Se gli orizzonti diventano sempre più ristretti di Francesca de Carolis remocontro.it, 27 agosto 2018 Gatto Randagio torna a parlarci di carcere. La scure del “ridimensionamento” sulle attività di “Ristretti Orizzonti”, realtà che nel carcere di Padova da vent’anni porta avanti progetti straordinari, che tante cose in meglio hanno cambiato, nel carcere e nelle persone, anche fuori. Gli incontri con le scuole, laboratorio di conoscenza e di relazioni. “Se le scuole fossero meno carceri, se le carceri fossero più scuola…”, il filosofo Giuseppe Ferraro, che definisce il carcere lo specchio infranto della società, quello in cui la democrazia si infrange. Ma perché mortificare una bella realtà che tanti buoni risultati ha dato e pure tanti riconoscimenti negli anni ha ricevuto? Perché… perché… Domanda che turbina intorno come un vento scomposto, mentre leggo di quel che accade a Padova. Nel carcere di Padova, il “Due Palazzi”, dove rischiano di essere drasticamente ridimensionati tutti i progetti di Ristretti Orizzonti. “Ristretti”, come familiarmente la chiama chi intorno al mondo del carcere gravita, è una redazione fatta di volontari e detenuti intorno alla quale, in più di vent’anni d’attività, sono nati progetti straordinari, percorsi culturali che tante cose in meglio hanno cambiato, nel carcere e nelle persone… non solo per chi è dentro, ma anche per chi, da fuori, vi è entrato in contatto… e da anni è importante punto di riferimento per tutte le persone che, in un modo o nell’altro, si occupano di Giustizia. Fra le tante cose, permettete l’ottica professionale, dalla redazione di Ristretti arriva ogni giorno una rassegna stampa unica in Italia. E quasi viene da piangere a leggere l’articolo, che è un editoriale, una denuncia, un appello… con il quale da qualche giorno apre la rassegna Ornella Favero, che di Ristretti Orizzonti è direttore, e con grande determinazione e forza l’ha guidata e fatta crescere… leggete anche voi… (http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/nelle-carceri-si-sta-perdendo-la-speranza-nel-cambiamento-e-anche-ristretti-e-a-rischio). Un’altra triste pagina, viene da dire, dell’aria che tira… mentre sta morendo la speranza del cambiamento per cui pure in tanti hanno lavorato e, purtroppo, non penso solo a Padova. Temendo sia proprio vero quello che ha scritto Damiano Aliprandi, attento collega de “Il Dubbio”, che “il sistema penitenziario è un ottimo indicatore per capire in quale direzione sta andando il nostro Paese…”. Questa tremenda aria che tira, che oggi ci fa guardare attoniti a una politica che si muove fuori dalla legge (vedi il Viminale)… che sembra volere mura sempre più invalicabili, e non solo quelle del carcere… Opporvisi significa anche continuare a testimoniare, spiegare… Io devo dirvi che se qualcosa del carcere (e della nostra società) ho capito, è stato anche varcando i cancelli di quel di Padova. Sempre più convincendomi del fatto che, per una seria riflessione sul senso della pena (e della società che vogliamo), il salto vero di conoscenza e riflessione si compie solo con il confronto diretto. Cosa che al Due Palazzi si fa da tempo anche attraverso incontri con le scuole, grazie al progetto che a Padova e nel Veneto ha portato migliaia di ragazzi a parlare, pensate, di legalità in carcere. Ascoltate le parole di Sofiane…: “Credo che il carcere e la scuola sono lontani e diversi tra di loro, ma condividono lo stesso fine, l’educazione dell’uomo. (…) noi raccontando le nostre storie è come se regalassimo una specie di “sfera di cristallo” dove i ragazzi possono vedere un futuro pieno di sofferenza, se si segue un percorso di vita sbagliata come quello che abbiamo fatto noi… Così spieghiamo loro che ci sono tanti motivi che possono portare a scivolare in comportamenti rischiosi, scelte sbagliate, (…) anche se io ritengo che siamo responsabili unicamente noi delle nostre scelte e che dobbiamo accettare le conseguenze di ogni atto, parola e pensiero per tutto il corso della nostra vita..” E ascoltate Massimiliano… “Oggi ho per la prima volta capito che tutti hanno del bene e del male insieme, e che bisogna nutrire la parte di bene che ognuno di noi ha. So che questa potrebbe sembrare una conclusione piuttosto ovvia, ma per me, senza il vostro aiuto, non sarebbe stato nemmeno lontanamente concepibile. La mia idea di carcere è cambiata, non voglio (non vorrei) che fosse un luogo che impoverisce le persone, che le fa crescere nel rancore e fa passare la voglia di vivere. (…) La mia domanda su che cos’è la giustizia si è di nuovo aperta…” E Lorenzo: “Una giornata particolare, oggi. Abbiamo incontrato una classe di ragazzi sordomuti, il loro silenzio non lo sentivo. Certo può sembrare un controsenso, la realtà è che vederli comunicare con il loro alfabeto è stato straordinario”. Ancora uno studente, al termine di un incontro: “… sì, sto riflettendo… sul valore della libertà”. Drasticamente ridimensionare Anche questo oggi si vorrebbe “drasticamente ridimensionare” (cosa che poi rischia sempre di essere l’inizio della fine). Eppure quest’esperienza in particolare mi ha sempre fatto pensare che gli incontri fra studenti e persone detenute andrebbero piuttosto in qualche modo “istituzionalizzati”, che dovrebbero entrare nei programmi di tutte le scuole… Sarebbero, per tutti, veri laboratori di conoscenza e di relazioni e di vita… per chi è dentro e per chi è fuori… E vi invito ad affacciarvi sulla realtà tutta di Ristretti Orizzonti, e a sostenerla… Pensando a quel che ha scritto il professor Giuseppe Ferraro, che è docente di Filosofia della Morale e anche in carcere tiene corsi di filosofia e parla del carcere come specchio infranto della società, quello in cui la democrazia si infrange: “Pericle si vantò della democrazia parlando con orgoglio di come avesse fatto della sua città una scuola. Questo manca sempre alla democrazia per essere tale. Anche il carcere reclama di diventare una scuola, dalla quale ci si può licenziare con merito o essere detenuti per ripetizione, ma dove non si può ripetere sempre la stessa classe quando si è stati promossi a essere se stessi a pieni voti…” “Se le scuole fossero meno carceri, se le carceri fossero più scuola…”, una scuola come quella alla quale “Ristretti”, con il suo lavoro e tutte le sue iniziative, ha dato vita. Perderla sarebbe una grave regressione. Per tutti noi. Ricordi bugiardi e ingannevoli riempiono le carceri di innocenti di Da Cristiano Bacchi ilsuperuovo.it, 27 agosto 2018 Psicologia della testimonianza: prevenire e curare le dimenticanze della memoria. Ristretti Orizzonti ha reso nota una ricerca dell’Euripes e dell’Unione delle Camere penali: prendendo a modello il nostro Paese, dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. Analizzando sentenze e scarcerazioni si contano circa 4 milioni di italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Fra le cause di tali errori giudiziari vi sono indagini mal condotte, giudizi disattenti, false confessioni. Ma uno dei punti più interessanti sono le testimonianze oculari e basate su ricordi distorti: cerchiamo di scoprire il nucleo teorico dietro questa delicata problematica giuridica. Ebbinghaus vs Bartlett - Innanzitutto, qual è la natura della memoria? Il pioniere degli studi relativi a questo campo d’indagine Hermann Ebbinghaus (1850-1909) credeva che la memoria fosse come uno scatolone, un ricettacolo passivo in cui inserisco ciò che voglio e vado a recuperare proprio ciò che ho inserito: un processo di tipo riproduttivo. Lo psicologo Frederic Bartlett si muove su una linea cognitivista e afferma invece che la memoria è un processo di tipo ricostruttivo: gli eventi vissuti vengono rielaborati, ricondotti alle strutture concettuali degli individui, influenzati da ciò che essi ritengono emotivamente saliente e così via. Perciò essa comporta delle trasformazioni, delle distorsioni che come vedremo possono essere pericolose nel momento in cui ci si affida completamente alla propria memoria. Quest’ultima allora funziona pressoché in questo modo: se pongo la mia tesi nella libreria questa sarà influenzata dai libri che ha vicino e da essi sarà riscritta. Quando andrò a riprenderla sarà ormai modificata e lo stesso destino seguiranno i libri adiacenti. False memorie - Se i ricordi non rappresentano una fotocopia della realtà ma sono una rielaborazione personale e soggettiva, questi implicano un certo grado di distorsione. Ma allora quanto è affidabile la nostra testimonianza? È quello che si chiede la psicologa Elizabeth Loftus da decenni, che studia la memoria da un punto di vista del tutto originale: “I don’t study when people forget. I study the opposite: when they remember, when they remember things that didn’t happen or remember things that were different from the way they really were. I study false memories”. Sono proprio questi falsi ricordi i veri colpevoli. E così in un progetto negli Stati Uniti sono state raccolte informazioni su 300 imputati accusati di crimini che non avevano commesso: tre quarti dei giudizi errati erano dovuti a memoria difettosa, a testimonianze devianti. Il futuro di queste persone è stato strappato loro via da un errore concettuale: la nostra memoria non ricalca con precisione la realtà, anzi, essa è come una pagina di Wikipedia che può essere modificata da noi stessi come da qualsiasi altro. “Memory - like liberty - is a fragile thing. Questa citazione è proprio ciò che ci consiglia di ricordare la Loftus. I suoi studi ci confermano che quando forniamo alle persone informazioni errate riguardo qualche esperienza che possono aver avuto siamo in grado di distorcere, contaminare o cambiare i loro ricordi. Perciò i cosiddetti false memories non sono così difficili da creare, sono favoriti da tecniche di ipnosi, interpretazione dei sogni, immaginazione guidata, domande fuorvianti e variazioni nella descrizione di una scena. È veramente inquietante immaginare con quanta facilità è possibile impiantare un falso ricordo (di qualsiasi tipo) nelle nostre menti. È stato possibile impiantare sia ricordi di eventi traumatici sia ricordi che potremmo chiamare positivi: in qualsiasi caso si tratta di una vera e propria manipolazione. Tralasciando i vari problemi etici che tutto questo può scatenare (e effettivamente scatena) ciò che ci interessa è che questi falsi ricordi possono successivamente influire sul comportamento. Questi studi non ci proibiscono di dare valore ai nostri ricordi, non ci dicono che la nostra memoria non rappresenta la nostra storia personale ed una componente essenziale della nostra identità, questo è vero. Questi studi ci consigliano però di notare quanta finzione possiamo scorgere se prestiamo maggior attenzione. La nostra mente - ed è questo un problema affrontato ormai da secoli - non ci restituisce mai la realtà per quella che è. Ciò che vediamo è sempre una nostra rappresentazione più o meno distorta. Non possiamo dimenticarcene quando siamo in potere di prendere decisioni riguardo la vita di altre persone. Atto politico non significa potere totale di Gianrico Carofiglio La Repubblica, 27 agosto 2018 Il filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e istituzioni, sostiene che le società vengano costruite e si reggano su una premessa linguistica: sul fatto, cioè, che formulare un’affermazione comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari. Nel caso della politica: formulare un’affermazione comporta un obbligo di verità e correttezza nei confronti dei cittadini. Siano essi sostenitori, siano essi avversari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso. Le società nelle quali prevalgono le asserzioni vuote di significato sono in cattiva salute: in esse, alla perdita di senso dei discorsi, consegue una pericolosissima caduta di legittimazione delle istituzioni. È per questo che occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è dunque un lusso da intellettuali o un esercizio da accademici. È un dovere cruciale dell’etica civile. La vicenda della nave Diciotti ha generato una straordinaria proliferazione di esperti di diritto penale, di procedura penale, di diritto costituzionale e di diritto internazionale. Amici, temo, dei molti esperti di vaccini, scie chimiche e cure del cancro con tisane di ortica, che si aggirano in Rete. Caratteristica comune a questa variegata moltitudine di personaggi è la convinzione che razionalità e competenza siano difetti piuttosto gravi e che usare parole precise e munite di senso sia un’operazione inutile e dannosa. Qualcuno ha detto che i cittadini eritrei a bordo della nave Diciotti non dovevano entrare illegalmente su territorio italiano e che il ministro faceva il suo dovere impedendo lo sbarco per difendere (proprio così: ci sono espressioni che hanno la straordinaria capacità di essere tragiche e ridicole a un tempo) il territorio stesso’ da un atto d’invasione. Affermazione su cui si sarebbe potuto discutere per condividere o dissentire se i suddetti cittadini eritrei non fossero già stati su territorio italiano, considerato che le navi militari, come sa qualsiasi mediocre studente di diritto internazionale, sono a ogni effetto di legge, territorio dello Stato. E quando un cittadino straniero arriva - legalmente o illegalmente nel nostro territorio - la legge impone che gli venga consentito di richiedere lo status di rifugiato se proviene da una zona in guerra, se è sottoposto a persecuzione, se corre gravi rischi nell’ipotesi del rimpatrio. Solo dopo l’accertamento dell’insussistenza dei presupposti per ottenere quello status è possibile procedere a espulsioni e rimpatri. Qualcuno ha detto che il ministro non può comunque essere perseguito per sequestro di persona plurimo, arresto illegale plurimo e abuso di ufficio, perché la sua condotta sarebbe, un atto politico, come tale non sottoposto all’azione della magistratura. L’espressione “atto politico” è piuttosto sfuggente e infatti i sostenitori della tesi suddetta, richiesti di definirlo, appaiono alquanto in difficoltà. Molto più chiaro è il testo della Costituzione della Repubblica Italiana che, a quanto pare, è ancora in vigore. L’articolo 13 specifica che la libertà personale è inviolabile e che non è ammessa alcuna forma di restrizione della libertà se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge. Presupposti che non sussistono nel caso di specie. A persone prive di fantasia come i giuristi (quelli veri) sembrerebbe tutto chiaro: il ministro ha ordinato una limitazione illegale della libertà personale di molte persone, così violando l’articolo 13 della Costituzione e, fra gli altri, l’articolo 605 del codice penale - sequestro di persona aggravato. Trattasi di reato piuttosto grave e gli ingenui magistrati pensano che i responsabili, sottoposti al principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, debbano risponderne in un processo. Ma il ministro, come dicevo e come gridano a gran voce i citati esperti di diritto, avrebbe posto in essere un atto politico, come tale sottratto alla legge penale. Si tratta di una tesi bizzarra e priva di qualsiasi fondamento giuridico. L’idea balzana che la natura politica di un comportamento ne escluda a priori l’illiceità penale, può condurre a conseguenze piuttosto surreali. Se un ministro, per ragioni politiche, ordinasse alla polizia o all’esercito di concentrare in uno stadio un gruppo di manifestanti riottosi e di tenerceli per qualche giorno, o per qualche settimana, sarebbe un sequestro di persona plurimo o un atto politico non perseguibile penalmente? Se un ministro, per ragioni politiche, ordinasse alla polizia o all’esercito di sparare sulla folla - o magari su un barcone di migranti - si tratterebbe di omicidio plurimo o di un atto politico non perseguibile penalmente? Il problema è che esiste un banale concetto, anch’esso purtroppo ancora valido come la Costituzione. Si chiama Stato di Diritto e implica, fra le altre cose, che un ministro non possa fare quello vuole ma solo quello che gli permette la legge. Bizzarro, vero? L’Anm apre il caso Bonafede. Minisci: “dovrebbe difendere le toghe” di Liana Milella La Repubblica, 27 agosto 2018 Intervista al presidente dell’Anm Francesco Minisci. Dal sindacato dei magistrati il richiamo al Guardasigilli: “deve ricordare le prerogative costituzionali, non è il ministro dell’Interno che verifica i reati”. “Chi ricopre incarichi istituzionali, in particolare il ministro della Giustizia, deve difendere le prerogative costituzionali della magistratura”. Lo dichiara a Repubblica il presidente dell’Anm Francesco Minisci che schiera il sindacato delle toghe a fianco del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Il ministro dell’Interno può, nella veste di titolare della sicurezza del Paese, scatenarsi contro la magistratura e sfidarla apertamente, come sta facendo Salvini da due giorni? “Noi siamo intervenuti chiarendo che si è trattato di un tentativo di orientare lo sviluppo degli accertamenti: si tratta di un’interferenza nelle prerogative dell’autorità giudiziaria, unica istituzione cui la Costituzione e le leggi attribuiscono il compito di verificare se ci sono reati e chi ne sia il responsabile. Nessun altro può farlo, neanche un ministro”. Il continuo appello di Salvini ai consenso popolare non assomiglia a un golpe che rischia di sovvertire l’ordine democratico in Italia? “Non intendiamo in alcun modo alimentare la polemica. E comunque non spetta alla magistratura fare queste valutazioni, noi interveniamo solo per accertare se in un fatto che accade c’è un reato”. Berlusconi solidarizza con Salvini. Siamo tornati agli anni dello scontro duro tra politica e magistratura? “Speriamo di no. Ma sicuramente non saremo noi magistrati ad attizzare il fuoco. Una cosa è certa: come abbiamo già fatto, reagiremo ogni volta in cui ci saranno attacchi all’autonomia e all’indipendenza di ogni singolo magistrato, da chiunque provengano. Sui principi costituzionali non arretreremo di un solo passo”. Ma il caso di Salvini, che non riguarda un reato scaturito da un comportamento privato, com’era nel caso di Berlusconi, ma un atto compiuto nelle sue funzioni di ministro, non è molto più grave? “Nessuno deve e può interferire nel lavoro dei colleghi. Se nella vicenda della nave Diciotti sono stati commessi reati e, in caso positivo, chi li ha commessi, spetta stabilirlo a chi indaga: questo significa autonomia e indipendenza della magistratura”. Non ha l’impressione che stavolta l’opinione pubblica sia con Salvini perché vuole un’Italia con le frontiere chiuse? “Posso solo dirle che i magistrati non cercano il consenso, ma applicano la legge. Il resto è politica”. Sia il vicepremier Di Maio che il Guardasigilli Bonafede appoggiano Salvini. Lei non vede e soprattutto non teme che ne derivi un isolamento della magistratura? “Al di là del singolo fatto, io credo che tutti coloro che ricoprono incarichi istituzionali, anche i membri del governo, in particolare il ministro della Giustizia, debbano avere a cuore e difendere le prerogative costituzionali della magistratura”. Nel merito del caso Diciotti come giudica il prolungato divieto di sbarco? “Saranno i nostri colleghi che procedono a stabilirlo, verso i quali abbiamo la massima fiducia. Ma tutti devono lasciarli lavorare serenamente, senza indebite e inammissibili interferenze”. Genova e il disastro del ponte Morandi, Catania e la Diciotti bloccata, due procure al lavoro. La magistratura sta svolgendo ancora una volta un ruolo di supplenza? “È un ruolo al quale di certo non aspiriamo: così come pretendiamo che nessuno si sostituisca a noi, allo stesso modo non vogliamo sostituirci a nessuno. I nostro spazi di intervento li abbiamo ben chiari”. Con l’indagato e con i giudici, il politichese dei 5 Stelle di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 27 agosto 2018 Di Maio cerca di coprire l’incoerenza. Ma le parole non possono tutto. Nemmeno le formule più audaci del politichese possono andare in soccorso del Luigi Di Maio che vuole conciliare l’inconciliabile, il patto di governo con Matteo Salvini indagato e la venerazione indiscriminata dei 5 Stelle, fin qui dimostrata per qualsiasi azione della magistratura. Sta con i magistrati, dice, ma anche con chi, come il suo collega vicepremier, considera una “vergogna” (testuale) l’offensiva a suo danno di un magistrato. “Indagato” era una brutta parola per i seguaci di Grillo, e la presunzione di innocenza, sancita dalla Costituzione repubblicana, uno scomodo diversivo che ostacolava la meritata condanna. Oggi Matteo Salvini è indagato, che non significa colpevole, e non significa neanche, allo stato, meritevole di andare sotto processo: saranno le indagini del Tribunale dei ministri. Ma i 5 Stelle sono sempre stati contrari a questo principio, e le dimissioni per chi era indagato un articolo di fede. Ora invece è l’era dei distinguo, delle sfumature, del dire e non dire, persino una forma di condivisione solidale nelle scelte sull’immigrazione cerca di smussare gli angoli, eliminare verbalmente le asprezze della logica e della politica. Si sta con la magistratura certo, ma poi c’è un “codice etico” a sanare la fatale contraddizione. Dice Di Maio che il “codice etico” del suo Movimento non impone ipso facto le dimissioni di Salvini. Ma Di Maio è il vicepresidente del Consiglio del governo della Repubblica, non il responsabile di un’associazione privata che si dota di un suo pur ammirevole “codice etico”. Un ministro non è un militante di partito da sottoporre al giudizio di un collegio di probiviri. E il Parlamento è l’organo che rappresenta la sovranità popolare, non già un popolo circoscritto, selezionato, unanime, che si esprime attraverso un blog. Ora Di Maio cerca con le parole di coprire l’incoerenza di mettere insieme la purezza richiesta dalla sua base cresciuta a colpi di giustizialismo e gli imperativi del realismo politico. Ma le parole non possono tutto. Se il Tribunale dei ministri dovesse decidere che ci sono gli elementi per procedere nei confronti di Matteo Salvini, il Senato potrebbe essere chiamato a pronunciarsi per autorizzare o meno il processo al ministro dell’Interno e vicepremier. A quel punto cosa prevarrebbe, la solidarietà di governo o il rispetto per la magistratura? Si assiste a un curioso rovesciamento delle parti, peraltro: i garantisti di ieri si accaniscono sui 5 Stelle in difficoltà per lo scossone che la magistratura sta assestando alla politica; i giustizialisti invece si mostrano comprensivi, accomodanti, moderatissimi, adusi alle fumosità del lessico politico. Non possono dire quello che veramente pensano perché se dicessero che la magistratura ha torto verrebbero meno a in dogma sino a qui indiscutibile, se invece incoraggiassero la magistratura ad andare fino in fondo metterebbero in discussione l’esistenza stessa del governo di coalizione giallo-verde. Le parole danno l’illusione di allontanare l’ora delle scelte. E meglio sarebbe, anziché continuare in questa navigazione zigzagante, che un partito di governo come i 5 Stelle indicassero una volta per tutte le ragioni di un ripensamento sull’intransigentismo di facciata dimostrato fino al 4 marzo, giorno della loro investitura plebiscitaria. Cambiare è lecito, purché il cambiamento venga spiegato apertamente e con lealtà. L’alternativa è questo continuo traccheggiare tra sponde opposte, una riesumazione della vecchia politica che finora è stata il bersaglio preferito di un movimento aggressivo come quello creato da Grillo e Casaleggio senior. Ma i fatti sono più cocciuti delle parole rassicuranti. Salvini: “L’inchiesta? Un boomerang. Pronti alla riforma della giustizia” di Marco Conti Il Messaggero, 27 agosto 2018 “Mi hanno fatto piacere le parole di Berlusconi come quelle della Meloni. Meno le dichiarazione di esponenti di Forza Italia. Ipocrite per come si stanno comportando in Parlamento”. Matteo Salvini ha appena caricato per la terza volta la batteria del cellulare. Sul suo profilo Facebook una foto che lo ritrae con canna da pesca e birra. Un’immagine di tranquillità e al tempo stesso di determinazione che trasmette nella conversazione telefonica malgrado l’avviso di garanzia. “Ho ricevuto - racconta - una marea di messaggi di solidarietà. Anche e soprattutto da parte di gente che è fuori dalla politica e che non ha votato Lega. Credo che ad Agrigento abbiano sbagliato i loro conti se pensavano di fermare o intimorire qualcuno”. Complice il nervosismo interno al M5S, i toni nei confronti dei pm sono più sfumati della sera precedente. Dice il vicepremier: “La cosa bella del post Agrigento è che tra i tanti messaggi di sostegno, che tengo per me, anche parecchi di giudici e pubblici ministeri di varie procure italiane. È il segno che la politicizzazione va stretta anche a molti operatori della giustizia”. “Per esempio - sostiene - un giudice che si toglie la toga e fa politica non può tornare a fare quello che faceva prima”. Torna l’idea di riformare la giustizia anche se la Lega, alleata di Fi, ha provato più volte “senza successo - ammette - ma questo è il governo del cambiamento!”. Quindi la riforma della giustizia va fatta “ma non per l’inchiesta su Salvini - precisa - ma perché abbiamo milioni di processi arretrati e questo è uno dei problemi che frenano gli investimenti in Italia. Una riforma dei tempi della giustizia serve. Poi affronteremo la separazione delle carriere e il correntismo della magistratura”. Nessun passo indietro, quindi, “perché non mi lascio intimidire”. Anzi, sostiene il ministro dell’Interno “da Agrigento verranno tante cose positive e quindi ringrazio il pm perché sarà un boomerang”. Nessun problema con il M5S, quindi? “Assolutamente no. Anche perché tutto mi sarei aspettato tranne di essere accusato di sequestro di persona”. Con Bruxelles i canali di dialogo sono interrotti e Salvini lo teorizza quando sostiene che sulla caso della nave Diciotti “si sono dimostrati totalmente assenti sordi, menfreghisti, ma poiché lo fanno con i soldi degli italiani, e la cosa ci dà molto fastidio, bene ha fatto Conte ad annunciare che quando avranno bisogno di noi li ripagheremo con la stessa moneta”. Ritorsioni in vista, quindi, sul bilancio comunitario come sul Ceta perché “non ci danneggiano solo sul fronte migrazione ma anche sulle banche, con la direttiva Bolkestein, in agricoltura, pesca, ambiente”. Ma ora - promette il leader della Lega - “dopo tanti governi silenziosi e complici hanno trovato un governo di altra pasta”. Anche a costo di spingere l’Italia fuori dall’Europa e dal mercato comune? “No, no - precisa - non c’è nessuna opzione di uscita. Noi siamo lì ma vogliamo ridiscutere il nostro costo per essere lì visto che i servizi sono sempre più scarsi. La nave Diciotti - continua Salvini - dimostra che è possibile un dialogo anche fuori dai confini europei perché l’Albania ha risposto positivamente. Così la Chiesa”. La Cei, per la precisione. Quindi cento sono sbarcati in Italia, proviamo a far notare. “Dove li faranno alloggiare, chi li nutre e chi si occuperà di loro - replica il vicepremier - non è nostro impegno. I pochi che poi otterranno il permesso rimarranno in Italia gli altri rimandati indietro”. Domani Milano per incontrare il primo ministro ungherese Orban. Gli chiederà se accoglie un po’ di migranti? “Ma no. Conosco la sua posizione su questo punto. Così come quella dei tedeschi e degli austriaci. Orban vuole un’Europa che controlli e protegga le frontiere esterne. Questo è il nostro obiettivo finale. Ricordo agli scandalizzati - aggiunge - che Orban fa parte del Ppe e governa l’Europa con i socialisti. Non è quindi un euroscettico brutto e cattivo come Salvini e la Le Pen, ma governa. Inoltre se mi chiedesse un incontro anche la cancelliera Merkel, io da vicepresidente del Consiglio ho il dovere di incontrare chiunque e lo farei volentieri”. Di Maio dice alla Ue che “possiamo ravvederci se arriveranno segnali di aiuto sulla lotta alla povertà e alla disoccupazione”. Siamo allo scambio migranti-flessibilità che voi avete imputato ai precedenti governi? “Lo ha già fatto Renzi che aveva calato le braghe per qualche spicciolo e noi non ripercorreremo quella strada”. E che farete? “Su alcune voci di spesa noi non chiederemo il permesso a nessuno. Dal mio punto di vista noi dovremmo mettere giù elenco delle cose da fare. Se poi coincide con le regole europee tanto meglio. Se è qualcosa che va oltre e si tratti di investimenti necessari, si fanno. Ne parleremo con Tria che sta partendo per una missione in Cina assolutamente utile”. G8 Genova. La procura della Corte dei Conti: “i poliziotti risarciscano 8 milioni di euro” La Repubblica, 27 agosto 2018 La richiesta per i pestaggi avvenuti all’interno della scuola Diaz. La procura della Corte dei Conti della Liguria chiede un risarcimento danni di oltre 8 milioni di euro (3 milioni di danni patrimoniali e 5 per danno d’immagine) a 27 appartenenti ed ex appartenenti alla polizia di stato, per i pestaggi avvenuti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. A essere citati dalla procura contabile sono i dirigenti e i funzionari dell’epoca, tra questi anche Francesco Gratteri, allora direttore del servizio centrale Operativo, il suo vice Gilberto Caldarozzi; il capo della Digos di Genova Spartaco Mortola oltre al comandante del primo reparto mobile di Roma, Vincenzo Canterini, il suo vice comandante e i capisquadra; oltre agli altri funzionari coinvolti nei fatti. Per la procura, devono risarcire un danno patrimoniale indiretto, ovvero i risarcimenti alle parti civili pagati dal Ministro dell’Interno, oltre alle spese legali per i processi, il tutto per oltre 3 milioni di euro. Nei prossimi mesi sarà fissata l’udienza davanti ai giudici contabili che dovranno decidere nel merito. Secondo il pm contabile, lo Stato, non solo ha dovuto affrontare importanti risarcimenti, ma ha subito anche un grande danno d’immagine, quantificato in 5 milioni di euro. Il procedimento penale, per i brutali pestaggi avvenuti all’interno della scuola Diaz da parte delle forze dell’ordine la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001, si è concluso in Cassazione con alcune condanne e numerose prescrizioni, che hanno visto coinvolti anche personaggi di vertice della polizia di stato. Il pm sottolinea però “come sia per i fatti per cui vi è stata una condanna, che per quelli per cui è intervenuta la prescrizione, si siano accertate le responsabilità e vi sia stata condanna al risarcimento danni e al rimborso delle spese, nonché il riconoscimento di provvisionali in favore delle parti civili”. La procura contabile ha aperto altri procedimenti per danno patrimoniale, per gli stessi fatti, in quanto vi sono ancora cause civili di risarcimento danni in corso e ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Consulta sempre meno coinvolta: i ricorsi ridotti a un terzo in 10 anni di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2018 Non è certo (solo) da questi numeri che si pesa la centralità di una Corte suprema in un ordinamento giuridico. Quanto piuttosto dalla capacità di interpretare quella funzione di tutela della “giustizia della legislazione”, nel cui esercizio sono continuamente messe in gioco le qualità della vita, della convivenza di tutti, come sottolineava pochi mesi fa l’allora presidente della Consulta Paolo Grossi. Certo però almeno sul piano quantitativo sono abbastanza impressionanti i dati che testimoniano il calo progressivo e, pare, inarrestabile, dei casi in cui la Corte costituzionale viene chiamata in causa. Il crollo del contenzioso - In 10 anni, infatti, gli atti di promovimento sono crollati dai 950 del 2007 ai 308 dell’anno scorso. Con una, a sua volta, pesante riduzione del numero delle ordinanze di rimessione, passate dalle 857 del 2007 alle 190 dell’anno scorso. A diminuire sono di conseguenza anche le decisioni, che sono state 281, un dato inferiore a quello del 2016, -3,7%, confermando la tendenza, a partire dal 2014, che non vede superare i 300 provvedimenti. Con una profondità di visione più accentuata, poi, stando ai dati della Corte, se si scompone il ventennio passato in periodi di 5 anni, si osserva che il valore medio delle decisioni è stato di 490 tra il 1997 e il 2001, 462 tra il 2002 e il 2006, 395 tra il 2007 e il 2011, e 299 tra il 2012 e il 2016. Il conflitto Stato-Regioni - Un calo che sembra non investire il versante del conflitto tra Stato e Regioni. Per quanto, infatti, i ricorsi in materia di Titolo V dimostrino dal 2002 a oggi un andamento altalenante - con un picco negli anni dal 2010 al 2012 (in quest’ultimo anno si è raggiunta la cifra record di 193 cause) - il contenzioso sulle competenze non accenna a diminuire. La situazione registrata nel 2016 con 77 ricorsi - il minimo storico dopo i 50 fascicoli arrivati alla Corte nel 2007 - e che faceva pensare a un’inversione di tendenza del cospicuo braccio di ferro tra Roma e la periferia (anche sull’onda della riforma costituzionale, poi bocciata dal referendum di dicembre 2016), in realtà si è dimostrato solo un dato contingente. L’anno scorso, infatti, i ricorsi sul Titolo V sono tornati a crescere, raggiungendo la cifra di 95. Insomma, il minor lavoro di cui viene investita la Consulta non sembra, al momento, addebitabile al conflitto sulle competenze. Anche le decisioni confortano questo dato. Il lavoro della Consulta per comporre i dissidi tra il Governo e le Regioni continua, infatti, a mantenersi elevato: l’anno scorso sono state prodotte 106 tra sentenze e ordinanze, quante quelle dell’anno precedente e in linea con 2014, quando furono 96. Certo, c’è stato un momento - anche in questo caso tra il 2010 e il 2013, in cui le performance della Corte erano ancora più alte, con oltre 140 decisioni l’anno - ma l’attività ha conosciuto pure fasi di minor intensità: tra tutte - tralasciando le 13 e le 52 sentenze del 2002 e 2003, anni a ridosso del debutto del nuovo Titolo V della Costituzione, avvenuto nel 2001 - il 2007, con 72 decisioni. In oltre sedici anni - considerando anche i primi sette mesi e mezzo di quest’anno - dalla Consulta sono uscite, sempre in tema di conflitto Stato-Regioni, 2.110 sentenze a fronte di 1.746 ricorsi (il numero dei verdetti è più alto perché a una causa possono corrispondere anche più decisioni). I giudici si sono dimostrati “equanimi”, dando ragione in misura quasi uguale al Governo e alle amministrazioni regionali: dal momento della riforma del Titolo V sono state, infatti, 560 le sentenze di illegittimità costituzionale pronunciate a fronte di ricorsi presentati da Roma, contro le 554 originate da cause promosse dalla periferia. La Regione più conflittuale è la Toscana, con 86 ricorsi presentati a oggi, seguita dalla provincia autonoma di Trento, con 69 cause. Nell’equo processo anche i tempi concessi ai legali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2018 Cedu - sentenza del 26 luglio (ricorso n. 35778/11). Il difensore di un imputato deve avere la possibilità di svolgere la sua funzione in modo effettivo e avere il tempo necessario per studiare il fascicolo processuale. Di conseguenza, per assicurare il diritto ad un equo processo, se il legale, a causa del ritiro all’autorizzazione alla difesa, viene reimmesso nella funzione solo il giorno prima dell’udienza, deve essere previsto un rinvio per garantire parità delle armi e una difesa effettiva. Lo ha chiarito la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) con la sentenza del 26 luglio (ricorso n.35778/11), con la quale Strasburgo ha condannato la Germania (ma il principio è applicabile anche in altri casi) per violazione dell’articolo 6 che assicura agli imputati l’equo processo e il diritto di difesa. Quest’ultimo include il diritto per l’avvocato difensore ad avere il tempo necessario per la preparazione del processo e ad ottenere la documentazione processuale. Per la Corte, inoltre, un imputato che si trasferisce in un altro Stato deve ricevere la notizia del rinvio dell’udienza attraverso la notifica diretta e non per pubblico avviso, anche se ciò è previsto dall’ordinamento nazionale. Le autorità interne, inoltre, devono dimostrare di aver provato a comunicare con l’interessato. Verità presunta o fake news? Conta la verifica delle fonti di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2018 Le fake news entrano per la prima volta nelle sentenze, che sdoganano ufficialmente il termine. A fare da apripista il tribunale di Torino e di Catania in due cause civili per diffamazione. Al centro le varie sfumature della verità che incidono sull’esito dei processi e sulla vita delle parti coinvolte. Se sono tollerati errori marginali, non possono essere accettate inesattezze determinanti sulla realtà fattuale, in grado di ledere la reputazione dei soggetti interessati. Via libera allora alla verità putativa, se il giornalista ha fatto tutto il possibile per verificare le fonti e ciononostante sia caduto in errore, mentre viene punita la verità soggettiva, dietro la quale si cela sempre l’insidia delle fake news ovvero quelle “notizie false, altrimenti dette bufale”. Bilanciamento di diritti - Così ha stabilito il tribunale di Torino con la sentenza n. 2861 dello scorso 9 giugno. Il fatto prende le mosse da un articolo in cui il giornalista aveva definito un “gigantesco malinteso” e poi un “errore giudiziario” il sequestro disposto da un magistrato sull’abitazione di due neo sposi. Il giudice cita in giudizio per diffamazione il giornale, colpevole di “inaudita superficialità e negligenza”. All’esito del giudizio emerge che se di clamoroso errore doveva parlarsi, questo era da ricercare nelle modalità con cui venne data la notizia, “frutto quantomeno di superficialità”. La sentenza dà modo al giudice di affrontare il tema delle fake news e del vaglio sulla verità delle fonti ritenuto esigibile quando si diffonde una notizia su qualsiasi mezzo, anche nel web. Si tratta di un giudizio di bilanciamento tra diritto di cronaca e quello alla reputazione dei soggetti coinvolti, che passa attraverso la misura della verità che il lettore deve pretendere da chi divulga i fatti. Lo aveva già precisato il tribunale di Catania nella sentenza n. 3475 del 19 luglio 2017, in cui un marito aveva chiesto ad una emittente televisiva il risarcimento dei danni subiti a causa delle offese diffuse dalla sua ex moglie. Per il giudice non ci sono dubbi, “le fake news possono rendere irrespirabile l’aria di una comunità di poche migliaia di anime” in cui le notizie che “attribuiscono la patente di orco al danneggiato corrono di bocca in bocca a soddisfare l’insana sete di quanti si beano a vedere il mostro di turno sbattuto in prima pagina”. La sentenza non fa sconti e condanna l’emittente a risarcire il danno da diffamazione, quantificato in 40mila euro. Anche in questo caso il tribunale punisce la mancata verifica delle fonti, che fa di una notizia non accuratamente vagliata una vera e propria fake news. La verità putativa - Le varie forme della verità sono state spesso al centro della giurisprudenza degli ultimi anni, dando luogo a una vera e propria classificazione delle falsità tollerabili. Il giornalismo non ammette mezze verità, eppure delle sue sfumature sono pieni i tribunali. Se la verità oggettiva è quella alla quale ogni giornalista dovrebbe tendere, esiste poi la verità putativa che scrimina solo se frutto di un attento lavoro di verifica delle fonti che però non sono tutte uguali. Affidabili quelle ufficiali, come i ministeri, da verificare le interviste o gli esposti anonimi. Non basta poi che una notizia circoli nel web e che non sia mai stata smentita per abbassare la soglia di guardia. Debole anche la verità soggettiva che si nutre delle convinzioni personali del giornalista, così come non salva la verità dubitativa, fatta di allusioni e omesse narrazione di parte dei fatti in realtà conosciuti. Ma se è semplice applicare il criterio minimo della verità putativa ai giornalisti, lo stesso non vale quando le false notizie vengono diffuse da privati e soprattutto da soggetti non identificabili. In assenza di una legge che responsabilizzi direttamente le piattaforme, Facebook e Google tra tutti, le vittime hanno pochi strumenti per bloccare la viralità di una fake news che, oltre ad essere diffamatoria può turbare l’ordine pubblico. In entrambi i casi si tratta di reati, ma procedere al sequestro preventivo dei contenuti può non essere così semplice se non c’è la collaborazione internazionale del provider. In attesa di un’assunzione di responsabilità sulla quale i più noti player fanno muro, il risultato è che le fake news fanno giurisprudenza soltanto per pochi. Guida in stato di ebbrezza. Aggravante anche solo per la perdita di controllo del veicolo di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione feriale penale - Sentenza 6 agosto 2018 n. 37864. I giudici della sezione feriale della Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 37864 del 6 agosto 2018 hanno ribadito due importanti principi. ?Con il primo argomento si è affermato che nessuna norma positiva stabilisce la revisione periodica degli etilometri, per cui il risultato è comunque liberamente apprezzabile dal giudice anche se non è dimostrato che l’apparecchio fosse sottoposto a verifica annuale. In secondo luogo, ai fini dell’aggravante per la guida in stato di ebbrezza, si intende come incidente anche la semplice perdita di controllo del veicolo senza coinvolgimento di terzi. Il caso - Un automobilista si vedeva confermata dalla Corte di appello di Bologna la sentenza di condanna resa dal tribunale di Forlì, in ordine al reato di cui all’articolo 186, secondo comma, lettera c), 2-bis, 2-sexies e 2-septies, del codice della strada, per aver guidato in stato di ebbrezza (tasso alcolemico pari a 2,00 g/I e 1,88 g/I, nelle due prove effettate), con le aggravanti di aver provocato un incidente stradale e di aver commesso il fatto in orario notturno. Avverso la sentenza di condanna l’imputato ha proposto ricorso per cassazione per vari motivi tra cui un presunto difetto di notifica, l’illegittimità della sentenza impugnata, posto che la Corte territoriale ha ritenuto provato il suo stato di ebbrezza sulla base di un valido accertamento strumentale. Secondo il ricorrente, però, l’agente operante non ha saputo riferire sul fatto che lo spirometro utilizzato al momento del controllo fosse stato sottoposto alle prescritte verifiche periodiche la violazione di legge. Per quanto attiene, inoltre, alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale - sempre secondo il ricorrente - la giurisprudenza ha chiarito che il mero coinvolgimento in un sinistro non risulta sufficiente a integrare l’aggravante, occorrendo la verifica di un nesso di causalità tra la condotta di guida dell’imputato e il sinistro stesso. Il ricorrente rileva che nel caso de quo è rimasta ignota la dinamica del sinistro occorso all’imputato, il cui veicolo ebbe a fuoriuscire dalla sede stradale e inoltre vizio motivazionale, in riferimento alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, perché sempre la Corte territoriale non ha indicato sulla base di quali elementi di prova doveva ritenersi sussistente il nesso di causalità tra la condotta dell’imputato ed il sinistro stradale. La decisione - Gli Ermellini rigettano il ricorso proposto hanno evidenziato che le sezioni Unite hanno da tempo chiarito che la nullità della notificazione - eseguita presso il difensore di fiducia - pure a fronte della dichiarazione o elezione di domicilio da parte dell’imputato, integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa. Per l’utilizzabilità degli esiti dell’alcoltest, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che in tema di guida in stato di ebbrezza il cosiddetto “alcoltest”, eseguito con le procedure e gli strumenti di cui all’articolo 186 del codice della strada e all’articolo 379 del relativo regolamento costituisce prova della sussistenza dello stato di ebbrezza e che è onere dell’imputato fornire eventualmente la prova contraria a tale accertamento, dimostrando vizi o errori di strumentazione o di metodo nell’esecuzione dell’espirazione, non essendo sufficiente la mera allegazione della sussistenza di difetti o della mancata omologazione dell’apparecchio. Per le censure afferenti, inoltre, la sussistenza della contestata aggravante di aver provocato un incidente stradale la Corte le ritiene inammissibili anche perché la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la fattispecie di “incidente stradale”, ai sensi dell’articolo 186, comma 2-bis), risulta integrata da qualsiasi avvenimento inatteso che - interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale - possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli. Torino: detenuto ricoverato in ospedale si suicida di Carmine Massimo Balsamo ilsussidiario.net, 27 agosto 2018 Tragedia alle Molinette ieri sera, domenica 26 agosto 2018. Come riportato dai colleghi di Cronaca Qui, un italiano (C.G., ndr) ha deciso di farla finita impiccandosi con un lenzuolo. L’uomo era ricoverato nel reparto detentivo dell’ospedale Torinese e a darne la notizia è il segretario regionale per il Piemonte del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: “Ieri aveva partecipato alla normale attività e non aveva dato alcun segno di squilibrio: aveva fatto anche alcuni esami e consumato regolarmente il pasto serale. Ma, al momento della somministrazione della terapia serale, non ha risposto alle chiamate degli infermieri: l’uomo si era stretto al collo un lenzuolo”, le parole di Vincenzo Santilli. Un ennesimo dramma che riguarda da vicino il mondo carcerario, con Vincenzo Santilli che ha denunciato la situazione sempre più tragica. Santilli ha voluto sottolineare come “questo nuovo drammatico suicidio evidenzia come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, lasciando isolato il personale di polizia penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza”. E i dati statistici, riportati dal Sappe, evidenziano la gravità della situazione, un emergenza senza fine: “Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 19.500 tentati suicidi e impedito che quasi 140mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". Conclude il Sappe: "La situazione nelle carceri resta allarmante. Nel primo semestre del 2018 abbiamo contato nelle carceri italiane ben 5.157 atti di autolesionismo, 46 morti naturali, 24 suicidi e 585 tentati suicidi sventati in tempo dai nostri agenti. Solamente in Piemonte i suicidi sventati sono stati 32 in soli sei mesi”. Sanremo (Im): dopo il crollo di Genova in arrivo tutti i detenuti del savonese riviera24.it, 27 agosto 2018 Lo annuncia Fabio Pagani, segretario regionale UIL PA Polizia Penitenziaria. “La strage del Ponte Morandi di Genova, purtroppo, coinvolge senza indugio anche i Penitenziari della Liguria, ovviamente a subire maggiori criticità, sarà la Casa di Reclusione di Sanremo , dove su comunicazione del Provveditorato, sarà obbligata a ricevere tutti gli arrestati del savonese (Savona carcere chiuso dal Dicembre 2015) - lo annuncia Fabio Pagani - segretario regionale UIL PA Polizia Penitenziaria - che aggiunge - il carcere di Sanremo vive già quotidianamente enormi criticità, dovute al sovraffollamento (già presenti 230 detenuti) e una cronica carenza organica di Poliziotti Penitenziari e il crollo del Ponte Morandi ha praticamente complicato i collegamenti tra ponente e levante. La scelta di affidare ad un unico Istiuto Penitenziario tutte le incombenze , senza intervenire con adeguato sfollamento del penitenziario e senza inviare unità di Polizia Penitenziaria, anche in missione, potrebbe rilevarsi scellerata, un rischio che potrebbe mettere in serio pericolo ordine e sicurezza. Per questo motivo , Pagani - conclude - con un appello alla Politica e al Ministro della Giustizia Bonafede - è giunta l’ora di accelerare sulla costruzione del Nuovo Carcere a Savona”. Stefano Cucchi, un film ricorda una storia da non dimenticare di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 27 agosto 2018 A Venezia la pellicola di Cremonini che ricostruisce una vicenda di botte e soprusi. L’Italia cerca di dimenticare una pagina vergognosa, una storia di botte e di soprusi che dovrebbe farci arrossire. Ma per fortuna esce ora un film, “Sulla mia pelle” diretto da Alessio Cremonini con Alessandro Borghi e Jasmine Trinca, che ci aiuta a ricordare. A dirci che in uno Stato di diritto, il primo diritto da custodire è quello di non essere maltrattati come è accaduto a Stefano Cucchi, arrestato e poi morto in circostanze che ancora la giustizia italiana non ha saputo appurare: il corpo martoriato, ridotto a uno scheletro, in una struttura ospedaliera dove era stato ricoverato dopo un cruento passaggio in una prigione italiana. Sotto la tutela dello Stato italiano. In un luogo, un carcere, amministrato e governato da uno Stato italiano. Sorvegliato da uomini che indossavano la divisa delle forze dell’ordine dello Stato italiano. Trasferito in condizioni disperate in un ospedale dello Stato italiano. Incredibilmente nascosto alla vista della sua famiglia italiana a cui i sorveglianti dello Stato italiano hanno negato un altro diritto fondamentale, quello di sapere che fine avesse fatto un figlio, un fratello, arrestato e poi sparito, il corpo pieno di lividi, come abbiamo saputo grazie alla testarda pietas della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi. La famiglia Cucchi era come tante famiglie italiane. Non aveva dichiarato guerra politica al “sistema”. Si sentiva rassicurata dalla presenza delle forze dell’ordine. Quando vedeva uomini in divisa non veniva attraversata da brividi di paura. Credeva nella pace e nella sicurezza. Si disperava per certe sbandate del giovane Stefano, che non era un santo ma in uno Stato di diritto non doveva morire come un uomo martirizzato da persone più forti e più potenti di lui. Tanti di noi sono come quella famiglia, cittadini pacifici che mai potrebbero immaginare che nelle carceri dello Stato italiano accadono cose simili a quelle viste nei film ambientati in un luogo di detenzione di qualche dittatura sudamericana o di qualche Stato canaglia dell’estremo Sudest asiatico, con tutto il rispetto. E ora quella famiglia combatte perché lo Stato italiano chiarisca che cosa è accaduto, chi sono i responsabili di quella morte così atroce. L’opinione pubblica si stanca facilmente, volta pagina rapidamente per non doversi misurare troppo a lungo con un orrore inquietante. La famiglia Cucchi no, non demorde. E il film “Sulla mia pelle” che verrà presentato a Venezia può lenire la sua solitudine e dire agli italiani che la giustizia italiana è ancora capace di colpire i responsabili e non lasciarli impuniti. La realtà virtuale aiuta i detenuti a evadere (restando in prigione) di Tiziana Platzer La Stampa, 27 agosto 2018 Il docu-film “We are free” porterà dentro le prigioni immagini a 360 gradi che permettono ai carcerati la full immersion nel reale. Cos’è che fa sentire l’esistenza monca, a un detenuto? Il fatto di non poter archiviare nuovi ricordi. E in questo solco profondo della memoria lasciata in stand by, vuole aprire una strada tecnologicamente avanzata il docu-film Vr Free (We are free), progetto nato a Torino, il primo in Italia che su un tema sociale, quello della reclusione e degli istituti penali, userà la tecnica di ripresa a 360 gradi. Che significa un’immagine circolare, panoramica e dunque la produzione di realtà virtuale aumentata, definita da alcuni ricercatori sulle interazioni umane dell’Università di Stanford, in California, come una tecnica per elevare i livelli di empatia e influenzare i comportamenti positivi. Ecco a cosa hanno pensato e a cosa stanno puntando Valentina Noya, produttore torinese, e il regista iraniano Milad Tangshir, documentarista sociale: aprire la porta del carcere al mondo dei liberi e far uscire dalle celle i detenuti: con la potenza della cinematografia virtuale. Realizzata attraverso il progetto che, scritto a due mani, ha vinto il bando “Under35 Digital Video Contest” promosso da Film Commission Piemonte, ottenuto la co-produzione dell’Associazione Museo nazionale del Cinema e un contributo di 15 mila euro: inizio riprese domenica 2 settembre al parco del Valentino. Sì, in un pomeriggio di fine estate sul Po, una festa con tanto di musica e pic-nic e l’invito a tutte le comparse di trovarsi davanti al locale Fluido. “Cerchiamo comparse ma non nel senso stretto del termine - dice Valentina Noya - Chiediamo di partecipare come se stessi, ballando, chiacchierando con gli amici, suonando. Lo stare insieme sarà la prima parte che porteremo ai detenuti dentro al carcere delle Vallette”. Un ricordo nuovo per detenuti con lunga pena e definitiva. E sarà ripreso il loro coinvolgimento, insieme alla struttura penitenziaria, agli spazi esigui, ai momenti delle attività. “L’idea che si ha del carcere è per lo più un cliché cinematografico - prosegue la Noya, anche direttrice del festival “LiberAzione”, una tre giorni di mostre, spettacoli e laboratori sulla detenzione - Così possiamo restituire un’immagine reale, complessa perché la tecnica 360° è immersiva rispetto allo spettatore. Cercheremo inoltre di coinvolgere alcuni familiari dei detenuti per le riprese esterne e in casa loro, mentre almeno un paio di condannati saranno i protagonisti del documentario”. Generando una circolarità di emozioni e di memoria fino alla sovrapposizione delle quotidianità mancate: “L’immaginario virtuale permetterà per qualche momento lo scambio di luoghi e di ruoli”. Con la matrice del videogioco che, dopo febbraio 2019, data della conclusione del complesso montaggio del film, potrà essere visto sul web, ma non solo. Il progetto è stato infatti costruito per avere una vita anche da performance artistica, sviluppata a tappe dentro cabine che gli autori vorrebbero far comparire nei musei, nelle stazioni ferroviarie, nelle gallerie d’arte e nei luoghi dove la detenzione non rilascia permessi. Un milione e mezzo di lavoratori in nero: così lo Stato perde 20 miliardi di Giulia Cimpanelli Corriere della Sera, 27 agosto 2018 L’Ispettorato del lavoro ha registrato oltre 100 mila irregolarità in 160 mila aziende italiane controllate nel 2017. Il 64 per cento delle aziende controllate dall’Ispettorato del lavoro nel 2017, 103.498 su 160.347, presentava irregolarità, da forme di elusione previdenziale, assicurativa e fiscale (come il mancato assoggettamento a Inps, Inail e Irpef di parte della retribuzione corrisposta), a lavoro parzialmente “sommerso” (per esempio, rapporti in part-time che, invece, risultano a tempo pieno) fino a lavoro completamente in “nero”. Il lavoro nero - Sono oltre un milione e mezzo le persone senza contributi e che non risultano al fisco anche se lavorano regolarmente ogni giorno in aziende italiane, almeno in una su tre di quelle controllate dall’Ispettorato del lavoro nel 2017. Un piccolo esercito che resta nascosto e che però ogni anno fa perdere allo Stato, in gettito mancato, tra redditi non dichiarati e contributi non pagati, circa 20 miliardi e 600 milioni di euro. A rivelarlo è la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, che ha rielaborato i dati del primo anno di attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro. “Il sommerso - dice il presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro Rosario De Luca - è in forte aumento soprattutto dopo la depenalizzazione, avvenuta col Jobs act, del reato di intermediazione fraudolenta di manodopera”. I risultati - Nel 2017, però, l’Ispettorato ha raggiunto alcuni obiettivi, applicando le nuove, più pesanti sanzioni in materia di caporalato nel settore agricolo: “Si registrano - dicono - il deferimento di 94 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali 31 in stato di arresto, e l’individuazione di 387 lavoratori vittime di sfruttamento. Il 2018 presenta, poi, dei dati relativi ancor più incoraggianti: nel primo semestre dell’anno in corso si rileva il deferimento di 60 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali una in stato di arresto e 47 in stato di libertà, e l’individuazione di 396 lavoratori coinvolti, mentre sono stati adottati nove provvedimenti di sequestro”. Migranti. Caso Diciotti, così il pm ha ricostruito la linea di comando (anche nei tweet) di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 27 agosto 2018 Il prefetto Corda: ho eseguito un ordine. Gli atti su Salvini al Tribunale dei ministri. Quando ha chiesto di potere controllare le disposizioni protocollate o quelle criptate con i codici dell’Interno o almeno le mail certificate, Luigi Patronaggio, il pm che indaga su Salvini e sui funzionari del Viminale, ha capito di trovarsi davanti ad una nuova era dove anche a livello istituzionale a volte campeggiano i tweet. Non che il ministro dell’Interno, indagato dal procuratore di Agrigento per sequestro di persona, arresto illegale e abuso di ufficio, abbia minimizzato il suo ruolo celandosi dietro l’assenza di ordini scritti. Tutt’altro. Ma a quanto pare nella ricostruzione di Patronaggio alcuni ordini sarebbero pervenuti verbalmente, con messaggi, con dialoghi personali o mediati da portavoce e funzionari, tanto al Dipartimento delle libertà civili guidato la scorsa settimana dal prefetto Bruno Corda e non direttamente dal suo capo, Gerarda Pantalone, perché in ferie, quanto al vertice della Guardia costiera. Dal canto suo, Corda durante la verbalizzazione avvenuta in una stanza del palazzo di giustizia di Roma si sarebbe difeso dicendo di avere semplicemente eseguito una disposizione ricevuta dal capo di gabinetto del Viminale. Rivelazione che avrebbe fatto da leva per fare scattare l’indagine contro Salvini e il suo capo di gabinetto, il prefetto Matteo Piantedosi. Un quadro di contestate responsabilità della catena di comando che renderà più complesso il lavoro del tribunale dei ministri e della giunta delle autorizzazioni del Senato, se la vicenda approderà a quei livelli. Il primo passo di Patronaggio, una volta indagati Salvini e Piantedosi, è stato quello di trasferire gli atti alla procura distrettuale di Palermo che, entro quindici giorni, valuterà gli atti, trasmettendo il fascicolo eventualmente al tribunale dei ministri. Cioè al collegio composto per sorteggio da tre dei magistrati del tribunale, Fabio Pilato, Giuseppe Sidoti e Filippo Serio. Rispettivamente un gip, un giudice della Fallimentare e un giudice del Riesame. Saranno loro, se lo riterranno opportuno, ad aprire entro 90 giorni una vera e propria istruttoria. In questo caso potranno chiedere memorie o nuovi atti. Infine dovranno restituire il fascicolo a Lo Voi per archiviare o per invocare l’autorizzazione a procedere da parte del Senato, visto che Salvini è senatore. Analoga procedura potrebbe essere adottata per il reato di abuso di ufficio inviando le carte da Agrigento a Roma. L’abuso in questa ipotesi sarebbe stato compiuto nella capitale, mentre i reati di sequestro di persona e illecito trattenimento dei migranti sarebbero scattati nelle acque di Lampedusa. Caso Diciotti. Asgi: “i migranti non possono essere portati in Albania contro la loro volontà” di Tiziana Testa La Repubblica, 27 agosto 2018 Lorenzo Trucco, dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, spiega: “Tirana non è nell’Ue, trasferire lì gli immigrati senza il loro consenso sarebbe allontanamento coatto”. E su quelli accolti dalla Cei: “Sono sul territorio nazionale, possono presentare domanda ed essere inseriti nel sistema di protezione pubblico come chiunque arrivi in Italia”. “Nel caso Diciotti siamo davanti a violazioni macroscopiche. Come associazione stiamo cercando di entrare in contatto con questi migranti perché almeno siano consapevoli dei loro diritti”. Lorenzo Trucco, presidente dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, trova sconcertanti molti aspetti della soluzione trovata. Partiamo dall’accoglienza da parte della Cei. Cosa significa dal punto di vista giuridico? “La Cei non è uno Stato sovrano. Questi migranti sono sul territorio italiano. Certo la Chiesa può offrire un’assistenza di tipo privatistico, come è già accaduto per i migranti arrivati con i corridoi umanitari. Ma queste persone restano sul territorio nazionale quindi possono presentare domanda e avere diritto di essere inseriti nel sistema pubblico di protezione, come tutti gli altri richiedenti”. Questo anche perché vige il criterio del Paese di primo arrivo. “Certo, la Convenzione di Dublino è sempre in vigore. E con quella bisogna fare i conti. Tra l’altro i migranti della Diciotti sono in gran parte eritrei. E nel caso dell’Eritrea c’è una percentuale di accoglimento della domanda di protezione molto alta, intorno al 70 per cento. Quindi possono sperare concretamente di ottenere la protezione internazionale”. Veniamo al caso dell’Albania. Cosa pensa dell’accordo raggiunto con Tirana? “Qui siamo fuori da qualsiasi piano giuridico. L’Albania non è nell’Unione europea, quindi parliamo di un ricollocamento in un Paese terzo che non ha tutto quanto previsto dal sistema comune europeo di asilo. Vuol dire che non siamo certi che abbiano i requisiti richiesti per il riconoscimento della protezione. Quindi un trasferimento in questo Paese può avvenire solo se i migranti sono d’accordo, mai contro la loro volontà. In quel caso sarebbe un allontanamento forzato. E poi c’è il tema della scelta. Come sarà selezionato chi deve andare in Albania? È un teatro dell’assurdo, un attacco al sistema dell’asilo. Per fortuna c’è stato l’intervento della magistratura”. Questi migranti devono essere informati. “Il tema dell’informazione è fondamentale. Devono sapere di aver diritto a chiedere l’asilo in base alla Costituzione. Con la nostra associazione stiamo cercando di entrare in contatto con queste persone perché siano pienamente consapevoli. Quando la nave era ancora bloccata, abbiamo anche provato a rivolgerci alla Corte europea, poi per fortuna la situazione si è sbloccata”. I migranti della Diciotti potrebbero ricorrere contro l’Italia per i giorni trascorsi a bordo della nave, bloccati in porto a Catania? C’è anche un’inchiesta per sequestro di persona. “Certo, le strade sono tante: dalla corte di giustizia europea ai tribunali nazionali. Potrebbero ottenere un risarcimento. Ma mi tocca dire che non sono strade veloci” La svolta dei governi europei, Italia isolata se ricatta l’Europa di Federico Fubini Corriere della Sera, 27 agosto 2018 È successo negli ultimi giorni qualcosa attorno all’Italia che non si vedeva da tempo. Gli investitori hanno iniziato a reagire a eventi puramente politici e a quel che percepiscono come il progressivo isolamento del governo in Europa. È la politica stessa - non gli annunci sul bilancio - che sta alimentando la percezione di rischio finanziario attorno al Paese in questa fase. È da tre mesi e mezzo in realtà che prosegue la deriva verso l’alto nel rendimento dei titoli di Stato, cioè la compensazione per il rischio di comprarli. Lo spread che il debito italiano a 10 anni paga sul Portogallo oggi è persino superiore allo spread che l’Italia pagava sulla Germania prima che uscisse il contratto di governo giallo-verde. Vista da Roma, Lisbona oggi è finanziariamente più lontana di come fosse Berlino a maggio. Fino a qualche settimana fa tuttavia gli sbalzi sui titoli del Tesoro erano dettati per lo più da annunci del governo o della maggioranza sui costi della prossima legge di Stabilità o magari su un presunto “piano B” di uscita dall’euro. Adesso invece è diverso Politica e percezione del rischio - Emerge una novità di cui si è preso nota a Bruxelles e nelle altri grandi capitali europee: questa volta, l’economia non c’entra. Quando si tratta dell’Italia gli investitori hanno iniziato a rispondere a eventi puramente politici e a quel che percepiscono come il progressivo isolamento del governo in Europa. È la politica stessa - non gli annunci sul bilancio - che sta alimentando la percezione di rischio finanziario attorno al Paese in questa fase. Da martedì lo spread sui titoli a dieci anni è cresciuto di altri dieci punti sul Portogallo (0,10%), tredici sulla Spagna e per la prima volta da un decennio lo spread della Grecia sull’Italia è sceso sotto i cento punti. Nel frattempo nessuna nuova informazione è arrivata sull’economia italiana. Ve ne sono state invece sugli istinti e le posizioni di Roma rispetto agli altri governi e ai meccanismi dell’Unione europea: il blocco della nave Diciotti con il suo carico di profughi nel porto di Catania, finché altri Paesi non ne avessero accolti una parte; la minaccia di sospendere il versamento di circa due miliardi netti l’anno di contributo dell’Italia al bilancio della Ue, anche se quello è di fatto il biglietto d’ingresso del Paese a un mercato che garantisce 225 miliardi di export italiano; l’altra minaccia, di nuovo brandita ieri dal premier Giuseppe Conte, di bloccare il prossimo bilancio pluriannuale della Ue; infine l’annuncio dell’incontro di domani a Milano - non di Stato, ma politico - fra il vicepremier Matteo Salvini e Viktor Orbán, il leader anti-europeo della “democrazia illiberale” ungherese. Se si stabilizza, l’aumento dei rendimenti sul debito causato dal nervosismo prodotto da questi eventi costerà ai contribuenti italiani oltre 700 milioni in più solo nel 2019. Il no ai diktat italiani - Gli investitori hanno infatti iniziato a capire ciò accadeva nei corridoi delle istituzioni a Bruxelles e nelle cancellerie europee, mentre l’Italia cercava di mandare i suoi diktat. Anche qui c’è stata una prima volta: è emersa una decisione quasi unanime di isolare il governo di Roma e portarlo a una chiara sconfitta politica sulla Diciotti. In questo caso il governo capofila nel respingere le richieste sui profughi, secondo ricostruzioni di vari sherpa, è stato quello di Parigi; ma la Francia non avrebbe avuto difficoltà a portarsi dietro la Spagna (benché Madrid sia esposta ai flussi di migranti, dunque sensibile al tema della redistribuzione), quindi anche la Germania e gli altri. Presunti alleati come l’Ungheria hanno respinto ogni richiesta italiana. Secondo alcune persone vicine ai negoziati, in particolare un aspetto ha indotto gli altri Paesi ad abbassare le saracinesche: l’impressione che il governo non cercasse una soluzione ma una prova di forza da vincere simbolicamente, anche solo su poche decine di profughi. È scattato dunque il rifiuto di un metodo di lavoro fatto di imboscate e guerriglia diplomatica. Le reazioni - Le minacce sul bilancio europeo hanno poi radicato negli altri Paesi questa percezione e indurito le loro posizioni. Non è un caso proprio ieri il premier francese Édouard Philippe ha avvertito che questo metodo negoziale può portare l’Italia “in un vicolo cieco”. A Bruxelles poi ha sorpreso un secondo aspetto. Oggi l’Italia è alla vigilia di un confronto decisivo per chiedere più margini di deficit sulla prossima Legge di stabilità. Alzare la posta su una questione minore, tentando di dimostrare che si è in grado di ricattare il sistema, rischia di produrre la reazione opposta nelle trattative sul bilancio italiano: può indurre gli altri governi a sollevare barricate. Di fatto, ciò può solo limitare lo spazio della Commissione Ue nell’offrire concessioni sulla Legge di stabilità. Iran. Torna in cella la donna inglese che Teheran accusa di spionaggio di Enrico Franceschini La Repubblica, 27 agosto 2018 “Come potete strappare una madre alla figlia?”. Con queste parole Nazanin Zaghari-Ratcliffe è tornata ieri in carcere a Teheran, al termine di tre giorni di permesso che le hanno consentito di rivedere per la prima volta la sua bambina dopo due anni e mezzo di detenzione. La 40enne manager anglo-persiana, arrestata nell’aprile 2016 in Iran sull’aereo che doveva riportarla a Londra insieme alla figlia dopo una visita ai genitori, è accusata di spionaggio e sovversione, imputazioni tuttavia mai precisate. Mesi di pressioni diplomatiche per il suo rilascio non hanno dato risultati, fino a quando giovedì scorso è arrivata all’improvviso la decisione di concederle una “licenza” di tre giorni. Il marito in Gran Bretagna e il suo avvocato erano fiduciosi che sarebbe stata prolungata: c’era l’aspettativa che si trattasse di una svolta. Ma ieri, dopo averle comunicato in un primo tempo l’estensione della libertà provvisoria, le autorità iraniane le hanno viceversa ordinato di tornare in carcere prima del tramonto. “Avete prolungato il permesso della mia vicina di cella, imprigionata per un grave reato”, ha detto la donna al giudice istruttore che le ha comunicato il provvedimento, “sapete che non ho commesso alcun crimine, come potete separarmi da una figlia che ha bisogno di me?”. Il governo britannico e Amnesty International esprimono forte apprensione per le sue condizioni. Turchia. Erdogan promette “porterò sicurezza e pace in Siria e Iraq” sicurezzainternazionale.luiss.it, 27 agosto 2018 Il presidente turco, Tayyip Erdogan, domenica 26 agosto ha promesso di portare pace e sicurezza in Iraq e nelle zone siriane che non sono sotto il controllo della Turchia, e ha affermato che le organizzazioni terroristiche verranno sradicate da tali aree. Durante un discorso tenutosi nella provincia turca sud-orientale di Mus, in occasione dell’anniversario della Battaglia di Manzicerta del 1071, Erdogan ha promesso che porterà la pace e la sicurezza in Siria e in Iraq. “Non è per niente che gli unici luoghi in Siria dove la sicurezza e la pace sono state ripristinate si trovino sotto il controllo della Turchia. A Dio piacendo, stabiliremo la stessa pace anche in altre aree della Siria. Se Dio lo vuole, stabiliremo la stessa pace in Iraq, dove sono attive le organizzazioni terroristiche”. Il presidente turco ha inoltre associato i conflitti regionali con la presente crisi della valuta di Ankara, che a suo dire rappresenta una “guerra economica” che pone il rischio di far collassare anche le regioni limitrofe. “Quanti cercano ragioni temporanee dietro ai problemi che stiamo affrontano si sbagliano di grosso. Gli attacchi a cui facciamo fronte oggi sono radicati nella storia. Non dimenticate che l’Anatolia è un muro, e se questo muro collassa, non ci sarà più un Medio Oriente, l’Africa, l’Asia centrale, i Balcani o il Caucaso”. Concludendo, Erdogan ha affermato: “Alcune persone prive di scrupoli tra di noi pensano che la situazione riguardi Tayyip Erdogan o il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp). No, riguarda la Turchia”. La recente svalutazione della moneta nazionale è stata alimentata dalle preoccupazioni di molti investitori in merito alla rigida politica monetaria condotta da Erdogan nel quadro della sua nuova presidenza, connotata da un esecutivo molto forte, e anche per via della recente disputa con gli Stati Uniti, come Ankara alleati in seno alla Nato, concernente la liberazione di Andrew Brunson, pastore evangelico americano attualmente detenuto in Turchia previa accuse di terrorismo. Il presidente statunitense, Donald Trump, ha richiesto l’immediato rilascio di Brunson, e la mancata esecuzione di tale richiesta è costata ad Ankara sanzioni americane su due ministri al governo e minacce di un’eventuale restrizione commerciale con Washington. Ankara, che ha appoggiato alcuni gruppi ribelli in Siria, sta cooperando con la Russia, la quale sostiene il regime del presidente siriano, Bashar al Assad, e l’Iran per volgere a una risoluzione politica della crisi. Finora, il Paese ha condotto due operazioni militari transfrontaliere al confine con la Siria e ha organizzato una dozzina di avamposti di osservazione nella regione siriana settentrionale di Idlib. L’enclave di Idlib, in mano ai ribelli, rappresenta un rifugio anche per quei civili e dissidenti provenienti da altre regioni siriane, così come per le forze dei jihadisti. Tale bastione è stato posto sotto attacco nel mese di agosto, e ha subito un’ondata di raid aerei e bombardamenti. Le offensive pongono le basi per il preludio di un dispiegamento a pieno regime delle truppe governative di Damasco, il quale sarebbe, secondo la Turchia, disastroso. Nord Corea. Espulso per motivi umanitari giapponese in carcere Askanews, 27 agosto 2018 Turista sarebbe accusato di aver filmato struttura militare. Un turista giapponese che si trova in carcere in Corea del Nord sarà espulso “in base a principi umanitari”. Lo hanno annunciato i media di stato di Pyongyang, mentre Tokyo sta preparando un vertice con la Corea del Nord nell’ambito del disgelo diplomatico nella penisola asiatica. “Tomoyuki Sugimoto, che di recente ha visitato la Repubblica democratica popolare di Corea come turista giapponese, era tenuto sotto controllo dall’istituzione competente in quanto indagato di questo reato contro le leggi della repubblica” ha scritto l’agenzia ufficiale Kcna. Secondo la stampa giapponese Sugimoto è un videomaker che visitava il Nord in un tour organizzato da un’agenzia di viaggi straniera. Potrebbe essere sospettato di aver girato un video di una struttura militare nella città portuale di Nampo, secondo i media, che citano fonti del governo giapponese. “Le istituzioni competenti della Repubblica democratica popolare di Corea hanno deciso di condonare il suo reato e di espellerlo dal Paese sulla base di principi umanitari” scrive Kcna. Il ministero degli Esteri di Tokyo non ha commentato. Guyana. Le memorie di Papillon, ma oggi le voci sono femminili di Vanni Santoni La Lettura del Corriere, 27 agosto 2018 Se si parla di Guyana e letteratura, è possibile che il primo libro a venire in mente sia il best seller del 1969 Papillon, dell’ex detenuto Henri Charrière, poi incarnato sullo schermo da Steve McQueen. Testimonianza della lunga storia del Dipartimento d’oltremare francese come colonia penale, ma anche dell’influenza sulle nostre percezioni, e sulla diffusione di nomi e nozioni, della mentalità coloniale. Per quanto infatti non abbia avuto un suo Derek Walcott, la Guyana francese non è priva di una propria letteratura. Volendo tracciarne una genealogia, il primissimo autore nato in Guyana (da un commerciante francese e da una guyanese libera) fu Ismaÿl Urbain, nato nel 1812, che trovò fortuna in Francia in ambito politico, arrivando a diventare consigliere personale di Napoleone III. Ma essendo Urbain autore di saggi, per trovare un romanziere bisogna avanzare di una trentina d’anni e arrivare al 1841, anno di nascita di Alfred Parépou, che col suo Atipa. Roman guyannais, romanzo filosofico-satirico uscito nel 1885, si qualifica come il primo autore al mondo ad aver scritto un’opera in una lingua creola, oltre che il primo romanziere della Guyana francese. Il primo, invece, a ricevere un premio nazionale, sarà René Maran, che con il romanzo Batouala, atto d’accusa contro il colonialismo, vince il Goncourt nel 1921, diventando anche il primo nero ad aggiudicarsi il massimo premio letterario francese. Nonostante ciò, il maggior romanziere dell’ex colonia viene generalmente considerato Bertène Juminer, indipendentista e autore di cinque romanzi di grande successo (spicca Les héritiers de la presquile, “Gli eredi della penisola”, Prix littéraire des Caraïbes, 1981) pure incentrati sul tema dell’oppressione coloniale. A portare tali temi dalla dimensione guyanese a quella globale fu invece l’unico grande poeta del Paese: Leon Gontran Damas, un uomo capace di attraversare, anche nella propria biografia personale, l’impegno per i diritti dei creoli, l’antifascismo europeo e le lotte per i diritti civili dei neri americani. La storia del Paese e delle sue lotte verrà tuttavia formalizzata e presentata per la prima volta al grande pubblico solo nel 2004, da un immigrato “al contrario”, un francese trasferitosi in Guyana nel 1975 e diventato poi una delle voci più accorate della colonia: Bernard Montabo, anche autore di tre romanzi e di un’”enciclopedia”, sempre dedicata alla Guyana. Dopo l’exploit di Montabo, negli anni più recenti la maggiore presenza guyanese nelle librerie francesi è rappresentata dai saggi dell’ex ministra della Giustizia, Christiane Taubira, da sempre impegnata sul fronte dei diritti e dell’uguaglianza sociale e di genere, ma ciò non significa che la Guyana non abbia continuato a produrre letterati. Anzi, letterate, dato che le voci più rilevanti emerse di recente dal Dipartimento d’oltremare sono tutte al femminile: la poetessa e drammaturga Mireille Jean-Gilles, nata a Cayenne nel 1962, e le romanziere Sylviane Vayaboury (ultimo libro: La crique, L’Harmattan, 2010) e Françoise Loe-Mie ( La complainte de la Négresse Ambroisine D’Chimbo, “Il lamento della negra Ambroisine D’Chimbo”, Ibis Rouge, 2013).