Riforma delle carceri, il Governo punta a tagliare i tempi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede stringe sull’ordinamento penitenziario. Il decreto, che attua la delega contenuta nella legge 103 del 2017, è atteso già oggi al Consiglio dei ministri. Una riforma per mettere una legge, datata 1975, in linea con gli orientamenti della Consulta, della Cassazione e delle Corti europee, riducendo il ricorso al carcere, valorizzando la finalità rieducativa della pena e tagliando tempi e costi dei procedimenti. Ma rivedere il sistema carcere non è la sola priorità del Guardasigilli, che indica tra gli obiettivi del suo ministero la lotta alla corruzione e rapidi interventi “chirurgici” sul processo civile da portare a termine entro fine settembre. Un’agenda che Alfonso Bonafede ha illustrato ai rappresentanti di 18 associazioni forensi ricevuti ieri a via Arenula. L’incontro interlocutorio ha dato modo alle varie “anime” dell’avvocatura di mettere sul tavolo richieste e perplessità. Per il presidente dei penalisti Beniamino Migliucci servono più misure deflattive, meno carcere, e uno stop all’ipotesi di aumento delle pene, contenuta nel contratto di governo. Avvocati penalisti contrari anche all’idea di “dilatare” la prescrizione. “Abbiamo espresso al ministro la nostra contarietà all’ipotesi di allungare i tempi di prescrizione o bloccarla dopo il primo grado. Si rischierebbe di fermare gli “orologi” anche per sei o sette anni”. Netta anche la richiesta di evitare che i tempi delle indagini sforino i due anni previsti dal Codice. “Non si può pensare di paralizzare la vita di un imputato in un sistema in cui un processo per bancarotta può durare 18 anni e nove mesi”. Sul tappeto anche le proposte e i dubbi dei civilisti, espressi dalla presidente Laura Iannotta. “Condividiamo con il governo la tesi degli interventi mirati sul processo civile - spiega Iannotta - ma siamo fermamente contrari all’idea di eliminare l’atto di citazione usando in tutti i casi il ricorso come atto introduttivo”. Interventi sul Codice di rito civile che dovrebbero essere ultimati entro fine settembre. “Il ministro dovrebbe inviarci una bozza - dice Laura Iannotta - noi abbiamo consegnato le nostre “indicazioni”, e siamo soddisfatti e fiduciosi che la collaborazione continui”. Il presidente dell’Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi, Antonio Damascelli, ha messo sul tavolo del ministro il tema del contenzioso tributario che impegna la Cassazione, per il 50% dei ricorsi civili con un valore di 23 miliardi di euro per gli anni 2012-2016. Tra le ragioni la scarsa qualità delle sentenze di merito: l’aspettativa continua di “condoni”. Per Damascelli, sarebbe opportuna anche l’istituzione di una sezione bis in Cassazione. Condivisa da tutti la richiesta di una rapida approvazione del nuovo decreto “specializzazioni”. Per il ministro Bonafede si è trattato di un incontro proficuo “Da quando sono entrato al ministero ho deciso di far seguito al metodo del Movimento 5 stelle di ascolto e condivisione. E così è stato con gli avvocati, come con gli assistenti giudiziari, con i quali è iniziato un bel percorso di collaborazione a cui dare seguito”. La Garante dell’infanzia: “no al divieto di misure alternative per i minori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2018 Filomena Albano auspica che si adottino norme che tengano conto della giovane età dei detenuti. “Si dovrebbero rimuovere dal testo in discussione le norme che ostacolano l’accesso dei minorenni autori di reato alle misure esterne”. A dirlo è la Garante dell’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano. Si riferisce al decreto legislativo, attualmente in esame alle commissioni giustizia delle Camere, in merito all’ordinamento penitenziario minorile e, in particolar modo, al 4bis che ostacola l’accesso alle misure alternative per alcune tipologie di reato. La Garante sottolinea che “ogni ragazzo è infatti una storia a sé che va valutata caso per caso. L’accesso a misure di comunità, ai permessi premio e al lavoro esterno deve poter prescindere dalla tipologia di reato e dall’entità della condanna. Se il giudice può dare una possibilità in più ai ragazzi, perché essi possano cambiare, è nostro dovere renderlo possibile”. Filomena Albano quindi auspica che l’Italia adotti norme per l’esecuzione della pena nei confronti di condannati minorenni che tengano conto della loro giovane età e della loro personalità in formazione. Tra le richieste della Garante ai presidenti e ai componenti delle commissioni e ai relatori anche quella di inserire nella riforma dell’ordinamento penitenziario minorile la facoltà di accesso da parte dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza negli istituti penali per minorenni, nelle comunità e nei centri diurni senza preventiva autorizzazione. Auspicato anche il via libera definitivo al decreto che introduce nell’ordinamento italiano la giustizia riparativa e la mediazione penale tra reo e vittima. “È tra i compiti istituzionali dell’Autorità favorire lo sviluppo della cultura della mediazione”, sottolinea Albano. Per quanto riguarda il decreto legislativo riguardante l’esecuzione penale minorile, come già riportato da Il Dubbio, è stato rintrodotto il 4bis anche nei confronti dei minorenni, rendendo, di fatto, più stringente l’accesso ai benefici. Nel testo elaborato dalle commissioni volute dal ministro della Giustizia precedente, per i detenuti minorenni era escluso qualunque sbarramento all’accesso ai benefici. Ma lo schema di decreto trasmesso il 24 aprile scorso dal governo precedente alle Camere, è comparso il 4bis, andando, di fatto, in direzione opposta ai principi e criteri direttivi contenuti nella delega del governo. È al punto 5 lettera p) che si indica, in tema di esecuzione della pena nel processo minorile, come principio di riferimento, “l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative”, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori all’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà. Ecco perché, come ha osservato il Garante nazionale Mauro Palma attraverso un parere richiesto dalla commissione giustizia, la previsione dell’articolo che prevede il 4bis, può “essere facilmente letta come contraria alla delega”. Nel frattempo è in corso lo sprint finale per l’approvazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario in merito alla vita detentiva, il lavoro penitenziario, l’ordinamento minorile e la giustizia riparativa. Domani scade il termine per esercitare la delega da parte dall’attuale governo e, quindi, teoricamente oggi è il penultimo giorno da parte delle commissioni per inviare lo schema di parere, non ostativo, al consiglio dei ministri che si dovrà poi riunire per l’approvazione finale. Oggi, infatti, i decreti saranno esaminati da entrambe le commissioni. Ricordiamo che l’impianto principale della riforma, ovvero quello che avrebbe modificato il 4bis, allargato l’affidamento in prova e riformata l’assistenza sanitaria, è stato definitivamente accantonato. Nelle carceri italiane, l’ordinaria emergenza di Valter Vecellio lindro.it, 2 agosto 2018 Continuano le tragiche, definitive "evasioni". Il 33,4 per cento di detenuti è in attesa del primo processo. Neppure un paio di righe, un “riempitivo” di fondo pagina. Muore, nell’ospedale di Belcolle a Viterbo, dopo una settimana di coma, un detenuto di 21; sette giorni fa il giovane aveva tentato di uccidersi. Doveva scontare, ancora, solo 40 giorni di pena, racconta il garante per i detenuti del Lazio Stefano Anastasia; si è impiccato un’ora dopo essere stato posto in isolamento. È l’ennesima "evasione definitiva", come con macabro umorismo, nelle comunità penitenziarie, vengono chiamati i suicidi dei detenuti che in preda di insondabili disperazioni decidono di farla finita. Prima di Viterbo, i casi di Poggioreale, a Napoli: un detenuto, una condanna in primo grado che avrebbe finito di scontare fra sei anni, piuttosto che attendere l’esito dell’appello, si è impiccato; episodio analogo, stesso carcere, qualche giorno prima. Le cifre ufficiali sono inquietanti. Dal 1992 al 2017 i detenuti suicidi sono oltre 1.300: in media uno la settimana; e sono solo quelli morti in carcere. Non sono compresi i detenuti trovati agonizzanti, e che muoiono in ospedale. Uno dei sindacati della polizia penitenziaria, il Sappe, fornisce altre cifre che fanno pensare. Il solo primo semestre del 2018 registra 5.157 atti di autolesionismo in carcere, 24 suicidi, 585 tentati suicidi sventati dal personale di polizia penitenziaria. Una situazione da codice rosso. Pensate: i sindacati della polizia penitenzia rivelano che tra il 2013 e il 2017 il mal di vivere, ha colpito anche 35 agenti; sintomo, commentano, di condizione di vita e di lavoro allo stremo delle possibilità. Sono 58.759 i detenuti nelle carceri italiane, 672 in più negli ultimi cinque mesi. È il bilancio dell’Associazione Antigone che pubblica un aggiornamento sulle condizioni di detenzione nella prima metà dell’anno. Dai numeri emerge che ci sono 8.127 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: al sovraffollamento, sottolinea Antigone, non si risponde con nuove costruzioni, ma “diversificando il sistema sanzionatorio e non puntando solo sul carcere quale unica pena”. Il 33,4 per cento dei detenuti è in custodia cautelare. Di questi la metà, non ha avuto neanche un primo provvedimento di condanna. 21.807 i detenuti che devono scontare una pena inferiore ai 3 anni e che potrebbero, almeno in parte, beneficiare di una misura alternativa alla detenzione. Dal 2008 ad oggi, a fronte del raddoppio della presenza di stranieri in Italia (da 3 a 6 milioni tra regolari e irregolari), quelli detenuti sono calati da 21.562 a 19.868. “Non c’è un’emergenza stranieri” sostengono i curatori del rapporto, “e non c’è un’emergenza sicurezza connessa agli stranieri”. Gli stranieri sono comunque il 33,8 per cento del totale dei detenuti e quelli non europei sono 13.490, il 22,9 per cento. In numerose carceri si riscontrano carenze per adeguate condizioni di vita del detenuto. Nel 33 per cento, si legge nel rapporto, non funziona a norma il riscaldamento d’inverno e nel 26,7 per cento dei casi non vi è acqua calda in alcune celle. Nel 63,3 per cento delle carceri ci sono celle senza doccia, al contrario di quanto prevede la legge; nel 53,3 per cento vi sono celle in cui le finestre presentano schermature che riducono l’ingresso di aria luce naturale. Nel 75,9 per cento dei casi mancano luoghi di culto per i detenuti non cattolici, mentre “la radicalizzazione”, osserva Antigone, “si combatte riconoscendo i diritti religiosi”. Della serie: “notizie” di cui nessuno parla. È in corso la raccolta di firme per otto propose di legge di iniziativa popolare. Occorre raccogliere, in sei mesi, almeno 50mila firme autenticate. Il Partito Radicale propone otto leggi che intendono essere altrettanti strumenti e proposte concrete per rendere più “giusta” la Giustizia italiana. I titoli, in sintesi: Modifica dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. L’amnistia e l’indulto sono necessari per riportare l’Italia nella legalità della sua Costituzione e davanti all’Europa. Il quorum di 2/3 del Parlamento dal 1992 rende impossibili questi provvedimenti. Revisione del sistema delle misure di prevenzione e delle informazioni interdittive antimafia di cui al D.lgs. n. 159 del 6 settembre 2011. Per impedire le infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema economico senza distruggerlo, per salvaguardare la continuità aziendale e i posti di lavoro, per prevenire il crimine senza distruggere le vite delle persone, per combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani fondamentali. Abolizione della possibilità di assunzione di incarichi extragiudiziari da parte dei magistrati. Per impedire ai magistrati di assumere incarichi incompatibili con l’esercizio efficiente e imparziale delle loro funzioni principali e ordinarie, ovvero quello di amministrare la giustizia “in nome del popolo italiano”. Introduzione del sistema elettorale uninominale per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Elezione del parlamento italiano con il sistema elettorale uninominale secco come quello anglosassone: piccoli collegi per assicurare la relazione tra l’eletto e il territorio; chi prende più voti è eletto. Disposizioni in materia di libertà e diritto di informazione e di servizio pubblico radiotelevisivo. Il servizio radiotelevisivo pubblico assicura il diritto alla conoscenza dei cittadini. Cancellazione del monopolio della Rai e sua messa all’asta con gare distinte nazionali e locali, anche per rilancio emittenza locale. Effettiva privatizzazione della RAI e abolizione della Commissione parlamentare di Vigilanza. Revisione delle procedure di scioglimento dei Comuni per mafia previste dal T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al D.lgs. n.267/2000. Per favorire una sana partecipazione popolare alla vita amministrativa delle comunità quale unico antidoto al controllo mafioso sui comuni, per sbarrare davvero le porte dei nostri comuni alle mafie, per una efficace politica antimafia. Riforma del sistema di ergastolo ostativo, del regime del 4bis e abolizione dell’isolamento diurno. Come diceva Leonardo Sciascia, la mafia non si combatte con la terribilità delle pene, ma con il diritto. E l’art. 27 della nostra Costituzione afferma che la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Riforma del sistema elettorale per l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo. Elezione del Parlamento europeo con un collegio unico nazionale con sistema proporzionale puro per garantire la rappresentanza di tutte le forze politiche e un dibattito nazionale sulle istituzioni e europee. Si può firmare nei tavoli allestiti dal Partito Radicale o presso le segreterie comunali. L’ergastolo ostativo, Sisifo e il mito della collaborazione di Daniel Monni agoravox.it, 2 agosto 2018 “Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza”. Sisifo è l’eroe assurdo: è condannato dagli dei a spingere un masso sulla cima di un monte che, ogniqualvolta raggiunge la vetta, precipita nuovamente verso il fondo. Il suo è “l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopra per nulla condurre al termine […]. Questo mito è tragico perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, a ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire?. Il mito di Sisifo sembra rivivere, oggi, in un certo “diritto penale” e, più precisamente, avendo riguardo all’ergastolo ostativo. L’imbuto dell’art. 4bis della l. 354 del 1975 è, infatti, chiaro nel ribadire che i benefici “possono essere concessi ai detenuti e internati [per i delitti indicati in tale articolo] solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58ter [della stessa legge]”. La collaborazione con la giustizia e l’insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata sono divenuti, in sostanza, l’olio utilizzati per “salvare” gli ingranaggi d’uno scricchiolante ergastolo ostativo. La questione di legittimità costituzionale di tale pena a vita è stata, infatti, “dichiarata infondata proprio sul rilievo che in caso di provato ravvedimento il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale anche per i cosiddetti reati ostativi, in relazione ai quali la collaborazione e la perdita di legami con il contesto di criminalità organizzata da cui era scaturito il reato non sono che indici legali di tale sicuro ravvedimento”. Il ravvedimento passerebbe, dunque, anche e, soprattutto, attraverso la collaborazione con la giustizia. Se tutto questo è vero, e lo è, allora il concetto di “collaborazione” diviene importantissimo, perché si palesa come la presunta ancora di salvataggio dell’ordinamento idonea a legittimare o meno la pena dell’ergastolo ostativo. Può, tuttavia, la collaborazione con la giustizia assurgere al rango di indice legale del ravvedimento del reo? L’art. 4bis, invero, ha subito numerose modifiche avendo riguardo alla collaborazione: si pensi alla sentenza 357 del 1994 nella quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale articolo nella parte in cui non prevedeva che “i benefici di ci al primo periodo del medesimo comma possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”, oppure alla pronuncia 68 del 1995 che riteneva “doveroso pervenire alle medesime conclusioni, proprio per l’identità di ratio […] anche nel caso in cui la collaborazione sia impossibile perché i fatti e le responsabilità risultino ormai integralmente accertati nella sentenza irrevocabile”. La Corte Costituzionale, in sostanza, ritiene che “collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile […] finiscano per saldarsi all’interno di un quadro unitario di collaborazione oggettivamente inesigibile, che permette di infrangere lo sbarramento preclusivo previsto dalla norma proprio perché privato, in simili casi, della funzione stessa che il legislatore ha inteso imprimergli. [Per tali ragioni] introdurre come presupposto per la applicazione di istituti funzionali alla rieducazione del condannato un comportamento che obiettivamente non può essere prestato perché nulla aggiungerebbe a quanto è stato già accertato con la sentenza irrevocabile, equivale evidentemente ad escludere arbitrariamente una serie importante di opportunità trattamentali, con chiara frustrazione del precetto sancito dall’art. 27 della Costituzione e senza alcuna “contropartita” sul piano delle esigenze di prevenzione generale”. La collaborazione, in estrema sintesi, per essere esigibile, deve essere utile: se la collaborazione è esigibile, in quanto utile, allora per l’ergastolano che non collabora la pena ritenuta legittima dall’ordinamento è l’ergastolo ostativo. Questo è, in parole poverissime, il nesso tra collaborazione ed ostatività ed è, quindi, facile comprendere perché la collaborazione sia divenuta, l’ultimo baluardo di una fortificazione decadente come un “certo” diritto penale. Verrebbe da dire un “certo” diritto penale perché, a ben vedere, risulta davvero arduo comprendere come si possa parlare di “contropartite” in un settore nevralgico dell’ordinamento come quello penitenziario: è possibile “dispensare” o meno rieducazione sulla base di presunte “contropartite”? La mancanza di collaborazione, ad oggi, genera nell’ordinamento una presunzione assoluta di mancato ravvedimento del condannato: chi può dire, tuttavia, quali sono le ragioni sottostanti a tale scelta del detenuto? Sono ben noti a tutti, inoltre, gli effetti patologici di tale presunzione: i cc.dd. “falsi pentiti”, si potrebbe dire, sono “vecchi” quanto l’art. 4bis. A tal riguardo ci si potrebbe limitare alla citazione di un’opera sul tema: “si continua a parlare di “pentiti”, mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente “collaboratori di giustizia”, perché è evidente che la collaborazione è una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il pentimento interiore della persona”. L’ergastolano ostativo pare vivere come il summenzionato Sisifo, condannato a spingere un masso su di una montagna, dalla quale la pietra, ogniqualvolta l’eroe raggiungeva la cima, ricadeva per effetto del suo peso: l’ergastolo ostativo è “l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopra per nulla condurre al termine”. Ritenere che una pena di tal genere sia costituzionalmente legittima per il solo fatto che chi la subisce non ha collaborato con la giustizia, e non ha, quindi, offerto una contropartita alla società, francamente, pare un nonsense giuridico. Le pene, tutte le pene, devono tendere alla rieducazione del condannato: barattare la rieducazione con una presunta collaborazione è come barattare con Sisifo un masso di minor peso in cambio delle sue braccia: non solo la pietra continuerà a cadere ma l’eroe non saprà più come spingerla. Il governo del risentimento di Ezio Mauro La Repubblica, 2 agosto 2018 Tenere la spina del risentimento conficcata nel fianco del Paese mentre lo si governa è un esperimento inedito. Quando non c’è una cultura politica di riferimento, prevale la natura, cioè il carattere, l’essenza stessa delle persone e delle loro azioni, non più mediate dai grandi riferimenti storici della tradizione. È quel che capita oggi. Assistiamo ad una specie di confessione pubblica, dove la lottizzazione del nuovo governo che si è autodefinito “del cambiamento” lo rivela in realtà uguale ai precedenti nella corsa ai posti e soprattutto nell’insicurezza di un potere da munire ad ogni costo: ma fin qui nessuna sorpresa, almeno per chi non ha mai creduto alla leggenda della diversità grillina, e non dimentica che per vent’anni seduta al banchetto berlusconiano c’è stata sempre la Lega, un partito che oggi sembra arrivare dalla luna, mentre in realtà era parcheggiato più modestamente tra gli alberi di Arcore. Il vero disvelamento è nell’idea d’Italia che il governo ha in testa, che i due partiti di maggioranza inseguono e che le nomine riproducono. Il punto più critico è probabilmente la concezione del lavoro, dell’impresa, del mondo della produzione e del “fare”, dove s’intravvede una crepa tra l’insediamento lombardo- veneto della Lega, con la spinta imprenditoriale a mettersi in proprio chiedendo alla politica di sciogliere lacci e lacciuoli lasciando all’impresa mani libere, e la diffidenza grillina: per i poteri forti, naturalmente, ma in realtà per tutti i poteri autonomi in alto e in basso, nel sociale come nel mondo aziendale, dalla Tav all’acciaio, da Nord a Sud, senza un’idea di sviluppo, senza una base sociale di riferimento, perché senza un progetto di società. Tenere la spina del risentimento conficcata nel fianco del Paese mentre lo si governa è un esperimento inedito e in qualche modo contro natura, perché la vittoria elettorale dovrebbe trasformare la ribellione in governo, emancipandola. Ma in questo caso, il risentimento è il movente unico e l’orizzonte, dunque, è il mandato stesso del populismo, quindi è la sua stessa politica in forma simbolica, fonte perenne e inesauribile. Aggiungiamo che dopo la torsione della Lega in direzione sovranista, lepenista, orbanista (molto poco italiana se si guardano le nostre tradizioni, la nostra cultura, il nostro linguaggio, dove si sono innestate forme innaturali e ostentate di brutalità e disumanità a cui non eravamo abituati) il risentimento è diventato un territorio comune dei due populismi di governo. Un territorio dove la neo-destra seleziona nuovi elettori, con cui scambia continuamente autorizzazioni (puoi continuare a ribellarti al sistema), rassicurazioni (la tua rabbia è ben riposta), segnali di riconoscimento: noi siamo come te, il potere non ci cambierà. Ecco dunque il bisogno, per la nomina più indicativa dal punto di vista culturale, la presidenza Rai, di parlare alla propria gente, di riassumere promesse e vendette, di forzare il limite. La legge prevede una maggioranza dei due terzi, cioè un nome concordato, con un’intesa larga? Salvini prova a fare di testa sua. Non solo. Cerca un profilo che non si annunci di garanzia, come vorrebbe la regola e il buon senso - troppe volte violato - della gestione aziendale. Un profilo, come ha spiegato Stefano Folli, scientificamente scelto come anti-establishment. In più filo Putin, no vax, anti-euro, critico con Mattarella, pronto a ritwittare Casa Pound. Un outsider per la più grande fabbrica culturale italiana. Ce n’è abbastanza perché Di Maio - uno che chiede l’impeachment del capo dello Stato come si chiede un aperitivo al bar - abbocchi entusiasta e approvi la candidatura avanzata da Salvini: ha tutti gli ingredienti giusti, applaude festoso anche Di Battista, come sempre quando si alzano le polveri di destra. E infatti Giorgia Meloni sente aria di sovranismo putiniano, e si accoda. Al momento i voti non bastano per eleggere il presidente voluto da Salvini. Ma in questo caso al popolo del risentimento si dirà che le forze della conservazione hanno impedito il cambiamento perché vogliono tenere le mani sulla Rai, ma la spallata è comunque assicurata. Poiché tutto ciò che riguarda la Rai va visto come un vaticinio, quei voti, se Berlusconi dirà no, in realtà rischiano di bastare per far nascere due destre, spaccando definitivamente il fronte. Non è una novità da poco. La seconda destra teoricamente moderata, tutta da inventare e da definire, è oggi residuale. La prima, estremista e sovranista, ha già inglobato i grillini, talmente informi politicamente da prendere l’impronta dello scarpone leghista, talmente incolori culturalmente da tacere davanti alle prove di razzismo moltiplicate nel Paese che governano, dopo mesi di seminazione di odio. Soltanto, una domanda: tutta questa deriva, era nel contratto? Legittima difesa, il testo è in Senato Il Dubbio, 2 agosto 2018 L’annuncio del Sottosegretario alla giustizia Morrone. Un intervento sulla legittima difesa "è qualcosa che ci chiedono i cittadini e va a garanzia di chi è stato vittima di un aggressione" in modo "da non diventare vittima anche dello Stato perché costretto a difendersi per anni in un’aula di tribunale": lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone intervenuto ieri a Milano Marittima (Ravenna) per la presentazione della festa della Lega Romagna. Il provvedimento "è già incardinato al Senato - ha concluso il parlamentare leghista - dove dall’8 ci saranno le prime audizioni". In una nota Morrone, insieme al sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, e alla deputata Anna Rita Tateo relatrice del provvedimento annunciano che "in commissione Giustizia alla Camera abbiamo dato il via all’iter parlamentare per impedire a quei criminali che compiono reati efferati di ottenere sconti di pena assolutamente inaccettabili. Rendere inapplicabile il rito abbreviato per reati violenti è da sempre una battaglia della Lega, che oggi abbiamo finalmente calendarizzato e sulla quale il Parlamento dovrà legiferare. Un’altra promessa fatta ai cittadini che portiamo avanti con orgoglio". Di tenore opposto il giudizio di Gennaro Migliore, capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali della Camera e del dem Andrea Giorgis: "La maggioranza legastellata è sorda alle preoccupazioni per la sicurezza dei cittadini, ma sembra avere orecchie bene aperte verso la lobby delle armi". Nonostante le denunce del Pd, è stato approvato in commissione un parere sul decreto legislativo che recepisce la direttiva 2017/ 883 relativa al "controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, che indebolisce le garanzie a tutela della sicurezza dei cittadini contenute nel testo predisposto dal governo Gentiloni. In primo luogo - spiegano - si propone di rimuovere il divieto alla vendita di armi per corrispondenza e per contratto a distanza, che era stato introdotto per motivate preoccupazioni relative al pericolo che l’acquisto non adeguatamente controllato di armi potesse favorire l’accesso alle armi di potenziali terroristi. In questa direzione, quella della precauzione, vanno tutte le scelte del decreto legislativo: l’obbligo di avvisare i congiunti conviventi del possesso di un’arma; il limite per l’acquisto di munizioni; la limitazione per armi da collezione che possono divenire letali con alcune modifiche e altro ancora". Per i due esponenti dem "è preoccupante che in un clima come quello che stiamo vivendo, si operi per favorire un vero e proprio far west. Facilitare la diffusione delle armi, così come invitare i cittadini a farsi giustizia da sé (modificando la disciplina sulla legittima difesa) aumenta solo i rischi di violenza e l’insicurezza di tutti i cittadini". Legittima difesa, contro le insicurezze non serve una novella di Tullio Padovani* Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018 "La difesa è sempre legittima", si legge su certe magliette, ma non è certo da questa sintesi che si può partire per rivedere la legge sulla legittima difesa. La riforma, fallita nella precedente legislatura, è ora ripresa nell’attuale. Il professore Tullio Padovani analizza le varie proposte distribuite tra le due camere: pur nella loro relativa diversità esse sono accomunate da una “cifra” che ne rappresenta il baricentro, andare a toccare la scriminante nel limite della proporzione tra offesa e difesa. L’assedio al fortilizio della difesa legittima, fallito nella precedente legislatura, è ripreso nell’attuale. Un nugolo già fitto di proposte di legge risulta distribuito tra le due camere; pur nella loro relativa diversità esse sono accomunate da una “cifra” che ne rappresenta il baricentro: svellere la scriminante dal limite della proporzione tra offesa e difesa; essendo questa la pietra dello scandalo, nel senso che imporrebbe a onesti cittadini, vittime di un’aggressione rintuzzata con successo, di soggiacere agli imperscrutabili rischi di un giudizio discrezionale per stabilire quale piatto della bilancia debba prevalere, una volta dipanatasi, con lenta pacatezza, una penosa vicenda processuale. Il provvido legislatore propugna una certezza scevra da valutazioni elastiche, ed espressa in forma tanto solare da affermarsi con celerità subitanea, a guisa di corto circuito. La sintesi ben si coglie nel motto perentorio di certe magliette: la difesa è sempre legittima. Un minimo di raziocinio suggerisce che si fonde così un assurdo etico con un paradosso logico: la difesa dal furto di una bicicletta potrebbe mai legittimare l’uccisione del ladro?; e se la legittimità (e cioè la conformità a legge) viene “incorporata” al concetto di difesa come elemento coessenziale alla sua stessa nozione, occorrerà pure stabilire in che cosa consista una “difesa” per risultare, appunto, “sempre legittima”; per cui da capo si ricomincia a tessere l’ordito. Prima di considerare contenuto e natura di questi rinnovati propositi “riformatori” sarà tuttavia bene ricordare che la diversione dal limite della proporzione è già presente nelle modifiche all’articolo 52 del Cp introdotte dalla legge 59/2006. Esse hanno affiancato all’originario 1° comma un’autotutela domiciliare nel cui esercizio la proporzione è presunta in funzione di determinate circostanze di luogo, di mezzo, di modalità aggressive. Evidentemente, per il novello legislatore la dose somministrata non è sufficiente all’intento politico-criminale perseguito. La tenaglia procede a una dilatazione su due versanti. Da un lato, si punta a estendere nello spazio l’ambito della difesa domiciliare, comprendendovi anche la reazione anticipata volta a respingere l’ingresso o l’intrusione; dall’altro, ci si propone di introdurre una presunzione di pericolo d’aggressione e difetto di desistenza (due circostanze richieste, nella riforma del 2006, per l’esercizio dell’autotutela). Prescindendo da un’analisi dei testi, in qualche caso - va pure detto - sconcertanti nella forma italiana prima ancora che nel contenuto di “pensiero”, ci si chiede in qual modo simili “facilitazioni” svincolino dalla necessità di un accertamento complesso. La risposta è semplice: in nessun modo. Trattandosi, ad esempio, di stabilire se l’aggressione si è verificata “nelle immediate vicinanze dei luoghi” originariamente designati e “se risulta chiara e in atto l’intenzione di introdursi negli stessi con violenza o di volersene allontanare senza desistere dall’offesa” (Camera 308 e 4509), l’accertamento è di carattere divinatorio. Quanto alla presunzione di pericolo, essa scatterebbe “quando l’offesa ingiusta avviene, nell’interno dei luoghi indicati nel presente articolo, in ore notturne o con modalità atte a creare uno stato di particolare paura e agitazione nella prima offesa”. Ma la presunzione si basa su un dato noto e certo da cui inferire un dato ignoto; in questo caso l’ignoto dovrebbe invece dedursi da un altro ignoto, con riscontri a dir poco incerti, trattandosi di limiti elastici e di stati emotivi. Progetti così manifestamente contrari allo scopo che dichiarano di perseguire non corrispondono, evidentemente, ad alcuna esigenza reale: si limitano piuttosto a comunicare stentoreamente il messaggio che i cittadini possono ora reagire con sicurezza all’illecito. Ma si tratta di pubblicità ingannevole; e non solo in rapporto ai contenuti (circa la disponibilità di strumenti difensivi più efficienti e sicuri), ma anche nella sua dimensione strettamente politica. Si dichiara infatti di voler rafforzare e garantire la sicurezza dei cittadini esposti ad aggressioni nei luoghi di vita domestica. Scopo lodevole, corrispondente a una funzione primordiale dello stato nella sua veste di “guardiano notturno della comunità”; una funzione per la quale esistono, appunto, organi e apparati specifici. Solo quando il ricorso alla tutela pubblica non sia di fatto possibile con la tempestività e l’efficacia necessari è consentito il ricorso alla difesa privata, che per questo ruota necessariamente intorno al fatto che il cittadino si trovi “costretto dalla necessità”: privo cioè di un’alternativa. Se cresce il senso di insicurezza (il cosiddetto “allarme sociale”) e questo risulti, in determinati ambiti sociali o in situazioni specifiche, fondato su dati reali, la prima cura politica dovrebbe evidentemente essere vòlta a rendere più pronta ed efficace la tutela pubblica (la tecnologia moderna offre straordinarie opportunità in tal senso); non certo a estendere la difesa privata, per giunta in modo incongruo e ingannevole. Lo stato esiste ne cives ad arma veniant, non per autorizzarli ad armarsi e a regolare da sé i conflitti in cui versino. Si assiste viceversa a una stolida rincorsa alla difesa privata in cui è racchiuso il messaggio: lo stato non può far nulla per difenderti, ti autorizza a farlo al posto suo, in cambio ti assicura l’impunità. Ma l’autorizzazione è insidiosa e la promessa precaria. *Professore ordinario a riposo presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa Prescrizione, si apre un fronte anche tra i magistrati di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 2 agosto 2018 Le perplessità del Presidente del Tribunale di Torino Terzi. Sulla riforma della prescrizione, lo “stop” dopo la condanna di primo grado, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) rischia di rimanere da solo. L’iniziale appoggio dei magistrati non sembra essere più scontato. A rompere il fronte delle toghe è stato ieri il presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi. In una intervista rilasciata al quotidiano Italia Oggi, Terzi ha espresso forti perplessità sul progetto di modifica della prescrizione voluto dal Guardasigilli e che andrà in discussione in Parlamento verosimilmente dopo la pausa estiva. “Allungare i tempi di prescrizione non incide sulla diminuzione dei tempi del processo”, ha dichiarato il presidente del Tribunale di Torino, secondo cui anzi “potrebbe allungare la durata dei processi: magari qualche magistrato comincia a pensare "Va bene, c’è tempo prima che si prescriva”. Le dichiarazione di Terzi, toga storica di Magistratura indipendente, il gruppo della magistratura associata che anche recentemente per bocca del segretario generale Antonello Racanelli, ha invece manifestato apprezzamento per la riforma targata Bonafede, mette dunque in discussione uno dei punti fermi del programma pentastellato in materia di giustizia. Inizialmente i grillini avevano addirittura - previsto l’interruzione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio. Nonostante il fatto, statistiche del ministero della Giustizia, circa il 70% dei reati si prescriva durante la fase delle indagini preliminari, cioè quando il pubblico ministero è dominus assoluto e le difese non hanno mai avuto contezza del fascicolo. Questo dato statistico era stato evidenziato lo scorso anno dalle Camere penali che avevano indetto diverse giornate di astensione dalla udienze per protestare contro la riforma della prescrizione voluta allora dal governo di centro sinistra che ne aveva già allungato i tempi. Sul modifica pentastellata è intervenuto Pierantonio Zanettin, componente della Commissione giustizia della Camera ed ex consigliere togato del Csm in quota Forza Italia. “Questa riforma potrebbe avere effetti devastanti nel nostro sistema giudiziario, che già oggi si caratterizza per l’eccessiva durata dei processi. Con la modifica voluta da Bonafede ci sarebbe una sorta di ‘ fine processo mai’ ed i processi, già lenti, diventeranno lentissimi”. Ma oltre a ciò, per Zanettin ci sarebbe anche un “risvolto inquietante: il rischio di condanne in primo grado, anche in casi dubbi, qualora il processo venga celebrato a ridosso della scadenza dei termini, al fine proprio di interrompere la prescrizione”. “Il cittadino, innocente o colpevole, ha diritto - dice il parlamentare azzurro - di conoscere in anticipo il termine entro il quale il processo a suo carico comunque si interromperà”. E a chi afferma che la prescrizione aiuta gli imputati “eccellenti”, Zanettin risponde ricordando le tempistiche del processo Mediatrade: “In nove mesi Silvio Berlusconi è stato giudicato in primo e secondo grado. Ed in neppure tre mesi è arrivata anche la sentenza della Cassazione! ”. Un caso di “scuola” per l’ex componente del Csm: “Imputato eccellente, tempi record: se i magistrati vogliono nessun processo finirebbe in prescrizione”. Il tema pare, quindi, essere un altro: l’organizzazione degli Uffici giudiziari. L’incidenza della prescrizione tra i diversi Tribunali varia da distretto a distretto, ed è il più delle volte indipendente dalle scoperture degli organici o dalle condizioni socio economiche dei territori interessati. Alla base ci sono le misure organizzative dei singoli capi degli Uffici, più o meno sensibili al controllo di gestione. “Bonafede metta mano ad una organizzazione giudiziaria efficiente, anche se è faticoso”, ha aggiunto sul punto Zanettin. “Agente provocatore: no grazie”. Bonafede corregge la linea di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 2 agosto 2018 Stop all’agente “provocatore” e via libera all’agente “sotto copertura”. È stato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ad illustrare ieri in una lunga intervista al quotidiano La Verità il cambio di marcia del Governo nel contrasto ai fenomeni corruttivi. Nel programma originale in materia di giustizia dei pentastellati (e, comunque, ad oggi ancora consultabile sul blog del M5s), una parte importante era dedicata all’introduzione dell’agente provocatore nelle indagini per i reati di corruzione. Fin da subito, però, gli esperti di diritto avevano evidenziato che tale figura, come stabilito da numerose sentenze della Corte Edu, fosse incompatibile con la Convezione europea dei diritti dell’uomo. Ad agevolare il cambio di passo dei grillini, due autorevoli magistrati: l’ex procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti ed il neo consigliere del Csm Piercamillo Davigo che nelle scorse settimane hanno più volte affermato la necessità che il Parlamento introduca quanto prima la figura “dell’ufficiale di polizia giudiziaria che operi all’interno della trama corruttiva già in atto: osserva, rileva gli elementi di reato e li riferisce al pm”. Una puntualizzazione non da poco rispetto al programma iniziale del M5S: non agente “provocatore” ma agente “sotto copertura”, con l’estensione ai reati contro la pubblica amministrazione di quanto già previsto nelle indagini cd. antimafia e antidroga. I fautori dell’agente sotto copertura si richiamano alla Convenzione Onu di Merida del 2003, ratificata dall’Italia sei anni più tardi. Tale risoluzione prevede l’adeguamento delle norme anticorruzione da parte degli Stati. Nello specifico, la previsione di “tecniche investigative come la sorveglianza elettronica e le operazioni sotto copertura”. Il tutto “nei limiti consentiti dai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico” di ciascun Stato. Questo escluderebbe in radice la possibilità che l’ufficiale di polizia giudiziaria vada in giro per i Comuni o i Ministeri ad offrire denaro ai funzionari pubblici per poi arrestare coloro che lo abbiano accettato. Nella pratica, però, il ruolo di agente sotto copertura per il contrasto ai reati contro la PA è estremamente difficile da realizzare. Il ministro, sul punto, ha affermato che sono in corso degli “stress test” per verificare la fattibilità di questa norma che dovrebbe essere approvata subito dopo la pausa estiva. In concreto, però, nessuno fino ad oggi ha spiegato con chiarezza come dovrebbe svolgersi l’attività del Serpico antitangenti. Teoricamente il maresciallo anticorruzione dovrebbe - verosimilmente - crearsi una falsa identità di imprenditore per poter partecipare, ad esempio, alla gara per un appalto pubblico. E dovrebbe, poi, avere il know how tecnico professionale dell’imprenditore, con estrema dimestichezza nel settore delle opere pubbliche o dei servizi. Non esistono, comunque, modelli del genere in Europa a cui fare riferimento. L’Italia sarebbe infatti il primo Stato a dotarsi di una simile legislazione. Concetto, questo, ribadito con orgoglio dallo stesso Bonafede. L’assenza di una pregressa prassi applicativa rischia però di far fare all’Italia un salto nel buio in una materia delicata e complessa. Già oggi questo genere di indagini risultano spesso condotte da personale non sempre all’altezza con conseguenze facilmente immaginabili. La norma anti femminicidi non entra nella direttiva Ue sulle armi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 agosto 2018 La prima Commissione della Camera ha approvato il parere sul decreto del governo che attua le nuove indicazioni europee sul commercio di pistole e fucili, salta l’obbligo per il titolare della licenza di informare i familiari (o almeno di autocertificare di averlo fatto). Ieri la prima commissione della camera ha approvato il parere sul decreto legge che attua la direttiva europea sul commercio delle armi. La novità principale, rispetto a quanto aveva previsto il governo Gentiloni (la direttiva è del 2017) è che non si prevede più l’obbligo per chi acquista un’arma di informare i familiari maggiorenni. Obbligo che, in un momento in cui è alto l’allarme per i femminicidi, era pensato come deterrente alle violenze armate tra le mura di casa. In teoria l’obbligo di denuncia ai familiari è previsto da anni, ma viste le difficoltà di attuare un regolamento annunciato nel 2010, il governo precedente aveva approfittato della direttiva Ue per introdurre l’obbligo di autocertificazione. Il titolare di licenza, cioè, avrebbe dovuto garantire sotto la sua responsabilità di aver informato i conviventi. Non la migliore soluzione in tema di deterrenza. La nuova maggioranza ha deciso di togliere anche l’autocertificazione, spiegando che la soluzione proposta era confusa e che nel recepire una direttiva non si può andare (troppo) oltre quello che la direttiva prevede. Un problema del genere si è posto con la vendita online delle armi. Il decreto con cui si recepisce la direttiva Ue è al massimo un’occasione mancata per introdurre nuovi limiti e controlli, non una mossa liberalizzatrice che cancella le garanzie previste dal centrosinistra - come denunciato dai deputati del Pd. Perché nemmeno il decreto del governo Gentiloni prevedeva questa stretta, né avrebbe potuto visto che la direttiva Ue ha come ispirazione quella di favorire il commercio per corrispondenza anche delle armi, a patto che si identifichino con certezza i titoli dell’acquirente. L’unica soluzione sarebbe stata, allora, quella di non recepire la direttiva. Al momento, nel nostro paese restano i divieti previsti dalla legge 110 del 1975 che consente in pratica di acquistare armi online solo passando attraverso un’armeria. Il parere approvato ieri prevede invece alcune novità, persino positive se non restassero sulla carta. Due sono legate all’attualità: la raccomandazione di tenere traccia anche delle modifiche che i proprietari apportano alle armi e l’invito a valutare la tracciabilità della armi ad aria compressa. Se il governo del ministro Salvini volesse accoglierli, casi come quello del cecchino romano che ha colpito una bambina rom sarebbero più difficili. Ma ovviamente è assai improbabile che il governo lo farà. Strage di Bologna, 38 anni ancora senza mandanti di Saverio Ferrari Il Manifesto, 2 agosto 2018 Strategia della tensione. Alla commemorazione di oggi parteciperà Alfonso Bonafede, la prima volta in assoluto di un ministro della Giustizia. “Mafia e terrorismo, una trattativa e tanti depistaggi, mai più trattative sulla verità”. È il testo del manifesto scelto quest’anno per la commemorazione della strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna. “Da poco c’è stato a Palermo il processo sulla trattativa Stato-mafia - ha spiegato Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime - e secondo noi di trattative di questo tipo in Italia ce ne sono state altre, come sulle stragi. Si trovano sempre gli esecutori, ma mai i mandanti. Questo vuol dire che ci sono stati alcuni personaggi dello Stato che hanno impedito di arrivare alla verità”. A rappresentare quest’anno il Governo sarà Alfonso Bonafede, la prima volta in assoluto per un ministro della Giustizia. Ma le celebrazioni per l’anniversario della strage si terranno questa volta anche con la novità del processo in corso al terrorista nero Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella preparazione della più efferata e sanguinosa strage nella storia della Repubblica (85 morti e 200 feriti). Per la cronaca, Cavallini, 65 anni, attualmente in semilibertà, vanta otto ergastoli per altrettanti omicidi, tra cui quello del giudice Mario Amato a Roma il 23 giugno 1980. Questo nuovo filone d’indagine si era aperto a seguito del dossier elaborato dall’Associazione dei familiari delle vittime, frutto di un approfondito lavoro di ricerca incrociando migliaia e migliaia di pagine di atti giudiziari mai prima correlati fra loro, non solo relativi a Bologna, ma anche ai tanti processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 in avanti. Nelle conclusioni di questa stessa ricerca, inoltrata alla magistratura nel luglio 2015, si era arrivati a indicare i presunti mandanti, i finanziatori e i complici della strage. Un primo risultato è stato proprio il rinvio a giudizio di Gilberto Cavallini come “quarto uomo” della strage, secondo quanto ricostruito, attivo nell’aver fornito supporti e nascondigli per la latitanza in Veneto di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti e tre condannati per la strage in via definitiva, i primi due all’ergastolo, il terzo, minorenne all’epoca, a 30 anni, Iniziato nel marzo scorso, il processo ha visto sfilare come testimoni proprio coloro che sono stati condannati in via definitiva. Una presenza segnata da dichiarazioni irrispettose, se non provocatorie, indifferenti al dolore dei familiari, espresse in particolare da Ciavardini, definitosi “l’86esima vittima”, e da Francesca Mambro (8 ergastoli più 84 anni di condanne), paragonatasi a “una deportata”, seguite da molti “non ricordo”, davvero poco cedibili, in risposta alle tante domande dei giudici, dopo aver fornito nei processi passati versioni diverse e fra loro contraddittorie sui loro movimenti in quelle date di agosto. Dal canto suo Valerio Fioravanti ha preso le distanze dall’imputato. “Io su Cavallini”, ha detto, “sospendo il giudizio”. Motivo: i suoi passati rapporti con Carlo Digilio, l’armiere di Ordine nuovo “per 20 anni con i servizi segreti militari e non”. in questo quadro, il nodo di alcuni legami sarà sicuramente al centro nel prosieguo del dibattimento. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio di Cavallini si fa infatti riferimento a un biglietto su carta intestata di Carlo Maria Maggi, uno dei massimi dirigenti di Ordine nuovo, condannato all’ergastolo per la strage di Brescia, dove si parla di esplosivo T4 e detonatori da “dare a G. C.”, con ogni probabilità Gilberto Cavallini, a riprova dei rapporti tra i Nar e “la vecchia guardia di Ordine nuovo”. Se fosse così si dimostrerebbe come vi sia stato una continuità tra le due stagioni del terrorismo nero, il periodo del ‘69-’74 e l’80. Il processo riprenderà il 19 settembre. A testimoniare arriveranno anche Roberto Fiore, all’epoca leader di Terza Posizione, e Fabrizio Zani, tra i fondatori dei “Gruppi per l’Ordine Nero”. Nel frattempo si stanno svolgendo, su disposizione del presidente della Corte d’Assisie Michele Leoni, nuove perizie chimico-esplosivistiche sia su un cartellone pubblicitario presente nella sala d’aspetto al momento dell’esplosione, sia sulle macerie, le valigie e gli effetti personali, che furono successivamente trasferiti nell’ex caserma San Felice ai Prati di Caprara. L’intento, grazie agli sviluppi dei metodi di indagine scientifica, sarebbe quello di tornare sulla composizione dell’esplosivo e sull’innesco, chimico o a tempo. Caso Uva, secondo i giudici “le condotte degli imputati non causarono la sua morte” di Manuela Messina La Stampa, 2 agosto 2018 Le motivazioni della Corte d’Assise d’Appello di Milano: “Non vi fu “alcun atto aggressivo” da parte dei carabinieri e dei poliziotti imputati per la morte dell’operaio”. Non solo non vi fu “alcun atto aggressivo” da parte dei carabinieri e dei poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva e quindi non vi è la sussistenza del “nesso causale” tra lo stress provocato dal fermo e l’infarto che stroncò l’operaio. Ma, per di più, esiste la possibilità che l’uomo morisse “ugualmente”, per via della grave patologia cardiaca di cui era affetto e di cui era lui stesso inconsapevole. Così la prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano ha motivato la piena assoluzione decisa nel maggio scorso per i sei militari dell’Arma e per i due agenti imputati a Milano per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. E ha respinto così totalmente l’impianto accusatorio del sostituto pg Massimo Gaballo, che aveva chiesto condanne fino a 13 anni di carcere, ritenendo che le “condotte illecite degli imputati” (difesi dagli avvocati Piero Porciani, Fabio Schembri, Luca Marsico e Duilio Mancini) provocarono nel 43enne quella “tempesta emotiva” in seguito alla quale si sarebbe scatenato l’evento aritmico e da lì la morte. Uva fu fermato da due militari la sera del 13 giugno 2008, mentre stava spostando delle transenne nel centro di Varese, fu portato in caserma e trattenuto per alcune ore. Poi fu trasportato con trattamento sanitario obbligatorio all’ospedale di Circolo della città lombarda, dove morì per infarto la mattina successiva. Secondo i giudici, mentre era in custodia, alterato dall’alcol, si sarebbe procurato da solo quelle lesioni riscontrate poi sul suo corpo e provocate da “plurime condotte autolesionistiche”. L’ubriachezza, scrivono nero su bianco, può “notoriamente portare a quei gesti inconsulti e incontrollati e da tutti concordemente riferiti”. Per la Corte i militari che bloccarono Uva, reo di avere disturbato la quiete pubblica spostando delle transenne e facendo schiamazzi, quindi, non solo non furono responsabili di alcuna aggressione. Anzi ebbero una condotta “doverosa ed esigibile” poiché volevano impedire che si creassero “situazioni di rischio per l’incolumità pubblica”. Una tesi totalmente opposta rispetto a quella dell’accusa, che sosteneva che i due militari volessero invece dare “una lezione” all’uomo: il movente sarebbe stato quella presunta relazione sentimentale, di cui Uva si vantava, con la moglie di uno dei due. L’impianto di Gaballo si basava infatti anche sulle dichiarazioni rese in primo grado dall’amico del 43enne, nonché testimone oculare, Alberto Biggiogero. Quest’ultimo, attualmente in carcere dal 2017 per l’omicidio del padre, aveva infatti riferito di avere sentito quella sera uno dei due carabinieri pronunciare la frase: “Uva, proprio te cercavo!”. La Corte d’Assise d’Appello ha invece, così come è avvenuto in primo grado, giudicato inattendibile la sua testimonianza in quanto si tratterebbe di un “soggetto molto problematico (...) come attestato dai numerosissimi ricoveri a cui è stato sottoposto per problemi psichici nel corso degli anni (…)”. Per di più, si legge nelle motivazioni, “tutti gli accertamenti per dare credito” alle sue “illazioni (…) hanno dato esito negativo”. E ancora: “Se i due carabinieri avessero voluto dare una lezione a Uva, quale migliore occasione di quella notte, nella città deserta, essendo sia lui che l’amico che lo accompagnava entrambi completamente ubriachi?”. Scafisti, decide l’Italia anche con soccorso in acque internazionali di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 1° agosto 2018 n. 37303. Sui trafficanti di migranti scatta la giurisdizione italiana anche se il soccorso è avvenuto in acque internazionali e da parte di una nave straniera. A radicare la competenza infatti è sufficiente il successivo sbarco in Italia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 37303 del 1° agosto 2018, bocciando il ricorso di tre extracomunitari contro l’ordinanza che disponeva la custodia cautelare in carcere con l’accusa di partecipazione ad una associazione a delinquere che si occupava di far entrare illegalmente in Italia persone provenienti dalla Libia “via mare, dietro pagamento di un corrispettivo in denaro”. La misura era motivata anche dai “gravi indizi” di aver procurato, nel novembre 2017, l’ingresso in Italia di 17 cittadini stranieri. In particolare, i trafficanti, “supportando un natante più piccolo e in condizioni precarie, con una imbarcazione cabinata”, una volta raggiunte le acque internazionali, avevano chiamato i soccorsi “per provvedere al trasbordo e al trasporto sul territorio nazionale”. Nel ricorso, tra l’altro, gli imputati hanno lamentato il difetto di giurisdizione, in relazione ad entrambi i delitti, in quanto “si trattava di fatti avvenuti in acque internazionali la cui consumazione era iniziata in zona libica”. La Suprema corte rileva che “l’imbarcazione con a bordo i migranti era priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato e che i predetti vennero soccorsi dalla nave della Marina Militare Irlandese in acque internazionali e trasportati presso il porto di Palermo”. E, in tema di immigrazione clandestina, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “la giurisdizione nazionale è configurabile anche nel caso in cui il trasporto dei migranti, avvenuto in violazione dell’art. 12 del Dlgs n. 286 del 1998 a bordo di una imbarcazione, priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato, secondo previsione dell’art. 110 della Convenzione di Montego Bay delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sia stato accertato in acque extraterritoriali ma, successivamente, nelle acque interne e sul territorio nazionale si siano verificati, quale evento del reato, l’ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari per l’intervento dei soccorritori, quale esito previsto e voluto a causa delle condizioni del natante, dell’eccessivo carico e delle condizioni del mare”. Nel caso concreto, conclude la sentenza, “è possibile affermare che le condizioni del viaggio fin dalla partenza davano conto dell’eventualità che il natante potesse essere soggetto ad avaria e determinare la necessità di richiedere soccorso”. “L’evento dell’introduzione dei migranti nello Stato è, pertanto, legato causalmente all’azione dei trafficanti”. Per cui la competenza del giudice italiano “si determina in base all’art. 6 cod. pen., essendosi nelle acque territoriali e sul territorio nazionale verificato l’ingresso e lo sbarco dei migranti, cioè l’evento del reato”. Whistleblowing, no attività investigative da parte dei dipendenti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018 Il dipendente che si improvvisa investigatore e viola la legge per raccogliere prove di illeciti nell’ambiente di lavoro non può invocare la tutela del whistleblowing. La “protezione”, prevista dalla legge 179/2017, è destinata solo a chi segnala notizie di un’attività illecita, acquisite nell’ambiente e in occasione del lavoro. Senza che ci sia alcun obbligo in questo senso né, tantomeno, è ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie azioni di “indagine”, per di più illecite. La Cassazione(sentenza 35792/2018), analizza, per la prima volta, la norma che regola la segnalazione di illeciti da parte del dipendente pubblico e detta norme a tutela di chi fa emergere fatti antigiuridici appresi svolgendo il suo servizio. Garanzie non invocabili dal ricorrente che, per dimostrare la vulnerabilità del sistema informatico adottato dal datore, ha usato l’account e la password di un altro dipendente e creato un falso documento di fine rapporto a nome di una persona che non aveva mai lavorato nell’istituto. Per lui è scattata solo la non punibilità, per il fatto di particolare tenuità prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale. Ad avviso del ricorrente, però, la sua condotta, finalizzata a una denuncia e all’adempimento di un dovere, rientrava sotto l’ombrello del whistleblowing. La Suprema corte chiarisce che la norma, analoga ad altre adottate in ambito internazionale, ha il duplice scopo di delineare un particolare status giuslavoristico a tutela di chi segnala “abusi” e di favorire l’emersione all’interno della Pa di fatti illeciti per rafforzare il contrasto alla corruzione. L’articolo 54-bis, che ha aggiornato la legge sul pubblico impiego, “salva” il dipendente virtuoso da sanzioni, licenziamenti o discriminazioni collegate alla segnalazione. I giudici ricordano anche che, con l’orientamento numero 40, è stata introdotta la possibilità di inserire tra i destinatari dell’informativa anche il responsabile dell’anticorruzione. Ribadito il diritto del segnalante all’anonimato - a meno che la rivelazione dell’identità non sia indispensabile per la difesa dell’incolpato - la Suprema corte chiarisce che la norma non ipotizza nessun obbligo di “attiva acquisizione di informazioni autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti imposti dalla legge”. È dunque chiaro che l’azione commessa dal ricorrente non può essere giustificata, neppure in virtù di uno scusabile errore sull’esistenza di un dovere in conseguenza del quale il fine avrebbe giustificato i mezzi. Per valutare la scriminante dell’adempimento del dovere valgono gli stessi criteri adottati per “l’agente provocatore”. È giustificata solo la condotta che non si inserisce “con rilevanza causale” nello svolgimento dell’atto criminoso, ma interviene in “modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui”. Condannato per molestie l’ambulante che insiste per vendere la merce di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018 Rischia la condanna per il reato di molestie l’ambulante che insiste in modo “pressante, indiscreto e impertinente” per vendere i suoi prodotti. Con queste motivazioni la Corte di cassazione conferma la condanna e la pena dell’ammenda di 300 euro, a carico di un improvvisato venditore che, insieme ad un socio in “affari”, aveva avvicinato una signora mentre faceva un prelievo al bancomat e le aveva proposto di acquistare un profumo. E non aveva desistito neppure dopo il rifiuto della donna, tallonandola e parlandole anche del diritto al lavoro, solo quando la signora era entrata in macchina dove l’aspettava il marito, aveva rinunciato all’inseguimento. Una condotta che la Suprema corte considera inaccettabile. I giudici respingono anche la tesi della difesa secondo la quale il venditore, era spinto solo dall’intenzione di “piazzare” la sua merce e non era consapevole di essere molesto. Ad avviso della Cassazione, la “petulanza” era tale che l’imputato non poteva non accorgersi di disturbare, a prescindere dallo scopo che lo muoveva. La Cassazione, a causa di precedenti ostativi nega anche le attenuanti generiche e conferma la correttezza della decisione, presa in sede di merito, di condannare solo sulla base della dichiarazioni della persona offesa. Anche il consulente è punibile per indebita compensazione fiscale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018 Corte di cassazione, sentenza 1 agosto 2018, n. 37094. Scatta il reato di indebita compensazione dei crediti per l’amministratore della società di consulenza che crea e commercializza schemi di evasione fiscale e si accolla, attraverso la trasmissione telematica degli F24, il debito tributario riferibile a terzi, consentendogli un’apparente regolarizzazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 37094, smonta la tesi della difesa del consulente, secondo la quale il delitto, previsto dall’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000, sarebbe realizzabile, per la sua natura di reato proprio, solo dal contribuente. Questa qualifica non sarebbe attribuibile all’indagato, che non era destinatario dell’obbligazione con il fisco. Una tesi che aveva convinto il Gip ma non il Tribunale del riesame che aveva disposto il sequestro preventivo dei beni, in presenza di compensazioni di crediti inesistenti per oltre 40 milioni di euro, e la custodia in carcere per il ricorrente. La Cassazione è d’accordo. L’ordinanza del riesame aveva, infatti, sottolineato che nella nozione “chiunque” indicata dalla norma potesse rientrare ogni soggetto che, al di là della qualifica rivestita, potesse realizzare la condotta tipica. Compreso chi, come nel caso esaminato, in virtù di un contratto di accollo tributario, agisca come debitore, essendosi fatto volontariamente carico di debiti altrui. I giudici avevano anche individuato il profitto del reato - considerato inesistente dal ricorrente al pari del danno al Fisco - nel totale dell’importo portato a compensazione, corrispondente al 100% del debito, ripartito tra accollante e accollato sulla base di una regolamentazione tra privati precedente la compensazione. La Cassazione ricorda che il reato, secondo quanto indicato dalla stessa relazione governativa al Dl, è diretto a reprimere non tanto l’evasione messa in atto con la presentazione della dichiarazione, quanto il “pernicioso” fenomeno della cosiddetta evasione da riscossione, anche in seguito all’introduzione del modello unico. I giudici sottolineano che la norma in questione non sanziona il solo il mancato pagamento, quanto lo strumento - più insidioso per l’Erario,perché non immediatamente percepibile - dell’indebita compensazione. La Cassazione afferma dunque che, almeno fino ad oggi, in assenza di una regolamentazione che inibisca il ricorso alla compensazione dei crediti da parte del coobbligato in virtù di accollo tributario, tra i soggetti attivi nel delitto rientra “anche il debitore accollante che proceda alla realizzazione, attraverso i menzionati modelli F24, di operazioni di compensazione di crediti inesistenti”. Udine: arrestato per estorsione, portato in cella s’impicca e muore a 33 anni di Paola Treppo Il Gazzettino, 2 agosto 2018 Arrestato in provincia di Gorizia per estorsione, portato in carcere a Udine, un giovane straniero di 33 anni, residente a Udine, si è impiccato con un lenzuolo nel bagno del carcere ed è morto nella giornata di ieri, martedì 31 luglio. Inutili, purtroppo, i tentativi di soccorrerlo da parte della polizia penitenziaria e dei sanitari. Il 33enne era stato rinchiuso nella casa circondariale di Udine da 4 ore quando ha messo in atto il tragico gesto. Era stato arrestato già una settimana fa, condannato a un anno e poi scarcerato per un altro reato. Ieri, poi, per lui erano scattate nuovamente le manette. “Quando è stato portato in cella, in una parte del carcere protetta, non aveva dato segni di sofferenza e non era paso agitato” riferisce Leonardo Angiulli, segretario generale del Triveneto della Uil Pa Polizia Penitenziaria. Viterbo: esposto del Garante regionale Anastasia “detenuti picchiati dagli agenti” di Stefania Moretti Corriere della Sera, 2 agosto 2018 Sospetto il suicidio di uno dei testimoni, un 21enne egiziano. Stefano Anastasia: “Quella di Hassan non è una voce isolata, sono almeno dieci i detenuti che parlano di violenze”. Si è impiccato alle sbarre della finestra della cella di isolamento con un asciugamano. Hassan, 21 anni, egiziano rinchiuso nel carcere Mammagialla di Viterbo, è morto martedì dopo una settimana di agonia. A un passo dalla libertà: sarebbe uscito dal carcere i primi di settembre. Quattro mesi fa era stato ascoltato da collaboratori del garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia che, dopo il suo racconto, ha inviato un esposto alla procura viterbese. La testimonianza di Hassan - Vi si legge che Hassan diceva di essere stato picchiato il 20 marzo “da alcuni agenti di polizia penitenziaria”, i quali “con molta probabilità gli avevano lesionato il timpano dell’orecchio sinistro”, perché “sentiva come il rumore di un fischio”. Il ragazzo avrebbe mostrato le sue ferite ai collaboratori del garante: segni rossi sulle gambe e tagli sul petto. “Ho paura di morire”, avrebbe detto. Perché episodi simili sarebbero stati “frequenti soprattutto nei confronti di detenuti stranieri”. Quella di Hassan non è una voce isolata: almeno dieci i detenuti che parlano di violenze dentro il carcere Mammagialla, nei locali docce, sulle scale o in stanze in uso alla sorveglianza. Tutte zone lontane dalle telecamere di sicurezza. “Quando ci portano lì sappiamo che è per essere picchiati”, ha raccontato un detenuto. Un altro sostiene che alle violenze seguiva l’isolamento, per fare in modo che chi veniva malmenato non avesse contatti con nessuno. Picchiato e messo in isolamento - Anastasìa aveva chiesto il trasferimento di Hassan a un altro penitenziario. Trasferimento mai avvenuto: secondo il Dap, il giorno stesso del presunto pestaggio, il ragazzo aveva opposto resistenza a un controllo nella sua cella, dove furono trovati medicinali a base di oppiacei. “Ciò - continua l’esposto - avrebbe reso necessario il ricorso alla forza fisica”, previsto dall’ordinamento penitenziario. Ma le escoriazioni che il 21enne aveva, stando ai sanitari interpellati dal Dap, sono “incompatibili con un’azione offensiva in suo danno”. Quel che è certo è che Hassan era stato messo in isolamento per punizione la settimana scorsa. Una misura disciplinare eseguita a tre mesi e mezzo da quel controllo finito male. In cella di isolamento era arrivato il 23 luglio: neanche due ore e si è impiccato. Soccorso dagli stessi agenti della penitenziaria che dicono di aver fatto tutto il possibile per salvarlo. “Per quel che ci risulta, da aprile in poi, Hassan non doveva neanche essere a Viterbo - afferma Anastasìa. Gli ultimi mesi che gli restavano da scontare erano in esecuzione di una vecchia condanna del tribunale dei Minori. Quando è così, i detenuti entro i 25 anni devono espiare la pena in un istituto minorile”. La difesa dei sindacati di polizia penitenziaria - Sul suo suicidio indaga la procura viterbese che fisserà a giorni l’autopsia. Quanto all’esposto del garante dei detenuti, resta sulla scrivania del procuratore capo Paolo Auriemma. La prassi vorrebbe l’apertura di un fascicolo almeno a modello 45, senza indagati né ipotesi di reato, in attesa di accertamenti più approfonditi. Un’inchiesta che si preannuncia già complessa e delicata. Perché gli stessi detenuti hanno parlato di visite mediche avvenute a distanza di settimane o mesi dai presunti pestaggi. Sull’esposto di Anastasìa e sul suicidio di Hassan è intervenuta l’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria con un comunicato durissimo: “Spiace dover constatare che il lavoro dei garanti dei detenuti dia sempre motivo di perplessità sulla bontà del loro ruolo perché le denunce che fanno risultano sempre incomplete, visto che non dialogano con la polizia penitenziaria. È molto facile adombrare responsabilità ma la realtà dei fatti, al di là che la morte di chiunque resta un dramma anche per tutti coloro che non hanno potuto evitarlo, dimostra che l’operato degli agenti è stato encomiabile come sempre e che nessuno poteva evitare l’irreparabile con le attuali risorse a disposizione”. Firenze: piovono pezzi di muro, allarme a Sollicciano quinewsfirenze.it, 2 agosto 2018 Il sindacato di polizia penitenziaria Uil Pa ha denunciato la caduta di frammenti nei passaggi in cui circolano detenuti e agenti. L’allarme è stato lanciato in una nota nella quale la Uil Pa spiega che nei giorni scorsi nel carcere di Sollicciano "si sono verificati dei distacchi di “pezzi di cemento armato” dai pilastrini dei balconcini delle sezioni detentive che cadendo hanno invaso i locali dei passeggi sottostanti ove circola personale e detenuti". A puntare il dito sulla questione della sicurezza nell’istituto penitenziario è il segretario generale territoriale della Uil Pa Antonio Mautone. "Già tempo addietro - si legge nella nota - avevamo denunciato lo stato di totale abbandono e problematiche strutturali in cui versava e versa l’istituto fiorentino, un istituto questo in cui la totale assenza di un opera di manutenzione ordinaria programmata negli anni scorsi, sta oggi giorno portando i suoi primi effetti. Pensare che una struttura dello stato possa procurare dei danni fisici a chi privato della libertà è costretto a risiedervi e agli operatori di polizia che prestano la loro attività lavorativa è una cosa del tutto anomala e poco consona in una stato di diritto in cui le norme devono essere rispettate anche quelle che riguardano la sicurezza sui posti di lavoro". Nella stessa nota il sindacato spiega di aver già chiesto all’amministrazione di interdire "l’intera area in cui potrebbero verificarsi ulteriori crolli ma programmando opere di ristrutturazioni immediate, mirate a mettere in sicurezza un luogo in cui la sofferenza delle persone già è grande e che quindi non deve essere ulteriormente aumentata". Torino: dal carcere i nuovi campioni di scacchi? di Federico Dagostino comune.torino.it, 2 agosto 2018 Trascorrere l’estate in carcere è per la gran parte delle persone un momento emotivamente più pesante di altri. Sono ridotte le attività a causa delle ferie del personale di sorveglianza, le stesse famiglie sono magari lontane per una vacanza e il caldo opprimente delle celle non agevola la vita e la convivenza in questo periodo dell’anno. Così, pur non rientrando le donazioni nella “mission” dei garanti dei diritti dei detenuti, la garante torinese, Monica Cristina Gallo, seguendo una tradizione consolidata nel nostro territorio, ha deciso, utilizzando i fondi a disposizione per la sua attività, di garantire il diritto alla socialità, in particolare proprio in questi mesi estivi, donando una cinquantina di scacchiere ai detenuti. Accompagnata nel penitenziario torinese dal presidente del Consiglio comunale Fabio Versaci e dai dirigenti della Città, Flavio Roux e Franco Berera, la Garante ha consegnato le scacchiere questa mattina alle persone detenute nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. Gallo ha anche espresso la disponibilità ad individuare le modalità per l’organizzazione di corsi di scacchi in collaborazione con volontari ed associazioni. L’attenzione a questo gioco è già presente in carcere, ha ricordato, sottolineando come alcune scacchiere con i personaggi in cartone siano state realizzate proprio da alcuni detenuti. “Il gioco degli scacchi aiuta a pensare e riflettere”, ha commentato Versaci rivolgendosi alle persone che per qualche minuto hanno abbandonato le celle per recarsi nel teatro del carcere dove è avvenuta la consegna sottolineando come sia necessario La delegazione comunale, in attesa di accedere al carcere per la consegna delle scacchiere e la visita ad alcuni reparti comprendere gli errori fatti per ritornare a condurre una vita normale. Al termine dell’incontro, la delegazione del Comune, accompagnata dagli ispettori della Polizia penitenziaria, si è recata in visita al reparto dei collaboratori di giustizia e al reparto femminile. Qui è stata richiesta alla Città la possibilità di ottenere arredi per locali idonei a creare ambiti di socializzazione tra le detenute. Teatro e carcere a Volterra di Michele Sciancalepore Avvenire, 2 agosto 2018 Per il suo trentennale la Compagnia della Fortezza propone il visionario “Beatitudo”, ispirato a Borges Punzo: “Abbiamo estratto la spiritualità dalle nostre fragilità”. Si sa che le beatitudini evangeliche contengono intrinsecamente un invito all’azione, nulla di passivo e statico, bensì estatico, un’uscita fuori da sé, una spinta perenne al movimento verso l’alto e l’altro. La corretta traduzione di “beati quelli che…” sarebbe infatti “in marcia coloro i quali...”. Beatitudo, l’ultimo lavoro della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo presentato in anteprima nazionale nel Carcere di Volterra, sembra essersi ispirato, oltre che liberamente all’opera di Jorge Luis Borges come apertamente dichiarato, proprio a un concetto di moto perpetuo nel costante tentativo di elevarsi e di liberarsi dalle zavorre di una realtà troppo materica e soffocante che rischia di non lasciare più alcun spazio all’immaginazione, alla fantasia, allo spirito. Rappresentare l’invisibile, inoltrarsi nei territori dell’immaginifico: questo l’obiettivo utopico di quello che è passato alla storia del teatro come “l’architetto dell’impossibile”, quel Punzo che non a caso dal 1988 si è volontariamente recluso in una delle carceri, all’epoca più turbolente e violente della nostra penisola, non per fare teatro terapeutico o interventi artistico-umanitari ma per portare il cielo nelle celle, il sogno impalpabile dove c’era l’incubo concreto, “le parole lievi” (titolo dello spettacolo dello scorso anno) dove esistevano gesti intrappolati, il vento vitale dell’arte dove c’era la realtà asfittica e mortifera. E per non essere un artista avvitato su stesso, beato e appagato nella sua illusione creativa aveva bisogno, come lui stesso ammette, di mura che lo contenessero, “di un ostacolo insormontabile da superare, di una realtà sempre pronta a offenderti, a vomitarti addosso tutta la sua impossibilità”. I limiti fisici, burocratici, umani del carcere in pratica riflettevano ed esaltavano la quintessenza del teatro che ha nei suoi stretti impedimenti il senso e il fascino della propria esistenza e invita chi lo vive a sfidarli di continuo. Bisogna tenere bene a mente il processo di questi trent’anni della Compagnia della Fortezza prima di accostarsi e di godere pienamente della dimensione visionaria di uno spettacolo che giunge al culmine di una ricerca sempre più tesa a destrutturare la realtà: “Borges è un ottimo compagno di viaggio in tal senso - spiega Punzo - perché i suoi personaggi, Averroé, Cartaphilus, l’Uomo Grigio, Asterione, vengono da tutte le epoche, ci sfuggono continuamente e ci hanno aiutato a evitare la trappola di una costruzione logica comprensibile”. E in effetti c’è poco da capire. Beatitudo non offre spiegazioni ma inonda di visioni. Un’opera volatile che è uscita dal carcere e presentata il 29 luglio in forma inevitabilmente riadattata al Teatro Persio Flacco, sempre a Volterra. Ma una metamorfosi davvero straordinaria l’ultima creazione di Punzo la vivrà il 4 agosto in uno dei più interessanti siti di archeologia industriale con il progetto, a cura di Cinzia de Felice, “Le rovine circolari” all’interno di una delle grandi torri di raffreddamento della Centrale Geotermica Enel Green di Larderello (Pisa), cui è stata demolita la parte superiore, trasformando il basamento rotondo in una grande arena che invasa dall’acqua apparirà come un grande lago circolare. Quindi un’opera d’arte fruibile da tutta la comunità e che diventerà uno dei teatri all’aperto più unici al mondo. Ma indubbiamente suggestiva è stata comunque la messa in scena di Beatitudo all’interno della Fortezza Medicea il cui cortile si è presentato agli occhi dello spettatore ancora più ampio e indefinito con parte delle sbarre e dei cancelli divelti. Il colpo d’occhio è impressionante: tutto avviene quasi sempre dentro un’enorme vasca rettangolare coperta d’acqua su un’incerata che crea un effetto riflettente e una motilità e liquidità costanti. Avvolto dalla colonna sonora di Andrea Salvadori, ora minimalista, ora epica o ritmata lo spettacolo è sempre fluido e ogni presenza, sia pur incisiva e folgorante, risulta inafferrabile e si dissolve senza soluzione di continuità. Dai diciotto uomini con le loro lance di canna di bambù alte 15 metri che formano l’armata ai due contadini che seminano e annaffiano sull’acqua, dai libri che scivolano come barchette di carta in balia della corrente alle forme geometriche che galleggiano, dal bibliotecario alla principessa, dall’anziano che resta disteso sull’acqua per un tempo immemore alla donna che con voce angelica fa risuonare accenti balcanici, sono tutti personaggi simbolici e onirici. E l’evocazione finale con lo stesso Punzo che avanza con l’enorme telo sollevato alle sue spalle non è meno fantasmagorica e si presta a ogni soggettivo volo pindarico della mente. Cosa c’è di oggettivo invece? L’essenza del teatro testimoniata dalle parole udite in apertura: “Tutto accade qui per la prima volta”. E di inoppugnabile c’è anche l’unico svelamento che il regista della Compagnia della Fortezza ci concede: “Questo è un lavoro sulla felicità. Ma guardandoci dentro ci siamo resi conto di quanto eravamo piccoli, fragili e incapaci di confrontarci con la parola felicità. Abbiamo scoperto un inferno dentro di noi, è stato estremamente doloroso; l’inferno della nostra vita quotidiana, qualcosa che ti tiene legato, che non vuole che ti muovi. Ma non ci siamo fermati e abbiamo estratto quella spiritualità che avevamo dentro provando a farla crescere e a condividerla con gli altri”. In pratica una marcia verso la beatitudine, da “homo sapiens” a “homo felix”. Punzo: “trent’anni con i detenuti-attori contro ogni barriera” Corriere della Sera, 2 agosto 2018 “Le rovine circolari”, il nuovo spettacolo scritto e diretto da Armando Punzo per la compagnia della Fortezza, va in scena il 4 agosto alle 17 nell’arena creata appositamente alla centrale geotermica di Larderello. L’energia dei luoghi e delle persone - Un grande evento collettivo, a ingresso gratuito fino a esaurimento posti, voluto in occasione delle attività per i trent’anni della compagnia formata dai detenuti del carcere di Volterra, che non vuole essere uno spettacolo fine a se stesso ma è concepito come la creazione di una grande opera d’arte, fruibile da tutta la comunità e che possa diventare simbolo di un territorio. Un’opera concepita come un grandissimo evento site specific che prenderà forma nell’area della Centrale Geotermica Enel Nuova Larderello, all’interno della quale una monumentale torre di raffreddamento è stata riconvertita a nuovo uso. Un luogo che sottolinea il forte legame simbolico fra tra la Compagnia della Fortezza e uno dei più interessanti siti di archeologia industriale esistenti in Italia, che si fa metafora di una esperienza artistica e culturale senza precedenti in quanto luogo di trasformazione e creazione di energia positiva. Il refrigerante geotermico come tempio dell’arte - La parte superiore è stata demolita, mentre il basamento e l’opera inferiore sono stati mantenuti e ristrutturati dando forma ad una grande arena dall’acustica particolarissima (l’ambiente è delimitato dalle pareti basse della torre di raffreddamento) e dallo scenario suggestivo dovuto all’unione di grandiosi elementi di archeologia industriale a una moderna concezione di opera contemporanea. Il refrigerante geotermico sarà invaso di acqua come a creare un grande lago di forma circolare con musiche e ritmi percussivi eseguiti dal vivo che trasformeranno lo spettacolo in una gigantesca opera d’arte che sarà fruita dal pubblico in maniera totalmente diversa, e dallo stesso pubblico partecipante quasi ri-creato in una nuova veste e con anche quest’ultimo trasformato, a sua volta, in opera d’arte. Una scenografia magnificente, appositamente progettata, concepita come la gradinata di un antico tempio circolare, che diventerà parte integrante del sito trasformandolo in uno dei teatri all’aperto più unici al mondo. Punzo e Borges - In autunno il tour in diverse città. Stavolta Punzo ha esplorato il mondo di Borges, i suoi personaggi sospesi tra realtà e sogno, in bilico tra infinite possibilità. Un lavoro drammaturgico che pesca nell’intera opera del grande scrittore argentino e si traduce in un raffinato gioco di riflessioni, movimenti individuali e corali, intermezzi e sottofondi musicali. Gli elementi borgesiani ci sono tutti: i libri, il labirinto, gli specchi. Ma è l’acqua a sciogliere ogni certezza. Con Funes, il Virgilio della messa in scena incarnato da Punzo, si compone il firmamento letterario di Borges: da Cartaphilus, all’Uomo Grigio, da Emma Zunz ad Asterione. Costumi e trucchi tra il surreale e l’espressionismo. Recitazione intensa, questa è la fucina da cui è uscito un attore come Aniello Arena, ed altri già mostrano un talento naturale forgiato dallo studio. Colpisce ancora la qualità perseguita in ogni dettaglio. “Mai cedere nell’essere esigenti - dice Punzo, vincitore di 5 premi Ubu -. L’impegno è necessariamente totalizzante, fare una regia dietro le sbarre una volta ogni tanto non servirebbe a nulla, il carcere si riprende tutto”. “Le barriere? Sono dentro di noi” - Ma Punzo non sente l’urgenza della redenzione. “Ogni spettacolo non è pensato per i detenuti, ma per il pubblico. Voglio che attori e spettatori entrino in un’altra dimensione, dimenticandosi del carcere. Le barriere da superare sono dentro di noi”. Eppure per i detenuti (quest’anno in scena circa 80) si tratta di un’esperienza che cambia il senso della loro esistenza. Mesi di studio, workshop intensivi, prove. Quando la famiglia di Punzo si arricchisce di assistenti e stagisti che fanno a gara per stare accanto a questo guru, prossimo ai 60 anni, con il carattere e il fisico di un ballerino di flamenco. Ora l’obiettivo è realizzare un centro di formazione stabile che irradi il metodo e la filosofia in altre strutture italiane. Poi, com’è giusto che sia, la regole del carcere riprendono il sopravvento. Una buona parte dei detenuti non ha il permesso di uscire per le recite in teatro. Arrivano a sostituirli anche gli ex carcerati che hanno conosciuto questa esperienza artistica. Sempre pronti a dare una mano, lancia (o meglio bambù) in resta. Sorveglianza online, anche Amnesty International presa di mira di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 agosto 2018 All’inizio di giugno un membro dello staff di Amnesty International ha ricevuto un messaggio sospetto in lingua araba via WhatsApp. Il testo conteneva dettagli su una protesta di fronte all’ambasciata dell’Arabia Saudita a Washington D.C. ed era seguito da un link. “Per favore, prendi parte alla protesta per i tuoi fratelli detenuti in Arabia Saudita, di fronte all’ambasciata saudita a Washington. Mio fratello è stato arrestato durante il Ramadan e io ho attualmente una borsa di studio, quindi per favore non fare riferimento a me (link). Segui la protesta che inizierà tra meno di un’ora. Abbiamo bisogno del tuo sostegno!” Gli esperti in tecnologia di Amnesty International hanno verificato che, se il destinatario avesse aperto il link, sul suo smartphone si sarebbe installato “Pegasus”, un sofisticato software di sorveglianza sviluppato dalla compagnia israeliana Nso Group. Uno smartphone infettato da “Pegasus” viene completamente controllato da chi lo ha attaccato, consentendogli di spiare chiamate telefoniche, messaggi, immagini, liste di contatti e altro ancora. Il messaggio WhatsApp al membro dello staff di Amnesty International è stato inviato durante una settimana in cui l’organizzazione stava svolgendo una campagna per il rilascio di sei attiviste per i diritti umani arrestate in Arabia Saudita. Un altro attivista che si occupa di diritti umani in Arabia Saudita ha ricevuto un messaggio del genere. “È noto che la Nso Group vende il suo software di spionaggio solo ai governi. Crediamo quindi che si sia trattato di un tentativo di spiare Amnesty International da parte di un governo ostile al nostro lavoro”, ha dichiarato Joshua Franco, direttore del programma Tecnologia e diritti umani di Amnesty International. Ulteriori indagini di Amnesty International hanno scoperto che il dominio del link appartiene a un’ampia infrastruttura di oltre 600 siti sospetti precedentemente collegata alla Nso Group. Amnesty International teme che una situazione del genere potrebbe verificarsi ai danni di altri attivisti per i diritti umani in ogni parte del mondo. Nel 2017 il gruppo di ricerca Citizen Lab di Toronto ha scoperto il coinvolgimento della Nso Group in un simile sistema di spionaggio in Messico. Attivisti, giornalisti e dirigenti dell’opposizione politica hanno ricevuto falsi messaggi contenenti “Pegasus” allo scopo di ridurre al silenzio le voci critiche. “Pegasus” è stato usato anche per colpire il noto difensore dei diritti umani degli Emirati Arabi Uniti Ahmed Mansoor, in carcere dal 2017. Questa è la replica inviata della Nso Group ad Amnesty International: “La Nso Group sviluppa cyber-tecnologia per consentire alle agenzie governative di identificare e stroncare piani terroristici e criminali. Il nostro prodotto è concepito per essere usato esclusivamente nelle indagini e nella prevenzione dei reati e del terrorismo. Ogni uso della nostra tecnologia che sia contrario a quello scopo è una violazione delle nostre politiche, delle norme contrattuali e dei valori che difendiamo come compagnia”. “Se emerge una denuncia riguardante una violazione del nostro contratto o l’uso inappropriato della nostra tecnologia, come Amnesty ha fatto sapere, noi svolgiamo indagini e prendiamo le iniziative appropriate basate sulle nostre conclusioni. Apprezziamo ogni singola informazione che possa aiutarci in ulteriori indagini sul caso”. Repubblica Centrafricana. Uccisi tre giornalisti, giravano documentario sui mercenari di Putin di Micol Flammini Il Foglio, 2 agosto 2018 Russofobia e russofilia a confronto. Ragionare di Russia, parlare di Putin sembra ormai impossibile senza esprimere esaltazione o terrore. Intanto, mentre Stati Uniti e Unione europea scelgono se sedersi dalla parte dei russofili o dei russofobi in base a questa dicotomia ci si indebolisce, il Cremlino coltiva anche altre amicizie. La Russia è in Africa da anni e lì non cerca materie prime o pozzi di petrolio, ma capitale umano. Questo è quello che fa in Nigeria, Kenya e Repubblica centrafricana, dove sono stati uccisi martedì tre cittadini russi. Un giornalista, un regista e un cameraman. Orkhan Dzhemal, Aleksandr Rastorguev e Kirill Radchenko. Personaggi molto conosciuti in Russia. Nella storia della morte dei tre si concentrano tutti gli scandali di Mosca: l’Ucraina, le truppe mercenarie, il cuoco di Putin e persino Mikhail Khodorkovski, magnate russo del petrolio, oppositore del Cremlino in esilio a Londra. Rastorguev, Dzhemal e Radchenko erano in Repubblica centrafricana per girare un documentario, finanziato da Khodorkovski, sulla Wagner, la compagnia di mercenari sostenuta economicamente da Yevgeny Prigozhin, conosciuto come il cuoco di Putin. Che Prigozhin stesse spostando i suoi interessi dal medio oriente - dove il magnate a capo della società Euro Polis ha un accordo, confermato anche dall’ambasciatore siriano a Mosca, con il governo siriano per proteggere i pozzi di petrolio e ottenere in cambio il 25 per cento dei proventi -all’Africa era una notizia che circolava sui giornali russi da alcuni mesi. I tre cittadini russi cercavano le prove dell’attività di questo esercito parallelo di una Russia sotterranea, che sembra avere anche un presidente alternativo, ma molto vicino al Cremlino: Yevgeny Prigozhin. Dzhemal era un giornalista esperto di islam radicale, di Caucaso e studiava le mosse dei contractor sin dalla loro comparsa in Ucraina, dove inizialmente Progozhin finanziava i separatisti del Donbass per poi decidere di mettere su il suo esercito, attività che univa alla fabbrica dei troll di San Pietroburgo, la Internet research agency artefice delle interferenze nelle presidenziali americane. La missione russa in Africa non sarebbe paragonabile però né a quella in medio oriente, non è lì per sfruttare le risorse del territorio, né a quella in Europa o negli Stati Uniti, non ha interesse a interferire nella politica. La Russia sarebbe lì con un progetto a lungo termine, per creare la nuova classe dirigente, formare truppe, insomma russizzare il capitale umano approfittando dei vuoti di potere. Secondo un’inchiesta di Kommersant, Prigozhin avrebbe anche progettato di mandare degli aspiranti politologi africani a studiare in Russia per farli tornare in prossimità delle elezioni, secondo una strategia che Mosca utilizzava sin dalla Guerra fredda. Era stato il governo francese il primo a osservare con preoccupazione la presenza di truppe di Mosca irregolari nella Repubblica centrafricana. I russi inizialmente avevano ottenuto il via libera dall’Onu per portare nella regione armi di piccolo calibro e istruttori che insegnassero a usarle. Per più di sei mesi, Mosca ha mantenuto una presenza militare costante nella Repubblica centrafricana, un paese in cui dal 2013, in seguito al rovesciamento dell’ex presidente Francois Bozizé, continuano gli scontri e gli attacchi sferrati contro i Caschi blu. L’operazione russa però deve essersi spinta oltre, e insieme ai militari sarebbero arrivati anche i mercenari e dei consulenti che lavorerebbero con il presidente Taoudera, che tra le sue guardie del corpo avrebbe anche quaranta russi. I tre cittadini russi sono stati uccisi da dei ribelli mentre tornavano dalla città di Sibut, a 200 chilometri dalla capitale, dove gli istruttori di Mosca da gennaio addestrano ed equipaggiano le forze armate nazionali. Aleksandr Rastorguev, Orkhan Dzhemal e Kirill Radchenko sono stati uccisi a un posto di blocco, tornavano dopo aver fatto delle riprese, erano stati nei posti in cui operano le truppe mercenarie della Wagner, e la loro attività non doveva essere ben vista. Dzhemal era un giornalista di inchiesta, amava intrufolarsi in tutte le malefatte del Cremlino, guerre mercenarie incluse. E poi c’è Mikhail Khodorkovski, l’oligarca dissidente, ex proprietario della Yukos, compagnia petrolifera rilevata da Rosneft. Khodorkovski ha molti conti in sospeso con Putin, fu condannato nel 2010 per appropriazione indebita e riciclaggio di denaro. Secondo molti osservatori non era vero, il presidente voleva soltanto liberarsi di uno degli uomini più potenti della Russia, uno dei pochi oligarchi che lo avevano contestato, che si era arricchito senza il suo permesso. Malawi. Grazie a Sant’Egidio arriva l’acqua corrente per i detenuti di quattro carceri di Stefano Pasta Avvenire, 2 agosto 2018 In Malawi le piaghe da decubito possono venire per come si dorme in prigione. L’uno ammassato all’altro, sdraiati su un fianco perché, pur per terra, non c’è posto per tutti. Ogni tanto una guardia urla un ordine e tutti devono voltarsi sull’altro lato. “Più che celle - spiega Paola Germano della Comunità di Sant’Egidio - sono caverne senza spazio, luce e aria. Le condizioni carcerarie sono molto critiche in Italia, ma diventano drammatiche in Malawi, uno dei paesi più poveri al mondo secondo l’Onu”. Sant’Egidio - con oltre 10mila membri nel piccolo Stato africano - è presente in 15 carceri malawiane da 14 anni. Dietro le sbarre manca tutto: letti, cibo, medicine, coperte. Non c’è acqua per bere, per lavarsi, per cucinare e mantenere le condizioni igieniche minime. Per questo la Comunità ha costruito il sistema idrico di quattro prigioni: sabato 14 luglio c’è stata l’inaugurazione di 6 rubinetti, docce e gabinetti in quella di Mulanje, al confine con il Mozambico e alla falde della grande montagna che molti ritengono piena di spiriti. Grande festa anche tra le case intorno: l’acqua arriverà anche a loro. Un coro misto di detenuti e abitanti “oltre le sbarre” cantava: “Community, unity”. “Il primo nostro impegno - racconta Paola Germano - è visitare i carcerati, costruendo un rapporto di amicizia e ponti tra dentro e fuori. Conosciamo oltre 10mila detenuti”. In Malawi e in altri Stati africani vi è un forte disinteresse per gli arrestati: “I casi - continua - vengono dimenticati e si invecchia dietro le sbarre. Con i nostri legal clinic ci occupiamo di persone di cui nessuno ricorda neanche le ragioni della carcerazione”. Sono 3.500 quelle che Sant’Egidio ha liberato negli ultimi dodici mesi, compreso un anziano di 80 anni, detenuto con il nipote di 13: accusati di un furto mai dimostrato, erano reclusi da un decennio, magri scheletrici. “Si mangia - dice Germano - una specie di polenta solo una volta al giorno, per chi non ha parenti che portano del cibo la sopravvivenza è veramente dura”. Spesso si finisce in carcere per anni per piccoli furti per mangiare o ragioni assurde: “Molti ragazzi di strada vengono arrestati perché non hanno la carta di identità, che è a pagamento”. In Malawi non esiste un registro anagrafico statale, per questo il programma “Bravo!” di Sant’Egidio iscrive i bambini all’anagrafe. Molti dei diecimila membri di Sant’Egidio sono giovani: “Da loro viene la speranza per cambiare un paese in cui tutte le infrastrutture si reggono su due generatori, la carestia è endemica e le inondazioni per problemi ambientali sono cicliche”. Intanto dalla collinetta di Mulanje due volte alla settimana si sentono canti religiosi. Dall’amicizia con i membri della Comunità che visitano i detenuti, infatti, è scaturita la richiesta di preghiera e di speranza: all’interno del carcere è nato un gruppo di Sant’Egidio, formato da un centinaio di prigionieri e da alcune guardie. Racconta Germano: “Aiutano i prigionieri più deboli, fanno la preghiera due volte alla settimana. Il Vangelo è per tutti”. Marocco. Detenuti del movimento di protesta del Rif non chiederanno l’amnistia Nova, 2 agosto 2018 I detenuti del movimento di protesta del Rif non intendono chiedere l’amnistia reale, secondo quanto rivelato dai familiari. Lo hanno anche confermato i legali dei detenuti, aggiungendo che i loro legali preferiscono attendere le sentenze di appello. Lo scorso 15 luglio migliaia di persone hanno manifestato nella capitale Rabat contro l’arresto di leader e attivisti del movimento di protesta della regione settentrionale scossa tra il 2016 e il 2017 dalle violente manifestazioni organizzate dal movimento Al Hirak al Shaabi (Movimento popolare). Lo scorso 26 giugno un tribunale marocchino ha condannato 53 membri del Movimento Hirak a pene detentive da un anno a 20 anni. Il leader della protesta Nasser Zefzafi e altri tre sono stati condannati a 20 anni di prigione per aver complottato e minato la sicurezza dello Stato.