La solidarietà dei Magistrati di Sorveglianza dopo l’attacco informatico Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2018 Il Coordinamento nazionale magistrati si sorveglianza esprime alla Redazione di Ristretti Orizzonti ed al Suo Direttore Ornella Favero piena solidarietà per l’attacco informatico di cui la rivista on-line è stata inspiegabilmente vittima. L’archivio di Ristretti Orizzonti costituisce un insostituibile strumento di informazione per l’intero mondo penitenziario e non solo per quello, e i due attacchi hacker a 48 ore di distanza l’uno dall’altro hanno distrutto un archivio ventennale che, ora, ci auguriamo possa essere interamente ricostruito dalle copie di backup. Anche il sito del Conams è in costante collegamento con l’archivio medesimo, per documentare dati statistici e notizie che spesso passano inosservate. La redazione di Ristretti Orizzonti, operante nella Casa di Reclusione di Padova e fatta di volontari e detenuti, è diventata in questi anni un sicuro punto di riferimento e deve poter continuare ad esserlo: intorno ad essa sono nati progetti straordinari e percorsi culturali che anche per questo rischiano di perdersi. Il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di sorveglianza Decreto di riforma alla Camera. Per i minori meno cella e più lavoro di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 29 agosto 2018 Per i minori autori di reato la risposta è la misura penale di comunità; in carcere ci vanno solo come extrema ratio, e comunque per studiare e imparare un mestiere e porre le basi per rifarsi una vita. È quanto prevede lo schema, approvato in via preliminare dal governo il 22 febbraio 2018, di Decreto legislativo, attuativo della legge 103/2017, per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori. Lo schema di Decreto legislativo è all’ordine del giorno dei lavori della Commissione giustizia della camera calendarizzati il 6 settembre 2018. All’esito del parere il testo tornerà al consiglio dei ministri per il via definitivo. I principi da realizzare sono i seguenti. Primo rafforzare l’istruzione e la formazione professionale e i contatti con la società esterna in funzione del reinserimento sociale. Sul piano del trattamento si rafforzano le misure alternative alla detenzione attraverso la previsione di misure conformi alle istanze educative del minorenne (con applicazione delle misure ai cosiddetti giovani adulti (fino a 25 anni). Per i minori priorità dunque alle misure alternative al carcere che si chiamano “misure penali di comunità”. Esse comprendono: l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare la semilibertà, l’affidamento in prova terapeutico. Tutte si inquadrano in un programma di intervento educativo e con l’applicazione delle misure può essere disposto il collocamento del minorenne in comunità pubbliche o del privato sociale, organizzate anche in modo da ospitare solamente minorenni sottoposti a procedimento penale o in esecuzione di pena. La misura penale di comunità prevede anche lo svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito, o di volontariato, purché compatibili con le attività di istruzione, formazione professionale, esigenze di famiglia e di salute del minorenne. Ci deve esser anche un coinvolgimento del nucleo familiare del minorenne nel progetto di intervento educativo. Per avviare le misure di comunità è prevista la sospensione dell’ordine di esecuzione di pene detentive, così da consentire la presentazione della richiesta. Per tutte le misure alternative è eliminato qualsiasi automatismo che implichi la modifica o la revoca: ci vuole sempre la valutazione di un giudice. Alla scadenza della misura di comunità il decreto in esame garantisce un intervento di sostegno e accompagnamento da parte dei servizi socio-sanitari territoriali, per agevolare il inserimento sociale, attraverso la cura, anche dei contatti con i familiari e con le altre fi gure familiari di riferimento. Passando, invece, al carcere, il decreto riscrive le regole penitenziarie. Prevede camere di pernottamento aperte, permanenza all’aperto per almeno 4 ore al giorno. I detenuti, poi, devono essere avviati a frequentare i corsi di istruzione, formazione professionale, e prepararsi a un inserimento nel mondo lavorativo. Il decreto fa attenzione anche alla vita affettiva del minore recluso, che ha diritto a otto colloqui mensili, di almeno un’ora, con congiunti e con coloro con cui sussiste un significativo legame affettivo. Il decreto detta le regole fondamentali della convivenza carceraria. Sono richieste osservanza degli orari, cura dell’igiene personale, pulizia e ordine della camera di pernottamento; partecipazione all’attività; consumazione dei pasti nelle sale e non in camera; rispetto con gli operatori e con gli altri detenuti. Si parla, poi, di vigilanza dinamica, Con ciò si intende che le camere di pernottamento, al di fuori delle ore dedicate al riposo sia pomeridiano che notturno, debbano restare aperte; previste anche sezioni a custodia attenuata per ospitare detenuti non pericolosi o prossimi alle dimissioni e ammessi allo svolgimento di attività all’esterno. Anche per i minori detenuti, il decreto si occupa del “dopo”. Nei sei mesi precedenti le dimissioni, si devono verificare programmi educativi o dì formazione professionale, di lavoro e di sostegno all’esterno, attivando sul territorio le possibili risorse educative, di formazione, di lavoro e di sostegno. Decreto di riforma alla Camera. Pure nel penale si può far pace di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 29 agosto 2018 Dipendenti pubblici mediatori tra la vittima e il reo, anche nelle carceri. È in Commissione giustizia alla Camera lo schema di Dlgs sulla giustizia riparativa. Vittima e autore di reato, se lo vogliono, possono fare pace. Grazie anche al mediatore penale professionale (cioè un dipendente comunale o statale). Ma il risarcimento patrimoniale alla persona offesa (o ai familiari) non è un obiettivo specifico. È la sintesi dello schema di decreto legislativo, approvato in via preliminare dal governo il 22 febbraio 2018, in materia di disposizioni in materia di giustizia riparativa e mediazione reo-vittima, attuativo della legge delega 103/2017, all’ordine del giorno dei lavori della commissione giustizia della camera calendarizzati il 6 settembre. All’esito del parere il testo tornerà al consiglio dei ministri per il via definitivo. Il decreto legislativo in itinere risponde all’idea della pacificazione reo-vittima, in ottica di prevenzione speciale (evitare recidive da parte del reo) e generale (migliorare la convivenza sociale). La trasformazione di questa idea in risultati concreti sarà oggetto di valutazione statistica una volta maturati i tempi per fare bilanci. Al momento ci si deve limitare alla descrizione e alla comprensione dell’istituto. Istituto che ha uno sbarramento iniziale molto alto: tutti devono fare un passo avanti e devono volere essere protagonisti di questo passaggio di riparazione. Il consenso potrebbe essere la chiave di volta dell’operazione, ma anche la porta che non si apre nemmeno. L’altro aspetto è che si scommette sul valore della riconciliazione, mettendo in secondo piano gli interessi. Il discorso vale sia per il reo, sia per la vittima: che cosa si mette in tasca ciascuno dei due non è immediatamente tangibile. In questo quadro diventa veramente arduo il lavoro del mediatore penale professionale, che si deve mettere in mezzo a una situazione di divisione conflitto e trasformarla in una situazione di moltiplicazione di affetti. Partiamo dal consenso. Il consenso, da mettere sempre per iscritto, dei soggetti coinvolti costituisce elemento fondamentale per l’avvio dei programmi di giustizia riparativa, e deve essere un consenso consapevole, cioè libero e informato, sempre revocabile. Se non c’è consenso, non ci sarà programma di riparazione. Quanto agli interessi, il decreto deliberatamente persegue questo interesse: i programmi di giustizia riparativa non possono, in ogni caso, essere previsti come sanzione o condizione per accedere a benefici. Dal punto di vista del reo, se il programma di riparazione fallisce, niente di irreparabile, perché l’esito negativo non pregiudica l’accesso a misure alternative o ad altri benefici carcerari; se, invece, è positivo non c’è un vantaggio immediato, in quanto tutto ciò sarà genericamente rimesso alla valutazione della magistratura di sorveglianza sul percorso di reinserimento sociale del condannato. Anche per la vittima gli interessi devono essere messi in secondo piano. Il programma può chiudersi con un accordo di riparazione di contenuto anche solo simbolico. I lavori parlamentari spiegano che il ristoro materiale non è, infatti, lo scopo del procedimento. L’accordo potrebbe limitarsi a scuse formali da parte del reo e/o allo svolgimento di attività socialmente utili e, sempre le relazioni illustrative del decreto spiegano che, in tale ultima evenienza si avrebbe una commistione tra attività riparativa verso la vittima e attività riparativa nei confronti della collettività. In sostanza riparazione e risarcimento sono due concetti diversissimi. L’attore principale sarà il mediatore penale professionista, descritto come soggetto alle dipendenze delle amministrazioni statali e locali, soprattutto quelle comunali, senza previsione di compensi, gettoni, rimborsi ed altre forme di indennità per le attività svolte in qualità di mediatori. La riforma deve essere a costo zero. Se la devono sbrigare Stato e, soprattutto, Comuni con i mezzi finanziari a disposizione (il provvedimento si chiude con la famosa clausola di invarianza). Ultimo punto: il programma potrà essere usato anche per la gestione dei conflitti all’interno degli istituti penali e, quindi, per obiettivi di serenità penitenziaria. La democrazia svanisce se diventa illiberale di Sabino Cassese Corriere della Sera, 29 agosto 2018 Salvini ha incontrato il premier ungherese Orbán, fautore di un disegno impossibile. Il vice-presidente del Consiglio dei ministri italiano ha incontrato a Milano il Primo Ministro ungherese Viktor Mihály Orbán. Quest’ultimo ha dichiarato già da tempo che “i valori liberali occidentali oggi includono la corruzione, il sesso, la violenza”, e che “i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona”. Ispirato da questi orientamenti, ha poi trasformato la televisione pubblica in un mezzo di propaganda governativa, limitato la libertà di stampa, l’autonomia universitaria e l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Ha inoltre ridisegnato i collegi elettorali, fatto approvare una legge elettorale che gli consente di avere la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, con il 45 per cento dei voti, dato una svolta nazionalistica e anti-immigrazione al governo. Il maggiore esperto dei problemi ungheresi, la professoressa Kim Lane Scheppele, dell’Università di Princeton, ritiene che oggi l’Ungheria abbia una “costituzione incostituzionale” e il “Washington Post” qualche mese fa ha intitolato una sua analisi della situazione ungherese “la democrazia sta morendo in Ungheria e il resto del mondo dovrebbe preoccuparsi”. Orbán, tuttavia, è stato eletto e rieletto, e gode quindi di un consenso popolare. Perché allora tante voci preoccupate? Basta il voto popolare per legittimare limitazioni delle libertà? Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una “democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale. La democrazia non può fare a meno delle libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Ruggiero, nella sua “Storia del liberalismo europeo”, i principi democratici sono “la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo”: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi. Quindi, “una divisione di province tra liberalismo e democrazia non è possibile”. Una “democrazia illiberale” non è una democrazia. Tutto il patrimonio del liberalismo è parte essenziale della democrazia, così come oggi lo è quello del socialismo. Queste tre grandi istanze che si sono succedute negli ultimi due secoli in Europa e nel mondo, fanno ormai corpo. Il liberalismo con le libertà degli uomini e l’indipendenza dei giudici. L’ideale democratico, con l’eguaglianza e il diritto di tutti di partecipare alla vita collettiva (suffragio universale). Il socialismo con lo Stato del benessere e la libertà dal bisogno (sanità, istruzione, lavoro, protezione sociale). Questi tre grandi movimenti, pur essendosi affermati in età diverse, e pur essendo stati inizialmente in conflitto tra loro (come ha spiegato magistralmente, nel 1932, Benedetto Croce nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono”) fanno ora parte di un patrimonio unitario e inalienabile come è dimostrato da due importanti documenti internazionali, il Trattato sull’Unione europea e la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite. Il primo dispone che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”. Il secondo che le Nazioni Unite si impegnano a “promuovere la democrazia e a rafforzare il rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali”. L’Italia è ora in un punto di passaggio critico, nel quale si decide il futuro delle sue libertà e la sua collocazione internazionale, tra quelli che sono stati per secoli i nostri “compagni di strada” ed esempi (Francia, Germania, Regno Unito) o nuovi alleati. Che significato possiamo attribuire a un “incontro esclusivamente politico e non istituzionale o governativo”, ma tenuto in Prefettura, tra il primo ministro ungherese e un vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano? La battaglia finale di Orbán (e Salvini) per un’Europa nazionalista e filo-autoritaria di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 29 agosto 2018 Quella costituita da Italia e Ungheria è una “strana alleanza”, strutturalmente fragile sul piano dell’immigrazione. Ma il piano del leader ungherese è quello di formare un’avanguardia per una riforma strutturale del progetto europeo. Appena prima dell’incontro in Prefettura, Viktor Orbán ha definito Matteo Salvini un eroe e un compagno di destino. Al di là dei toni epici e della cortesia diplomatica, il canale privilegiato aperto tra Italia e Ungheria è oggetto di attenzione crescente in Europa, dove sono cominciate le manovre di posizionamento in vista delle elezioni del prossimo anno per il rinnovo dell’Europarlamento. Pur inserendo la visita nel contesto del dialogo tra partiti e non dei rapporti intergovernativi, la prima mossa del leader nazional-populista ungherese a Milano è stata proprio d’inquadramento e legittimazione di questa “strana alleanza” strutturalmente fragile sul piano dell’immigrazione. La Lega salviniana e Fidesz di Orbán rivendicano infatti una comune linea anti-migranti ma le posizioni dei due Paesi poggiano su presupposti diversi: l’Italia vuole solidarietà comunitaria e condivisione degli oneri, l’Ungheria si oppone da sempre alla ripartizione dei richiedenti asilo secondo lo schema delle quote Ue. Il rafforzamento delle frontiere esterne è la cornice che finora ha permesso di tenere insieme i due approcci, ma adesso Orbán spinge per accreditare il principio di fondo della politica di Budapest, del resto sempre dichiarato: l’immigrazione non va controllata, ma fermata. Per questo indica nell’Italia un Paese gemello, deciso ad arrestare i flussi del Mediterraneo come l’Ungheria ha fatto via terra chiudendo le frontiere e alzando muri di acciaio e filo spinato già nel 2015. “La missione di Salvini - ha dichiarato Orbán - è dimostrare che si può fare anche in mare”. Secondo, cruciale obiettivo di Budapest: sondare in concreto le possibilità d’intesa con l’alleato italiano per formare il nucleo operativo di un più ampio schieramento che è la grande ambizione di Orbán. Un’avanguardia per una riforma strutturale del progetto europeo, che fondi una nuova identità comunitaria capace di esaltare gli Stati nazionali e le forze politiche con vocazione autoritaria. A fine luglio, nel consueto discorso annuale agli ungheresi di Romania, Orbán ha esposto con chiarezza il suo programma, riprendendo l’ormai nota formula della democrazia illiberale e allargandola a una “democrazia cristiana” sola alternativa all’ordine liberale istituito dalle “élite prodotte dal 1968”. Nella visione di Orbán, che si candida a naturale leader del nuovo fronte, il voto del 2019 si configura come la battaglia finale tra due idee di Europa. Per il suo partito, Fidesz, si profila dunque un’uscita dal Partito popolare europeo, a propria volta sempre più a disagio, oltre che per le tensioni sui migranti, per la deriva repressiva del governo magiaro e le relazioni pericolose con la Russia di Vladimir Putin? Sull’espulsione della formazione della destra ungherese dal Ppe ha sempre frenato in primis la Germania. La versione ufficiale negli ambienti di Fidesz è che il salto non sia ancora deciso e che il premier punti a restare nel Ppe, trasformandolo in senso identitario: se però il più grande gruppo dell’Europarlamento si dimostrerà irriformabile, nuove alleanze non sono più da escludere. Non a caso Orbán ha precisato di aver sentito Silvio Berlusconi - Forza Italia è nel Ppe - per avere il via libera all’incontro con Salvini. Che Orbán voglia solo dare l’impressione di poter giocare su più tavoli per tenere a bada i malumori interni ai Popolari europei? Bluff o strategia, la partita è solo cominciata. Scuole, telecamere antispaccio. Più polizia locale e Daspo urbano nelle grandi città di Stefano Manzelli ed Enrico Santi Italia Oggi, 29 agosto 2018 La direttiva di Salvini. Interessati per adesso i comuni con oltre 200 mila abitanti. Scuole più sicure nelle grandi città con potenziamento dei sistemi di videosorveglianza urbana e una maggiore presenza della polizia locale nell’attività di prevenzione e di controllo nelle aree limitrofe ai plessi scolastici. Ma per avere accesso al finanziamento ministeriale previsto da Viminale per queste attività occorrerà presentare entro il 20 settembre un progetto strategico alla prefettura. E verificare bene la possibilità di utilizzare effettivamente queste somme a favore del personale di vigilanza e degli impianti tecnologici tra vincoli normativi di bilancio e direttive ministeriali molto complesse. Con necessità di completare i progetti entro il prossimo anno scolastico. Sono 2,5 i milioni messi sul piatto dal ministero dell’interno. È questo l’obiettivo della direttiva del ministro Salvini sulle scuole sicure diramata il 26 agosto, cui dà seguito e attuazione una circolare in pari data del capo di gabinetto. Con la direttiva prot. n. 17287/110/1 del 26 agosto il ministro dell’interno detta le linee di indirizzo per garantire la prevenzione e il contrasto dello spaccio di sostanze stupefacenti nei pressi degli istituti scolastici. La direttiva sollecita le amministrazioni statali, le forze di polizia e gli enti locali a intensificare la collaborazione per attuare una forte prevenzione e superare le forme più gravi di devianza scolastica. In particolare, il ministro dell’interno evidenzia l’importanza di mettere in campo una complessiva e ampia strategia d’azione sul territorio, da realizzare con gli enti locali e con la condivisione delle autorità scolastiche, per controllare nelle aree circostanti agli istituti scolastici la vendita e la cessione di sostanze stupefacenti. Un’intensificazione dell’impegno in tal senso viene richiesto alla forze di polizia. Ma di fondamentale importanza è il ruolo dei comuni su vari fronti, come la messa in sicurezza delle aree limitrofe alle scuole, la realizzazione di impianti di videosorveglianza, la partecipazione della polizia locale alle attività di controllo sul territorio, la previsione (mediante inserimento nel regolamento comunale) dei plessi scolastici come aree su cui applicare il Daspo urbano. Proprio per l’importanza dell’attività di prevenzione e di controllo che può essere svolta dagli enti locali, il ministro Salvini comunica il sostegno finanziario delle iniziative che le amministrazioni dei comuni più popolosi vorranno porre in essere sul territorio, a integrazione di quelle adottate dalle forze di polizia. In tal senso, con la circolare in pari data, 26 agosto, il capo di gabinetto precisa e dettaglia le modalità di finanziamento e i comuni destinatari. In sostanza, vengono messe a disposizione dei centri urbani di maggiori dimensioni risorse per un totale di 2,5 milioni di euro. Si tratta dei comuni con più di 200 mila abitanti, ovvero Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina Padova e Trieste. L’ammontare di 2,5 milioni di euro sarà ripartito in rapporto al numero di abitanti. La domanda per accedere ai contributi dovrà essere trasmessa alla locale prefettura entro il 20 settembre, unitamente a una scheda progettuale con le correlate voci di spesa. I progetti non dovranno superare l’arco temporale dell’anno scolastico 2018-2019. I contributi potranno essere erogati per coprire sia spese correnti che spese di investimento, ma le spese correnti non potranno superare il 50% e una quota dovrà essere utilizzata per finanziare compagne educative. Per quanto concerne la realizzazione di sistemi di videosorveglianza, occorre che questi non abbiano già beneficiato di forme di contribuzione pubblica. Potranno essere calcolate anche le spese per l’assunzione di agenti di polizia locale a tempo determinato e le spese per prestazioni di lavoro straordinario. Sul punto, però, la circolare ministeriale richiama l’obbligo di rispettare la normativa e le disposizioni contrattuali; pertanto, occorrerà rispettare le limitazioni per i costi del personale, fra le quali rientrano anche quelle previste dall’art. 28, comma 9, del decreto legge n. 78/2010 per le assunzioni temporanee, la cui spesa va parametrata a quella sostenuta nell’anno 2009. I progetti trasmessi dai comuni alla locale prefettura entro il 20 settembre dovranno essere esaminati dal comitato provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica. In caso di realizzazione di impianti di videosorveglianza ne dovrà essere valutata la conformità alle direttive ministeriali in materia. Successivamente la prefettura dovrà trasmettere tutta la documentazione entro il 30 settembre al dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno e in caso di esito favorevole dovrà essere siglato un protocollo d’intesa. I Comuni saranno tenuti a presentare mensilmente un report sullo stato di attuazione e, a conclusione del progetto, una relazione finale con il rendiconto economico-finanziario. Per l’assoluzione riesame dei testi dell’accusa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 39077/2018. Dopo la riforma Orlando del Codice di rito penale, se il pubblico ministero fa appello contro un’assoluzione sulla quale ha pesato la scarsa attendibilità di un testimone, il giudice deve rinnovare il dibattimento per riesaminarlo e verificare le nuove prove. Le modifiche al Codice di rito, introdotte con la legge 103/2017, tornano all’attenzione della Corte di Cassazione (sentenza 39077) perché tese a creare per la pubblica accusa un diritto speculare a quello riconosciuto all’imputato nel caso di ribaltamento della sentenza in un senso a lui sfavorevole. Le Sezioni unite, infatti, con la sentenza Dasgupta (27620/2016) hanno negato la possibilità di affermare la colpevolezza dell’imputato, accogliendo il “ricorso” del Pm, senza risentire i testi giudicati decisivi per l’assoluzione in primo grado. Un passo da fare, anche d’ufficio, secondo quanto previsto dal codice di procedura penale (articolo 603, comma terzo. La Cassazione precisa allora che, in nome dei principi che devono regolare il contraddittorio nel processo, il pubblico ministero ha diritto al pari trattamento. Dunque a far riesaminare i testi dell’ accusa e ad acquisire e verificare le prove sopravvenute, in grado di incidere sulla dichiarazione “svalutata” in primo grado. La Suprema corte sottolinea che questa interpretazione - in linea con un processo equo come disegnato sia dalle norme interne sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo - ha trovato una consacrazione nel nuovo Codice di rito penale (articolo 603, comma 3-bis). Un “tassello” in base al quale il giudice è tenuto a rinnovare il dibattimento, in caso di appello del Pm, contro un’assoluzione per la quale è stata decisiva la scarsa credibilità di una dichiarazione. Nello causa esaminata, ad essere considerata non troppo attendibile era stata la parte offesa vittima di usura ed estorsione. Nel processo c’era stato però un elemento nuovo costituito dalle affermazioni fatte da un collaboratore di giustizia in un altro procedimento. Il giudice di appello aveva negato però che le dichiarazioni del “pentito” avessero valore di nuove prove, considerandole non decisive ma una semplice ritrattazione. Un presupposto che l’aveva portato a respingere la richiesta del Pm di riascoltare la parte offesa. Per la Suprema corte l’istanza dell’accusa andava accolta, alla luce di quanto previsto dal codice di rito post riforma. Né si potevano “svilire” le nuove affermazioni del collaboratore, che andavano valutate, anche se considerate non indispensabili, ma in virtù della loro utilità nel processo. La decisività non é, infatti, un requisito richiesto e il dovere di un nuovo esame non viene meno, per il fatto che il collaboratore avesse “esternato” in un procedimento connesso o collegato. Ipotesi che il codice di rito ammette tra i mezzi di prova. Il nuovo esame dei testi controversi é, infatti, lo strumento che, per eccellenza, consente di raggiungere una decisione che rispetti il canone “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. Affido, con la riforma meno diritti per i figli di genitori separati di Alessandro Simeone* La Repubblica, 29 agosto 2018 Il Ddl Pillon prevede che i figli minorenni siano mantenuti con “parametri standard”: non sarà quindi obbligatorio che conservino le abitudini della loro vita precedente. Nuove regole anche per i maggiorenni: dai 25 anni viene meno ogni obbligo di mantenimento. Da sempre nella aule di Tribunali nelle sentenze si dice che il primo obiettivo di una “buona separazione” deve essere quello di limitare il più possibile di far ricadere sui figli gli effetti negativi delle scelte dei genitori: un bambino non deve pagare le conseguenze della disgregazione della coppia genitoriale. La riforma dell’affidamento, fortemente voluta dal Governo pentastellato, rivoluzionerà però questo panorama. Il Disegno di legge, infatti, prevede (art. 11) che i figli minorenni di genitori separati debbano essere mantenuti secondo “parametri standard” che non contemplano, ad esempio, le abitudini di vita precedenti, ovverosia quelle consolidate quando i genitori vivevano insieme oppure andavano d’accordo. Se, ad esempio, un adolescente faceva un corso di tennis quando mamma e papà stavano insieme, dopo la separazione perderà questo diritto anche se magari i genitori possono continuare a permetterselo. Ben altro è il destino che la legge riserva ai figli di coppie unite che sono invece mantenuti integralmente nel rispetto delle proprie aspirazioni e abitudini di vita (art. 315 bis codice civile). Il ddl è inflessibile per i figli maggiorenni (art.15): devono essere autonomi entro i 25 anni, anno in cui viene meno ogni obbligo del genitore separato di mantenerlo. Anche se il figlio non trova lavoro, sta frequentando un corso di laurea lungo o un master, o è rimasto fermo per qualche anno per motivi di salute. Anche per i maggiorenni è evidente la disparità di trattamento rispetto ai figli di “non separati” che continueranno a essere mantenuti senza limiti di età, sempre che non siano dei “fannulloni”. Nel quel caso, già oggi è previsto che venga meno ogni diritto al mantenimento, indipendentemente dall’età). La riforma - peraltro molto probabilmente incostituzionale - creerà una nuova categoria di discriminati: i figli di coppie separate, trattati diversamente rispetto agli altri. Con buona pace del tanto declamato “best interest of the child” (migliore interesse del fanciullo) che ricorre frequentemente nella relazione di accompagnamento del Disegno di legge. *Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista Reato vendere acqua esposta al sole anche per breve tempo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2018 Corte di cassazione - sentenza 39037/2018. Conservare l’acqua, destinata alla vendita, in bottiglie di plastica esposte al sole è un reato. E l’ammenda scatta a prescindere da un tempo di esposizione prolungato. Tolleranza zero della Cassazione (sentenza 39037) nei confronti di chi non usa le dovute accortezze nel trattare gli alimenti deteriorabili, mettendo a rischio la salute dei consumatori. I giudici di Piazza Cavour hanno così respinto il ricorso del titolare di un esercizio commerciale, multato con 1.500 euro, per aver messo in vendita bottiglie di acqua minerale, tenute nel piazzale davanti al negozio prima di portarle all’interno. Inutilmente la difesa aveva puntato sui tempi brevi dell’esposizione alla luce, sostenendo che l’acqua era stata scaricata e lasciata all’aperto il tempo necessario a portarla nel deposito. Ma la Suprema corte chiarisce che la vendita di alimenti in cattivo stato di conservazione (articolo 5, legge 283/1982) è un reato di pericolo presunto. Con una soglia di punibilità anticipata vista l’importanza della salute come bene protetto. La violazione si concretizza dunque anche in assenza di un effettivo accertamento del danno al bene tutelato. Per configurare il reato basta verificare che siano state commesse delle azioni “idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento dell’alimento”. La norma ha, infatti, lo scopo di assicurare che il prodotto arrivi ai consumatori dopo essere stato trattato nel rispetto delle garanzie igieniche. E il cattivo stato di conservazione può essere accertato anche senza ricorrere a specifiche analisi di laboratorio, ma sulla base di dati obiettivi, come ad esempio un verbale ispettivo, foto o testimonianze. Del resto, il divieto di esporre le bottiglie d’acqua alla luce o al calore del sole è di vecchia data: risale al 20 gennaio del 1927. Un decreto ministeriale di allora faceva riferimento alle bottiglie di vetro, che non subiscono modificazioni in seguito al contatto con il calore. È evidente che la cautela deve essere ancora più stringente oggi. La Cassazione ricorda che l’acqua è un prodotto alimentare vivo e non va considerata in maniero troppo diversa dal vino e dall’olio. Per i giudici nel caso esaminato il reato c’è. È provato, grazie alle ispezioni, che l’acqua era stata esposta, in un periodo caldi come giugno e in una regione in cui il sole davvero non manca come la Sicilia. Tutti gli ambulanti sono avvertiti. Calabria: problematiche delle Rems, ne parla il dottor Luciano Lucanìa di Vanessa Seffer L’Opinione, 29 agosto 2018 Proprio a Girifalco, un comune in provincia di Catanzaro che oggi conta neppure seimila abitanti, nel 1879 venne costruito il primo manicomio del Sud Italia, dove i primi pazienti furono curati dal marzo del 1882. Terra di chiaroscuri la Calabria, patria di grandi medici, pionieri nelle cure e nell’assistenza delle patologie della mente. Così, dopo lunghi anni di esperienza nella storia della psichiatria, a quarant’anni dalla legge Basaglia nello stesso luogo che fu un grande centro per la salute mentale, sta per essere realizzata una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, una Rems, ma una molto speciale, tecnologica, bella esteticamente e in parte fruibile dai cittadini. Perché al suo interno avrà un poliambulatorio all’avanguardia, che manca sul territorio e questo potrà essere utilizzato anche dalla cittadinanza, vedremo come. Perché presto a Girifalco arriveranno per essere curati i pazienti psichiatrici che hanno commesso reati penali gravi. Ne parliamo con il dottor Luciano Lucanìa, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria Onlus (Simspe), specialista in chirurgia oncologica. Il rapporto con la persona con questo tipo di sofferenze è stata la sua vita parallela. Si occupa di carceri da trentadue anni. Ha cominciato come specialista, come medico d’istituto, poi ha lavorato al Provveditorato regionale calabrese. Nel 2008 è stato trasferito nella sua azienda sanitaria a Reggio Calabria, per coordinare tutti i servizi degli istituti carcerari della regione che sono 13, oltre al carcere minorile, dove prevale la criminalità organizzata e di sicurezza sostanzialmente ce n’è poca. Ha collaborato molto con il ministero della Sanità. Anni fa l’Università Cattolica ha pubblicato il nuovo “Manuale italiano critico di sanità pubblica”. È suo il capitolo su “Gli interventi di tutela della salute dei reclusi”. Così, le problematiche della Calabria arrivano sui tavoli nazionali. Quando si inizia a parlare di Rems in Calabria è automatico che sia stato chiamato ad occuparsene Lucanìa. Pur non essendo uno psichiatra, lei si è subito interessato molto al problema legato alle Rems... Sì. Perché era un modo di vedere il problema staccato da quello che può essere il pregiudizio clinico. Per cui ho partecipato a tutti i tavoli, ho lavorato al ministero della Salute con tutto il gruppo che si è costituito sul tema. Si è lavorato alacremente due anni Abbiamo sottoscritto una convenzione con la Regione Basilicata sulla Rems di Pisticci per cinque posti. Ne abbiamo sottoscritto una transitoria per 20 posti a Santa Sofia d’Epiro, nel Cosentino e abbiamo in costruzione molto avanzata una Rems regionale a Girifalco, di cui andiamo molto fieri, per 40 posti letto. Questo è un progetto davvero importante e significativo. Poche Rems hanno oltre 20 posti letto nel paese. Come è riuscito in una simile impresa? Se si tratta di dare esecuzione ad una misura e non c’è il luogo fisico in cui farlo, come si risolve e dove? La legge impone 20 posti. A me dicevano che 40 posti sono molti. Io dicevo “Serviranno!”. Continuo ad esserne convinto. Oggi disponiamo di 25 posti letto che non sono sufficienti, molte misure di sicurezza provvisorie vengono eseguite nelle strutture territoriali, nei servizi dei dipartimenti aziendali, ma ovviamente quando si parlò di ridurre il numero delle Rems non ne ero convinto e non l’ho fatto e, alla distanza, ho avuto ragione. La Rems di Girifalco si distinguerà per tecnologia, bellezza. Per il poliambulatorio al suo interno, ha pensato di fare una sintesi fra le esigenze del territorio, dei suoi cittadini e dei malati psichiatrici della Rems... Il fabbricato dell’Ottocento del complesso manicomiale di Girifalco è stato svuotato dei malati nel 2000 e completamente trasformato e rifunzionalizzato, con due uffici, la farmacia e il distretto. Le cucine sono diventate una piccola area industriale dove si lavorano le erbe officinali e rimaneva questo altro fabbricato. Così la città di Girifalco ha chiesto che diventasse sede di una Rems della Calabria attraverso una delibera del Consiglio comunale che è arrivata alla presidenza della Regione. Abbiamo visto un po’ di costi, abbiamo avuto un po’ di resistenze ed incontrato diversi problemi. Ma quando ho visto questo padiglione, nonostante fosse distrutto, mi sono accorto che gli spazi c’erano ed erano adeguati. C’è un panorama che si apre sulla vallata. Tutte le stanze hanno un bagno, il pavimento è riscaldato, le tecnologie avanzatissime. Dovunque si possono bloccare le porte. Sotto il profilo tecnologico è molto avanzata. Intorno un grande parco, vicino un’altra struttura dove saranno allocati i laboratori, fondamentale per il recupero dei pazienti. Questo fabbricato che non è piccolo, è staccato dalla Rems dove saranno dislocati una serie di reparti: radiologia, ecografia e odontoiatria. La città di Girifalco aveva un poliambulatorio dove si potevano solo ricevere le prime visite, ma tutto il comprensorio di circa 30mila persone per fare una radiografia doveva andare a Lamezia, a Catanzaro o a Soverato. Cioè dai 30 ai 60 chilometri di strada, fra andata e ritorno. Allora mi sono detto, una Rems non può essere scissa da queste necessità. Perché si tratta di 40 persone che possono avere bisogno di fare una lastra, una ecografia, o aver bisogno di un dentista. Allora costruiamo a fregio di strada il completamento di quel poliambulatorio, perché possano usufruirne tutti. Lo mettiamo a servizio della Rems e della cittadinanza. Si fa un sistema di porte per cui se un utente della Rems ha bisogno di un controllo si bloccano le porte dall’esterno. Il Cup (Centro unico di prenotazione) sistemerà gli orari. Il magistrato non deve fare ulteriori ordinanze per portare in giro i pazienti delle Rems e i cittadini si vedono garantito un servizio che manca. I soldi ci sono e vanno spesi bene. L’unica realtà d’Europa dove ci si è posti il problema della malattia riabilitativa per i disabili è a Catanzaro. Un’unità spinale con piscina ad uso promiscuo, che consente agli ospedali di utilizzare questa bellissima struttura anche per i malati che non vivono la realtà della Rems, in orari in cui non viene utilizzata per loro. Un progetto di vent’anni fa. I soldi ci sono ma vanno investiti bene. Poi stiamo facendo in modo che anche questi luoghi non risultino squallidi esteticamente, perché anche il bello è terapia! Un bel posto fra le colline. Il ripristino di una struttura già esistente. Non ci saranno grate, solo delle protezioni di sicurezza, dei pannelli inseriti da architetti con cascate di gocce, che cambiano colore al cambio della luce. Sulla testa non ci sono reti. Il personale delle Rems necessita una formazione adeguata. Non mi riferisco ai medici, ma ai volontari, agli infermieri che devono sostenere l’altra parte del lavoro... Sì. È necessaria una formazione specifica del personale. Perché la gestione di queste persone non è la stessa delle altre. Perché vi è questa base di malattia psichiatrica importante. Quando abbiamo fatto partire la struttura di Santa Sofia d’Epiro, abbiamo chiesto alla cooperativa che la gestisce di farsi un giro per alcune strutture d’Italia per vedere come funziona nelle altre Rems. Se questo poteva bastare, per incontrare gli altri operatori, confrontarsi sul modello di lavoro, sui protocolli. Che gli psicologi e i medici siano bravi è un dato di fatto. Con Girifalco faremo lo stesso. Abbiamo superato la “totale assenza di dignità delle persone detenute”. Secondo lei, con l’applicazione della legge Marino che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) con questa dicitura, dopo aver verificato lo stato di inaccettabile deterioramento e proposto la creazione di nuove strutture con progetti di terapia e riabilitazione che si svolgono in parte dentro e in alcuni casi fuori dalle Rems? Questa legge era da farsi, ma è nata con troppe criticità e forse con troppe ideologie. Un po’ staccata da quella che è il vero contesto del problema. Per cui oggi ci si trova con una duplice difficoltà. Anche il luogo fisico carcere, ha una difficoltà nella gestione delle problematiche mentali. Una persona che ha un problema di tipo psichiatrico anche modesto, se viene recluso, questo quasi certamente si complica. Si parte da una situazione di base per poi trovarsi in un’altra situazione più articolata che dentro un carcere difficilmente si può controllare perché non si è strutturati per farlo. Spesso poi il detenuto con patologie psichiatriche assume sostanze stupefacenti acuendo la sua condizione e rendendola ancora più difficile al trattamento dentro le strutture carcerarie. Oggi manca ancora una qualsiasi forma di compensazione fra i vari sistemi che possono affrontare adeguatamente il tema. Come sono organizzate da voi le liste d’attesa. C’è un sufficiente turnover fra i pazienti? Perché lo scopo delle Rems è la transitorietà del ricovero? Siamo partiti con l’idea che ci potesse essere un turnover. In realtà non è così. Il turnover è molto basso. Aver depotenziato i numeri aumenta le liste d’attesa. Che tempi avete di media? Non c’è una media. Da Santa Sofia ne sono usciti molto pochi. Quelle persone stanno lì per necessità. Se il problema è cronico diventa difficile rimuovere la misura. Questa è la difficoltà. Quindi chi entra difficilmente ne esce? Difficilmente ne esce, finché le condizioni cliniche non lo permettono. Perché può diventare un percorso lungo. Non è così semplice che la situazione diventi tale da poter poi andare sui servizi territoriali, in una struttura residenziale, di media o alta intensità, o in appartamento. Perché c’è un problema di condizione clinica che gli psichiatri sanno spiegare meglio, ma che nei fatti, nella sostanza che io vedo dall’altro fronte della gestione del problema, crea quel rallentamento del turnover. Per cui intanto servirebbero più posti e poi servirebbe che nelle case circondariali ci fosse un livello più sanatoriale. Udine: “suicida in carcere a 18 anni, nonostante le cautele” di Elena Viotto Il Gazzettino, 29 agosto 2018 “Appena arrivato aveva avuto un diverbio con dei reclusi Era stato medicato e spostato in una sezione protetta”. Il 18enne pakistano richiedente asilo morto in ospedale dopo aver tentato di togliersi la vita nella cella del carcere di Udine in cui era detenuto solo da pochi giorni con un’accusa di stalking, era stato posto sotto stretta sorveglianza. Era controllato con particolare attenzione dagli agenti di custodia dopo essere stato minacciato da altri detenuti. Ma “nulla avrebbe lasciato presagire quanto è poi accaduto”. Lo sottolinea la direttrice del carcere di Udine Irene Iannucci, ripercorrendo il periodo di permanenza del giovane nel penitenziario di via Spalato ed evidenziando che “non c’è stata alcuna falla nella sorveglianza”. “Era entrato il 18 agosto ed era stato associato alla vita comune spiega. Dopo qualche ora dal suo ingresso, aveva avuto un diverbio con altri detenuti. Era stato minacciato, pare proprio per il reato di stalking di cui era accusato”. Il ragazzo era stato quindi condotto nell’infermeria della struttura, “era stato medicato per delle lievi lesioni. Il medico aveva dato indicazione di collocarlo in cella singola”. Per questo era stato spostato in una sezione “protetta” della struttura e posto sotto il regime di “grande sorveglianza, ovvero era attenzionato maggiormente, non solo dal personale penitenziario ma anche dagli educatori e dagli psicologi”. Il ragazzo aveva già effettuato il primo colloquio con gli educatori dopo l’ingresso in carcere e avrebbe dovuto incontrare anche lo psicologo. Poi il tragico epilogo. Un agente della polizia penitenziaria era passato davanti alla sua cella solo pochissimi minuti prima che tentasse il gesto estremo, all’interno del bagno. I soccorsi sono stati immediati, ma le condizioni del ragazzo sono apparse subito gravi. “Erano state adottate tutte le cautele”, sottolinea la direttrice del carcere. Esattamente come era accaduto appena un mese fa in occasione del suicidio della detenuta transessuale di 33 anni, che si era tolta la vita sempre nel bagno della cella singola in cui era stata posta dopo aver varcato solo qualche ora prima la soglia del carcere. Anche in quel caso “un agente le aveva parlato pochi minuti prima”. I due episodi erano avvenuti entrambi “quasi contestualmente all’ingresso in carcere”. In casi simili i detenuti protetti, vuoi per l’orientamento sessuale, vuoi per i reati di cui sono accusati o vuoi per la loro natura (come ad esempio i confidenti), vengono posti in un’ala separata della struttura, a loro stessa tutela e garanzia. Solo dopo l’eventuale convalida dell’arresto, come conferma la stessa direttrice Iannucci, viene richiesto se necessario il loro trasferimento agli istituti idonei. Quello di Pordenone, ad esempio, che ha una sezione per i detenuti accusati di reati di natura sessuale. O quello di Belluno in cui c’è una sezione apposita per i carcerati transessuali. Intanto, mentre la Procura ha aperto come di prassi in entrambi i casi un fascicolo per svolgere accertamenti, la comunità in cui il ragazzo era ospite solo fino a una decina di giorni fa si sta organizzando per ricordarlo con un momento di preghiera. La celebrazione si svolgerà nel centro Balducci di Zugliano di don Pierluigi di Piazza, con ogni probabilità venerdì. Data e orario sono ancora in fase di definizione. Il centroè stato individuato come il luogo ideale d’incontro per consentire la partecipazione alla preghiera anche della comunità pakistana della zona. Alla celebrazione sarà presente anche un imam. Al Balducci si raduneranno tutti i componenti della comunità che aveva accolto il ragazzo in questi anni e che ora sono profondamente addolorati per la sua morte. Ci saranno gli altri giovani ospiti, i collaboratori e i dipendenti del centro di accoglienza ma anche gli ospiti adulti della fattoria sociale. Treviso: 27enne in detenzione domiciliare si suicida buttandosi dalla finestra di Alberto Beltrame Il Gazzettino, 29 agosto 2018 Quella cameretta dev’essergli sembrata una gabbia, costretto agli arresti ormai da diversi mesi, nonostante il permesso di muoversi di giorno. Aveva sbagliato e stava pagando le conseguenze di quegli errori. Ma l’altra sera, colto da un momento di forte depressione, ha avvicinato la poltrona alla finestra, è salito sul balcone e si è lasciato cadere nel vuoto, precipitando dall’ottavo piano del palazzo. Azeddine Lahrach è morto così, sul pianerottolo al pianterreno del condominio di via dello Scoutismo, dove da ragazzino era solito giocare assieme ai tanti amichetti del quartiere popolare di Mogliano. Aveva solo 27 anni e, nonostante quella condanna che lo aveva portato prima in carcere e poi ai domiciliari, tutta una vita davanti e tutto il tempo di ripartire da zero e ricominciare. Azeddine non ha lasciato biglietti per spiegare il suo tragico gesto. Non ha affidato i suoi ultimi pensieri ad alcuna lettera per amici e parenti. Ma le forze dell’ordine, Procura compresa, non sembrano avere dubbi sulla natura del gesto. Il 27enne, di origini marocchine, non era in cura per problemi depressivi ma non vi sarebbero altre piste o ipotesi sulla natura delle tragedia, consumatasi lunedì sera, verso le 23.20, quando ormai gran parte dei residenti del condominio di via dello Scoutismo erano a letto. In casa, nell’appartamento all’ottavo piano, c’erano anche i genitori del ragazzo. Poi il tonfo sordo, le urla di disperazione di chi ha intravisto il corpo a terra, la chiamata ai soccorritori del 118 nonostante la situazione fosse ormai compromessa. Azeddine era morto. Impossibile salvarsi dopo un volo di almeno una quindicina di metri. Contenere la disperazione dei familiari non è stato compito semplice per i carabinieri di Mogliano, intervenuti subito dopo la tragedia in via dello Scoutismo assieme agli infermieri e ai medici del 118. Azeddine era molto conosciuto e ben voluto nonostante quegli episodi che in passato lo avevano portato anche dietro le sbarre. Ora era ai domiciliari, ne aveva ancora per tre mesi, ma non era un criminale incallito o una persona pericolosa. Aveva fatto degli errori, aveva subito delle condanne, per furto, e ora stava scontando la sua pena. Contro di lui però, ci si era anche messa la sfortuna. Aveva passato un periodo all’estero, in Belgio, dov’era andato a lavorare, e quand’era tornato a casa quelle sentenze, a quanto pare mai impugnate, erano diventate esecutive. E per lui, lo scorso dicembre, si erano aperte le porte del carcere. Un periodo difficile ma breve, dopo il quale erano stati disposti, a inizio anno, gli arresti domiciliari. “Ci conoscevamo sin da ragazzini, ora ci vedevamo poco ma quando ci incontravamo era sempre gentile, solare, disponibile - lo ricorda un’amica. Aveva frequentato persone poco raccomandabili ma voleva cambiare vita, cambiare strada. Forse però si sentiva perduto e non sapeva come fare. Suo padre è molto conosciuto, fa l’ambulante, penso si sentisse in colpa perché non poteva dargli una mano. Avrei voluto stargli più vicino, siamo disperati”. Anche su Facebook sono tantissime le testimonianze d’affetto nei confronti del 28enne, la cui scomparsa in paese ha lasciato tutti sotto choc. Milano: decalogo del taser, forze dell’ordine a scuola di sicurezza con la pistola elettrica di Gianni Santucci Corriere della Sera, 29 agosto 2018 È iniziato l’addestramento: tre mesi di sperimentazione. La scossa immobilizza per 5 secondi. Utile per esempio nel caso di aggressori in fortissimo stato di agitazione, magari sotto l’effetto di alcol e droghe, armati di coltello. Il manichino indossa un abito rosso da donna, una felpa blu. Sta appoggiato al muro di cemento. Il carabiniere in piedi, di fronte, a cinque metri di distanza. Il colpo rimbomba sordo nel poligono della caserma “Montebello”. La “pistola” è massiccia e gialla. E l’effetto, dopo l’”esplosione”, si può ricostruire a vista: due piccoli dardi si sono agganciati all’abito del manichino, due fili sottili collegano ancora i dardi e la pistola. Attraverso quei fili, quando verrà usata davvero, scorrerà la scarica elettrica in grado di immobilizzare una persona per 5/6 secondi. Ieri è partito l’addestramento. E dal 5 settembre i carabinieri del Nucleo radiomobile (con le Volanti della polizia e la Guardia di finanza) inizieranno la sperimentazione del taser, la “pistola elettrica”. “Non è un’arma in più - riflette un militare impegnato nelle prove - ma uno strumento che ci permetterà di risolvere alcune situazioni davvero critiche, e di grande pericolo, senza dover usare la pistola”. La legge che definisce la sperimentazione del taser in Italia (partirà nelle maggiori città) è del 2014. Il decreto che l’ha messa in moto è rimasto a lungo in letargo ed è stato firmato il 4 luglio scorso. Il taser è già usato in Francia, Inghilterra, Olanda. L’esperimento durerà tre mesi e poi se ne valuterà l’efficacia, con l’obiettivo finale di farlo diventare una dotazione fissa. Lunedì i carabinieri del Radiomobile hanno iniziato il primo di tre giorni di addestramento, introdotti dal comandante provinciale Luca De Marchis. L’esempio di base per capire come potrà essere impiegata la pistola elettrica è questo: una persona in fortissimo stato di agitazione, magari sotto l’effetto di alcol e droghe, armato di un coltello, un offender che dunque rappresenta un pericolo imminente per cittadini e forze di polizia che devono provare a contenerlo. Fino a ieri, tra lo spray urticante (spesso non efficace in caso di grande “alterazione”) e il ricorso alla pistola, non c’erano soluzioni intermedie: il taser si inserisce proprio tra quelle due possibilità; è uno “strumento in più di graduazione della forza” prima di ricorrere all’arma da fuoco (che si “sposta” verso i casi ancora più estremi). Non tutti gli equipaggi di carabinieri e polizia avranno la nuova arma. Al Nucleo Radiomobile, il taser (sul lato sinistro del cinturone) lo porteranno i capi pattuglia di due equipaggi. E saranno gli unici a poterlo utilizzare. In questi tre giorni di addestramento i carabinieri stanno approfondendo aspetti tecnici, giuridici e sanitari. A partire dalle “regole di ingaggio”. In caso di necessità, il carabiniere dovrà estrarre il taser e mostrarlo alla persona (è stato scelto un modello di un giallo acceso proprio perché risalti di più), poi potrà anche accendere un piccolo raggio elettrico di avvertimento, una sorta di riproposizione del vecchio “mani in alto”. Se la persona non dovesse buttare la sua arma, allora si potranno sparare i due piccoli dardi che rilasciano una scarica elettrica di 5 secondi, in grado di provocare contrazioni involontarie che immobilizzano un uomo. In ogni caso, dopo aver usato la “pistola”, sarà obbligatorio chiamare un’ambulanza. I carabinieri stanno lavorando con gli specialisti del “Centro di perfezionamento al tiro” dell’Arma; l’analisi prima della sperimentazione è stata fatta con una commissione del ministero della Salute. Uno dei temi dibattuti intorno al taser è il rischio che possa provocare un arresto cardiaco. Su questo punto “non esistono chiare e univoche evidenze scientifiche che definiscano quel pericolo”, ma per ulteriore cautela i carabinieri si stanno addestrando per usare lo strumento secondo un principio di “maggiore cautela possibile”. L’arma ha due puntatori laser che permettono di mostrare esattamente i punti sui quali i dardi agganceranno “l’obiettivo”: l’addestramento prevede che, in caso di necessità e per quanto possibile, si cerchino sempre di colpire la schiena o le gambe. Rimini: Radicali in visita al carcere, tra criticità vecchie e nuove newsrimini.it, 29 agosto 2018 Si è svolta ieri la visita agostana al carcere di Rimini promossa dai Radicali: il periodo estivo per la Casa circondariale è infatti particolarmente critico per l’aumento dei detenuti. Resta infatti il cronico problema di sovraffollamento: 163 persone rispetto a una capienza di 130. Al quale si accompagna l’altrettanto cronica carenza di personale, 108 effettivi rispetto a un organico di 150. E, se la situazione non è ai livelli pesanti di qualche anno fa, le criticità sono comunque diverse: la sezione 1 da ristrutturare; il direttore che si divide tra più carceri (Ancona e Fossombrone), spazi comunque stretti che rispettano i criteri europei solo perché rientrano anche i corridoi; l’ex sezione transessuali destinata a detenzioni speciali con un progetto che però la delegazione di oggi ha trovato inadeguato; condizioni igienico-sanitarie precarie in diverse situazioni, come le docce, e l’impossibilità di preparare cibi appositi per celiaci e diabetici. È migliorata, invece, la situazione del magistrato di sorveglianza e tutti hanno mostrato apprezzamento per l’attività dell’officina. Quasi la metà dei detenuti è straniera; un terzo sono senza fissa dimora. Sono 73 i tossicodipendenti. Alla visita hanno partecipato Francesco Bragagni, Direzione nazionale PSI; Ivan Innocenti, Associazione Radicale Piero Capone; Nadia Rossi, consigliere regionale del PD che si è impegnata a riportare i risultati della visita di oggi al garante regionale dei detenuti; Giulia Corazzi, consigliere comunale del Pd. Alla conferenza stampa hanno partecipato Patrick Francesco Wild di Avvocato di Strada Onlus e Alice Casadei, segretaria circolo Pd Rimini centro. Il Partito Radicale, lo scorso 29 maggio, ha depositato in Cassazione otto proposte di legge di iniziativa popolare che partono da quella su amnistia e indulto. Le altre riguardano revisione del sistema delle misure di prevenzione e delle informazioni interdittive antimafia e delle procedure di scioglimento dei comuni per mafia; riforma del sistema di ergastolo ostativo e del regime del 41 bis e abolizione dell’isolamento diurno; riforma della Rai; riforma delle leggi elettorali nazionale ed europea; abolizione degli incarichi extragiudiziari dei magistrati. Castrovillari (Cs): i Radicali “carcere migliorato ma restano problemi da risolvere” cn24tv.it, 29 agosto 2018 Nell’ambito delle visite agli Istituti Penitenziari della Calabria predisposte dai Radicali Italiani ed autorizzate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ieri pomeriggio, una Delegazione composta da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, si è recata presso la Casa Circondariale di Castrovillari “Rosetta Sisca” ove è stata accolta dal Direttore Maria Luisa Mendicino, dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Commissario Capo Carmine Di Giacomo e dai Funzionari Giuridico Pedagogici Maria Pia Patrizia Barbaro e Luigi Bloise, con i quali dopo un breve colloquio, ha visitato l’Istituto. Nella Casa Circondariale di Castrovillari, al momento della visita, a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti, vi erano ristrette 125 persone (20 donne), 16 delle quali straniere. Tra i detenuti anche 1 semilibero, fruitore di licenza premio ex Art. 52 O.P. ed 1 in permesso premio ex Art. 30 ter O.P. concesso dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero. 3 detenuti svolgono attività di Antincendio Boschivo ex Art. 21 O.P. con il Parco Nazionale del Pollino e 4, appartenenti al Circuito Sex Offenders gestiscono il Canile nell’ambito del programma “Pet Terapy”. La Delegazione di Radicali Italiani, all’esito del colloquio con i vertici dell’Istituto e della visita agli spazi detentivi, ha espresso soddisfazione per il progressivo e graduale miglioramento delle condizioni generali di detenzione. Infatti, recentemente, per quanto concerne la Sezione Femminile (in cui sono ristrette 20 detenute), è stata allestita ed aperta una Biblioteca con sala lettura, organizzata secondo le più moderne tecniche di catalogazione libraria (anche per il maschile ove sono stati ricatalogati 3.500 testi, alcuni dei quali donati dalla Prefettura di Cosenza). È stato, altresì, organizzato un corso di orientamento per Assistenti Bibliotecari di 40 ore per 15 detenuti (5 donne e 10 uomini). Il tutto grazie alla collaborazione prestata all’Amministrazione Penitenziaria dal Club Soroptmist International Italia e dal Cpia “Valeria Solesin” di Cosenza. Inoltre, per quanto riguarda la Sezione Femminile, la Direzione dell’Istituto ha concesso la possibilità alle detenute di poter pranzare insieme tutti i giorni della settimana mentre prima ciò era consentito soltanto nei giorni festivi. Inoltre, proprio grazie alle continue sollecitazioni dei Radicali Italiani, puntualmente effettuate all’esito di ogni visita, l’Amministrazione Penitenziaria, si è finalmente decisa di rivedere l’organizzazione custodiale della Sezione Femminile. In breve tempo si passerà dalla tradizionale e rigorosa “custodia chiusa” alla più moderna “custodia aperta” con la sorveglianza dinamica. Sono già in corso i lavori propedeutici ad attivare il regime aperto. Altre iniziative, così come riferito dal Direttore Mendicino e dal Funzionario Responsabile dell’Area Giuridico Pedagogica Barbaro, saranno realizzate a breve. Nel frattempo, sono state ultimate ed aperte, le aree verdi (una per il maschile ed una per il femminile) ed il campo sportivo polivalente, progettualità finanziate dalla Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia. Nelle scorse settimane, proprio in una delle aree verdi, l’Amministrazione ha concesso ad un detenuto di poter svolgere un “colloquio” anche con il proprio cane, ormai sempre più riconosciuti come “familiari”, a tutti gli effetti. Per molto tempo le Carceri sono state considerate “off-limits” per i cani: nessun animale poteva fare il proprio ingresso dietro alle sbarre e non esisteva nessuna possibilità di contatto con i detenuti fino al termine della loro scarcerazione per espiazione di pena o per durata della custodia cautelare. Sono stati quasi completati i lavori di rifacimento di tutte le Sezioni Maschili, ivi compresi i locali doccia che sono ancora in comune, anche nella Sezione Femminile, che prima erano particolarmente degradati, come più volte denunciato dai Radicali. Tuttavia, nell’Istituto, permangono delle criticità, relative alla carenza del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, alla carenza di autovetture per assicurare i numerosi servizi di istituto, alla mancanza di automazione dei vari cancelli per accedere alle Sezioni detentive ed all’assenza di locali per svolgere iniziative trattamentali e risocializzanti e manifestazioni di vario genere come un teatro o una sala polivalente. Per queste ragioni, la Delegazione di Radicali Italiani, solleciterà i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, centrale e territoriale, ad attivarsi per quanto di competenza. Parma: dall’Università un bando per diventare tutor di studenti detenuti Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2018 L’università di Parma propone ai propri studenti e ai dottorandi di ricerca l’attività di tutor in favore di studenti detenuti presso l’istituto Penitenziario della città e iscritti all’ateneo. obiettivo dell’iniziativa è migliorare la didattica e l’apprendimento dei detenuti attraverso un “filo diretto” con i docenti titolari dei corsi. Il bando di selezione scade il 28 settembre. In una nota l’ateneo spiega che sono previste due tipologie di tutorato, con due graduatorie distinte: un tutor di coordinamento (fino a un massimo di 200 ore) e un tutor didattico (fino a un massimo di 30 ore). L’assegno di tutorato prevede un compenso orario di 10 euro per il tutor di coordinamento e di 20 euro per quello didattico. Possono presentare domanda gli studenti iscritti ai corsi di laurea magistrale (con voto non inferiore a 100/110 per l’ultima laurea conseguita) e i dottorandi di ricerca. La domanda di partecipazione, scaricabile su www.unipr.it/tutorcarcere va compilata e inviata dal 5 settembre al 28 settembre 2018 dal proprio indirizzo e-mail istituzionale a protocollo@unipr.it. Oppure tramite posta elettronica certificata personale (allegando fotocopia della carta d’identità) a protocollo@pec.unipr.it, entro le ore 13 del giorno 28 settembre 2018. Venezia: il regista David Cronenberg alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2018 Prosegue la proficua collaborazione di Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi” attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari di Venezia, con la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, avviata nel 2008 con una serie di iniziative dentro e fuori gli Istituti Penitenziari durante il periodo della Biennale Cinema (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia). In questi anni, sono stati organizzati incontri, conferenze, proiezioni di documentari dal progetto teatrale “Passi Sospesi” nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ma anche all’interno degli Istituti Penitenziari. Nelle ultime edizioni Michalis Traitsis invita registi e attori ospiti della Mostra per un incontro con la popolazione detenuta preceduto dalla presentazione dei film più rappresentativi degli artisti ospitati. Negli anni scorsi hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica, Concita De Gregorio. Significativa ora la visita del regista David Cronenberg, presente a Venezia per ritirare il Leone d’Oro alla Carriera della 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’incontro si svolgerà presso la sala teatro della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, lunedì 3 Settembre 2018, alle ore 16.00. L’incontro è riservato agli autorizzati. Per l’occasione, durante la Biennale Cinema 2018, all’interno dell’istituto penitenziario femminile di Giudecca verrà organizzata la proiezione di alcuni film di David Cronenberg per facilitare l’incontro con il regista. Alla presentazione nell’ambito della 75. Mostra del Cinema di Venezia del film di David Cronenberg “M. Butterfly” prevista per Giovedì 5 settembre 2018, alle ore 14.00, presso la Sala Grande, parteciperà anche una donna detenuta, attrice e cantante del gruppo teatrale della Casa di Reclusione Femminile veneziana, diretta da Michalis Traitsis. La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che comprende come partner il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, il Teatro Ca’ Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione Veneto. Per il progetto teatrale “Passi Sospesi”, Michalis Traitsis ha ricevuto nell’Aprile del 2013 l’encomio da parte della Presidenza della Repubblica e nel Novembre del 2013 il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Roma: tornano le visite guidate nel carcere di Ventotene di Clemente Pistilli La Repubblica, 29 agosto 2018 Costruito su uno scoglio in mezzo al Tirreno, su un isolotto di appena 27 ettari e circondato da acque che da tempo sono riserva marina, per decenni il carcere di Santo Stefano è stato luogo di dolore e terrore. Un luogo della memoria, dove sono state scritte pagine di storia italiana, che dopo due anni in cui era tornato invisibile, essendo ormai troppo pericoloso approdare nell’isola e accostarsi all’edificio in rovina, torna fruibile ai visitatori. Il sindaco della vicina Ventotene, Gerardo Santomauro, ha firmato un’ordinanza e dato l’ok almeno alle visite guidate, compiute dalla locale cooperativa Terra Maris e realizzate sfruttando gli approdi Marinella e Scalo 4, i sentieri messi in sicurezza e gli interni del penitenziario realizzato alla fine del Settecento dai Borboni ritenute non a rischio. Tra quelle mura sono passati camorristi, criminali comuni provenienti dalle diverse regioni italiane condannati all’ergastolo, patrioti come Luigi Settembrini, antifascisti, a partire da Sandro Pertini, che poi diventerà il più amato Presidente della Repubblica, e perfino l’anarchico regicida Gaetano Bresci, morto in quelle celle o meglio, come i più ritengono, ucciso dalle guardie. Nel 1965 l’ergastolo venne chiuso. Finirono i viaggi in barca per far visita ai detenuti, che qualche anziano avvocato di Latina ricorda. Venne abbandonato anche il piccolo cimitero, dove solo l’opera di alcuni volontari ha poi restituito un nome a chi riposa in quelle povere tombe. Il penitenziario fatto erigere da Ferdinando IV ha iniziato a cadere a pezzi e a fermare il degrado non è servito l’accordo con cui, nel 1982, il Ministero dell’economia ha affidato quel complesso al Comune di Ventotene. Dal 2011, per problemi di sicurezza, è stato anche vietato l’accesso all’isola, con la sola eccezione delle visite guidate. Ma due anni fa, aumentati i rischi per l’incolumità dei visitatori e dopo un sopralluogo dei vigili del fuoco, sono state impedire anche quelle. Nel frattempo, però, il Governo Renzi ha deciso di investire sulla riqualificazione dell’ex carcere, per trasformarlo in un luogo dove fare formazione per i giovani e sviluppare lo spirito europeista. Il Cipe ha stanziato 70 milioni di euro e il Comune ha avviato i primi interventi per la messa in sicurezza. Dopo aver fatto analizzare lo stato di quei luoghi a un architetto e a un geologo, ritenendoli di nuovo abbastanza sicuri, il sindaco ha così dato nuovamente l’ok alle visite guidate. Santomauro sta puntando molto sulla valorizzazione di Ventotene come culla dell’europeismo, partendo dal manifesto di Alfiero Spinelli, considerando anche che ogni anno si svolge lì un apposito seminario, e le visite a Santo Stefano sembrano andare nella stessa direzione. Gli ergastolani all’Università, nel libro di Nicola Siciliani de Cumis di Romano Pitaro Corriere della Calabria, 29 agosto 2018 L’ultimo libro (“Buongiorno, Università”, Solfanelli editore) di Nicola Siciliani de Cumis, già ordinario di Pedagogia generale alla “Sapienza” e super impegnato nelle carceri dove coordina Laboratori di scrittura e lettura (Regina Coeli a Roma e Caridi a Siano di Catanzaro), reca la prefazione di Claudio Conte, pugliese di 47 anni, prigioniero da circa 30 condannato alla pena dell’ergastolo che sta scontando nel carcere di Pavia. In Italia sono 1.619 i condannati alla pena perpetua e 1.174 gli ergastolani ostativi ai sensi dell’art. 4-bisdell’Ordinamento penitenziario. Ed è proprio Conte che Siciliani de Cumis definisce “esperto costituzionalista”, a introdurre il lettore nelle vecchie e nuove storture universitarie (con un ragionamento che nella parte finale del libro affronta in punta di diritto la questione - carceri) utilizzando gli articoli 2, 27, 33 e 34 della Costituzione. Il Professore, che è anche presidente dell’Associazione internazionale Makarenko (il fondatore della pedagogia sovietica) propone, da par suo, per meglio focalizzare “il maleficio che l’Università italiana sembra subire oggi con il degrado e lo svuotamento dei suoi compiti istituzionali e con la svendita all’incanto delle sue inseparabili funzioni scientifiche, didattiche e professionalizzanti”, la cronaca di una prima esperienza universitaria di “Valutazione della qualità della Ricerca”(Vqr) che lo ha visto, negli anni 2010-2012, protagonista alla “Sapienza” di Roma. Non solo una narrazione intrisa di “retrotopia” e orizzonti serrati, però. C’è, nel “giornale di bordo di un referente d’area” (è il sottotitolo del libro), di grande interesse la pars costruens riferita all’università di domani, benché improntata, con colta vis polemica, in aperto scontro con la “volontà prava dei gruppi politici dominanti che hanno sistematicamente rifiutato una seria riforma dell’Università, rendendo vani gli sforzi più seri di miglioramento e offendo facili alibi a una tradizione d’incuria e di disprezzo per la cultura, della scienza e della scuola che dall’Unità arriva fino a noi”. A supporto di ciò, l’opinione di Eugenio Garin: “Senza una consapevolezza precisa dei fini dell’Università, e della sua funzione nella società, senza una rigorosa veduta teorica della ricerca scientifica, e soprattutto senza una chiara scelta politica, parlare della riforma dell’Università è tempo perso e vuota retorica”. Proposte per uscire dal tunnel? Diverse, ma tutte, pur se provenienti da saperi maturati in mezzo secolo di vita dentro le aule universitarie com’è stato per Siciliani de Cumis, complicate da farsi; perché imprescindibili da una presa di coscienza politica che non s’intravede neanche col cannocchiale. Quella più praticabile, viene dal sociologo Franco Ferrarotti, che così risponde al quesito dell’autore di “Buongiorno, Università”: “Ti propongo quella che chiamo ‘la via cenobitica all’Università di domani’, fondata su piccoli gruppi, in formato seminariale, in cui il professore professi le sue idee a tutto il gruppo, in un rapporto a faccia a faccia ne discuta, le respinga, le faccia proprie, riscoprendo, in una sorta di concordia discors, la comune umanità degli esseri umani e la cultura come strumento di autoconsapevolezza per la costruzione dell’individuo autotelico”. Lungo è il sentiero dei patimenti dell’Università e Siciliani de Cumis (fautore di un antipedagogismo militante) non nasconde lo scoramento né il grumo di disillusioni accumulate. Il filo nero (o meglio: il “vacuum”) del libro, intrigante anche per la significativa partecipazione dell’ergastolano (laureato in giurisprudenza a pieni voti con menzione accademica del poderoso lavoro conclusivo: “Profili costituzionali in tema di ergastolo ostativo e benefici penitenziari”) che rende palpitanti alcuni capitoli, è indubbiamente il vuoto lasciato dalla Magna Charta. In breve: il fallimento della Costituzione, sia per l’Università che per il carcere. La sua non piena applicazione, per fare delle aule universitarie “il luogo privilegiato dello spirito critico e di incontro di tutti i saperi”, “il luogo della socializzazione fra i membri della nuova classe dirigente” e per scongiurare il formarsi “di un popolo di informatissimi frenetici idioti”, impedire “i somari in cattedra”, la trasformazione dell’Università in azienda, “che è il modello oggi surrettiziamente vincente”, e “la capitalizzazione del lavoro intellettuale” (tanto per riferire di alcuni dei disastri), va di pari passo con la riduzione delle carceri a pattumiera sociale. Edifici di segregazione e abissale desolazione separati dalla società, dove gettare chi ha sbagliato in un disumano regresso ad infinitum, frutto di una scelta politica che stride con le prescrizioni costituzionali e tradisce l’assenza di ogni visione autenticamente riformista nei governanti. La pena, scissa da ogni concreta prospettiva di reinserimento sociale, come sofferenza da imprimere sulla pelle di chi è privato della libertà è il mostro anticostituzionale che risucchia la speranza di chi è in carcere e squalifica la democrazia. Spiega Conte: “La rieducazione passa principalmente attraverso una riqualificazione culturale, di cui lo studio è uno dei principali elementi come recita l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario, declinazione del più autorevole e vincolante articolo 34 della Costituzione che pone lo studio come obbligo generalizzato. Un uomo quanto più è consapevole delle sue potenzialità tanto più è libero di scegliere”. E infine (da dietro le sbarre), quasi un messaggio unificante la pluralità di voci tra le più autorevoli della docenza universitaria italiana (Roberto Nicolai, Michela di Macco, Giorgio Inglese, Leopoldo Gamberale) di cui il libro s’avvale, e sintesi di una civiltà che ha il dovere di trasformare il carcere da luogo di punizione in occasione di riorientamento esistenziale, perché non fondata sul rancore, la forca e l’annullamento dell’individuo: “La rieducazione è parte dello sviluppo della persona umana che da principio assume la portata di valore filosofico, in quanto concretamente percorribile, e affida allo Stato il compito di creare le condizioni o rimuovere quelle che lo ostacolano. L’uomo può cambiare, anzi deve tendere al cambiamento, per uscire da quello stato di minorità in cui particolari condizioni personali, economiche o sociali l’hanno condannato in un dato momento della sua vita. Tutto scorre, come confermano le scienze moderne e la nostra diretta esperienza, quando ci accorgiamo che invecchiamo, cambiamo idea, opinione, miglioriamo o peggioriamo”. Da Rebibbia a Venezia, le detenute protagoniste tra cinema e letteratura di Valentina Stella Il Dubbio, 29 agosto 2018 Tredici recluse nel video del Premio Bookciak Azione! 2018. Quest’anno c’è stata una importante novità al Premio Bookciak Azione! 2018, VII concorso video, diretto da Gabriella Gallozzi, rivolto ai giovani filmmaker per offrire loro l’opportunità di arrivare alla vetrina di un grande festival come quello di Venezia, sperimentando il piacere del cinema e il gusto della lettura: per la prima volta una sezione ad hoc è stata aperta alle detenute del liceo artistico statale Enzo Rossi, presieduto da Maria Grazia Dardanelli, presente nella casa circondariale femminile di Rebibbia a Roma, diretta da Ida del Grosso. Sono state, infatti, tredici allieve- detenute a realizzare i bookciak di questa sezione speciale del premio dedicato all’intreccio tra cinema e letteratura. Ognuna di loro ha messo a disposizione dei bookciak - video sperimentali della lunghezza massima di tre minuti - la propria esperienza personale, culturale ed emotiva, a partire dai quattro testi scelti: L’estate muore giovane di Mirko Sabatino (Nottetempo), Residenza Arcadia di Daniel Cuello (Bao Publishing), Io marinaro, la vita avventurosa di un migrante del mare di Mario Foderà (Edizioni LiberEtà), Dal tuo terrazzo si vede casa mia raccolta di racconti dello scrittore albanese Elvis Malaj (Racconti Edizioni). Proprio da questo testo che gioca intorno al tema dell’identità, il razzismo, i luoghi comuni sugli immigrati e il ribaltamento degli stereotipi, storie piene d’ ironia e malinconica comicità, ambientate tra l’Italia e l’Albania - è nato il video vin- citore di questa sezione speciale “Scarpe”, premiato dalla giuria, presieduta da Lidia Ravera, ieri nell’evento di pre- apertura tenutosi al Lido di Venezia, che ospiterà la Mostra dal 29 agosto all’ 8 settembre. “Io sono una rom - racconta Zhura - camminante di tradizione. Cammino lungo la strada fin da piccola, sempre senza scarpe con i piedi nudi. Sono abituata anche con il freddo e la pioggia e sono fiera di me perché non mi dà mai fastidio sassi, polvere e vetri rotti piccoli come brillantini, ma un giorno ho trovato le scarpe”. Il lavoro si è svolto all’interno di speciali laboratori interdisciplinari con insegnanti di discipline plastiche e pittoriche, lettere, filosofia, disegno e poi chimica, storia dell’arte, inglese, matematica tutti insieme a disposizione della creatività delle allieve che, nell’arco di mesi di lavoro, hanno letto i libri, scritto insieme le sceneggiature, realizzato le scenografie e i disegni, creato i costumi e poi girato i video. La vita oltre le sbarre: i reclusi raccontati dall’avvocato Nicodemo Gentile di Francesco Pira lavocedinewyork.com, 29 agosto 2018 L’opera “Laggiù tra il ferro” scritta dal noto penalista. Un libro da leggere non soltanto per conoscere i retroscena delle storie di Salvatore Parolisi, condannato per l’omicidio della moglie Melania, di Winston Manuel Reyes, condannato per l’omicidio dell’Olgiata, e di tanti altri che si sono affidati ad un grande penalista pieno di umanità. Un libro che fa venire voglia di migliorare la nostra società La cosa che ho apprezzato subito nel suo stile e ne suo modo di fare e di interagire è la semplicità. Nicodemo Gentile è conscio di essere un grande penalista, un Principe del Foro, ambito dalle tv nazionali per raccontare il suo punto di vista sugli omicidi più intricati. L’ho conosciuto in Sicilia nella splendida Villa della Baronessa Tina Alfieri, dove ha chiuso un seminario di criminologia, a cui ho avuto l’onore di partecipare anch’io come relatore, organizzato dall’Istituto Eliea presieduto dal bravissimo Edoardo Genovese. Ha presentato in una location stupenda, il giardino della villa, il suo libro intitolato “Laggiù tra il ferro - Storie di vita, storie di reclusi “. “Un libro in cui scrivo di un viaggio - mi dice subito l’avvocato Nicodemo Gentile - Può sembrare un paradosso considerando che racconta le storie di chi invece è costretto dalle sentenze “In nome del popolo italiano” ad esser recluso. Ma il viaggio invece c’è eccome: un viaggio tortuoso, doloroso e che cambierà la prospettiva su quella cosa spesso invocata, violata e vilipesa che è il carcere. Nicodemo Gentile è un avvocato cassazionista molto noto al pubblico, che ne apprezza insieme all’indiscussa abilità forense la sua umanità. Un legale impegnato in tantissimi processi dalla risonanza mediatica eccezionale come quello per l’assassinio di Meredith a Perugia o il delitto dell’Olgiata. La sua grande capacità consiste nel leggere oltre le carte di un processo che lo ha portato ad impegnarsi in iniziative filantropiche e a prendere penna e carta per scrivere Laggiù tra i ferri - Storie di vita, storie di reclusi (Imprimatur edizioni). “Un libro che ho scritto non per raccontare le vicissitudini processuali dei detenuti”. Precisa l’autore: “Piuttosto per far capire come funziona il sistema carcerario, come passano i loro giorni all’interno, quali pensieri affollano la loro mente e con che spirito affrontano la loro vita dietro le sbarre”. Nicodemo Gentile è un uomo concreto, capace di guardarti dritto negli occhi. E il suo libro lo rispecchia non c’è retorica soltanto sapienza e umanità. E questo traspare anche dalla prefazione del bravissimo Massimo Picozzi che ha scritto come il libro è necessario: “per conoscere il carcere, chi lo abita entrandoci e passandoci del tempo”. Nicodemo Gentile, conteso dai maggiori programmi televisivi che si occupano di crimini e cronaca nera, sta girando le città italiane per raccontare le sue esperienze, confrontarsi con le persone che affollano le presentazioni del suo libro per parlare di carcere, di detenzione, di permessi, di 41 bis. Lo fa con stile, semplicità, senza fare sconti a nessuno. Ed è questa la cosa in assoluto che ho più apprezzato di questo avvocato dal volto umano. Fiero di essere meridionale, capace di vedere la luce anche dove il buio è fitto. Un uomo che vale la pena di conoscere, così come vale la pena di leggere il suo lavoro. Non soltanto per conoscere i retroscena delle storie di Salvatore Parolisi, condannato per l’omicidio della moglie Melania, di Winston Manuel, Reyes condannato per l’omicidio dell’Olgiata, e di tanti altri che si sono affidati ad un grande penalista pieno di umanità. Leggere il libro di Nicodemo Gentile e parlare con lui lascia dentro una voglia incredibile di migliorare la nostra società, di avere rispetto verso tutto e tutti, di cercare quella verità che non sempre riusciamo a trovare. Quello che ho trovato straordinario in lui è la passione che ci mette in tutto quello che fa. E quando gli ho chiesto di scrivere di suo pugno la dedica sulla mia copia del libro mi ha spiazzato: “Al mio caro Prof Francesco Pira, le passioni esagerano. Ma sono passioni proprio perché esagerano”. Un paese che “vive” di disuguaglianza di Carlo Carboni Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2018 Mentre i marosi finanziari si fanno sempre più minacciosi, con lo spread che viaggia oltre i 270 punti, il governo del cambiamento non sembra avere grandi idee per il Paese, per affrontarne le problematiche vive. Si straparla di sbarchi d’immigrati, ma niente, a esempio, sulla crescita delle disuguaglianze socioeconomiche: come e con quali rimedi possiamo cercare di invertirla. Tema caro, a parole, alla politica e al M5S in particolare, è diventato più impervio, perché a spingere la crescita delle disuguaglianze negli ultimi vent’anni non sono stati solo i due storici divari di genere e tra Nord e Sud (che sono ordinariamente peggiorati), ma l’acutizzarsi di tre dinamiche sociali involutive, inattese a inizio secolo. L’aumento della povertà, dopo il 2008, ha contribuito ad accrescere la disparità tra il 20% più ricco e il 20% disagiato, in termini di ricchezza, redditi e consumo. C’è chi va a gonfie vele e chi rischia di finire sugli scogli. La povertà assoluta richiede reddito di sostegno e servizi sociali efficienti, anche perché presenta situazioni che rendono poco probabile un inserimento lavorativo a breve, al contrario, possibile tra i soggetti in povertà relativa. La metà di questi sono giovani, i su 4 sono immigrati legalmente residenti e, poi, famiglie di ceto medio-basso alle quali non bastano le “acrobazie” per arrivare a fine mese. Il contrasto alla povertà relativa richiederebbe risorse pubbliche ingenti per integrare reddito, potenziare e innovare i sistemi formativi e i servizi all’impiego. Un sistema di mercati del lavoro ben organizzati in funzione di sviluppo aumenterebbe il lavoro e ridurrebbe le povertà. A spingere la disuguaglianza, c’è inoltre il peggioramento di status di una parte consistente del ceto medio-basso: una sorta di sua “proletarizzazione”, a due secoli esatti dalla nascita di Marx, che l’aveva annunciata. Più realisticamente, il tramonto dell’ordine sociale novecentesco, “l’epoca dell’uguaglianza” (R. Pomfret, 2011): con cedimenti del lavoro impiegatizio e del ceto micro-imprenditoriale, che hanno registrato una riduzione di reddito, dall’ingresso nell’euro a oggi. Sta invecchiando anche l’operaio di grandi impianti produttivi “ceto-medizzato” come il travet. La globalizzazione a trazione tecnologica e migratoria ha sconvolto i mercati esterni e interni del lavoro, rendendo inattuali le vecchie certezze e le relative garanzie ancora detenute da ampie fasce di ceto medio-basso dipendente, il cui lavoro routinario è invia di “dimensionamento” tecnologico e produttivo. La faglia apertasi tra ceti medio alti e medio bassi sta sgretolando l’architrave che li teneva uniti e assicurava stabilità politica e democratica. La società di ceto medio è finita, almeno come la intendevamo: una prateria di benessere diffuso, accessoria al mercato e solcata da politiche statali. Al tempo delle società liquide e individualizzate, non è facile immaginarsi qualcosa d’analogo a quell’architrave, oggi malandata, che è stato il ceto medio. Certo, però, dall’entrata nell’euro, il reddito mediano italiano ha fatto registrare un andamento tra i più deludenti in Europa e non ha recuperato completamente livelli pre-crisi. Questa è la china da risalire, grazie a produttività, tecnologia e crescita: un futuro in cui ci sia industria 4.0 e anche servizi pubblici e privati 4.0. In questi incastri digitali prenderà forma il “corpaccione” del futuro ordine sociale. Il terzo fenomeno che spinge la disuguaglianza in Italia è il divario generazionale. È tanto acuminato che l’intero Paese dovrebbe “andare in analisi” per spiegare perché, nonostante i nostri giovani siano in minor numero e più istruiti che in passato, ci ostiniamo a lasciarli senza lavoro, a vederne emigrare a migliaia ogni anno - da anni, a trattarli nel lavoro con paghe che sottostimano crediti e meriti. Il divario generazionale si sostanzia nella forbice di reddito tra over 6o e under 3o, esplosa da inizio secolo a oggi. Il suo story-telling racconta di neet nullafacenti, d’invecchiamento dell’occupazione, d’insider anziani e giovani outsider, di diaspora all’estero di giovani talenti, di spreco di risorse umane. Narra di marginalità di giovani impantanati in una disoccupazione tra le più elevate d’Europa. I giovani dovrebbero essere l’altro piedritto che sorreggere l’architrave sociale a garanzia della stabilità del Paese: ma le élite al governo dovrebbero intervenire su sistema educativo, inserimento lavorativo e condivisione di responsabilità tra generazioni, con misure in sintonia con lo spessore tecnologico delle nostre economie e società. Per il governo del cambiamento c’è solo l’imbarazzo della scelta delle problematiche socioeconomiche d’affrontare. Il loro miglioramento richiede una forte resilienza sociale e istituzionale, misure decise sul comune denominatore di tutti i divari: la mancanza di lavoro e di solidi ammortizzatori che evitino che la flessibilità si presenti come precarietà. Colmare il nostro gap occupazionale rispetto alla media europea equivarrebbe a smussare le disuguaglianze più acuminate, vecchie e nuove. Tuttavia, per farlo occorrono ingenti risorse pubbliche e un’ampia tastiera di politiche in funzione di crescita e sviluppo, d’impresa e lavoro. Forse bisognerebbe bussare con credibilità alla porta dell’Europa per ottenere maggior flessibilità per investimenti pubblici non destinati a spesa corrente. Forse qualche importante misura - come la riduzione del cuneo fiscale - potrebbe maturare in condivisione con le parti sociali. Nessuno pretende che il “governo del cambiamento” risolva tutto e in un sol colpo. Al Ministro Di Maio corre però l’obbligo di affrontare le grandi questioni sociali in chiave d’occupazione aggiuntiva e crescita. Urge un ragionamento lungimirante e condiviso per vincere qualche vera battaglia. L’insicurezza genera odio per gli altri di Carlo Mastelloni* La Stampa, 29 agosto 2018 Le polemiche sull’immigrazione si fanno roventi quando vengono mescolate ai problemi della sicurezza. Sul piano dell’ordine pubblico, l’Italia sta vivendo uno dei periodi più tranquilli degli ultimi 40 anni. Sono calati tutti gli indici dei delitti gravi - omicidi, sequestri, rapine - per non parlare del terrorismo e della mafia stragista. Eppure è percepibile in molte fasce della popolazione una elevata insicurezza che riguarda sia i centri storici degradati che le periferie abbandonate. Perché questo stato d’ animo si manifesta oggi a differenza degli anni Settanta e Novanta, quando il Paese era quotidianamente in pericolo in quanto minacciato da gravissimi episodi delittuosi che incutevano paura fisica ai nostri stessi governanti spingendoli a invocare scorte o misure di sicurezza ulteriori? Proviamo a rispondere : l’età media della popolazione italiana è bruscamente invecchiata. Chi all’epoca aveva venti o trent’anni, oggi supera abbondantemente i sessanta, si trova in pensione e non vive più alcuna tensione collettiva nel contesto lavorativo come nella vita sociale. Il tramonto delle ideologie, al di là degli aspetti positivi, sembra aver desertificato il concetto stesso di speranza in un futuro migliore. D’altra parte un Paese a natalità zero come è oggi il nostro, che legge sempre meno i giornali e si alimenta delle sintesi di notizie e persino di romanzi che compaiono sul web, dimostra di volersi chiudere in sé stesso, di non coltivare progetti. È un solipsismo collettivo, e l’abitudine a vivere di piccole certezze diventa conseguente: la casa, una vita ordinata e senza scosse sono poltroncine dove siedono gran parte dell’ex classe operaia e della piccola borghesia. Le ideologie sono state ormai spazzate via dalla globalizzazione e vinte dal dominio della finanza. Regna un supposto equilibrio esistenziale fragile e isolato, inficiabile anche da modesti mutamenti esterni, da piccoli reati: scippi, truffe agli anziani, furti nelle abitazioni. In una comunità fortemente coesa, come negli anni del terrorismo e delle stragi mafiose, era questa una categoria di reati non certo vissuta come un pericolo incombente. Ma oggi, in una società di anziani desolidarizzati e di figli eterni precari, diventa una minaccia molto seria perché sconvolge quelle poche certezze rimaste, legate ai beni personali e alla tranquillità quotidiana. Di qui la pretesa di allargare le maglie della “legittima difesa”. C’è poi dell’ altro, che forse ha dell’ indicibile ma è da avvolgere in un grande punto interrogativo senza per questo essere posto in una ipocrita parentesi: e se questa diffidenza verso gli immigrati nascondesse una paura ancestrale collegata alla commistione sessuale, e quindi, diciamolo pure, al fantasma della perdita delle donne? È un argomento assai complicato come tutto ciò che attiene alla sfera inconscia e solo pallidamente simmetrico al dettarne islamico che invece consapevolmente non tollera che le donne si leghino ai maschi di religione cristiana. Nel paesino del profondo Sud o della Bassa veronese, gli uomini di colore, una volta immessi nella comunità, cominciano a soffiare le ragazze - ma ne basterebbe una sola - ai giovani del luogo. In un contesto del tutto diverso dai caramellosi ambienti del noto film di Kramer “Indovina chi viene a cena?”, i genitori, ma soprattutto i figli, mossi da un’automatica rivalsa, correrebbero ai ripari. E allora altro che protesta sotto la casa del sindaco! Altro che gesti di intolleranza! Si riproporrebbe un clima da Ku Klux Klan sempre più “legittimato” dall’inarrestabilità del fenomeno immigratorio. Se vi aggiungiamo l’elemento “culturale” indotto dall’ immigrazione, il senso di insicurezza e di precarietà viene moltiplicato perché la diversità via via intervenuta in maniera appariscente - passata attraverso mari in tempesta e mezzi tribolanti di trasporto - confligge con l’aspirazione ad una quotidianità priva di scossoni. “Estranei piombano a casa nostra con usi e costumi diversi”: questo l’ulteriore fantasma. Aldilà di calcoli sui reati degli extra comunitari, è la stessa presenza di quelli di colore a suscitare allarme - un allarme quasi sempre ingiustificato - a causa della scompaginazione di un ordine non più perfetto. A ciò fa da collante una propaganda che alimenta battaglie tra poveri a fronte di una presunta invasione non corroborata affatto dai numeri. La sinistra e i democratici in generale, e in parte anche le istituzioni ecclesiastiche, non hanno capito che il senso di insicurezza percepito da larghi strati della popolazione è reale e fortissimo: non ha alcuna importanza fattuale che non sia suffragato da dati certi perché ciò che è avvertito come reale vale appunto come se fosse tale. *Procuratore della Repubblica di Trieste Tra realtà e percezione. Gli italiani sono i più ostili ai migranti d’Europa di Adriana Pollice Il Manifesto, 29 agosto 2018 L’analisi sui dati Eurostat. Il 58% ritiene che gli stranieri provochino una riduzione dell’occupazione. Tra gli europei, gli italiani sono quelli che più sovrastimano la percentuale di migranti presenti nel proprio paese (circa il 18% in più rispetto al dato reale) mostrando il “maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose”. È quanto emerge dall’analisi Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione dell’istituto Cattaneo di Bologna. Rispetto alla media europea del 57%, il 74% degli intervistati italiani sono convinti che gli immigrati peggiorino la situazione della criminalità, con una differenza di 17 punti rispetto al resto dell’Europa. A considerare che una maggiore immigrazione comporti una riduzione dell’occupazione per i residenti in Italia è invece il 58% sul totale, mentre la media europea si ferma al 41%. “È un tema che ha contribuito al successo elettorale della Lega e sul quale lo stesso Matteo Salvini ha impostato la propria agenda di governo (e di comunicazione) come ministro dell’Interno” scrive l’istituto, che sottolinea: “Su questo argomento i dati a disposizione dell’opinione pubblica sono spesso frammentari e talvolta presentati in maniera “partigiana”, stiracchiandoli da una parte o dall’altra in base agli interessi dei partiti. Il che contribuisce a proiettare un’immagine distorta della realtà. Chi ne ingigantisce la portata, è indotto anche a ingigantirne le conseguenze”. Anche gli altri paesi europei sovrastimano i dati reali ma in Italia il fenomeno è molto più accentuato. Infatti, di fronte al 7,2% di immigrati non Ue presenti negli stati, gli intervistati ne stimano il 16,7%. Ma gli italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra la percentuale di immigrati non Ue realmente presenti (7,6%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%. Gli altri paesi che mostrano un “errore percettivo” di poco inferiore a quello italiano sono il Portogallo (+14,6%) e la Spagna (+14,4%). Al contrario, la differenza tra la percentuale di immigrati reali e “percepiti” è minima nei paesi nordici (Svezia +0,3%; Danimarca +2,2%; Finlandia +2,6%). “All’aumentare dell’ostilità verso gli immigrati - scrive ancora l’istituto Cattaneo - aumenta anche l’errore nella valutazione sulla presenza di immigrati nel proprio paese. L’Italia si conferma, su entrambi i fronti, il paese collocato nella posizione più “estrema”, caratterizzata dal maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose”. E ancora: lo scarto tra la percentuale di immigrati presenti in Italia e quella percepita dagli intervistati è maggiore tra chi si definisce di centrodestra o di destra. In quest’ultimo caso, la percezione è del 32,4%, superiore di oltre 7 punti rispetto alla media nazionale. Infine, le differenze tra gli atteggiamenti degli italiani e quelli degli europei sono più sfumate quando si tratta di valutare il contributo dell’immigrazione al welfare state: “In Italia, la percentuale di chi pensa che gli immigrati siano un peso per lo stato sociale è pari al 62%, mentre tra i cittadini europei questa percentuale è inferiore solo di 3 punti (59%)”. Migranti. “Riportarli indietro? Pensateci bene”. I filmati che il Papa ha voluto vedere di Nello Scavo Avvenire, 29 agosto 2018 Nei video chiesti da Francesco l’orrore dei lager libici. Il nastro da pacchi usato per tappargli la bocca è l’unica immagine che lo sguardo può reggere. Il resto, toglie il sonno. Le sprangate. Il machete e il pugnale che trafiggono. Il ragazzo africano legato mani e piedi, denudato perché il martirio si veda. E lui che striscia, che si dibatte, che urla mentre le guance si gonfiano perché non possono dare fiato al pianto dei dannati. Ha visto questo papa Francesco. Ha voluto che gli venissero mostrati quei video dei lager libici arrivati attraverso il tam tam degli smartphone di chi, invece, ce l’ha fatta ad uscirne vivo. “Ho visto un filmato in cui si vede cosa succede a coloro che sono mandati indietro - ha detto Bergoglio ai giornalisti tornando dall’Irlanda -. Sono ripresi i trafficanti. le torture più sofisticate”. Francesco aveva saputo che persone a lui vicine erano in possesso dei video che dimostrano senza dubbio alcuno quale sia la condizione delle migliaia di persone imprigionate nei campi dei trafficanti di uomini. I filmati mostrati settimane addietro a Bergoglio sono pagine di spaventosa crudeltà. La conferma che la Libia non è affatto quel “porto sicuro” per chi scappa da fame e guerre. Il pontefice, in silenzio, ha osservato quei drammi, prima solo raccontati dalle cronache, e adesso visibili agli occhi. Nessuno che abbia visto, può dimenticare lo sguardo spalancato sull’inferno del ragazzo che implora come può, con le lacrime, mentre scalcia per allontanare i torturatori. Lui a terra e loro addosso. Almeno cinque e nessuno che smetta. Si divertono mentre picchiano più duro. Lo pugnalano trasformando il volto del ragazzo in una poltiglia, fino a quando la pelle nera si ricopre di sangue e polvere e si impasta nel fango che ha il colore della morte, ma la morte non arriva. Nella stanza delle torture il ragazzo cerca una fuga che non c’è. Non molla, il ragazzo. Incassa i colpi, ma non vuole svenire. Poi l’altro vigliacco, quello con il telefonino, si porta più vicino, perché i destinatari del filmato, forse i parenti a cui chiedere altri soldi, corrano a indebitarsi per mettere fine a quel supplizio. E lui, il ragazzo che era nero e adesso è solo sudore e porpora, lotta ancora tra l’istinto di sopravvivenza e il desiderio che l’uomo fattosi mostro, quello che con una mano lo sta mutilando a colpi di machete e con l’altra impugna una rivoltella, si decida a premere il grilletto. E la faccia finita. Poi il video, girato con mano ferma e inquadrature studiate, come di chi non è certo nuovo alla dannazione degli ultimi, si interrompe. Chissà se quel ragazzo è ancora vivo. Se qualcuno ha pagato un riscatto. Se è moribondo e ora, cambiato per sempre, è saltato su un barcone. Se è stato salvato e portato al sicuro, in Europa. Oppure se è stato intercettato e riportato indietro nello scannatoio dei migranti. Non è il solo filmato che ha visto papa Francesco. Ha voluto guardarle. il pontefice, quelle immagini. Nei filmati non c’è solo il dolore, lo spavento, il pianto di chi subisce e le lacrime di chi guarda. C’è la smorfia dell’essere umano dalla faccia normale, che in un istante svela un’altra natura. E percuote, sadico e spietato, per gusto e per danaro. Per intimorire gli schiavi e le schiave. O per vantarsi con gli altri d’essere capace di afferrare un uomo, deperito e inerme, oramai abituato alle botte e alle minacce, convinto che anche stavolta gliele daranno ma lui sopravvivrà. Mentre lo afferra per i capelli, all’assassino bastano nove secondi per uccidere e gettarne via la testa. Perciò, aveva detto a ragione il Papa alludendo a chi vorrebbe respingerli, prima di “mandarli indietro si deve pensare bene”. Stavolta l’Europa non può far finta di non vedere i lager e le torture in Libia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 29 agosto 2018 Un video sulle atrocità nei lager dove sono rinchiusi i profughi. In rete potete trovare alcune immagini di un video, che è stato mostrato anche al Papa, realizzato di nascosto in uno dei campi profughi in Libia. Il video mostra i profughi che vengono letteralmente e barbaramente torturati. Col fuoco, con le fruste, sono legati a un palo o alle inferriate della finestra, per i piedi, e lasciati penzolare a tre a tre. Un orrore spaventoso. Si sentono i lamenti, le urla, si sentono i prigionieri che invocano i nomi dei loro parenti, si vedono i loro corpi contorcersi per il dolore. Vengono in mente i lager, anche se la storia dei lager è una storia del tutto diversa. Vengono in mente i lager per l’abbondanza di sadismo e di ferocia degli aguzzini, che son guardie libiche, e per la condizione assolutamente non umana nella quale i profughi sono ridotti. Da dove arrivano questi poveretti? Da molte nazioni africane. Alcune vessate dalle guerre, altre dalle dittature, altre dalla fame, dalla povertà, dalla carestia. Si erano messi in viaggio per cercare di arrivare in Europa, per sfuggire all’inferno e magari ricostruirsi una vita. In parte sono stati intercettati dai libici, in parte hanno preso il mare, per provare a sbarcare in Italia, ma sono stati respinti e rispediti in Libia. Questo è avvenuto per tante ragioni, delle quali l’Italia e l’Europa non sono responsabili. Ma anche per una ragione che invece dipende da una responsabilità italiana ed europea: gli accordi diplomatici con la Libia per il trattenimento degli immigrati. In cambio di finanziamenti, di sostegno, di denaro, di strutture, di navi. Dopo aver visto questo filmato qualcuno può ancora pensare che sia legittimo fare accordi per il trattenimento di esseri umani in quelle condizioni? La Libia può essere considerata “porto sicuro”? Non c’è nessunissima polemica politica da fare, stavolta. È inutile cercare responsabilità e lanciare proclami. Si tratta semplicemente di prendere atto di una situazione che è insopportabile, e intervenire. Quante volte ci è stato spiegato che l’Europa, o l’America, o l’Occidente dovevano entrare in guerra per fare rispettare i diritti umani? In Afghanistan, in Iran, in Siria, nella stessa Libia. Ecco, stavolta la questione dei diritti umani è sul tappeto ed è evidentemente urgentissima. E non c’è bisogno di entrare in guerra. Si tratta solo di cancellare o di ribaltare gli accordi con la Libia e organizzare dei corridoi umanitari per portare in salvo queste persone. Oppure ottenere che i campi siano tolti al comando libico e affidati all’Onu. Non credo che esista nessuno, qui in Italia, che dubita del diritto di quelle persone a considerarsi profughi. E non vedo perché ci dovrebbero essere divisioni politiche. L’ideologia ora non c’entra niente. Né c’entrano gli schieramenti parlamentari. O la possibilità di migliorare o peggiorare la propria posizione elettorale. l’Italia, se è un paese serio e se è, come è sempre stata, una delle civiltà più avanzate del mondo, può solo ritrovarsi unita in questo frangente. Sarebbe pura follia affidarsi ancora alla Libia per ridurre gli sbarchi da noi. Dopodiché possiamo discutere quanto vogliamo, e litigare, e dividerci, a azzuffarci su se la linea giusta sia quella di aumentare le strutture dell’accoglienza o quella dei respingimenti. Quello sul quale non credo possano esserci divisione è la certezza che in Libia non può essere più respinto nessuno. E che le migliaia di profughi che ora sono abbandonati nelle mani dei torturatori devono essere salvati e portati via da quei lager. Noi non sappiamo quanti sono, non sappiamo quanti già ne abbiano ammazzati, dopo averli torturati. È moplto probabile che si tratti di diverse migliaia di persone. Che sia stata già consumata una ecatombe. È del tutto evidente che il problema non può essere solo italiano. È un problema gigantesco per l’Europa, per la sua civiltà, per la sua credibilità, per il suo futuro. L’Europa si porta appresso l’ombra vergognosa del secolo scorso, quando chiuse gli occhi sulle persecuzioni naziste e fasciste ai danni degli ebrei. Non può ripetere il peccato di omissione. Non c’entra niente qui se si è sovranisti o globalisti, leghisti o socialisti, se si sta con Orban o con Soros. È un problema di umanità e di diritti essenziali, e cioè un problema che riguarda tutti nello stesso modo. Rifugiati, l’altra faccia del “No Way” australiano: i centri di detenzione di Nauru di Anna Beto Corriere della Sera, 29 agosto 2018 Viaggio nell’isola in cui l’Australia manda i rifugiati, costretti a vivere senza certezza del proprio futuro oppure a tornare nel proprio Paese di origine. I casi di depressione e malattia mentale sono altissimi, e molti bimbi soffrono di “sindrome da rassegnazione”. Il 24 agosto il Partito liberale australiano ha votato la sfiducia dell’ex premier Malcom Turnbull, nominando Scott Morrison a capo del paese, colui il quale nel 2012 inaugurò la politica di “zero tolleranza” verso i rifugiati che cercavano di entrare in Australia via mare. Attraverso l’operazione militare Sovereign Borders, il cui slogan è “No Way”, le barche con a bordo migranti - in arrivo prevalentemente da Iran, Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan - sono intercettate dalla marina e i loro occupanti mandati in due piccole isole dell’oceano Pacifico, la repubblica di Nauru e l’isola di Manus (territorio della Papua Nuova Guinea), ufficialmente fino a quando lo status di rifugiati sia accertato. Secondo Indrika Ratwatte, direttore dell’Ufficio Asia e Pacifico dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), “questa è una procedura che va contro la Convenzione del 1951 sui Rifugiati, che l’Australia ha ratificato. Per il diritto internazionale, l’Australia è obbligata a fornire accesso al suo territorio a coloro che richiedono asilo per determinare il loro status. La politica di “offshore processing” è dunque una violazione delle loro responsabilità”. Dal 2012, invece, si stima che l’Australia abbia speso circa 8.5 miliardi di dollari per tenere i rifugiati lontano dal suo continente. Quando si atterra a Nauru si viene investiti dall’aria calda e umida tipica di queste latitudini tropicali. Ventilatori d’epoca soffiano affaticati sui passeggeri schierati in file composte davanti al piccolo ufficio dell’immigrazione, dove meticolosi agenti controllano che il visto sia in regola. Ottenerne uno è complicato e costoso: quello per la stampa costa 8 mila dollari, da pagare senza garanzia di rilascio. Nauru è il terzo più piccolo paese al mondo in termini di superfice - 21 chilometri quadrati, dopo la Città del Vaticano e il Principato di Monaco - ma negli anni Settanta e Ottanta divenne uno dei paesi con il Pil più alto al mondo, grazie alle miniere di fosfato. A partire dagli anni Novanta, con il progressivo esaurirsi del minerale, Nauru perse il suo primato e subì un feroce crack finanziario. “Con la crisi del fosfato, ci siamo ritrovati senza entrate”, racconta un cittadino di Nauru che chiede di restare anonimo per motivi di sicurezza. “I soldi che riceviamo per ospitare i centri sono la nostra principale importazione”. Eppure, secondo alcuni, questa politica ha creato anche tensioni nella popolazione locale. A fine 2015 il governo di Nauru, incalzato anche dai rapporti delle agenzie umanitarie sulle dure condizioni di vita dei rifugiati, ha “aperto” i centri di detenzione, dove comunque nessuno può entrare senza permesso, lasciando una parte di rifugiati liberi di muoversi per l’isola. Nell’attesa di partire, qualcuno ha trovato lavoro - aprendo qualche piccolo locale per mangiare, facendo il magazziniere o addirittura lavorando per il governo -, altri hanno intrecciato relazioni con le donne locali. L’isola è abitata solo lungo la costa: case di lamiera e di mattoni sorgono accanto a complessi di prefabbricati dove vivono gli operatori stranieri che lavorano nei centri. Altre costruzioni, nate per essere temporanee, ospitano rifugiati, famiglie o donne sole con bambini. L’interno dell’isola è una brulla distesa di buchi di pietra, in mezzo ai quali spuntano pezzi di macchine da scavo arrugginite e i centri di detenzione, per lo più composti da tende. Nonostante la loro apertura, la maggior parte dei rifugiati vi resta: i mezzi di trasporto scarseggiano, le abitazioni intorno all’isola anche, le opportunità di lavoro sono molto limitate. I casi di depressione e malattie mentali sono altissimi, sia fra gli adulti che fra i 117 bambini ancora sull’isola. Un ragazzino di 12 anni è stato recentemente evacuato da Nauru dopo aver rischiato la morte in seguito a 20 giorni di sciopero della fame. Episodi come questo, oltre a tentativi di suicidio e comportamenti autolesionisti, sono sempre più frequenti e molti bambini sono stati diagnosticati con la “sindrome da rassegnazione”, una patologia mentale per prima riscontrata in Svezia, solo fra i rifugiati. I bambini che ne soffrono smettono di mangiare, bere, parlare, aprire gli occhi, muoversi, giocare: secondo alcune descrizioni, “scivolano via dal mondo”, si “auto-ibernano”, perché non riescono più a sopportare una realtà troppo traumatica, dovuta non solo a un passato di paura o all’esperienza della detenzione, ma principalmente alla mancanza di speranza di un futuro migliore altrove dopo anni di reclusione. Secondo molti, la mancanza di cure adeguate per questi casi così gravi è un’ennesima ragione per trasferire i rifugiati altrove. “Sono a Nauru da 4 anni”, racconta con occhi stanchi una donna iraniana incontrata mentre porta documenti da un ufficio ad un altro. “Vorrei andare a Las Vegas, tutta la mia famiglia è lì”. Per il Refugee Council of Australia, ad oggi nei due stati del Pacifico vivono circa 1.500 persone, 247 dei quali detenuti nel Nauru Regional Processing Centre. Le ultime stime (da fine 2017 il Department of Home Affairs australiano non aggiorna più i dati), mostrano che a Nauru l’87% delle domande di asilo politico è stato accolto positivamente, ma ai rifugiati è “offerta” solo una scelta: rimanere sull’isola, che non offre loro un futuro, o essere rimandati nel loro paese di origine, da cui è stato accertato che la maggior parte sono fuggiti temendo per la propria vita. Solo pochi fortunati riescono ad andare negli Stati Uniti. Nessuno in Australia. Russia. Torna in prigione il blogger anti-Putin Navalny di Giuseppe Agliastro La Stampa, 29 agosto 2018 Un tribunale di Mosca lo ha condannato a 30 giorni per avere organizzato una manifestazione non autorizzata. Aleksey Navalny torna dietro le sbarre. Un tribunale di Mosca ha inflitto all’oppositore 30 giorni di arresto amministrativo: l’ennesima condanna per aver organizzato una manifestazione non autorizzata. Con la differenza che questa volta la tempistica è quantomeno sospetta: la sentenza riguarda infatti una protesta anti-Putin che risale a ben sette mesi fa, e impedirà a Navalny di guidare le dimostrazioni contro l’aumento dell’età pensionabile in programma il 9 settembre. “Capiamo entrambi che l’unico obiettivo di questo insolito processo è quello di tenermi lontano dai preparativi per il corteo”, ha detto Navalny rivolgendosi al giudice. Poi, quando è stato portato via dall’aula, ha urlato la data della protesta e ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza. La contestazione si svolgerà in decine di città della Russia ma, come tante altre volte in passato, rischia di essere repressa dalla polizia con ondate di fermi e arresti. Il 9 settembre si vota per eleggere 26 tra governatori e sindaci - compreso il primo cittadino di Mosca - e le autorità potrebbero non gradire i cortei dell’opposizione. Anzi, l’amministrazione comunale della capitale russa ha già respinto la richiesta di manifestazione accusando Navalny di voler “influire negativamente sull’andamento delle elezioni”. Il blogger anticorruzione, che negli ultimi due anni ha portato in piazza migliaia e migliaia di russi, è stato fermato dalla polizia sabato scorso. Era appena uscito di casa in pantaloncini e sandali e si preparava ad andare fuori Mosca per trascorrere il weekend con la famiglia quando è stato trascinato via da cinque agenti delle forze speciali Omon. Gli viene contestata l’organizzazione della protesta del 28 gennaio contro le “presidenziali farsa” dello scorso marzo, stravinte da Putin e a cui lui non si è potuto candidare per i suoi guai giudiziari che molti ritengono di matrice politica. Navalny racconta che la polizia abbia giustificato il ritardo nel fermo dicendo di non essere riuscita a rintracciarlo in tutti questi mesi. Una strana motivazione se si pensa che il dissidente entra ed esce dal carcere ed è stato dietro le sbarre da metà maggio a metà giugno. La condanna a un mese di reclusione non è però l’unica batosta inflitta in questi giorni a Navalny dalle autorità russe. Il ministero della Giustizia ha infatti respinto la richiesta dell’oppositore di registrare il suo partito Russia del Futuro. Secondo il dicastero, il dissidente non avrebbe inviato alcuni dei documenti necessari per l’iscrizione nel registro ufficiale dei movimenti politici. Ma sono ormai sei anni che Navalny cerca, senza successo, di registrare un proprio partito. Finora ha solo ottenuto che dei misteriosi individui ne registrassero altri con lo stesso nome e lo stesso simbolo dei suoi lasciandolo con un palmo di naso. Navalny sta ora cercando di sfruttare a suo favore una contestatissima proposta del governo che prevede il graduale aumento dell’età della pensione da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 anni per le donne. Putin nel 2005 aveva promesso che non avrebbe mai innalzato l’età pensionabile e il dietrofront ha fatto leggermente calare la sua popolarità. Ora però sembra che il leader del Cremlino sia pronto a recuperare, annunciando a breve un ammorbidimento della riforma delle pensioni. Anche perché tra poco si vota. Ruanda. Diane voleva essere presidente, è finita in galera di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 29 agosto 2018 Nel Paese con il più alto numero di parlamentari donne, alla fine vince sempre il presidente-padrone Paul Kagame. Come dimostra la fine della sua unica sfidante. C’è un Paese, in Africa, che è considerato la Svizzera del Sud. Verde, ricco di risorse, pacificato e con un sacco di donne in politica. Da qualche anno il Ruanda è saldamente alla guida della classifica mondiale per numero di presenze femminili in Parlamento, ben oltre il prospero Occidente (Italia, 43esima): il 61,3 per cento delle deputate è donna, così come 4 dei sette giudici della Corte suprema e quasi la metà dei membri del governo. Per la Banca mondiale è il secondo miglior Paese dove fare affari in area sub-Sahariana, il meno corrotto del continente. Un bel successo per la nazione che fu teatro di uno dei peggiori eccidi della storia: nei cento giorni di sangue del 1994 - dal 6 aprile a metà luglio - furono massacrate a colpi di machete, armi da fuoco e bastonate, 800.000 persone, perlopiù di etnia tutsi (la minoranza al potere). Due milioni furono costretti a fuggire. La popolazione maschile venne decimata, le donne diventarono maggioranza (il 70%) ma gran parte di loro portavano i segni di stupri e altre orribili violenze. Passato. Nel presente, però, non è tutto oro ciò che luccica. Ce lo ricorda il network Cnn che racconta la storia poco nota di una donna che voleva essere presidente. Ed è finita in galera. Diane Rwigara ha 37 anni e ha vissuto gran parte della sua vita in California. “Pensava che il Ruanda fosse diventata la terra dei miracoli - dice la sorella Anne - pulita, dinamica...”. Si è ricreduta. Nel 2015 il padre, un importante uomo d’affari, rimane ucciso in un incidente stradale sospetto. Secondo i suoi, si era esposto troppo contro il potere. E il potere, in Ruanda, ha un nome: Paul Kagame, il presidente di etnia tutsi che ha dominato incontrastato le ultime tre elezioni, quasi un ventennio. Diane torna in Ruanda e sfida il leader al voto, unica donna in lizza alle presidenziali dell’agosto 2017, ma è subito accusata di aver falsificato le firme per la candidatura - lei nega - e viene espulsa dalla competizione. Kagame vince con il 99 per cento dei voti. La giovane commercialista non si dà per vinta e lancia il Movimento per la liberazione popolare (Itabaza), invitando la popolazione “a chiedere trasparenza al governo”. Poco dopo, viene arrestata assieme alla madre con l’accusa di incitamento alla rivolta e frode. Si trovano tuttora in due celle separate in un carcere fuori Kigali, la capitale del Ruanda, in attesa di un processo che è stato già rimandato più volte e i loro familiari temono sarà “guidato politicamente”. La censura di Stato in Ruanda è sovrana. Nessuno parla della storia di Diane, chi critica il sistema viene minacciato, verbalmente e fisicamente. Molti sostenitori del Movimento sono finiti in carcere, dove hanno subito interrogatori intimidatori. Il sessantenne Kagame - che nel 1994 guidava il braccio armato del Fronte patriottico del Ruanda e poi è stato una pedina fondamentale del processo di pace - ha già modificato la legge per auto-consentirsi di restare al potere fino al 2034. Il Paese è prospero, l’ineguaglianza pesante: il 51% della popolazione vive sotto il livello di povertà. La Costituzione ha da tempo introdotto le “quote rosa” in politica (almeno il 30% dei seggi parlamentari alle donne, che se ne sono prese più del doppio). Ma il potere, notano gli analisti internazionali, sta altrove. In un cerchio magico che ruota intorno al presidente-padrone. Composto esclusivamente da uomini.