Garante nazionale privati libertà e parole di Daniela De Robert articolo21.org, 26 agosto 2018 “Occorre sensibilizzare coloro che operano in ambiti privativi della libertà personale al rigido rispetto del principio di non discriminazione anche nel ricorso alle parole, non potendosi trascurare che le parole hanno una grande forza, positiva o negativa che sia, e che parole di discriminazione - o naturalmente di istigazione o incoraggiamento alla discriminazione - possono, soprattutto in circostanze di sempre più diffuso nazionalismo, assumere maggiore forza distruttiva delle armi”. Così scrive la giurista Flavia Lattanzi nel suo contributo alla Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà presentato quest’anno al Senato. Parole forti, che forse trovano fondamento anche nella esperienza di Flavia Lattanzi presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, quel tribunale cioè che condannò i responsabili dei cosiddetti media dell’odio che incitarono e istigarono la popolazione al genocidio dei tutsi del 1994, perché “senza armi da fuoco, machete o altri oggetti, voi avete provocato la morte di migliaia di civili innocenti”. E il rischio di discriminazione, sopruso, maltrattamento o violenza negli ambiti privativi della libertà è sempre presente. I luoghi di privazione della libertà infatti sono bui per definizione, poco accessibili e quindi poco controllabili. Ma non per questo sono impermeabili ai messaggi sociali che provengono da fuori. Tutt’altro: ogni segnale trova al suo interno un’amplificazione. E quando i messaggi sono carichi di parole di discriminazione o di incoraggiamento alla discriminazione, anche i comportamenti di chi opera nei luoghi di privazione della libertà possono cambiare, adeguandosi in peggio. Perché il linguaggio, come diceva Wittgenstein, è la raffigurazione logica del mondo. E se il linguaggio si esprime con frasi come “buttiamoli in galera”, “fuori i negri”, “gettiamo le chiavi”, “no allo svuota-carcere”, “rimandiamoli a casa loro”, se fra i 30 lemmi più ricorrenti nei titoli della stampa compare anche l’etichetta “clandestino” e se nelle stesse banche dati della Polizia degli hotspot viene usata l’espressione “clandestini sbarcati” per indicare i migranti che accedono al Centro, - così come il Garante ha denunciato nel suo Rapporto tematico sui Cie e gli hotspot del 2016-2017 chiedendo, finora inutilmente, che il termine fosse modificato e corretto, se questa è la raffigurazione logica del mondo, allora il “mondo di dentro” della privazione della libertà non può che rispecchiarlo. Il divieto inderogabile di tortura e di trattamenti o pene inumani o degradanti, enunciato dall’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo, non ha soltanto una dimensione in negativo, consistente nel proibire specifici comportamenti. Ha anche una dimensione in positivo che tende verso tre diverse direzioni: prevenire tali comportamenti, sanzionarli qualora si siano verificati e compensare le vittime che li hanno subiti. Allora è nell’approccio preventivo, proprio del Garante nazionale, che le parole e il linguaggio acquistano centralità. Il linguaggio dell’odio accresce il rischio di violazione dei diritti dei più fragili. Il disprezzo per categorie di persone, sulla base della provenienza, del reato, dell’orientamento sessuale, della religione che professano, della lingua si traduce in una discriminazione ancora più forte. Può accadere allora che una persona transessuale sia tenuta, in quanto transessuale, in isolamento per giorni, come è accaduto in un hotspot, che si invochino sezioni per omosessuali, che gli stranieri siano assegnati ai reparti più degradati, che le persone con disagio mentale siano lasciate senza cure adeguate, che qualcuno voglia tornare agli ospedali psichiatrici giudiziari, l’ultimo brandello di manicomio rimasto in Italia e definitivamente superato solo nel 2016. Difficile non leggere in questa ottica anche i drammatici casi di suicidio di persone detenute: 37 nei primi otto mesi dell’anno, oltre uno a settimana. Sono infatti spesso proprio i più deboli, persone socialmente e forse individualmente fragili, a compiere questa scelta estrema, come il giovane senegalese, poco più che trentenne con paternità e maternità sconosciute, disoccupato, senza fissa dimora per la prima volta in carcere, arrestato per spaccio di lieve entità, che si è tolto la vita nel Marassi di Genova meno di una settimana dopo il suo arrivo. O come la transessuale di 33 anni che a Udine si è impiccata quattro ore dopo il suo ingresso in carcere. O ancora i detenuti che si sono suicidati nelle sezioni di isolamento. Persone accomunate da una serie successiva di esclusioni e che in un contesto sociale e linguistico escludente potrebbero avere trovato conforto alla loro scelta. Per questo non è accettabile che un rappresentante del Governo dica di qualsiasi cittadino italiano “questo purtroppo dobbiamo tenercelo”. Di nessuno. Altrimenti chiunque si sentirà autorizzato di definire le proprie categorie di indesiderabili o indesiderati: nella società libera come negli ambiti di privazione della libertà dove tutto è più opaco. Così come non è ammissibile che le persone più fragili siano usate come strumento di pressione politica, quasi degli ostaggi in cambio di concessioni o accordi. Si vive insieme, come si muore insieme. I funerali di Stato di alcune delle vittime del crollo del ponte Morandi ce lo hanno ricordato: italiani e stranieri, migranti o turisti che fossero, cattolici e musulmani uniti nell’ultimo saluto dalle autorità religiose delle due religioni nella nostra Genova - come ha sottolineato l’Imam davanti alle bare. Infine, uscendo dal tema del linguaggio dell’odio, ma rimanendo nel contesto della esclusione, ci sono ancora due aspetti delle parole che vorrei mettere in evidenza. Il primo è il linguaggio infantilizzante che ancora resiste nelle nostre carceri, in cui abbondano parole con il suffisso “ino”, come “spesino”, “scopino” o “rattoppina”, che indicano i lavori svolti all’interno degli Istituti di pena. Parole che non sono l’espressione di una sorta di “gergo galeotto”, ma che vengono comunemente usate dall’Amministrazione penitenziaria e dagli stessi magistrati di sorveglianza. Parole che sono espressione della tendenza ad attivare processi di infantilizzazione nelle persone detenute, che poco hanno a che fare con un modello di pena responsabilizzante, ma che - al contrario - privano le persone della capacità e del diritto a decidere, a gestire la quotidianità, a circolare nell’Istituto senza essere accompagnati anche per spostamenti minimi, a partecipare all’organizzazione della vita comunitaria, a essere coinvolti in maniera attiva alla vita del carcere. In un sistema del genere l’unica prerogativa che resta alle persone detenute è chiedere, cioè formulare “domandine”, sperando di ottenere qualcosa: dal lavoro ai colloqui, dalla stanza singola all’iscrizione a scuola, dai permessi alla partecipazione alle attività proposte dall’Istituto. I detenuti chiedono e qualcun altro decide. E quando non riescono a ottenere nulla, usano l’altro linguaggio che conoscono bene e che è diffuso all’interno degli Istituti: urlano con il loro corpo, tagliandolo, ferendosi, cucendosi la bocca, tentando o simulando il suicidio. Qualche volta, invece, rinunciano a chiedere e a sperare e preferiscono farla finita per sempre. Cambiare codice linguistico, favorendo un sistema fatto di piena responsabilizzazione delle persone anche in vista di un loro reinserimento nella società, significa cambiare il modo di pensare la pena o, meglio ancora, le pene, secondo l’articolo 27 della Costituzione. Ma vuol dire anche restituire senso alla parola sicurezza, intesa come bene comune e non solo come difesa da un vero o presunto pericolo. A questo riguardo, oltre alle parole sarebbe bene porre attenzione anche ai numeri che smentiscono gli allarmi degli imprenditori della paura e raccontano un Paese in cui i reati sono in diminuzione, come minori sono - dopo l’accordo di Minniti con la Libia - gli arrivi dei migranti dal mare. Il secondo aspetto, può apparire secondario. Riguarda l’articolo 1 comma 4 dell’ordinamento penitenziario che stabilisce che “I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome”. Una norma che può sembrare anacronistica, ma che si rivela in tutta la sua attualità quando ci si confronta con la privazione della libertà in altri ambiti: quando ancora si trovano riferimenti al numero identificativo dei migranti anziché al loro nome con la scusa che sono nomi stranieri e quindi di difficile scrittura e pronuncia. Da tempo negli ospedali si è smesso di riferirsi ai pazienti con i nomi degli organi malati. Quanto ci vorrà ancora per riuscire a chiamare per nome le persone che arrivano sul nostro territorio e che come primo atto vengono proprio identificate sulla base di nome, cognome, data e luogo di nascita? Anche questo è un modo per rispettare - con le parole - le persone, qualsiasi sia la loro origine, condizione amministrativa, giuridica o giudiziaria. Il Parlamento e il martello di Michele Ainis* La Repubblica, 26 agosto 2018 Date un martello a un bambino, e lui prenderà a martellate tutto il mondo. Succede anche ai nostri parlamentari, ai bambini che ci rappresentano fra gli stucchi e gli specchi del Palazzo. Solo che nel loro caso il martello consiste nella legge, nell’impulso a fabbricare una nuova disciplina normativa per ogni accidente della vita. In questi primi mesi della XVIII legislatura ne sono state brevettate 1888, fra Camera e Senato. Nonché 86 progetti di legge costituzionale, per martellare pure il tetto della casa in cui abitiamo. Evidentemente deputati e senatori pensano che le leggi risolvano i problemi, quando per lo più li creano. O forse sarà che il Parlamento è diventato progressista, nel senso indicato da Ambrose Bierce: lui diceva che i conservatori sono affezionati ai mali esistenti, mentre i progressisti aspirano a rimpiazzarli con mali nuovi di zecca. Però è istruttivo spigolare fra queste risme di carta, è uno strumento per conoscere i neo inquilini del potere, per misurarne smanie e fobie. L’ossessione sessista, per esempio, con 7 disegni di legge sulla prostituzione, depositati da parlamentari di Forza Italia, del Partito democratico, di Fratelli d’Italia. O l’ossessione salutista, nelle sue mille varianti. Così, 45 deputati della Lega (prima firmataria Lazzarini) sono scesi in guerra contro l’emicrania. Un altro leghista (Vescovi) vuole una legge specifica per la malattia di Menière. Forza Italia (attraverso un testo di cui è prima firmataria la senatrice Rizzotti) punta sull’ippoterapia, rischiando di confondere i cavalli coi cavilli. Altri 5 progetti intendono correggere le norme costituzionali sulla salute. E via via, basta una norma e la febbre vola via. Ma i crucci sono tanti, mica c’è solo la salute. E sono tante le urgenze, le emergenze, le impellenze che reclamano un tampone normativo. Così, il senatore 5 Stelle Sileri vuole ridurre l’Iva sui prodotti di igiene intima femminile (e i maschi? Tutti puzzoni). Il suo collega Binelli, della Lega, propone invece di ridurla sulle “cessioni di pellet per uso domestico”, e chissà mai di che diavolo si tratta. Pagani (Pd) si spende per le macchine agricole d’epoca. Russo (FI) vuole tutelare i castagneti. L’Abbate (M5S) si concentra sui gelati. E un po’ tutti propongono distacchi di Comuni da una Regione all’altra (per esempio Montecopiolo e Sassofeltrio, dalle Marche all’Emilia; o Valvestino, dalla Lombardia al Trentino), oltre a battezzare 9 feste nel calendario nazionale. Fra queste, spicca la “festa non festiva” (dei Popoli), inventata dalla leghista Saponara. Tuttavia la sorpresa sorprendente riguarda la Costituzione, povera donna. Giacché dopo il tentativo napoleonico di Renzi, concluso nella Waterloo del referendum, tutti dissero: mai più. E invece no, la riforma è sempre in forma. Il ministro Fraccaro ha annunciato che il 26 settembre partiranno tre riforme: via il Cnel, meno parlamentari, più referendum. Dalle parti del governo bolle in pentola, altresì, la controriforma sul pareggio di bilancio, introdotto da Monti nel 2012. Ma è in Parlamento che il termometro s’impenna, con una raffica d’emendamenti scagliati come frecce sulla nostra vecchia Carta. L’uomo dei record è Stefano Ceccanti (Pd), con 8 iniziative. Poi c’è chi prospetta un’Assemblea “redigente” per cambiare la II Parte della Costituzione (Nencini, Psi). Chi punta al presidenzialismo (Giorgia Meloni, che però si è fatta battere sul tempo da Tommaso Cerno, ex direttore dell’Espresso). Chi esige il riconoscimento della tradizione giudaico-cristiana a fondamento della Repubblica cristiana, pardon, italiana (Romeo, Lega). Mentre i rappresentanti delle minoranze linguistiche chiedono la rappresentanza delle minoranze linguistiche in seno alla Consulta, of course. C’è un collante, c’è un elemento unitario in questa babele di progetti? Macché, in Parlamento si riflette lo specchio infranto della nostra società. Con qualche scheggia impazzita, come il testo firmato da Iannone e La Pietra (Fratelli d’Italia): nel titolo promette la soppressione delle Regioni, in realtà ne istituisce 36, comprese l’Etruria, la Daunia, la Tirrenia, la Padania orientale e occidentale. E con un omaggio collettivo alla moda del momento: Giovinezza, primavera di bellezza. Sicché il Parlamento più giovane della storia repubblicana vuole sbarazzarsi dei senatori a vita (3 proposte), estendere il voto ai sedicenni (2 proposte), aprire l’ombrello costituzionale sullo sport (3 proposte), e in conclusione offrire ai giovani la tutela della Carta (2 proposte). Ottima idea, e infatti ne11947 era già venuta in mente ai costituenti (quelli veri), che alla gioventù e all’infanzia dedicarono l’articolo 31. Repetita iuvant, ma forse è meglio non esagerare. *Costituzionalista e ordinario all’Università di Roma Un Paese da piccolo mondo antico di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 26 agosto 2018 Gli italiani eccellono in molti campi della ricerca e della scienza. Ma qual è il modello che Lega e M5S ci prospettano? Un Paese impaurito dagli immigrati che sono solo il 9% circa della nostra popolazione. Eccellenze italiane si incontrano in molti campi. Nel parco scientifico-tecnologico costruito vicino a Mirandola dopo il terremoto del 2012 è nato uno dei maggiori distretti europei per dispositivi medici monouso, un centinaio di aziende, 5 mila addetti e circa un miliardo di euro di giro d’affari. Leonardo Del Vecchio con la fusione fra Luxottica e la francese Essilor oggi controlla un gruppo che ha un miliardo e mezzo di clienti, un numero che sta a metà strada fra i clienti di Facebook e quelli di Google. Lo straordinario design italiano esporta ovunque nel mondo e ci è invidiato da tutti. Richemont, uno dei principali gruppi del lusso, ha acquistato Yoox Net-A-Porter, l’azienda creata dall’imprenditore ravennate Federico Marchetti che oggi fattura oltre 2 miliardi di euro l’anno. Persino le banche: Crédit Agricole, la grande banca francese, ha investito 4 miliardi di euro per acquistare istituti di credito in Italia e anche Deutsche Bank sta rafforzando la sua presenza in Italia, uno dei pochi mercati in cui oggi la banca tedesca cresce. In molte aree della ricerca scientifica gli italiani eccellono, dalla medicina, alle scienze naturali a quelle sociali e le migliori università del mondo sono piene di giovani italiani, spesso fra gli studenti e i ricercatori migliori. Un mese fa Alessio Figalli, matematico romano, laureato e dottorato alla Normale di Pisa, che ora insegna a Zurigo, ha vinto la Fields medal, il Nobel della matematica. L’Istituto italiano di tecnologia di Genova è un centro di eccellenza riconosciuto a livello mondiale, come lo sono tanti laboratori sparsi un po’ ovunque in Italia, e ce ne sarebbero molti di più se tante università non si chiudessero a riccio proteggendo i ricercatori locali. Questa è l’Italia sulla quale scommettono gli investitori esteri. Un Paese aperto, le cui imprese competono e vincono nel mondo e così facendo creano ricchezza per l’Italia. La misura del loro successo è il nostro attivo commerciale (differenza fra esportazioni e importazioni) che lo scorso anno ha quasi raggiunto i 60 miliardi di euro. Certo, ci sono problemi. Uno dei principali è la caduta della natalità e l’invecchiamento della popolazione con conseguenze sia produttive che sulla finanza pubblica. Il flusso migratorio, certamente da regolare, ci sta però aiutando. Un sondaggio dell’Associazione industriali di Brescia mostra che il 53% delle imprese bresciane censite ha alle proprie dipendenze lavoratori extracomunitari, con punte del 73% nelle imprese metallurgiche e siderurgiche. La maggior parte (71%) delle imprese che hanno dipendenti extracomunitari si dichiara soddisfatta del loro lavoro. Solo l’1% è insoddisfatto. A fronte di queste realtà, quale è il modello di Paese che Lega e M5S ci prospettano? Un Paese impaurito dagli immigrati che sono solo il 9% circa della nostra popolazione contro il 12 in Germania e Francia, il 13% in Gran Bretagna, il 18% in Svezia. Un mondo chiuso, in cui l’Unione Europea svanisce, lasciando Stati Uniti, Russia e Cina a farla da padroni, mentre i Paesi come il nostro sono irrilevanti. È il modello da “piccolo mondo antico”, un Paese con i negozi chiusi la domenica, dove le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano fanno di nuovo fatica a gestire i loro tempi: certo, nel “piccolo mondo antico” le donne non lavoravano. Un Paese con una linea aerea di nuovo di proprietà dello Stato e protetta dalla concorrenza, così che torneremo ai tempi quando volare da Bologna a Londra costava l’equivalente di 500 euro, tariffe che solo i ricchi potevano permettersi. Magari con una nuova lira svalutata, con la quale fuori d’Italia si riuscirà ad acquistare ben poco. Un Paese che anziché aiutare le aziende a crescere punisce quelle che cercano di diventare globali aprendo impianti in giro per il mondo. Un Paese che non riesce a capire che il lavoro si è trasformato e che penalizza la flessibilità con il risultato di distruggere posti di lavoro, spacciando per “dignità” disoccupazione e reddito di cittadinanza invece che cercare nuove forme di impiego che stiano al passo dei tempi. Un Paese che vuole mandare in pensione le persone a un’età che non tiene conto dell’allungamento della vita attesa, creando un peso fiscale sempre maggiore per i giovani di oggi e le generazioni future. Un Paese in cui di ricerca neppure si parla. Avete mai sentito il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, menzionare la ricerca come motore della crescita? Un Paese che ha paura di grandi investimenti in infrastrutture. Le infrastrutture non sono la panacea a cui inneggia incondizionatamente chi vuole sempre e comunque più spesa pubblica. Ma qualche nuova infrastruttura serve (ricordiamoci la Gronda di Genova): il “no” a tutto non ha senso. Un Paese che per incompetenza e arroganza di chi lo governa fa fallire una buona soluzione per l’Ilva di Taranto e rischia di lasciare a casa i sui 12 mila dipendenti. Il Paese della “decrescita felice” quando invece è solo con la crescita che si possono migliorare le condizioni di chi non ha un reddito adeguato, soprattutto se alla crescita si accompagna un ripensamento del nostro sistema di welfare che oggi distribuisce molto male le risorse disponibili. Chissà se il ministro Di Maio ha mai letto la relazione della commissione Onofri che ventuno anni fa aveva tracciato le linee guida essenziali di una riforma del welfare. Ne dubitiamo. Un Paese che vuole combattere l’evasione fiscale abbassando le imposte agli evasori e introducendo varie sanatorie, invece di ridurre la spesa pubblica per far pagare imposte il più basse possibili a tutti combattendo gli evasori con la “cattiveria” con cui invece tratta i profughi eritrei. Un Paese che preferisce Stati illiberali come l’Ungheria di Orbán e la Russia di Putin alla Merkel e a Macron. Se dopo le elezioni europee della prossima primavera l’Unione si sgretolasse, come Di Maio e Salvini apertamente si augurano, ci avvicineremo inevitabilmente a quei Paesi dell’Est. Il ministro Savona già invoca Putin come il nostro salvatore nel caso ci fosse una crisi del debito. Abbiamo evitato l’Unione Sovietica ai tempi del Partito comunista negli anni 50, ora potremmo ritrovarci sotto l’influenza della sua discendente diretta, la Russia di Putin. Tutto questo non serve, serve un governo che aiuta e smussa gli angoli, spinge e non ostacola, stimola e non soffoca, dialoga e non si scontra. Questo vorrebbe l’Italia che non si è arresa alla crisi e la cui economia si sta riprendendo a fatica. Un ciclone si abbatte sul Governo di Marcello Sorgi La Stampa, 26 agosto 2018 Non cercava altro, non sperava di meglio, Matteo Salvini: trovarsi indagato per sequestro di persona, arresti illegali e abuso d’ufficio, come ieri sera ha annunciato il procuratore della Repubblica di Agrigento Patronaggio, era quello che desiderava, “medaglie” ha definito le accuse che piovevano sul suo capo, prima ancora che si materializzassero, soddisfatto di poter dettare le proprie generalità alla magistratura, che adesso dovrebbe processarlo, e intanto di proseguire la sua campagna a un ritmo sempre più incalzante. Il bilancio degli ultimi giorni è spaventoso: a parte questo epilogo - il ministro dell’Interno, cioè l’uomo che dovrebbe garantire l’ordine pubblico e assicurare serenità ai cittadini, sotto inchiesta per aver volontariamente e platealmente violato la legge - tra le macerie di questi giorni restano: i rapporti dell’Italia con l’Europa, ormai al lumicino dopo una valanga di insulti e minacce a cui s’è associato anche l’altro vicepremier Di Maio, e nuovamente calpestati dall’incontro annunciato per martedì tra Salvini e il primo ministro ungherese Orban; il ruolo del presidente del Consiglio Conte, zittito perché voleva prendere le distanze da un evento come questo che allontana il Paese dalla sua tradizionale collocazione internazionale; gli sforzi del ministro degli Esteri Moavero Milanesi, che ha cercato in ogni modo di evitare una rottura definitiva con l’Unione Europea, ma per risolvere il problema della redistribuzione dei migranti ha partorito un accordo con Albania, Serbia, Montenegro e Irlanda del Sud, in una cornice che non fa che sottolineare l’isolamento dell’Italia rispetto ai suoi interlocutori abituali. Inoltre, a completare il quadro, in questi stessi giorni, mentre lo spread continua a salire, il ministro dell’Economia Tria sta tentando di convincere la Cina a sottoscrivere titoli di Stato del Tesoro; quello degli Affari europei Savona ha parlato dell’eventualità di una garanzia russa sul debito pubblico italiano, una novità abbastanza sorprendente, visto che il governo ha confermato le sanzioni nei confronti di Putin, e il premier Conte ha lasciato filtrare che in questo campo anche Trump gli aveva promesso aiuto. C’è molta confusione: troppa, è il caso di dirlo. I ministri vanno in ordine sparso e nell’approssimarsi delle scadenze d’autunno, la legge di stabilità, la manovra economica, il primo appuntamento vero con le promesse elettorali del taglio delle tasse e del reddito di cittadinanza, la sensazione è che anche l’intesa tra i due principali leader della maggioranza gialloverde sia messa a dura prova. Di fronte al dilagare dell’alleato Salvini, il Movimento 5 stelle è sotto pressione, comincia a farsi strada al suo interno l’idea che il leader leghista abbia accettato di imbarcarsi nell’avventura del governo al solo scopo di usarla per fare propaganda, preparandosi a far saltare il tappo al momento più opportuno per lui. Il problema dell’immigrazione, su cui la Lega ha costruito le sue fortune recenti, è da sempre il terreno preferito di Salvini, una sorta di riserva esclusiva su cui Di Maio può cercare di fargli concorrenza solo fino a un certo punto, come dimostrano le esplicite divisioni emerse tra i pentastellati a cavallo della vicenda della “Diciotti”. Possibile, quindi, che Salvini si prepari a rompere e ad affrontare il processo che lo attende (e per il quale, c’è da aspettarselo, chiederà al Parlamento di concedere una rapida autorizzazione) da semplice imputato, protagonista e vittima predestinata: dell’Europa non solidale con l’Italia, della burocrazia, del sistema, in nome dei cittadini e con lo slogan “non mi ferma nessuno”. Invece occorre che qualcuno lo fermi, prima che diventino irreparabili i danni provocati in questi primi tre mesi di governo - se davvero questo è un modo di governare. Caso Diciotti, Salvini indagato dai pm di Agrigento di Salvo Palazzolo e Francesco Salvatore La Repubblica, 26 agosto 2018 Il ministro: “Non ci fermeranno. È una vergogna”. L’inchiesta passa al Tribunale dei ministri. La svolta del procuratore Luigi Patronaggio dopo le audizioni del pomeriggio a Roma dei vertici del dipartimento delle Libertà civili del Viminale. L’inchiesta sui migranti bloccati a bordo della Nave Diciotti non è più a carico di ignoti. Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio trasmetterà il fascicolo al Tribunale dei ministri di Palermo. Perché il principale indagato è adesso il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio, le ipotesi di reato contestate al capo del Viminale. Nel registro degli indagati è finito anche il capo di gabinetto del ministro, il prefetto Matteo Piantedosi. Salvini riceve la notizia a Pinzolo, dove tiene un comizio. E in avvio del suo discorso contrattacca: “Possono arrestare me ma non la voglia di 60 milioni di italiani, indaghino chi vogliono. Abbiamo già dato abbastanza, è incredibile vivere in un paese dove dieci giorni fa è crollato un ponte sotto il quale sono morte 43 persone dove non c’è un indagato e indagano un ministro che salvaguarda la sicurezza di questo Paese. È una vergogna”. Le contestazioni mosse al titolare del Viminale e al suo capo di gabinetto non possono essere più approfondite dalla magistratura ordinaria, ma devono essere oggetto di valutazione del tribunale competente per i reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Ecco perché la procura di Agrigento trasmette alla procura di Palermo “per il successivo inoltro” - così è scritto in un comunicato di Patronaggio - “al tribunale dei ministri della stessa città”. Una trasmissione “doverosa”, ribadisce la nota della magistratura. “Tale procedura - prosegue il comunicato - prevista ed imposta dalla legge costituzionale 16/1/89 n. 1, permetterà, con tutte le garanzie e le immunità previste dalla medesima legge, di sottoporre ad un giudice collegiale specializzato le condotte poste in essere dagli indagati nell’esercizio delle loro funzioni, uno dei quali appartenente ai qualificati soggetti indicati all’articolo 4 della norma costituzionale”. Il procuratore aggiunge: “Com’è noto, infine, ogni eventuale negativa valutazione delle condotte di cui sopra dovrà essere sottoposta alla autorizzazione della competente Camera dei deputati”. La svolta nell’inchiesta è arrivata nel pomeriggio, dopo l’audizione al palazzo di giustizia di Roma del capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’immigrazione, Gerarda Pantalone, e del suo vice Bruno Corda. Entrambi i prefetti sentiti come testimoni. Il procuratore Luigi Patronaggio e il sostituto Salvatore Vella hanno ricostruito la catena degli ordini arrivata sino al comandante di nave Diciotti. Ordini comunicati a voce, nessuna disposizione scritta. E al termine delle audizioni, durate tre ore, è scattata l’iscrizione nel registro degli indagati di Matteo Salvini. Ma a quel punto era un atto dovuto trasmettere tutto il fascicolo al tribunale dei ministri. Chi può frenare Salvini (ma lascia campo libero) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 26 agosto 2018 Gli alleati del M5S non pongono limiti. E i ministri di Trasporti, Difesa e Giustizia cedono spazio. Il Consiglio dei ministri sostituito da un solo politico che su Facebook ne sequestra le determinazioni, persone private della libertà senza base legale e soltanto su imposizione di un vicepremier anche ai suoi gregari alleati, e “strappi” istituzionali continuamente allargati a forza di scavalcare il premier, sbeffeggiare il presidente della Camera, sfidare il capo dello Stato, minacciare i magistrati, insultare gli avversari: il problema ormai non è più Matteo Salvini, è chi non tira una riga sotto le ribalderie del ministro dell’Interno. E anzi poco manca che cortesemente gli chieda pure il permesso di “almeno” respirare dopo averlo in questi giorni già sommessamente pregato di far sbarcare dalla nave Diciotti “almeno” i minorenni e i malati, cautamente invitato a fare altrettanto “almeno” con le donne violentate nei centri libici e con gli eritrei palesi profughi di guerra, e possibilmente invitato “almeno” a considerare le persone come tali anziché come strumenti di pressione sull’Europa inadempiente e egoista. A non arrestare lo slabbramento delle regole lungo progressivi slittamenti è questa illusione della “riduzione del danno”: praticata molto per quieto vivere di fronte al carro dei vincitori, e un po’ per succube timore di un boomerang che accresca i consensi al preventivo vittimismo del Viminale, ieri non a caso passato a incassare la cambiale “immigrato uguale stupratore” servitagli dal senegalese non espulso per precedenti reati e ora arrestato per violenza su una 15enne. Già all’epoca di Berlusconi e Renzi l’abuso di decreti legge, la forzatura dei voti di fiducia, e il trucco in Consiglio dei ministri dell’”approvazione salvo intese” di provvedimenti dai contenuti non ancora davvero riempiti, avevano spostato surrettiziamente il baricentro dal Parlamento al governo. Processo portato a estreme conseguenze ora che decisioni cruciali per gli interessi nazionali, oltre a maturare fuori dal Parlamento, vengono portate neanche più per finta nel Consiglio dei ministri, ma unilateralmente proclamate via social da un vicepremier. Non c’è più Consiglio dei ministri, e neanche ci sono più ministri. I titolari di Trasporti e Difesa non ritengono di prendere nitide difese dei propri militari. Il ministro della Giustizia tace sul deputato leghista che ai magistrati che dovessero “toccare il Capitano” promette di “venirli a prendere sotto casa”. L’altro vicepremier Di Maio, capo del Movimento 5 stelle in teoria azionista di maggioranza del “contratto” con quasi il doppio dei voti, è ormai talmente immerso nel quotidiano termometro elettorale con Salvini da preferire andargli a ruota, anziché difendere dalla sua irrisione il compagno di partito Fico presidente della Camera. E il premier Conte, che ama ritagliarsi il ruolo di artefice della sintesi fra i vari ministri, con la propria assenza forse ne sintetizza l’afasia. Ha faticato a tirare una riga di garanzia persino la magistratura, dove sono “desaparecidos” quei pm in precedenza iper-attivisti nel fiancheggiare, con esternazioni prive di prove in fascicoli infine archiviati, la campagna di discredito delle Ong. È toccato ad altri subentrare nell’avvio di prudenti istruttorie, pur a tratti titubanti a far cessare il protrarsi di un “reato permanente” sino alla resa serale del ministro, e preoccupati di doversi quasi giustificare di fronte all’opinione pubblica per la propria doverosa “intromissione” a bordo della nave e (ieri con l’iscrizione di Salvini nel registro degli indagati) negli uffici del Viminale. Ultimo a poter dare lezioni è peraltro il rumore di fondo di una fetta del mondo dell’informazione. Immemore che una parte della condanna inflitta nel dicembre 2016 all’Italia dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani nel “caso Khlaifia” riguardasse non solo le espulsioni di tunisini da Lampedusa nel 2011, ma proprio anche il trattenimento dei migranti per nove giorni a bordo di navi militari italiane al largo di Palermo. E abituatosi a presentare come ormai accettabile routine gli “strappi” di Salvini fino a rammendarne in realtà la digeribilità sociale, tra la “pacchia finita” per chi respira gasolio sui gommoni che affondano, le “crociere” di chi affoga, i “palestrati” pelle e ossa scampati alle vere palestre di tortura dei campi libici, e le “semplici bravate” di chi dal balcone si esercita nel tiro al nero di passaggio. Solo dalle parti della Chiesa, pur di fronte alla contraerea demoscopica che vorrebbe i fedeli più devoti al “pontefice” Matteo che a papa Francesco, sembra esserci chi tira le righe. Senza farsi tanto condizionare dai sondaggi istantanei, forse perché allenato già da duemila anni a perdere quello con il Barabba di turno. Legnini: inaccettabile sfidare i magistrati, rischia la democrazia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 26 agosto 2018 Il vicepresidente del Csm: “Abbiamo già vissuto stagioni di conflitti”. Sul caso Diciotti “accertare la verità è doveroso” nel rispetto dell’equilibrio tra poteri e delle garanzie costituzionali, a partire da quelle previste per i componenti del governo (competenza del tribunale dei ministri, previa autorizzazione della Camera di appartenenza). Garanzie previste dalla Costituzione “che hanno ben presente i magistrati di Agrigento e di tutte le Procure italiane”. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, non vuole entrare nella polemica politica. E avrebbe volentieri evitato di occuparsi del caso Diciotti, ma un suo intervento è divenuto inevitabile ieri, dopo che le quattro correnti della magistratura, con un’unanimità che non si registrava da anni, hanno chiesto una discussione all’interno del Csm “per tutelare l’indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle attività di indagine”. La lettera, firmata da Valerio Fracassi (Area), Claudio Galoppi (Magistratura Indipendente), Aldo Morgigni (Autonomia e Indipendenza) e Luca Palamara (Unicost), ovvero tutti i capigruppo togati nel Csm che si avvia a scadenza, lamenta “interventi di esponenti del mondo politico e, soprattutto, delle istituzioni me per provenienza, toni e contenuti, rischiano di incidere negativamente sul regolare esercizio degli accertamenti in corso”. Legnini sottoporrà al Comitato di Presidenza che si terrà nei prossimi giorni la richiesta “non già per entrare nel merito delle attività di indagine, ma per valutare se si stia o meno oltrepassando il livello di guardia relativamente al doveroso rispetto dei poteri della magistratura”. Il punto non è il contenuto dell’inchiesta, “che non ammette interferenze da parte di nessuno”, ma la difesa del diritto di svolgerla senza turbamenti esterni. “La Costituzione - dice - affida al Csm la tutela dell’indipendenza dell’ordine giudiziario e di ciascuno dei magistrati, ed è doveroso esercitare tale prerogativa”. Questo significa due cose. La prima, immediata, è il doveroso rispetto per il lavoro del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. La seconda, da valutare nella prima settimana di settembre, quando si riunirà il plenum del Csm, riguarda “le iniziative a tutela della loro indipendenza”. Quello che è emerso all’interno del Csm, e di cui Legnini si fa portavoce, è la preoccupazione che si mettano in discussione con troppa disinvoltura “il principio di separazione dei poteri e le prerogative della magistratura”. Tacere a fronte di attacchi politici reiterati e diretti, talora con toni apertamente minacciosi (un esponente leghista ha ammonito i magistrati a “non toccare il Capitano Salvini”, altrimenti “vi veniamo a prendere sotto casa”), sarebbe suonato come una forma di sottovalutazione, se non di accondiscendenza. Su ciò che potrà accadere nei prossimi giorni, Legnini non si sbilancia. “Saranno gli organi consiliari a valutare eventuali iniziative - spiega - ma penso che sia necessario segnalare e riaffermare che l’indipendenza della magistratura costituisce un cardine intangibile del nostro assetto costituzionale”. Una formula non rituale, in giorni in cui “certe affermazioni rischiano di porsi in contrasto con tale principio, che è essenziale per la tenuta democratica del Paese”. A Legnini e a tutto il mondo della magistratura, che in questo caso supera le divisioni che hanno segnato la campagna elettorale per il Csm, risulta inaccettabile che “l’attività giudiziaria subisca l’interferenza di rappresentanti degli altri poteri”. Capipartito, ministri, vicepresidenti del Consiglio. Legnini ricorre a una parola chiave - sfida - nelle polemiche di Salvini con il procuratore di Agrigento. “Non possono essere lanciate nei confronti dei magistrati espressione da sfida, che appartengono alla sfera dello scontro politico e non già del corretto esercizio delle rispettive funzioni costituzionali”. I toni e le frasi usate nei confronti della Procura che indaga sul caso Diciotti riportano al passato. Commenta Legnini: “Abbiamo già vissuto altre stagioni nelle quali tale scontro tra i poteri ha messo a rischio la tenuta democratica del Paese e non possiamo permetterci di vivere una nuova stagione di conflitti”. Il fatto che oggi non si tratti di leggi ad personam o norme sull’ordinamento giudiziario ma di una vicenda “che ha a che fare con il rispetto di diritti fondamentali di persone diseredate e indifese” non diminuisce la portata della scontro, anzi. “Parliamo di vite umane e di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea - scandisce Legnini. Tutti, nessuno escluso, siamo tenuti a rispettarli e la magistratura ne è garante ultimo. Per questo il valore dell’indipendenza dell’ordine giudiziario e di ciascuno dei magistrati va tutelato nell’interesse di tutti i cittadini”. Perché il caso della nave Diciotti apre la via a uno Stato autoritario di Thomas Casadei* globalist.it, 26 agosto 2018 Salvini priva persone di libertà ma può farlo solo la magistratura, non un governo: è in pericolo la democrazia stessa. La vicenda della nave della Guardia Costiera Italiana “Diciotti”, ferma al porto di Catania da giorni con il suo carico inizialmente di 177 persone (ora 148, dopo che i 29 minori sono stati fatti scendere), e con i suoi uomini d’equipaggio, può essere esaminata sotto diversi profili, comunque strettamente collegati tra loro. Le norme giuridiche violate - Uno prettamente giuridico: a tutti è impedito l’esercizio della loro libertà di movimento, a una parte considerevole la richiesta di asilo, con l’evidente violazione delle norme poste a tutela dei minori dalle leggi dello Stato, nonché dei principi fondamentali della Costituzione, il rispetto della quale è impegno “giurato” da ministri e membri del governo. La vicenda, purtroppo, non si chiude con il permesso allo sbarco dei minori non accompagnati presenti a bordo ma permane nella sua urgente necessità rispetto alla permanenza a bordo di uomini e donne in condizioni assolutamente indegne. Come ha affermato il Garante Nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Mauro Palma: “Le persone a bordo della nave si trovano in una condizione di privazione della libertà di fatto: senza la possibilità di libero sbarco e senza che tale impossibilità di movimento sia supportata da alcun provvedimento che ne definisca giuridicamente lo stato. Ciò potrebbe configurarsi come violazione dell’articolo 13 della Costituzione e dell’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Nessun Governo ha il diritto di limitare la libertà personale - Un altro profilo è di carattere istituzionale: come ha fatto opportunamente notare la Camera penale di Catania con una presa di posizione molto netta, “può un Governo comprimere la libertà personale al di fuori delle prerogative che la Carta Costituzionale e le stesse norme di legge attribuiscono alla Magistratura? Può l’ordine di un Ministro sostituire un provvedimento giudiziario che per essere conforme a legge deve essere emesso nel rispetto delle norme che impongono l’obbligo di valutare e motivare e riconoscono a ciascuno il diritto di difesa e di assistenza tecnica? Può un Governo, anche se sorretto dalla volontà popolare, violare norme e principi che sono il fondamento di ogni convivenza civile?” Nessun Governo può arrogare a sé il diritto di limitare la libertà personale di un individuo; tale compito spetta solo ed esclusivamente all’autorità giudiziaria attraverso un provvedimento motivato e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Permettere che questo accada, oggi, mette in pericolo lo Stato di diritto e apre, ancor più pericolosamente, la via ad uno Stato autoritario. Fin dall’antichità, uno dei criteri fondamentali per distinguere il “buongoverno” dal malgoverno (e quindi i buoni dai cattivi governanti) è il rispetto della legge. Dove non c’è il “governo della legge” ci sono l’arroganza e la violenza degli uomini. Salvini si sottrae ai limiti della legge: è un pericolo democratico - I qui veniamo al terzo aspetto, quello politico e comunicativo (secondo uno schema ormai consolidato dove la comunicazione istantanea diviene atto politico): il ministro dell’Interno Salvini, seguendo una strategia rodata, impone scelte e al tempo stesso le questioni al centro dell’agenda politica con azioni comunicative, come è tipico dei capi carismatici. Procedure, atti, i dispositivi stessi della catena di comando vengono bypassati per determinare prese di posizione che mirano a creare consenso politico per la sua figura. Vietare gli sbarchi, prendere posizione contro l’Europa, “mostrare i muscoli” fanno parte di una strategia dell’uomo forte che si è palesata in questi mesi in più occasioni ma che con il caso della nave Diciotti è diventata emblematica. L’uomo forte che si sottrae ai vincoli del governo della legge è sempre stato un pericolo per le democrazie. Va dunque contrastata la possibilità che un uomo al comando violi, abusando del suo potere, la Costituzione e le regole del diritto internazionale. Il diritto deve fare il suo corso e le figure preposte è giusto che agiscano secondo le procedure previste. Chi ha a cuore Stato di diritto, Costituzione della Repubblica democratica, diritti umani e - prima di tutto - vita e salute delle persone si sta mobilitando pacificamente in varie forme, non solo sui sociali ma con prese di posizione di carattere legale e manifestazioni pubbliche. In gioco c’è la carne viva di esseri umani e, insieme, quella della democrazia costituzionale. *Professore associato di Filosofia del diritto, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Campobasso: carceri, chiesta verifica dopo terremoto di Alessandro Corroppoli primonumero.it, 26 agosto 2018 Il terremoto ha creato problemi anche negli istituti penitenziari regionali. A Larino è saltato l’impianto elettrico, a Campobasso è stato richiesto un sopralluogo tecnico. Il perdurare dello sciame sismico, seppur costellato da scosse di intensità molto lieve, accompagnate dalla parole del Capo della Protezione Civile Angelo Borelli, che non escluderebbe “scosse di magnitudo superiori alle massima già registrate” il 14 e il 16 agosto, hanno indotto il Direttore del penitenziario di Campobasso, Mario Giuseppe Silla, a scrivere al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria di Abruzzo, Lazio e Molise per chiedere “un sopralluogo tecnico urgente” della struttura penitenziaria “per la salvaguardia della pubblica incolumità e quella della popolazione detenuta”. Terremoto che ha creato problemi anche al carcere di Larino non strutturali ma all’impianto elettrico facendolo saltare. Il carcere di Campobasso è situato nel centro cittadino ed è una struttura ottocentesca. Lo stato del fabbricato non è ottimale perché, già prima del terremoto ferragostano, “era interessato da precarietà strutturale, in molte zone dell’edificio: muro di cinta con perdita continua di calcinacci e mattoncini di rivestimento, cornicioni del blocco centrale uffici, caserma ed alloggi in evidente stati di degrado” scrive nella missiva indirizzata al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria di Abruzzo, Lazio e Molise il direttore Silla. L’evento sismico, per il dirigente del penitenziario molisano, avrebbe aumentato queste criticità che lo stesso dirigente aveva, comunque, fatto presente già a gennaio e agosto del 2017 e nell’aprile del 2018. Complessivamente nella struttura di via Cavour sono presente 73 stanze: le sezioni detentive sono blocchi “palazzine separate l’una dall’altra, a piani sovrapposti -piano terra, primo e secondo piano - per uscire dai quali verso i cortili passeggio occorre percorrere a lungo scale interne anguste”. Motivi per i quali il Direttore del carcere del capoluogo non solo chiede un sopralluogo urgente per verificare “la stabilità della struttura” ma anche “la sospensione delle assegnazioni dei detenuti perlomeno sino a quando la situazione emergenziale sarà dichiarata cessata”. In organico, dato del gennaio 2018, vi sono 151 detenuti. La risposta da parte del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non si è fatto attendere. “Fermo restando che appena possibile un tecnico del provveditorato eseguirà un sopralluogo - scrivono da Roma - si rende noto che il capo nazionale dei Vigili del fuoco al fine di salvaguardare l’incolumità delle persone e l’integrità dei beni assicura gli interventi tecnici caratterizzati dal requisito dell’immediatezza della prestazione, per le quali siano richieste professionalità tecniche ad alto contenuto specialistico e idonee risorse strumentali”. In sostanza da Roma negano, per ora, un sopralluogo di tecnici del Dipartimento perché le criticità evidenziate da Silla non sono legate strettamente al terremoto, ma anche perché prima che scenda da uno staff di tecnici del ministero occorre una prima valutazione da parte dei vigili del fuoco che segnalino eventuali lesioni o danni gravi che rendano la struttura pericolosa. A Larino, invece, il sisma pare non abbia indebolito la struttura carceraria bensì fatto saltare, mandandolo in tilt, l’impianto elettrico. Il direttore, Rosa La Ginestra, chiede alla ditta che si occupa degli impianti idro-termici, elettrici e meccanici del carcere, la Sitech impianti Snc, di formulare un preventivo dei lavori da svolgere nel quale si quantifichino le spese e si indichino le priorità. A sua volta, il preventivo verrà girato al Dipartimento amministrativo penitenziario che rilascia o meno la congruità del progetto e conseguentemente erogando i fondi necessari per la riparazione dell’impianto. Paola (Cs): 17 celle inagibili nel carcere, piove anche nelle aule scolastiche iacchite.com, 26 agosto 2018 Lo scorso 23 agosto, una Delegazione di Radicali Italiani, previamente autorizzata dal Vice Capo Reggente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia Riccardo Turrini Vita, si è recata in visita presso la Casa Circondariale di Paola. La Delegazione visitante, composta da Emilio Enzo Quintieri, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e candidato Garante dei Diritti dei Detenuti in Calabria, da Valentina Anna Moretti, esponente radicale e praticante Avvocato del Foro di Paola e da Giuseppe Cuconato, Studente in Giurisprudenza dell’Università della Calabria, è stata accolta dal Commissario Capo Soccorsa Irianni, Vice Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria e dall’Ispettore Capo Attilio Lo Bianco, Coordinatore della Sorveglianza Generale e da altro personale addetto al Reparto. Al momento della visita nell’Istituto erano presenti 221 detenuti, 119 dei quali stranieri (prevalentemente albanesi) con le seguenti posizioni giuridiche: 12 imputati, 16 appellanti, 22 ricorrenti e 171 definitivi. 43 tra i detenuti presenti, tutti definitivi, sono allocati nel Padiglione a custodia attenuata con regime custodiale aperto. Altri 5 detenuti invece si trovavano in permesso premio ex Art. 30 ter O.P. concesso dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente. Nell’ambito della visita la Delegazione ha riscontrato gravissime criticità nell’Istituto che ha immediatamente segnalato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, al Provveditore Regionale Reggente dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria Cinzia Calandrino, al Direttore della Casa Circondariale di Paola Caterina Arrotta, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia Mauro Palma. Isolamento del detenuto A.N. per motivi precauzionali - Tra le altre cose, la Delegazione visitante, ha denunciato la presenza continuativa di un detenuto calabrese A.N., nel Reparto di Isolamento, da circa 8 mesi per motivi precauzionali poiché lo stesso ha dichiarato di temere per la propria incolumità personale e di voler essere trasferito in altra struttura. La Direzione dell’Istituto ha già più volte sollecitato il trasferimento dello stesso ma ogni istanza al riguardo è stata respinta dai Superiori Uffici dell’Amministrazione Penitenziaria. Recentemente il detenuto ha posto in essere alcuni atti autolesionistici ed è stata disposta nei suoi confronti anche la sorveglianza a vista. Per tale ragione, la Delegazione, ha chiesto all’Amministrazione di rivalutare la questione poiché tale detenuto non può continuare a restare isolato. Inagibilità di numerose camere per infiltrazioni meteoriche - Durante la visita a tutti le Sezioni Detentive, la Delegazione, ha notato la chiusura di diverse camere di pernottamento sulla cui porta blindata era affisso un cartello che ne indicava la inagibilità. Chieste informazioni al personale di Polizia Penitenziaria veniva riferito che dette camere, erano inagibili poiché necessitavano di interventi di manutenzione straordinaria a causa della copiosa infiltrazione di acqua piovana. In particolare, la Delegazione, ha rilevato che nell’Istituto vi sono n. 17 camere inagibili così suddivise: 4 camere alla I Sezione, 4 camere alla II Sezione, 3 camere alla IV Sezione, 5 alla V Sezione ed 1 alla Sezione Infermeria. Inoltre, alla IV Sezione, altre 2 camere, a breve, dovranno parimenti essere dichiarate inagibili per gli stessi motivi. Su tale problematica, che risulta essere stata già rappresentata dalla Direzione dell’Istituto ai Superiori Uffici, allo stato pare vi sia stato solo un sopralluogo da parte del personale tecnico del Provveditorato Regionale della Calabria di Catanzaro. Per tale problematica, la Delegazione, ha chiesto che vengano disposti gli opportuni provvedimenti di manutenzione straordinaria per riattivare le camere allo stato inagibili. Aule scolastiche degradate per infiltrazioni meteoriche - La Delegazione, dopo aver visitato tutte le Sezioni, si è recata a visitare l’area trattamentale dell’Istituto ove sono presenti le aule scolastiche, la biblioteca, il teatro, la cappella, la palestra ed alcuni laboratori. Visitando le aule scolastiche ci si è subito resi conto della grave situazione in cui versano a causa delle copiose infiltrazioni meteoriche provenienti dal tetto, tanto da pioverci dentro. Anche tale circostanza, per quanto riferito, pare sia stata rappresentata dalla Direzione dell’Istituto ai Superiori Uffici ma, alla data della visita, non si aveva alcuna notizia al riguardo circa interventi di manutenzione straordinaria, nonostante l’imminente ripresa delle attività scolastiche e trattamentali. Altri analoghi problemi di infiltrazione che meritano di essere risolti sono stati riscontrati nel teatro, nell’Ufficio della Sorveglianza Generale e nel corridoio che conduce alle Sezioni. Inoltre, durante la visita al padiglione a custodia attenuata, si è rilevata la pericolosità del pavimento in gomma che andrebbe sostituito o, comunque, risistemato se possibile. Anche per tale situazione, la Delegazione, ha invitato l’Amministrazione Penitenziaria ed in particolare il Provveditorato Regionale di Catanzaro, a voler disporre con cortese urgenza degli accertamenti in merito tramite il personale dell’Ufficio Tecnico, necessari per procedere ad attivare gli interventi manutentivi straordinari al fin di elidere le gravi criticità prospettate, soprattutto per le aule scolastiche, in considerazione dell’imminente ripresa delle attività che, inevitabilmente, rischiano di essere sospese qualora non si intervenga. Assenza “box-office” per il personale di Pol. Pen. nelle sezioni - Altra nota dolente che merita di essere evidenziata riguarda l’assenza dei c.d. “Box-Office”, le postazioni di servizio destinate al personale di Polizia Penitenziaria per la vigilanza all’interno delle Sezioni detentive. Infatti, si è preso atto che i “Box-Office” destinati ai Poliziotti sono assolutamente inadeguati in termini di arredo e strumentazione, non conformi alla normativa vigente in materia, privi di condizionatori d’aria, di riscaldamento e di servizi igienici. In tutte le Sezioni, fatta eccezione per il padiglione a custodia attenuata, le postazioni dell’Agente sono collocate all’ingresso, nel corridoio, senza alcuna protezione, essendo costituite solo da un tavolino ed una sedia. Per quanto precede, l’Amministrazione, è stata invitata a voler disporre gli opportuni interventi volti alla risoluzione delle criticità prospettate, verificando la possibilità di dotare ogni Sezione detentiva di “Box-Office” adeguati e rispettosi della normativa vigente, nel rispetto della sicurezza e della dignità del personale operante. Numerosa presenza di detenuti stranieri nell’istituto - Una delle più importanti criticità dell’Istituto, peraltro già segnalata in passato, è senz’altro legata alla numerosa presenza di detenuti stranieri. La CC di Paola conta la più alta percentuale di stranieri che sono ristretti negli Istituti Penitenziari della Calabria e le difficoltà a gestire dette persone che non hanno alcun collegamento con il territorio (famiglia, affetti, etc.) sono di palmare evidenza. L’Istituto, come già rappresentato, peraltro è privo di mediatori culturali, sia dell’Amministrazione, che volontari o convenzionati con altri Enti ex Art. 35 c. 2 Reg. Es. O.P. Negli anni, per come riferito dal personale, la percentuale di stranieri nell’Istituto si attestava sempre intorno al 30/40 % mentre alla data odierna risulta essere del 60/70% comportando numerose difficoltà per la loro gestione penitenziaria. Infatti, tantissimi degli stranieri reclusi, essendo privi di fondi, chiedono di poter lavorare, per avere la possibilità di acquistare le sigarette, prodotti per l’igiene personale, intrattenere corrispondenza epistolare e telefonica con la famiglia, etc. Per cui, non essendo possibile assicurargli il lavoro o, comunque, offrirgli la possibilità di poter scrivere o telefonare ai familiari, detti soggetti ricorrono ad atti autolesionistici che, a lungo termine, possono sfociare in gesti auto soppressivi ed aggressioni al personale. Pare, infine, che l’Istituto di Paola, contrariamente ad altri stabilimenti penitenziari, non sia dotato di fondi da elargire agli indigenti o, comunque, non lo sia in misura adeguata. Per quanto precede, la Delegazione visitante, ha invitato l’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, ex Artt. 30 ed 85 Reg. Es. O.P., a valutare la possibilità di non assegnare più all’Istituto altri detenuti stranieri ed eventualmente, procedere ad un loro sfollamento, per le gravi difficoltà gestionali rappresentate. Inoltre, è stato chiesto che l’Istituto di Paola, venga dotato di un congruo fondo economico che la Direzione possa gestire per elargire sussidi alle persone bisognose, soprattutto per la rilevante presenza di detenuti stranieri. In ultimo, si è reiterata la richiesta di procedere ad attivare un servizio di mediazione culturale. Nei prossimi giorni, la Delegazione di Radicali Italiani, farà visita al Carcere di Castrovillari (lunedì 27 agosto) e poi a quello di Rossano (giovedì 30 agosto). Bari: l’ira del Sindaco Decaro “il ministero vuole fermare la giustizia” di Bepi Castellaneta Corriere del Mezzogiorno, 26 agosto 2018 La data fissata per il completamento dello sgombero in via Nazariantz è il 31 agosto. Il sindaco: “Darò proroga all’apertura solo se la chiedono altrimenti sarà sgombero”. Il conto alla rovescia verso il 31 agosto, data fissata per il completamento dello sgombero del Tribunale di via Nazariantz, continua a scorrere inesorabilmente in un clima di esasperazione e rassegnazione. Ma intanto, mentre avvocati e magistrati e dipendenti si preparano a rimanere senza una sede, il livello dello scontro tra il governo e il sindaco Antonio Decaro sale ulteriormente di tono. Il giorno dopo lo scambio di comunicati sull’asse Bari-Roma, il primo cittadino lancia il suo affondo e non usa mezzi termini: “Quando qualcuno dice che i piani stanno andando nel verso giusto - dichiara - mi viene da pensare che forse sono i piani per annullare completamente la giustizia barese”. La nota del Ministero - Decaro si riferisce alla nota partita giovedì sera dal ministero in cui si sostiene che “i lavori procedono secondo tabella di marcia”. Piuttosto sorprendente se si considera che tra meno di una settimana il palazzo di via Nazariantz dovrò diventare un contenitore vuoto. Uno scenario che è il risultato di un percorso accidentato e zeppo di errori. A cominciare dalla decisione del governo di ignorare la richiesta di magistrati e avvocati affinché venisse avviata una procedura d’urgenza per assicurare il funzionamento della giustizia fino alla revoca dell’aggiudicazione della ricerca di mercato in favore del palazzo ex Inpdap, immobile peraltro bocciato abbondantemente dagli addetti ai lavori fin dal primo momento. In mezzo c’è l’entusiasmo del ministro Alfonso Bonafede, che il 9 luglio ha annunciato la scelta dell’edificio di via Oberdan (proprio l’ex Inpdap) come nuova sede compiacendosi per aver seguito le regole ordinarie per poi ingranare una repentina retromarcia meno di un mese dopo e far sapere - alla vigilia del Ferragosto - che non se ne fa nulla perché “gli ordinari controlli amministrativi” hanno dato “esito negativo”. La preoccupazione del sindaco - Se la situazione non preoccupa il ministero, il sindaco la pensa diversamente. “Non abbiamo il palazzo, le udienze sono state bloccate fino a settembre e magistrati avvocati ci spiegano che traslocare nell’immobile di via Brigata Regina significa non lavorare più perché non c’è spazio e bisognerebbe dividersi in quattro turni”, spiega Decaro. Il quale entra poi nel merito della questione relativa a una possibile proroga della permanenza nell’edificio di via Nazariantz, dove ieri c’è stato anche un sopralluogo dei tecnici comunali: “Nessuno me l’ha chiesta, qualora ci fossero le condizioni di sicurezza possiamo concedere qualche giorno in più per completare lo sgombero, ma ci deve essere un’istanza precisa. Il sindaco - prosegue - decide sull’agibilità ma la competenza sull’edilizia giudiziaria è del governo. Se da Roma chiederanno un po’ di tempo in più valuterò: sono abituato a decidere - conclude - ma non posso farlo anche per altri”. E intanto il 12 ottobre il ministero dovrà comparire dinanzi al Giudice di pace per la prima delle decine di udienze in cui è stato citato dagli avvocati baresi, che chiedono un risarcimento per lo stop dei processi. Palermo: una sartoria sociale nell’ex-negozio del boss di Paolo Foschini Corriere della Sera, 26 agosto 2018 Rosalba Romano è socia di una cooperativa che dal 2012 ha contribuito a “ricucire il futuro” di oltre 70 persone tra migranti, detenuti e donne in difficoltà. Si trova in via Alfredo Casella 22, tra il quartiere dell’Uditore e Borgo Vecchio, dalla stazione di Palermo Notarbartolo ci vogliono pochi minuti a piedi. Prima era un negozio, qualcosa del genere. Detta in termini più esatti era una tra le tante attività di copertura appartenenti a quell’Antonino Buscemi che insieme col fratello Salvatore, il boss del clan di Passo di Rigano, era stato tra gli architetti della svolta imprenditoriale di Cosa Nostra a fine anni Ottanta. Finché anche quel negozio, o quel che era, finì sequestrato dalla magistratura. E adesso finalmente ha trovato la sua giusta strada: ora si chiama Sartoria Sociale, è diventata una piccola impresa della cooperativa Al Revès che recupera avanzi tessili per trasformarli in capi unici, e dentro ci lavorano donne con un passato difficile accanto persone svantaggiate di vario tipo, tutte all’insegna del motto col quale la Fondazione Con il Sud - tra i promotori del progetto - ne riassume lo scopo: “Ricucire il territorio”. A Rosalba Romano - socia della cooperativa che dalla sua nascita nel 2012 ha contribuito a “ricucire il futuro” di oltre 70 tra migranti, detenuti, donne in difficoltà - nel giorno d’inaugurazione della Sartoria era piaciuto ripetere che “avevamo iniziato in uno sgabuzzino e adesso siamo qua”. “Fare il sarto è il mio sogno”, aveva detto quel giorno Mamat, diciotto anni, arrivato dal Gambia. “Con noi - aveva aggiunto Rosalba - ci sono oggi idealmente le nostre dieci donne detenute a cui va il nostro pensiero, perché il carcere sia un luogo di speranza”. Sin da subito aveva precisato che comunque la Sartoria sarebbe stata anche un luogo di riparazioni comuni e corsi di cucito per tutti, perché “il nostro spirito è la contaminazione: qualche volta complicata da gestire, ma necessaria”. In effetti Rossella Failla, che delle persone impegnata a vario titolo nel progetto è la portavoce, spiega che si tratta di una “realtà complessa che richiede una gestione articolata e integrata: non è soltanto un laboratorio di produzione ma anche un social shop e un luogo di educazione all’autoimprenditorialità, dove i cosiddetti loosers - quelli che il mondo dei normali chiama gli sconfitti senza speranza - possono invece coltivare talenti e relazioni reali di scambio e condivisione”. L’obiettivo del progetto peraltro non è di semplice inclusione bensì di imprenditorialità vera. Con un lessico che nelle descrizioni dei suoi partecipanti comprende parole come “business planning”, “recycling” e “upcycling” tessile praticato secondo i principi etici di “critical fashion”. E di economia circolare, per dirla almeno un po’ anche in italiano: e da lì anche opportunità di lavoro, aggregazione di professionalità e gruppi di interesse, incoraggiamento di uno “stile di vita equo e solidale”. E nello spirito della “rete” quale strumento essenziale è partita la partnership con enti, scuole, case di cura e associazioni: da AddioPizzo a Libera, dal Consorzio Arca alla Fondazione Progetto Legalità Onlus, dall’Accademia di Belle Arti di Palermo ad altre realtà ancora. Entrata nel network europeo delle imprese tessili innovative, la Sartoria ha vinto il primo bando promosso da Worth per “testare con l’atelier parigino Coco et Rico, una nuova configurazione spaziale delle postazioni di lavoro”. “Siamo convinti - è la conclusione di Rossella Failla - che chi fa impresa sociale sia tenuto, quasi per etica professionale, ad aprirsi con fiducia e coraggio al futuro. E a lasciarsi contaminare dalla vocazione innata dell’umanità al superamento dell’esistente”. Verona: “malato da fumo passivo”, ma il Tar respinge il ricorso del poliziotto di Enrico Presazzi Corriere Veneto, 26 agosto 2018 L’agente della polizia penitenziaria ha fatto causa al ministero: “Costretto a inalare”. I giudici: “Sistemi di aereazione non compatibili nelle celle”. “Sistemi di aerazione nelle celle, contro il fumo passivo causato dalle sigarette dei detenuti”. La richiesta di un agente della polizia penitenziaria di Montorio è stata respinta dai giudici del Tribunale amministrativo. Così come anche la sua richiesta danni. “Mettete degli impianti di aerazione nelle celle del carcere di Montorio”. La richiesta è di uno degli agenti della polizia penitenziaria della casa circondariale che ha trascinato davanti al Tar il Ministero della Giustizia per far valere le sue ragioni. Tutta colpa del cosiddetto “fumo passivo” che, a suo parere, “gli avrebbe cagionato l’insorgere di patologie respiratorie” e un’ulteriore malattia. I dettagli sono pochi perché sono stati gli stessi giudici amministrativi, nella loro sentenza, a disporre di “oscurare le generalità nonché qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute del ricorrente”. Ma, nonostante i vari “omissis” ripetuti nel provvedimento, è possibile ricostruire una vicenda di cui gli stessi magistrati mettono in evidenzia “complessità e parziale novità delle questioni trattate”. Perché oltre a rivendicare un risarcimento danni da 30.293 euro per violazione delle norme a tutela della salute dei lavoratori, il dipendente è ricorso al tribunale veneziano per chiedere l’”adeguamento dei luoghi di lavoro mediante installazione di idoneo impianto di aerazione”. Richieste respinte dalla sentenza dello scorso aprile e pubblicata nei giorni scorsi. “Il ricorso è infondato e da respingere per quanto riguarda la domanda di risarcimento del danno biologico ivi proposta, mentre è inammissibile in relazione alle altre domande nello stesso contenute”, mettono nero su bianco i giudici che hanno comunque disposto l’integrale compensazione delle spese tra le parti in causa, proprio a ragione della complessità e della parziale novità della materia discussa. L’agente lavora dal 1999 a Montorio e ha denunciato la “costante stagnazione di grandissime quantità di fumo proveniente dalla (cella, ndr) che i lavoratori si troverebbero costretti ad inalare ogni giorno per tutte le ore dedicate all’espletamento delle loro mansioni lavorative, senza che la direzione della (casa circondariale, ndr) si sia mai attivata per risolvere tale problema”. Ma la difesa dell’amministrazione pubblica, in sede di udienza, ha evidenziato come non vi sia agli atti “una chiara individuazione del nesso di causalità tra l’insorgere della patologia dell’agente e l’affermata esposizione al cosiddetto fumo passivo”, sottolineando che la relazione del perito incaricato dal ricorrente escludeva che la patologia potesse essere considerata a tutti gli effetti una “malattia professionale”. Insomma, mancherebbe la “prova regina” in grado di dimostrare che il fumo passivo abbia fatto ammalare il ricorrente. Il collegio veneziano ha poi preso in analisi anche la richiesta di installazione dei sistemi di aspirazione e ventilazione forzata, decretando che “tale rimedio potrebbe non essere compatibile con la funzione di restrizione della libertà personale dei (detenuti, ndr)”. In altre parole, la sicurezza della struttura ha la priorità sul fumo passivo. Pirateria, la mafia dei ladri digitali che muove miliardi di Emanuele Coen e Fabio Macaluso L’Espresso, 26 agosto 2018 Dimenticate il giovane hacker di una volta: oggi la copia di film, musica e sport è in mano a gang sofisticate, potenti e ipertecnologiche. Lo racconta l’affiliato di una banda che “lavora” su film e match di calcio: “Prima ero nella droga, ma questo settore è meno rischioso”. La pirateria digitale continua a prosperare, dopo che la riforma del copyright è stata rimandata a settembre dal Parlamento europeo, su pressione dei big di Internet e dei teorici della libertà della Rete. Alimentata da organizzazioni criminali sempre più potenti e ramificate, la pirateria è un flagello che colpisce duramente gli autori - scrittori, registi, musicisti - e l’industria della cultura: editori, produttori di materiali musicali, film e serie televisive. Di recente è stato calcolato da Ipsos per Fapav, la federazione contro la pirateria audiovisiva: il 37 per cento degli adulti italiani ha fruito illecitamente di film e serie tv nel 2017, con circa 631 milioni di atti di pirateria compiuti, cifra che non tiene conto del live streaming degli eventi sportivi e dell’accesso illegale ai contenuti televisivi attraverso appositi decoder. La relazione Baruffi del 2017, atto finale della commissione parlamentare d’inchiesta su contraffazione e pirateria della scorsa legislatura, ha evidenziato come in Italia ogni giorno le visioni abusive sopravanzano quelle legali. Come se in uno stadio da 80 mila posti, ben 50mila spettatori non pagassero il biglietto per vedere un concerto dei Radiohead. In assenza della riforma, dunque, continua a valere il principio dell’irresponsabilità degli operatori di internet e delle telecomunicazioni, sancito dalla direttiva europea sul commercio elettronico del 2000, secondo cui questi soggetti non hanno l’onere di verificare il traffico di informazioni sulle proprie infrastrutture. Si attiverebbero solo su segnalazione dei titolari dei contenuti d’autore per rimuovere quelli distribuiti illegalmente. Un sistema che non regge più, perché sono miliardi i prodotti creativi continuamente caricati in rete dai pirati e dal pubblico degli utilizzatori: solo su YouTube, ogni minuto sono postate circa quattrocento ore di contenuti audiovisivi. Per questo motivo, la nuova direttiva sul copyright prevede che operatori come Google o Facebook si dotino di strumenti automatici per controllare la circolazione dei contenuti protetti dal diritto d’autore. Il rinvio di questa soluzione, dunque, continua a far fiorire il business della pirateria, che in Italia vale almeno sei miliardi di euro all’anno - quasi la metà del fatturato del traffico degli stupefacenti, 14 miliardi di euro nel 2017 - a danno degli autori e dei prodotti culturali: musica, libri, giornali. Un modello complesso, articolato, basato su entrate di natura pubblicitaria - vale a dire motori di ricerca e siti pirata ospitano a pagamento i messaggi promozionali - accessi a pagamento ai siti e alle applicazioni illegali e gli introiti derivanti dalla vendita dei set-top-box illegali e dall’utilizzo abusivo delle pay tv. Un fiume di denaro, realizzato a danno dell’industria creativa. Nel silenzio generale, considerato che intorno a questo fenomeno non sembra esserci alcuna disapprovazione sociale, come denuncia Paolo Genovese, regista del film campione di incassi “Perfetti sconosciuti”. “In molti non si rendono conto della situazione, anche perché i siti pirata sono graficamente attraenti e ben organizzati. Addirittura catalogano i film per generi, paesi o registi e contengono le rispettive critiche. Meglio di Netflix, ma a costo zero. Un fatto devastante, perché a causa di questa perfetta apparenza non siamo in condizione di spiegare ai nostri figli che questi percorsi sono illeciti. È necessario il lavoro culturale e quello delle forze dell’ordine”, riflette il regista. Alcune storie raccontano bene questo fenomeno. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio scorsi 150 uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza e forze di polizia svizzere, tedesche e spagnole, hanno smantellato un’organizzazione criminale che decriptava i segnali televisivi di Sky e Mediaset Premium per commercializzare il servizio ai “clienti” che vogliono vedere l’ultima serie del “Trono di Spade”. Una gang talmente efficiente, che la Procura di Roma nell’ordinanza di custodia cautelare ha scritto che essa detiene “una capacità organizzativa importante in grado di fornire servizi del tutto analoghi a quelli delle aziende lecite, dalle verifiche di fattibilità all’installazione del servizio, alla loro fornitura con standard adeguati fino all’assistenza tecnica alla clientela”. Malavita organizzata, come affermato dalla guardia di finanza. Dopo alcune ricerche siamo riusciti a conversare con un affiliato, che ha dichiarato: “Prima lavoravo negli stupefacenti, ma non essendo giovane è diventato troppo rischioso. Sono un esattore, riscuoto gli abbonamenti dai clienti”. E questi pagano soddisfatti le loro quote mensili. In Italia, secondo uno studio Doxa/Politecnico di Milano del 2017, vi sono almeno 800mila utilizzatori abituali di servizi televisivi illegali, ma, secondo Sky, la cifra si attesta intorno al milione e mezzo. In queste settimane ha fatto notizia anche un’ordinanza del Tribunale di Milano, che ha emanato un ordine nei confronti dei fornitori della connessione a internet, da Tim a Vodafone, per bloccare l’accesso a un sito che distribuiva illegalmente contenuti editoriali di Mondadori e automaticamente a tutti i siti “alias” a esso collegabili, messi a disposizione degli utenti dalla stessa organizzazione sotto altri nomi. Quel portale si era sfacciatamente dato una missione, scrivendo sul suo portale: “La battaglia contro di noi è persa in partenza. Il nostro sito rimane sempre online sotto qualsiasi nome, disegno e dominio. Oscurato un dominio ne facciamo 100mila al suo posto”. Mentre in Italia i controlli risultano ancora sporadici, in Gran Bretagna qualcosa si muove. Per i contenuti sportivi, protetti dal copyright, la Premier League e i maggiori internet provider britannici hanno trovato un accordo, che è stato reso esecutivo dall’Alta Corte di Giustizia di Londra. Durante il corso delle partite che si disputano nella stagione, sistemi informatici intercettano i siti che permettono lo streaming illegale degli incontri, che vengono disattivati automaticamente attraverso il blocco degli indirizzi IP, l’etichetta numerica che identifica e rende operativi i siti internet. Questo ha consentito la chiusura di circa 6mila siti pirata in meno di un anno, con la soddisfazione della stessa British Telecom che ha investito centinaia di milioni di sterline per acquisire i diritti di trasmissione online delle gare calcistiche. I pirati sono tecnologicamente avanzati e hanno fantasia: oltre i tradizionali portali “torrent” e “peer-to-peer,” sono operativi i “cyberlocker”, piattaforme nate per scopi legali - conservazione di dati in remoto e trasferimento di file - diventate successivamente un vero e proprio paradiso per i contraffattori. Vi sono i Cdn (“content delivery network”), sorti per la protezione dagli attacchi informatici e il miglioramento delle performance dei siti, quindi diventati il miglior strumento per mascherare l’identità degli amministratori di quelli pirata. In grande ascesa è lo “stream ripping”, vale a dire la sottrazione, attraverso siti o applicazioni dedicati, della musica dai video caricati sulle piattaforme come YouTube. E non ha flessioni il “camcording”, l’illecita registrazione audio o video di un film in sala, fenomeno che colpisce nove film su dieci. Inoltre, come spiega Luigi Smurra, colonnello della guardia di finanza, sono operative in luoghi segreti “le centrali “sorgenti”, dove sono installate apparecchiature informatiche per decriptare il segnale delle emittenti pay-tv, utilizzando schede regolarmente acquistate, per poi farlo confluire su server esteri appositamente noleggiati”. E la lista è inesauribile perché i sistemi illegali si adeguano all’avanzamento tecnologico. Internet è quindi un ambiente violato, dove soggetti criminali operano in un habitat molto favorevole mentre ai titolari dei diritti d’autore, secondo l’attuale normativa, non rimane altro che dotarsi di costose strutture antipirateria, collaborare con le forze di polizia e rivolgersi ai tribunali e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per ottenere la rimozione dei contenuti che circolano illegalmente. L’Autorità, da quando opera nella tutela del copyright, si limita a bloccare il nome di dominio (“Dns”) dei siti pirata, mai avendo disposto - nonostante sia in suo potere - il loro oscuramento attraverso il blocco degli indirizzi IP. Una posizione anacronistica, non condivisa dalla filiera culturale, come fa notare il presidente dell’Associazione italiana editori (Aie) Ricardo Franco Levi. “È essenziale che le disposizioni di blocco dei siti pirata siano estese anche agli indirizzi IP, per evitare che pochi istanti dopo il blocco del Dns i gestori del sito pirata lo aggirino semplicemente cambiando la denominazione”, sottolinea. L’assetto attuale favorisce anzitutto gli operatori di internet che catalogano, indicizzano, e suggeriscono i contenuti, incrementando ogni giorno il tesoro dei dati personali raccolti, pianificando le inserzioni pubblicitarie e incassando i relativi introiti. Google è il più chiaro esempio di piattaforma non “neutrale”, anche se afferma che “i contenuti generati dagli utenti rappresentano una nuova e significativa fonte di ricavi” per il comparto della cultura. In effetti, il motore di ricerca americano si è dotato di un meccanismo di riconoscimento dei contenuti con uno strumento che si chiama “Content ID” che permette di gestire automaticamente il 98 per cento dei diritti dei titolari dei prodotti musicali che circolano su YouTube, che appartiene a Google. Ma quest’ultimo sfrutta la sua posizione di monopolista non condividendo il proprio meccanismo con l’intera industria creativa e per pagare con una mancia i lavori artistici che ospita sulle sue piattaforme. Secondo l’Ifpi, federazione internazionale dei produttori discografici, ogni utilizzatore di YouTube genera un’entrata annuale a favore dell’industria musicale pari a un dollaro, contro i 20 che derivano dall’utente di Spotify nello stesso periodo. In attesa della riforma europea del copyright e dell’improbabile adozione di scelte condivise tra i player del mercato, non resta che migliorare gli strumenti disponibili contro le organizzazioni criminali che agiscono nel settore. Giangiacomo Pilia, sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari, afferma che “la pubblicità online è una delle principali fonti di reddito per i siti pirata, la maggior parte dei quali si trova all’estero. Attualmente è possibile risalire a tali flussi finanziari attraverso la consultazione di banche dati estere e con il supporto di organismi internazionali, quali la Financial Intelligence Unit, che si può contattare tramite la Banca d’Italia e soprattutto l’Eurojust”. Per questo servono forze dell’ordine, inquirenti e giudici specializzati. Esigenza raccolta dal Consiglio superiore della magistratura: come annunciato dal vice presidente, Giovanni Legnini, svolgerà un’attività di formazione specifica dei magistrati per il contrasto dei reati legati alla pirateria “sulla base delle innovative misure sull’organizzazione degli uffici giudiziari emanate dal Csm negli ultimi due anni, tutte improntate a favorire la specializzazione delle sezioni e dei gruppi di lavoro negli uffici sia giudicanti che requirenti”. Soluzioni necessarie, ma con ogni probabilità non sufficienti. Per contrastare un fenomeno così grave e vasto, infatti, servirebbe la presa di coscienza degli utilizzatori dei contenuti creativi. I quali, va ricordato, possono essere ritenuti penalmente responsabili quando scaricano abusivamente in rete o accedono ai servizi televisivi illegali, come confermato definitivamente da una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso anno. Non è realistico punirli tutti, ma vanno sperimentati metodi efficaci affinché il pubblico maturi la consapevolezza sul disvalore della pirateria. E accolga il principio chiave per l’affermazione della funzione culturale: lo sforzo di autori e produttori va remunerato per garantire pluralismo, approfondimento e intrattenimento di qualità. “Sì, sono di destra. Ma i migranti li chiamo fratelli”. Parla Nello Musumeci di Stefania Rossini L’Espresso, 26 agosto 2018 L’urgenza di una “rigenerazione culturale”. ?E la politica “rimasta senza padri”. Intervista al presidente della regione Sicilia, ?chiamato il “fascista gentiluomo”. Lo chiamano fascista gentiluomo ed è difficile capire se sia più compiaciuto del primo o del secondo attributo. Ma è certo che la definizione gli calza a pennello. Nello Musumeci è un signore siciliano elegante e asciutto, composto e cerimonioso, con una sicurezza di sé e del proprio ruolo che gli viene da una esperienza politica di quasi cinquant’anni. Da fascista sempre dichiarato ha attraversato la prima e la seconda Repubblica, passando senza danni di immagine da Almirante a Fini, a Storace, fino alla costruzione di un personale movimento di destra che già nel nome, “Diventerà bellissima”, vuole evocare Paolo Borsellino e la Sicilia migliore. Oggi Musumeci, presidente di una Regione difficile, difende ancora la sua collocazione ideologica, cercando di non farsi confondere con le schegge di destra xenofoba che circolano nel Paese e con le ambiguità dei messaggi governativi. Così comincia proprio dalla non semplice contiguità con il governo centrale una conversazione che si scioglierà poi in un racconto di vita personale e sentimentale. Domanda diretta, presidente: le piace questo governo? “Risposta diretta, signora: io non do ne voti né veti e giudico i governi alla scadenza, non alla partenza”. Qualche impressione l’avrà pure avuta. “Ho la necessità di interloquire con molti ministri e, anche se la ritengo ibrida, ho il dovere di rispettare questa coalizione”. Ho capito, non le piace. “Rilevo semplicemente che la geografia del centrodestra nel Paese non è la stessa del Parlamento. Vorrei che tutti ritrovassimo le ragioni che ci uniscono, non quelle che ci dividono”. Lei governa la Regione con i 5 Stelle che fanno opposizione su tutto. Come li giudica? “Mi aspetterei da loro un rispetto istituzionale che per ora manca. Ma quando vado in campagna trovo negli insetti le risposte alle mie domande. Ascolto le cicale che non smettono di cantare, osservo le formiche che lavorano senza tregua per preparare la buona stagione e mi convinco che la la politica di oggi funziona nello stesso modo”. E con Esopo abbiamo sistemato i 5 Stelle. Invece i rapporti con Salvini sembrano buoni, se lei è andato persino al raduno di Pontida. “Ci sono andato per rispetto del galateo e sul palco ho detto che il Nord senza il Sud non va da nessuna parte. Mi aspettavo qualche contestazione e invece ho avuto applausi fragorosi. Comunque se l’arcivescovo di Palermo mi invita a visitare il seminario, io da persona educata ci vado, ma non per questo mi faccio prete”. Però sulle politiche dell’immigrazione la sua voce si è sentita poco. “Ne parlo nei momenti opportuni. E se me lo chiedono, dico che la chiusura dei porti è servita a mettere a nudo l’egoismo di un’Europa che, se continua così, non merita più la nostra presenza. Ma ovviamente è una cosa che non può durare a lungo”. Che ne pensa del razzismo strisciante? “Che non c’è, e tanto meno in Sicilia, terra che ha avuto 15 dominazioni ed è abituata a convivere con l’altro. Qui è necessario lottare contro lo sfruttamento di questi nostri fratelli sulla cui pelle qualcuno ha fatto affari e si è arricchito”. Parla come uno di sinistra. “Non è la prima volta che me lo dicono. Invece io sono orgogliosamente di destra, ma ho la fortuna di ricevere consensi elettorali anche da elettori di sinistra. Credo che sia il massimo per un politico”. Che tipo di destra è la sua? “Quella di Giorgio Almirante. Non sono un nostalgico e nel mio studio non troverà testimonianze del passato, ma soltanto un suo ritratto con dedica. Ho anche chiamato Giorgio il mio figlio minore. C’era Almirante alla guida del Movimento sociale quando nel 1970 mi iscrissi al partito”. Come nasce in un quindicenne una passione del genere? “Ero un ragazzino che credeva nella libertà e invece i picchetti degli attivisti rossi non mi facevano entrare a scuola, secondo la logica “Chi non è con noi, è fascista”. Così mi sono avvicinato ai giovani di destra e mi ci sono subito trovato bene per valori condivisi e quasi per vocazione genetica”. Si riferisce ai suoi genitori? “No, mio padre era un autista di autobus del tutto qualunquista: votava per gli amici. Una volta, da piccolo, mi portò nella cabina elettorale e fece decidere a me dove fare la croce. Mia madre non pensava alla politica ed è morta quando avevo quattordici anni”. Lei si è iscritto al Msi subito dopo. Quanto ha contato questo lutto nella sua scelta politica? “È un’associazione a cui non avevo pensato. Probabilmente ho cercato un altro calore. Con la morte di mia madre avevo perso l’amica, la sorella, la confidente. Forse il partito ha riempito in parte quel vuoto”. Come è stata in seguito la sua vita di adolescente? “Ho imparato a cucinare, lavare, stirare, per prendermi cura di mio padre. Avevo lasciato gli studi, ma poi mi sono diplomato da privatista alla Scuola agraria. Più tardi mi sono mantenuto all’università lavorando presso uno studio legale. Un giorno l’avvocato mi dice: “Sei licenziato, tu non sei fatto per guadagnare 40 mila lire al mese”“. Tutto sommato, un complimento. “Forse sì, comunque uno stimolo a fare altro. Ho scritto per diversi giornali locali, ho condotto il telegiornale di una tv privata legata al partito, dove non leggevo le notizie ma le commentavo a modo mio. Ne ho guadagnato in popolarità e sono stato eletto facilmente nel consiglio comunale di Militello. Poi mi sono innamorato di mia moglie intorno al tavolo dove si impaginava il rotocalco per cui entrambi lavoravamo. Lei faceva la grafica, ma era anche la figlia dell’editore, che mi disse: “Non posso consentire che mia figlia si prenda un fascista squattrinato”“. Questo invece ha l’aria di un doppio insulto. “Infatti lo era, ma noi abbiamo tenuto duro, ci siamo sposati, abbiamo avuto tre figli e il matrimonio è andato bene per venticinque anni.” E poi? “E poi, come si sa, la politica qualche volta unisce i popoli, ma spesso divide le famiglie”. Presidente, mi permette di chiederle qualcosa anche sulla tragedia che l’ha travolta cinque anni fa: la morte di suo figlio Giuseppe? “La prego no, non ce la faccio. Mi sono rialzato e la politica è stato il mio grande sostegno”. Mi parli allora degli altri due suoi ragazzi. “Volentieri. Salvo è tornato da Londra dopo la morte del fratello per starmi vicino ed ora si occupa di case vacanza e dell’azienda agricola con il giardino di aranci che mi ha lasciato mio padre. Giorgio fa l’attore a Roma”. Lo dice come se non fosse un vero lavoro. “Sognavo un figlio avvocato penalista e fatico a vederlo attore. Ha avuto già qualche ruolo, ma in quegli ambienti ci vuole un pizzico di accreditamento. E io non farò mai una telefonata per aiutare un figlio. Ora si è sposato, per fortuna con un’insegnante di lettere che ha un lavoro stabile”. E lei? Ha una nuova vita sentimentale dopo la separazione? “No, mia moglie è rimasta l’unica donna della mia vita. Io la penso come Alberto Sordi, che diceva: “Non riesco a stare a casa con un’estranea”“. Torniamo alla politica. Lei è governatore della Sicilia da quasi un anno e aveva promesso di farla diventare bellissima. Pensa di riuscirci? “L’isola è già esteticamente bellissima. Io voglio darle una bellezza etica, una rigenerazione morale e culturale. È un processo che la politica può soltanto guidare cercando di coinvolgere la gente. Ma noi siciliani abbiamo un nemico atavico più potente della mafia: la rassegnazione. Se pensa che nella nostra lingua non esiste la coniugazione al futuro, capisce tutto”. Come pensa di combattere questo immobilismo? “Ho il grande vantaggio di aver deciso di non candidarmi più. Quindi oggi posso scegliere soltanto quello che mi sembra giusto e dire tutti i no che mi servono”. Che cosa farà senza la politica, che è il suo mondo da cinquant’anni? “Non ci sono solo le elezioni. Mi occuperò dei nostri giovani, che oggi sembrano tutti ricoverati in un orfanotrofio della politica, senza padri, senza riferimenti. Voglio essere la guida di una nuova generazione di siciliani”. Stati Uniti. Il problema con il carcere di Trump è un maxi-sciopero dei detenuti di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 agosto 2018 Tre settimane di proteste contro sovraffollamento, lavoro sottopagato, violenze e difficili condizioni di vita. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non ha solo problemi con la giustizia, ma anche col carcere. Non il suo, ma dell’intera nazione. Da martedì scorso, infatti, è in corso ciò che viene considerato il più grande sciopero dei detenuti nella storia americana. Durerà quasi tre settimane, fino al 9 settembre, e coinvolgerà migliaia di detenuti sparsi nelle strutture penitenziarie di almeno 17 Stati. Protestano per le difficili condizioni di detenzione, le violenze negli istituti di pena, il sovraffollamento carcerario, il lavoro sottopagato: situazione che definiscono “una moderna forma di schiavitù”. La manifestazione di dissenso, che si sta concretizzando nell’astensione dei detenuti dal lavoro assegnato in carcere, sit-in e scioperi della fame, è stata promossa dal collettivo Jailhouse Lawyers Speak (Jls) in risposta alla morte di sette prigionieri avvenuta durante una rivolta dello scorso aprile nel carcere della Carolina del Sud e che scosse l’intero paese. I detenuti hanno rilasciato un comunicato con la lista delle loro dieci richieste: da “l’immediato miglioramento delle condizioni di detenzione e la promozione di politiche che riconoscano l’umanità delle persone incarcerate”, al riconoscimento del diritto per ogni detenuto di essere pagato come ogni cittadino libero per il lavoro svolto durante la detenzione; dalla fine delle discriminazioni razziali all’interno dei penitenziari all’abolizione dell’istituto dell’ergastolo senza condizionale, considerato alla stregua di una “pena di morte”; fino ad arrivare all’istituzione di maggiori programmi di rieducazione per i condannati. Il lavoro sottopagato è tra i temi centrali della protesta dei detenuti. La questione ha acquistato rilevanza nazionale soprattutto in occasione dei terribili incendi che a fine luglio hanno devastato la California (spingendo il presidente Trump a dichiarare lo stato d’emergenza), quando venne rivelato che molti dei volontari che stavano rischiando la propria vita per contrastare le fiamme erano detenuti provenienti dagli istituti penitenziari, che venivano pagati la miseria di un dollaro l’ora. “I detenuti costituiscono una forza lavoro straordinariamente vulnerabile”, ha dichiarato alla Bbc David Fathi, direttore del Progetto carcerario nazionale dell’American Civil Liberties Union (Aclu). “I detenuti non sono protetti dalle leggi sulla salute e la sicurezza sul lavoro che proteggono tutti gli altri lavoratori: se si infortunano o rimangono uccisi sul posto di lavoro, nella maggior parte degli stati non è previsto alcun risarcimento. Tutto ciò crea una situazione in cui i controlli tradizionali sui possibili sfruttamenti e abusi da parte dei datori di lavoro semplicemente non avvengono”. Fathi ha anche raccontato che in California molti prigionieri sono rimasti uccisi mentre erano sul posto di lavoro, sottolineando quanto sia importante “assicurare che coloro che lavorano lo facciano volontariamente”. Lo sciopero ha anche una forte valenza simbolica che rischia di alimentare nuovamente le tensioni razziali: è cominciato il 21 agosto, a 47 anni dall’uccisione dell’attivista per i diritti degli afroamericani George Jackson nella prigione di San Quentin, in California, e terminerà il 9 settembre, anniversario della rivolta di massa da parte dei detenuti che, sempre nel 1971, esplose nel carcere di Attica, proprio in seguito all’uccisione di Jackson, lasciando 39 vittime. Riemerge attraverso la protesta, così, una delle più grandi contraddizioni della società americana, che detiene il record mondiale di persone incarcerate: circa 2,3 milioni, di cui oltre mezzo milione ancora in attesa di giudizio. Ne risulta il tasso di detenzione più alto al mondo: 716 persone detenute ogni 100.000 abitanti, quasi 5 volte il tasso registrato nei paesi del Consiglio d’Europa. Turchia. Decine di arresti al raduno delle madri dei desaparecidos turchi di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 26 agosto 2018 Lacrimogeni e proiettili di gomma contro l’iniziativa, giunta al 700° appuntamento. Quasi 800 i civili scomparsi tra il 1992 e il 1996, nelle mani di esercito e polizia. La polizia turca ha brutalmente attaccato con gas lacrimogeni e proiettili di plastica i manifestanti dell’iniziativa Madri del Sabato, riuniti per la 700° volta ieri a Galatasaray, nel cuore storico di Istanbul. L’iniziativa prende il nome dalla presenza di numerose madri di persone scomparse nei durissimi anni ‘90, epoca di repressione in Turchia, in particolare nel sud-est curdo sottoposto a perenne stato di emergenza e teatro di operazioni militari su larga scala. Gli attivisti si ritrovano ogni sabato in piazza Galatasaray e siedono a terra, reggendo in mano cartelli con le foto di tutti quei parenti e amici svaniti nel nulla mentre erano in custodia delle forze dell’ordine. Chiedono alle autorità che venga fatta chiarezza e giustizia sulla sorte dei loro cari, talvolta semplicemente che sia restituito il corpo del loro caro. Ma ieri la polizia ha arrestato decine di manifestanti, anche di età veneranda, inclusi numerosi giornalisti. Tra questi Faruk Eren, presidente del sindacato dei giornalisti Disk: manette alle mani, Eren ha dichiarato alla polizia di “cercare suo fratello”, Hayrettin Eren, scomparso il 21 novembre 1980 dopo essere stato fermato dalla polizia. Presenti tra i manifestanti anche i deputati Hdp Garo Paylan, Huda Kaya e Ahmet Sik, che ha affrontato gli ufficiali di polizia e cercato di impedire gli arresti. Le persone arrestate sono state prima trasferite in ospedale per gli esami di rito e poi interrogati dagli ufficiali di polizia, prima di essere rilasciati nelle tarde ore della giornata. Il primo raduno delle Madri del Sabato fu tenuto il 27 maggio 1995. Proseguì ogni settimana fino al 1999, quando la violenza della polizia e gli arresti continui dei partecipanti imposero un’interruzione lunga dieci anni, fino al 31 gennaio 2009, anno in cui i sit-in poterono riprendere. Centinaia di persone (792 secondo l’Associazione turca per i diritti umani Ihd) furono arrestate tra il 1992 e il 1996, fagocitate dalla macchina repressiva dello Stato, spesso senza lasciare più traccia. Ieri le autorità sono tornate ai metodi di 20 anni fa. Il governatore di Istanbul aveva disposto il bando della manifestazione, adducendo i soliti motivi di sicurezza pubblica, ormai una costante dal 2015. Gli organizzatori non si erano lasciati intimidire e avevano risposto attraverso il proprio profilo Twitter: “Ci siamo seduti in questa piazza, in ogni contesto, per 699 volte. Ci siederemo anche questa settimana”. L’iniziativa aveva avuto particolare risonanza anche grazie alla campagna Twitter lanciata attraverso l’hashtag #BeniBulAnne (TrovamiMamma), con grande partecipazione nella rete e sui circuiti dell’informazione alternativa turca. Per l’occasione, il regista turco Alper Kizilboga aveva sbloccato sulla piattaforma Vimeo la visione del suo cortometraggio Cumartesi Dusu, dedicato alla storia di una delle Madri del Sabato. Tra gli obiettivi dell’organizzazione non ci sono soltanto ricordare i propri cari e rivendicare giustizia in loro nome: l’obiettivo è diffondere nella società la consapevolezza delle conseguenze del militarismo e della violenza di Stato in Turchia. Si chiede l’apertura al pubblico degli archivi di Stato, per far luce sulle centinaia di sparizioni attribuite alle forze militari e di polizia. Si fa pressione per favorire l’introduzione di cambiamenti alla legislazione penale turca in tema di omicidi e sequestri politici. Si chiede infine che il paese ratifichi la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. Fuga in massa dal Venezuela: “è come nel Mediterraneo” di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 26 agosto 2018 A piedi verso Sud per migliaia di chilometri. Il Perù blinda la frontiera Allarme dell’Onu. Negli ultimi 15 mesi, oltre un milione di migranti in Colombia. Fuggono con un borsone sottobraccio, un paio di felpe indossate una sopra l’altra, a volte un trolley per portar via un pezzo della propria casa, un pezzo di sé. Il resto rimane indietro, in Venezuela. A volte anche i figli. L’Onu stima che 2,3 milioni di venezuelani abbiano lasciato il Paese per sfuggire alla miseria. E l’esodo è sempre più impetuoso: negli ultimi 15 mesi in Colombia sono entrati oltre un milione di migranti, ogni giorno ne arrivano più di quattromila al confine con l’Ecuador e poi, dopo viaggi di settimane a piedi o in autostop, fino al Perù, il cui governo attende nelle prossime settimane l’afflusso di oltre 100.000 rifugiati, che porterebbe il numero complessivo nel Paese ad oltre mezzo milione. Il Venezuela un tempo attirava con le sue ricchezze minerarie uomini e donne dei Paesi vicini, ora la storia s’è capovolta. Centinaia di migliaia di venezuelani, impoveriti dal crollo del prezzo del petrolio che il regime di Nicolás Maduro non ha saputo governare, bussano ai confini, disposti a lavorare per salari da fame. I valichi del Sudamerica cominciano però a chiudersi. Il Brasile ha schierato l’esercito nello stato di Roraima, l’Ecuador ha iniziato a respingere chi si presentava solo con la carta d’identità, subito seguito dal Perù. Da ieri frontiere blindate salvo a chi è in possesso del passaporto, che in Venezuela è una sorta di chimera. Per ottenerlo ci vogliono mesi e, soprattutto, 280 dollari: cifra insostenibile per gran parte dei venezuelani, benché quasi la metà dei fuggiaschi sia diplomato o laureato, fra di loro anche tanti medici e professori. Sul ponte Simón Bolívar, porta d’ingresso alla Colombia, si registrano oltre 100.000 passaggi al giorno, quasi tutti in uscita dallo Stato-caserma di Maduro. La maggioranza si ferma, molti proseguono il viaggio verso gli altopiani andini, sfidando il freddo delle notti invernali. Le mete più ambite sono il Perù, l’economia più dinamica della regione con una crescita che supera il 4%, l’Argentina o il Cile. Alla frontiera di Tulcán, tra Colombia e Ecuador, arrivano quasi tutti a piedi, dopo aver marciato per migliaia di chilometri. Pochissimi hanno i soldi per un autobus. Qualcuno si fa dare uno strappo da un autista. Come Francisco che ha visto quella bambina addormentata sul marciapiede e l’ha accompagnata, assieme ai genitori, fino al confine, prima che entrasse in vigore la legge del passaporto. Poi è tornato indietro: in una mattinata, ha fatto undici viaggi. Per facilitare il passaggio verso sud, venerdì l’Ecuador ha sospeso l’obbligo del passaporto e ha organizzato decine di bus-navetta fino al valico di Tumbes, suscitando qualche malumore nel governo di Lima. Martedì prossimo i tre Paesi più coinvolti terranno un vertice di emergenza. “Abbiamo la necessità di coordinare le nostre politiche per affrontare insieme questo fenomeno senza precedenti”, ha dichiarato Christian Kruger, responsabile dell’Agenzia per le migrazioni in Colombia. Il 17 e 18 settembre, invece, su invito dell’Ecuador, si riuniranno i ministri degli Esteri di quattordici Paesi latinoamericani, assieme ai rappresentanti dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, e dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, il cui rappresentante, Joel Millman, ha dichiarato: “È una crisi che abbiamo già visto in altre parti del mondo, in particolare nel Mediterraneo”. Come in Mediterraneo, l’esodo non si fermerà facilmente. Le riforme di Maduro non risolleveranno un’economia in agonia da cinque anni: dal 2013 ad oggi l’economia venezuelana — il Paese con le maggiori risorse petrolifere del mondo — si è contratta del 40 per cento e nel 2018, secondo la Cepal (Commissione economica dell’Onu), il Pil crollerà ancora del 12 per cento, nonostante il prezzo del petrolio greggio venezuelano (che fornisce il 96 per cento delle entrate nazionali) abbia registrato una lieve crescita. L’industria ormai opera al 30 per cento, l’inflazione secondo il Fondo monetario internazionale raggiungerà il milione per cento a fine anno. In un ristorante di Rumichaca, paesino di frontiera fra Colombia e Ecuador, ormai assediato dai migranti, s’incollano sui muri le banconote bolivares che ormai valgono niente, con varie scritte contro Maduro, “el huevòn” (la traduzione meno volgare è “idiota”). Siria. L’apertura ad Assad non cancelli i suoi crimini di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 26 agosto 2018 Seppur obtorto collo, dobbiamo ammettere che ha buoni motivi l’ex presidente americano Jimmy Carter nel sostenere la necessità che anche le potenze occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, sdoganino la politica del dialogo con la dittatura siriana. Il vecchio slogan “Bashar Assad deve andarsene”, cresciuto con la repressione contro le rivolte della popolazione siriana già alla fine del 2011 e poi con il ricorso alle armi chimiche, non solo è stato superato dalla vittoria contro i rivoltosi, ma soprattutto esclude l’Occidente dalla fase della ricostruzione lasciando campo libero a Russia e Iran. Inoltre, la carenza di aiuti umanitari e la mancanza di cooperazione economica prolungano povertà e sofferenze tra i civili. Tuttavia, l’urgenza pragmatica del dialogo non può far dimenticare ciò che è accaduto in Siria negli ultimi sette anni. In primo luogo, Assad e la sua nomenclatura corrotta e nepotista, legata a fido Le ragioni di Carter L’urgenza dell’aiuto alla popolazione non deve cancellare abusi e torture doppio agli alawiti e le altre minoranze (tra cui quella cristiana), sono rimasti in piedi unicamente grazie al sostegno militare ed economico di Mosca e Teheran. Senza di loro già nel 2o13-1.4 il regime sarebbe rovinosamente caduto. Questi resta dunque largamente impopolare tra la maggioranza sannita. Lo provano i milioni di profughi ancora in Turchia, Giordania, Libano ed Europa. Molti di loro non tornano a casa anche perché temono le vendette, le torture, i desaparecidos. Sotto la copertura ipocrita della “normalizzazione” trionfa il regno della paura. Va aggiunta la verità scomoda (per Assad) della strumentalizzazione degli estremisti islamici e dello stesso Isis per eliminare con brutalità metodica le opposizioni moderate e democratiche. Uno dei grandi successi del regime è stato reclutare i jihadisti in modo da elidere qualsiasi partito che potesse raccogliere l’aiuto e le simpatie delle democrazie occidentali. Oggi l’alternativa resta tra Assad e il caos. Ma solo tenendo a mente tutto ciò e con l’intento di cambiarlo potremo contribuire alla ricostruzione. Reporter senza frontiere: liberare giornalisti detenuti in Bahrein Reuters, 26 agosto 2018 L’organizzazione internazionale ha chiesto il rilascio dell’attivista per i diritti umani Nabil Rajab e di 16 giornalisti detenuti dal regime del Bahrein. L’organizzazione internazionale “Reporters without borders” ha chiesto il rilascio dell’attivista per i diritti umani Nabil Rajab e di altri 16 giornalisti detenuti dal regime del Bahrein. Reporter senza frontiere condannando l’arresto di Nabil Rajab,tramite un comunicato pubblicato sul proprio account Twitter,ha dichiarato: “Nabil Rajab è stato arrestato 6 mesi fa e condannato a cinque anni di prigione per il solo motivo di aver pubblicato dei post su Twitter,dopo che aveva appena finito di scontare un’altra pena di due anni”. L’ente internazionale ricordando anche la condanna da parte dell’Onu circa l’arresto di Rajab, ha chiesto l’immediato rilascio dell’attivista per i diritti umani. Nabil Rajab è stato condannato quest’estate a cinque anni di prigionia con l’accusa di aver criticato l’atteggiamento delle autorità del Bahrein circa la guerra in Yemen e la situazione dei diritti umani nel paese. Nel 2016 Rajab aveva subito un’altra condanna di due anni.