in quei campi di raccolta. E lo abbiamo fatto menandone vanto in modo doppiamente cinico e cioè prima chiudendo gli occhi davanti alla verità manifesta dei soprusi, delle violenze, delle torture che avevano normale corso in quel carnaio, e poi con l’oltraggio supplementare di impugnare qui a casa nostra il bel risultato statistico degli sbarchi diminuiti agitandolo in faccia a un elettorato molto ben disposto a considerare accettabile che la politica del “rigore” si fondasse su quei presupposti e comportasse un simile prezzo. Già se ci fossimo limitati a girare la faccia dall’altra parte saremmo gravemente colpevoli: ma abbiamo fatto di peggio. Abbiamo rivendicato la bontà di quella politica, l’efficacia di quelle scelte, l’opportunità di quegli accordi, spiegando che altrimenti sarebbe stata a rischio la tenuta democratica del Paese. Che è un modo elegante per dire che l’ordine sociale italiano val bene l’impianto e il mantenimento di campi di concentramento a un tiro di schioppo da noi. A chi reclamava la necessità di “rimandare in Libia” la gente che tentava di approdare sulle coste italiane, nessuno replicava che l’operazione si sarebbe risolta puramente e semplicemente nel rimandarli alla tortura e cioè esattamente nella situazione che avrebbe giustificato l’attivazione delle procedure per l’accoglienza in Italia. E nessuno replicava in questo modo perché in questo modo sarebbe stato intollerabilmente evidente il peso delle nostre responsabilità: tenere e respingere laggiù una quantità di esseri umani che costituivano la materia passiva dei nostri esperimenti di gestione dei flussi. Insomma, avremmo dovuto ammettere la necessità di proteggere i migranti da un meccanismo messo in moto e ben oliato da noi stessi. Parlo di responsabilità “italiane”, senza discrimine negli avvicendamenti di maggioranza e governativi, perché quel che è successo e continua a succedere dovrebbe costituire un patrimonio comune di vergogna e, appunto, di responsabilità. Invece non se ne sta facendo carico nessuno, e ancora una volta si assiste alla comune indifferenza davanti a un’edizione solo aggiornata dell’ennesimo scempio di ogni diritto. C’è però un fatto che fa la differenza, in questo caso, ed è quel che si diceva all’inizio: lo stipendio ai torturatori siamo noi a pagarlo. Egitto. Di Maio incontra Al-Sisi, critiche per il caso Regeni Corriere della Sera, 30 agosto 2018 Il vice premier: “Per il presidente egiziano Regeni “è uno di noi”“. La replica di Amnesty: “Parole offensive, Lui presiede un sistema repressivo che ha avuto Giulio (e tantissimi altri) vittime”. Negli ultimi 40 giorni tre ministri italiani hanno visitato l’Egitto. L’ultimo, dopo Matteo Salvini e Enzo Moavero Milanesi, è stato il vicepremier Luigi di Maio che ieri, dopo un incontro con il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, ha auspicato “una svolta entro la fine dell’anno” sull’omicidio di Giulio Regeni, trovato morto al Cairo il 3 febbraio del 2016. Sembra ormai appartenere al passato la tensione tra i due Paesi che aveva portato il governo Renzi a richiamare l’ambasciatore italiano in Egitto nell’aprile 2016 proprio a causa dei silenzi sull’uccisione del giovane ricercatore dell’Università di Cambridge. Una decisione che poi era stata ribaltata nell’agosto del 2017 quando il governo Gentiloni decise di far insediare al Cairo l’ambasciatore Giampaolo Cantini. Eppure, nonostante i progressi nelle relazioni, di passi avanti nell’inchiesta non ne sono stati fatti. L’ultima delusione per gli investigatori italiani è arrivata dai fotogrammi faticosamente recuperati dalle registrazioni delle telecamere a circuito chiuso nelle 53 stazioni della metropolitana de Il Cairo il giorno della scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016. Purtroppo nei filmati ci sono dei “buchi” che riguardano proprio gli orari di interesse investigativo. Tuttavia il ministro del Lavoro Luigi Di Maio è convinto che il governo egiziano abbia buone intenzioni: “Il colloquio con Al Sisi è iniziato con lui che ha parlato di Giulio Regeni: quindi devo dire che si condivide la priorità, che è quella della verità su Giulio, e noi cercheremo di accertarla con la collaborazione fra la Procure e con la moral suasion diplomatica”. Durante la conferenza stampa a Il Cairo il vicepremier ha inviato “un caro saluto alla famiglia di Giulio Regeni” aggiungendo che il presidente egiziano ha definito il ricercatore “uno di noi”. I Regeni, che da tempo accusano le forze di sicurezza egiziane di complicità nell’omicidio, hanno risposto con il silenzio: “Abbiamo sentito le parole di Di Maio, ma preferiamo non rilasciare alcun commento”, ha detto la mamma Paola Deffendi. A parlare è Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Le parole di al-Sisi sono offensive e inaccettabili. Lui presiede un sistema repressivo che ha avuto Giulio (e tantissimi altri) vittime. Altro che “uno di noi”. Per arrivare alla verità ci vorrebbero maggiori pressioni delle autorità italiane: “L’Italia deve premere di più - aggiunge. Non basta fare il nome di Giulio e poi affidarsi al futuro, nel frattempo sincerandosi che i rapporti con l’Egitto non siano mai compromessi”. Una linea condivisa da Nicola Fratoianni di Liberi e Uguali: “Non è sufficiente tutto ciò che è accaduto, depistaggi inclusi, per decidere di essere più duri, anche dal punto di vista economico e commerciale con l’Egitto?”. Al contrario Di Maio ieri ha sostenuto che le relazioni tra Roma e Il Cairo vanno rinsaldate lodando la presenza di Eni che è rimasta “anche nel periodo più difficile” diventando “una realtà importantissima”. Un entusiasmo che stride con la battaglia dei 5 Stelle contro gli idrocarburi e il gasdotto Tap. Yemen. Onu: “tutte le parti hanno commesso crimini di guerra” Dire, 30 agosto 2018 In un rapporto di 41 pagine redatto da un gruppo di esperti incaricati dall’Ufficio per i diritti umani (Ohchr), le Nazioni Unite puntano il dito contro la coalizione militare a guida saudita e i ribelli houthi, sostenendo che le violazioni contro la popolazione civile dello Yemen esaminati possono inquadrarsi come crimini di guerra. Data tale situazione, secondo gli esperti a carico “degli esponenti degli esponenti del governo yemenita e della coalizione - inclusa l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti - e delle autorità de facto” dovrebbe essere avviata un’inchiesta “da parte di un tribunale indipendente e competente”. Nel report vengono fornite descrizioni della situazione umanitaria nel Paese da settembre 2014 - sei mesi prima dell’ingresso della coalizione internazionale nel conflitto - a giugno 2018. In particolare sono state osservate “violazioni e abusi dei diritti umani, del diritto internazionale umanitario e del diritto penale internazionale commessi dalle parti in conflitto”. Il rapporto, si legge nel testo, “identifica anche aree significative in cui potrebbero essere state commesse violazioni e abusi, ma sono necessarie ulteriori indagini”. L’agenzia Onu calcola che “dal marzo 2015 fino al 23 agosto 2018, 6.660 civili sono stati uccisi e 10.563 feriti. Tuttavia, è probabile che le cifre reali siano significativamente più alte”. Il rapporto Ohchr osserva che “gli attacchi aerei della coalizione hanno causato la maggior parte delle vittime civili dirette. I raid aerei hanno colpito aree residenziali, mercati, funerali, matrimoni, strutture di detenzione, imbarcazioni civili e persino strutture mediche”. I funzionari Onu avrebbero “ragionevoli motivi per ritenere che esponenti yemeniti di governo e la coalizione possano aver condotto attacchi in violazione dei principi di distinzione, proporzionalità e precauzione che possono ammontare a crimini di guerra”. “Esistono poche prove di qualsiasi tentativo da parte delle parti in conflitto di ridurre al minimo le vittime civili. Li invito a dare priorità alla dignità umana in questo conflitto dimenticato”, ha affermato Kamel Jendoubi, presidente del Gruppo di esperti per lo Yemen. Quindi si denunciano le “severe restrizioni navali e aeree” imposte dalla coalizione “a vari livelli, da marzo 2015”. Ci sarebbero “fondati motivi” per ritenere che queste azioni “costituiscano una violazione della regola di proporzionalità del diritto internazionale umanitario. Inoltre, la chiusura effettiva dell’aeroporto di Sana’a è una violazione della protezione del diritto umanitario per gli ammalati e i feriti. Tali atti, insieme con l’intento richiesto, possono ammontare a crimini internazionali”. Denunciati infine casi di arresti arbitrari “in tutto il Paese”, torture e maltrattamenti “in alcune strutture”. “Nella maggior parte dei casi, i detenuti non sono stati informati delle ragioni del loro arresto” ed è stato negato loro “l’incontro con l’avvocato o il giudice”. Alcuni detenuti “risultano scomparsi”. Raccolte poi testimonianze di “abusi e violenze sessuali contro gli sfollati, i migranti e altri gruppi vulnerabili”. “Gli esperti hanno ricevuto informazioni secondo cui il governo dello Yemen, le forze sostenute dalla coalizione e le forze di Houthi-Saleh hanno arruolato bambini e adolescenti nelle forze armate o nei gruppi e li hanno utilizzati per partecipare attivamente alle ostilità. Nella maggior parte dei casi, i bambini avevano tra gli 11 e i 17 anni, ma ci sono state segnalazioni affidabili circa l’uso di bambini di otto anni”.