Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti è a rischio di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2018 Gentili lettori, gentili amici di Ristretti Orizzonti, vi dobbiamo prima di tutto delle scuse per il ritardo con cui state ricevendo la nostra rivista (e comunque vi garantiamo che riceverete tutti i sette numeri previsti dall’abbonamento). Non era mai successo, in vent’anni di vita di Ristretti, un simile ritardo, e forse è il caso che ve ne spieghiamo le ragioni. A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni, a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto. Con l’obiettivo di togliere a Ristretti quella fondamentale funzione di “pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, che non è una nostra definizione, sono le parole di Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Per prima cosa purtroppo dobbiamo spiegare che questo “ridimensionamento” di attività, che ci hanno meritato la stima e l’apprezzamento di tanti in questi anni, per noi significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi in progetti importanti come quello di confronto tra le scuole e il carcere, Avvocato di strada, la preziosa Rassegna Stampa quotidiana che voi tutti conoscete, lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, un servizio che mettiamo a disposizione di tutte le persone detenute, aiutando così il lavoro degli operatori dell’Amministrazione, ma il rischio è anche maggiore, è quello di non farcela a sopravvivere e di dover chiudere l’esperienza di Ristretti, e non perché non funziona più, tutt’altro, ma perché qualcuno ha deciso che non gli piace e che va drasticamente ridimensionata. Qualche esempio di “ridimensionamento”? La Casa di reclusione di Padova è diventata in questi ultimi quindici anni un luogo da cui si fa davvero prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio. Protagonisti di questi percorsi sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione. E poi c’è il Comune di Padova, che crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. E c’era la Direzione della Casa di reclusione, che credeva all’efficacia di un progetto con al centro le storie di vita dei detenuti, e metteva al primo posto non la “visibilità” del carcere, ma il futuro dei ragazzi e quello che è più utile per fare con loro prevenzione. Ma oggi c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Insegnanti e dirigenti scolastici, invitati dal Direttore della Casa di reclusione il 28 giugno a esprimere la loro opinione, hanno affermato con convinzione che il senso di questa esperienza di conoscenza del carcere, che fanno i giovani studenti, sta soprattutto nei racconti di vita delle persone detenute, nel loro mettere a disposizione di questo progetto le loro storie perché i ragazzi capiscano dove nascono le scelte sbagliate, lo scivolamento in comportamenti pericolosamente trasgressivi, la voglia di imporsi con metodi violenti, che a volte inizia proprio negli anni della scuola. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente all’incontro, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo, importante e significativo, per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentire di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male. - Sette mesi ci abbiamo messo per ottenere di far venire qualche detenuto nuovo in redazione, eravamo rimasti in otto (grazie a Dio, qualcuno esce, in semilibertà, in affidamento, a fine pena, e qualcuno viene trasferito), c’erano moltissime richieste ed è stato lungo e faticoso il percorso per ricostruire Ristretti Orizzonti, ma quello che è più faticoso è far riconoscere il valore di quella minima autonomia della redazione nell’organizzare il proprio lavoro, scegliendo i temi da trattare, gli ospiti da invitare, le iniziative da organizzare. Quello che vorremmo è semplicemente avere ospite in redazione anche il nuovo direttore, e poterci confrontare su una idea di carcere, in cui le persone detenute abbiano spazi significativi di libertà e di decisione, e non vivano più la condizione per cui se qualcosa gli viene dato, si tratta sempre di una “concessione”, di un beneficio, di un “regalo”. - La rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate, di recente anche a Sollicciano, era stata approvata dal precedente direttore, su proposta di Ristretti, anche per Padova, c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge (ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?). E subito dopo la nuova Direzione ha dato vita a una “rappresentanza per estrazione” (che neppure dovrebbe essere chiamata rappresentanza) di 20 detenuti, che non si capisce dove trovi la sua legittimazione nella legge (che allora, a voler essere precisi, prevede solo l’estrazione di rappresentanti in diverse commissioni, e non di rappresentanti di sezione). Uno strumento di autentica democrazia è stato bocciato, come se invece di un serio lavoro per preparare le persone detenute a occuparsi degli interessi di tutti, si trattasse di fare le elezioni del Presidente degli Stati Uniti e mettere in piedi una gigantesca macchina elettorale. - E ancora, ci è stato comunicato con un brevissimo messaggio della Direzione che il progetto Mai dire mail, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori, tutor universitari, e per il quale attendiamo da mesi una risposta sul rinnovo della convenzione che abbiamo sottoscritto con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Provveditorato, veniva sospeso dall’1 agosto, proprio per una serie di obiezioni sollevate dal Provveditore stesso, a cui abbiamo puntualmente risposto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per confrontarci e cercare di evitare questa sospensione, dannosa per le persone detenute, per le loro famiglie e anche per l’Amministrazione stessa, ma si è preferita la strada di bloccare il servizio. Quello che chiediamo è che Mai dire mail possa continuare, visto che niente è cambiato dall’autorizzazione che ha dato l’Amministrazione, soprattutto in un periodo delicato come questo, in cui il clima pesante che si respira nelle carceri rende ancora più importante il supporto esterno di famigliari e amici. Allora, in un momento così difficile per noi, ma anche per tutto il mondo che gravita intorno alle carceri, con il sovraffollamento sempre più a livelli di guardia, e la perdita di tante speranze, legate alla mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e i suicidi che in questi giorni riempiono le cronache, vi chiediamo di sostenerci, di appoggiare le nostre battaglie, di CREDERE NEL NOSTRO GIORNALE E ABBONARVI, nonostante i ritardi, nonostante la stanchezza che riempie tutti noi, che abbiamo creduto nel cambiamento e ci ritroviamo invece a fare pesanti passi indietro e a dover difendere con le unghie e con i denti anche le poche conquiste di questi anni. *Redazione di Ristretti Orizzonti In arrivo 1.000 braccialetti al mese elettronici per i detenuti domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2018 Da ottobre inizieranno ad arrivare i braccialetti elettronici che permetteranno ai magistrati di sorveglianza di utilizzarli per i detenuti che sono nella condizione giuridica di essere scarcerati. Presto i magistrati di sorveglianza avranno lo strumento per poter ridurre il sovraffollamento. Fastweb fornirà, infatti, 1.000 braccialetti elettronici al mese fino a un surplus del 20 per cento, con i relativi servizi di assistenza e manutenzione per 36 mesi. Il servizio partirà però dal mese di ottobre, “questo per consentire alle Forze dell’Ordine - spiega Fastweb a Il Dubbio - di completare i corsi di formazione previsti nel corso del mese di settembre per la gestione dei braccialetti che verranno assegnati in base alle indicazioni dei magistrati che disporranno i relativi provvedimenti di limitazione della libertà”. Parliamo della gara di appalto a normativa Europea vinta l’anno scorso dalla compagnia telefonica in tandem con l’azienda Vitrociset. Una fornitura più che necessaria visto l’esaurimento dei duemila braccialetti che erano disponibili in tutta la penisola. Molte persone sono in lista d’attesa, ma per molte altre i giudici nemmeno autorizzano i domiciliari, poiché verificano preventivamente l’indisponibilità del prodotto. A ottobre, quindi, non ci saranno più scuse e potenzialmente ci sono 21.807 detenuti che potrebbero accedere alle misure alternative come la detenzione domiciliari. Perché? A differenza del luogo comune che in carcere non si va a scontare nemmeno un giorno, i dati reali dicono tutt’altro e sono disponibili sul sito del ministero della Giustizia. Al 30 giugno del 2018 sono ben 8.487 i detenuti che devono scontare da 1 giorno a 1 anno; 7.504 quelli che hanno una pena residua tra 1 anno e due anni. Se includiamo anche coloro che devono scontare una pena residua tra due e tre anni, dobbiamo aggiungerne altri 5.816: ed è qui che arriviamo alla cifra di 21.807 detenuti che potrebbero scontare misure alternative. Con la fornitura di 1000 braccialetti elettronici, si potrebbe quindi ridurre notevolmente il sovraffollamento, soprattutto pescando tra quei detenuti che devono scontare pochi mesi. Di questo ha parlato anche l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini durante un incontro, assieme a Sergio D’Elia di Nessuno tocchi Caino, con il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. “Abbiamo parlato soprattutto di quei detenuti - spiega Rita Bernardini - che si ritrovano a scontare una pena breve e molto spesso antica nel tempo se pensiamo a quelli che per un reato commesso anni e anni prima, devono scontare una pena residua con il rischio di perdere il lavoro visto che nel frattempo si sono riabilitati”. Il capo del Dap ha dimostrato molto interesse per quanto riguarda l’utilizzo delle pene alternative per questi casi e ha intenzione di proseguire questo dialogo con il Partito Radicale, indiscusso conoscitore delle criticità del sistema penitenziario. “Se fossero disponibili i braccialetti elettronici - sottolinea sempre Rita Bernardini - i magistrati di sorveglianza si sentirebbero più sicuri per concedere misure alternative”. Infatti di sicurezza sociale si parla. Il braccialetto elettronico, previsto dall’art. 275 bis comma 1 del codice di procedura penale, si applica alla caviglia del detenuto. A spiegare il funzionamento è Fastweb. La compagnia telefonica provvederà a fornire l’intera infrastruttura per il collegamento e il controllo a distanza dei dispositivi, installando presso le abitazioni delle persone sottoposte agli arresti domiciliari le centraline (base station) collegate al Centro elettronico di monitoraggio che segnalano alle centrali delle Forze dell’Ordine l’eventuale allontanamento della persona soggetta a provvedimento restrittivo dal raggio di copertura. Il ricorso al braccialetto elettronico serve, quindi, non solo a sfoltire le carceri dai detenuti per pene brevi e di lieve entità, ma è utile anche alle forze di polizia che possono evitare di impegnare il personale per visitare e controllare giornalmente i detenuti ammessi a fruire di misure detentive domiciliari. Una necessità visto che il numero del sovraffollamento è in crescente aumento. “Se vediamo i resoconti regione per regione - spiega Rita Bernardini - i numeri sono impressionanti, il sovraffollamento è un problema non rinviabile perché determina delle condizioni disumane e degradanti”. Anche per questo, il Partito Radicale intende interloquire con le istituzioni come il Dap e anche, prossimamente, chiedere un incontro con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Nel frattempo ridurre il sovraffollamento è possibile, applicando le leggi esistenti. Con il decreto legge n. 92 del 28.6.2014 e la successiva legge 16.4.2015 n. 47 è stata rivoluzionata la custodia cautelare sia per sfoltire le carceri che per evitare le sanzioni minacciate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Si è stabilito che non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Non può, altresì, applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni. Abbiamo visto che attualmente ci sono oltre 21mila detenuti in carcere con pena di pochi giorni fino a un massimo di 3 anni. Tutti soggetti che potenzialmente hanno il diritto alle misure alternative. I braccialetti elettronici danno ai magistrati di sorveglianza uno strumento in più per concederle. Ma non solo. Il nuovo contratto stipulato con Fastweb prevede la possibilità di utilizzare il braccialetto anche in funzione anti- stalking: l’autorità giudiziaria potrà imporre allo stalker l’obbligo di portare un braccialetto elettronico dotato di dispositivo Gps, mentre la potenziale vittima sarà dotata di apparecchio in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze e di generare in tempo reale una segnalazione di allarme verso le Forze dell’Ordine. I dispositivi permettono di tracciare costantemente la posizione del molestatore e notificano immediatamente al Centro di controllo la violazione di una delle zone di sicurezza attorno alla vittima. Esiste inoltre la possibilità di contattare la persona in regime interdittivo per verificarne le intenzioni e dissuaderla. La vittima dello stalker, d’altro canto, è dotata di un dispositivo portatile nel quale è presente un bottone di allarme che attiva anche la chiamata diretta con l’operatore, tale dispositivo può essere chiamato dall’operatore stesso. In Spagna, dove tale scenario esiste già dal 2009, a fronte di una crescita costante delle denunce per violenza domestica, la diminuzione degli omicidi legati alla violenza di genere nella Comunità Autonoma di Madrid è stato pari al 33,33% (da sei a quattro) rispetto all’andamento nazionale che ha registrato un calo del 18,75%. Dal 2009 sono stati confermati i successi della prima sperimentazione: nessuna delle vittime sottoposta a controllo elettronico è stata nuovamente oggetto di violenza. Braccialetti e scarcerazioni: questa è la prima riforma di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 agosto 2018 Questa dei braccialetti potrebbe essere, di fatto, la prima riforma importante del nuovo governo. Anche se le leggi e gli accordi che la permetteranno, in realtà, sono stati ratificanti dai governi di centrosinistra. Non cambia molto, quel che conta è il risultato. E se le cose andranno come devono andare, e se la magistratura collaborerà, da ottobre sarà possibile iniziare il rilascio di circa 20 mila detenuti, senza che questa operazione, in nessun modo, metta in crisi la sicurezza. Capite bene che è un’opera quasi rivoluzionaria, che potrà alleviare molto, o risolvere, tra gli altri, i problemi del sovraffollamento. Soprattutto potrà mettere all’ordine del giorno una questione più grande, che non c’entra con il sovraffollamento. Quella delle pene alternative. Recentemente questo tema, che in genere è riservato solo ai garantisti a 24 carati, è stato sollevato anche da parti politiche insospettabili. Per esempio dallo stesso Beppe Grillo e dal Presidente della Camera Roberto Fico. Che sono in contrasto, evidentemente, con la parte prevalente del loro movimento, ma che comunque ne rappresentano un’anima, un’anima viva. La riforma dei braccialetti può diventare l’occasione per riaprire il dibattito. Uscendo dalla strettoia della cosiddetta “certezza della pena”. Quella è una formula puramente propagandistica, che serve a dare l’impressione che in Italia vince l’impunità. Che prevale una magistratura anarchica che libera i criminali arrestati dalla polizia. Non è così. Il problema casomai è l’opposto. E cioè è l’eccesso di carcerazione preventiva, che di per sé è una pena, spesso una pena estremamente afflittiva, ma dove però quello che manca è la colpa, o perlomeno la certezza della colpa. Per il resto il problema non esiste: la certezza della pena c’è sempre stata, nel rispetto delle leggi che prevedono flessibilità e premialità. Se bisogna discutere delle pene, la discussione è un’altra: sono adeguate? Vanno riformate? È necessario ricalibralre? (Io credo di si, che sia necessario ricalibrarle, soprattutto perché, almeno per alcuni reati, sono molto alte. Però non sono sicuro che questa mia posizione sia perfettamente in linea con chi chiede certezza della pena…) Quello che invece è ancora molto indietro è il tentativo di realizzare, nel rispetto della pena (e quindi anche della sua certezza) un sistema che non riduca la pena a una cosa che si può realizzare solo con la detenzione. È appunto la questione delle pene alternative. Quali sono gli argomenti che di solito si usano contro le pene alternative? Sono solo due. Il primo è di tipo - per così dire - vendicativo. In sostanza la richiesta di punizione esemplare per chi sbaglia. Il secondo è di tipo securitario: anticipare la liberazione dei detenuti mette a rischio la sicurezza e comporta un aumento dei reati? Il primo argomento è difficile da smontare. È una questione di sensibilità e di civiltà. La civiltà moderna, da molti anni, ha superato sia il principio della ferocia, sia quello del “risarcimento”. La pena, nella civiltà giuridica occidentale, non è risarcimento della vittima, ma misura di applicazione del diritto. Il senso comune, negli ultimi anni, però - alimentato da un sistema dell’informazione, e anche da un sistema politico che mostra una ostilità crescente per il diritto va in direzione contraria. Non sarà facile invertire la direzione di marcia del senso comune. Specialmente nella attuale condizione dell’Italia, che è del tutto priva di quella che una volta si chiamava l’intellettualità, e che aveva un peso determinante nella società civile e dunque nella formazione dello spirito pubblico. Il secondo argomento è più ragionevole ed è tecnico. La risposta è altrettanto tecnica. Si fonda su due elementi. Il primo è statistico e dice che il grado di recidività negli ex detenuti che hanno goduto delle misure alternative è molto molto inferiore al grado di recidività di coloro che non ne hanno goduto. Il secondo è, per così dire, tecnologico. I braccialetti permettono un controllo sicurissimo degli spostamenti dei detenuti ai domiciliari. E oltretutto permettono a centinaia di carabinieri e poliziotti di non occuparsi più del loro controllo e di occuparsi di altro. Siamo nel 2018. La tecnologia negli ultimi 15 anni ha fatto passi da gigante. È assurdo non utilizzarla nel campo della sicurezza, e anche nella gestione delle pene. I populisti senza più complessi di Federico Fubini Corriere della Sera, 25 agosto 2018 Salvini e Di Maio hanno risposte sbagliate ma domande giuste. E sollevano l’elettore dal senso di inferiorità di doversi adattare a un modello superiore. Quando tre anni fa gli elettori in Polonia affidarono ai nazional-populisti di Legge e giustizia la maggioranza più netta mai vista dal 1989, Adam Michnik commentò: “A volte una bella donna perde la testa e va a letto con un bastardo”. Da giovane Michnik aveva affrontato le carceri del regime, pur di conservare viva per la società polacca la speranza di un futuro europeo e di una società aperta. Invece quella, una volta libera, si era buttata fra le braccia di un provinciale bigotto, aggressivo e strafottente. Oltretutto non per un’avventura passeggera, ma per lo meno per una lunga convivenza. Tutto questo con l’Italia non ha niente a che fare, non fosse che Michnik e le tradizionali élite europeiste del nostro Paese oggi sembrano accomunate da un’ironia della storia. Si sentono vittime di un intoppo lungo una strada che pensavano già segnata e senza alternative. In fondo va sempre così. I sovrani tedeschi nel 1791 si riunirono nel castello di Pillnitz in Prussia, racconta Tocqueville, e determinarono che la rivoluzione francese era “un incidente locale e passeggero”. E quando i bolscevichi presero il potere nel 1917, milioni di russi bianchi si trasferirono all’estero ma evitarono per anni di disfare le valigie. Contavano che le politiche economiche del leninismo avrebbero presto fatto crollare il nuovo regime e loro sarebbero tornati a casa. Anche le valigie di molti esponenti del mondo che ha governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo restano pronte in un angolo della loro mente. Quelli aspettano solo che l’infatuazione degli italiani per il “bastardo”, il governo giallo-verde, passi non appena quest’ultimo si sarà preso qualche multa di troppo a Bruxelles o sui mercati per guida in stato di ebrezza. Tutto può essere. Può essere anche che le ammende si accumulino ma l’infatuazione degli italiani per il governo populista si trasformi in rapporto stabile, mentre le valigie degli europeisti, emotivamente in esilio dal loro Paese, restano chiuse a coprirsi di polvere. Se esiste un’analogia oggi fra Polonia, Ungheria e Italia, i Paesi dell’Unione Europea a guida nazionalista e euroscettica, è nell’inanità delle opposizioni. Di comune queste forze europeiste e liberali hanno il rifiuto di chiedersi perché i connazionali gli abbiano voltato le spalle per affidarsi a leader ai loro occhi tanto smargiassi, poco istruiti e invisi ai grandi media esteri che quegli esponenti del vecchio establishment leggono ogni mattino. Credevano di guidare il proprio Paese verso un futuro migliore e non capiscono come sia possibile che il Paese non li voglia più. Eppure non dovrebbe essere difficile, se solo si voltassero un attimo indietro. Almeno dal Trattato di Maastricht nel 1991 il loro messaggio agli italiani è stato che dovevano cambiare e migliorarsi, diventare più simili alle stesse élite istruite. Dovevano sforzarsi di assomigliare ai tedeschi o agli altri europei di successo e buone maniere. Questo naturalmente aveva alle spalle (e conserva) una solida logica economica e istituzionale, però le élite europeiste nelle loro certezze non hanno mai perso tempo a valutare il retroterra su cui innestavano questa continua pressione psicologica sui loro connazionali. Nella società italiana, anche nei momenti di successo, il senso doloroso di rappresentare un’anomalia in Europa è sempre serpeggiato appena sotto la superficie. Anche quando non è un complesso di inferiorità - che le élite europeiste per prime avvertono - è un sentirsi non proprio come gli altri. Naturalmente la storia non si cancella con un tratto di penna, neanche se è una firma su un trattato europeo. Non in un Paese arrivato tardi all’unificazione, alla modernità industriale, alla piena democrazia e tolleranza, e tardi e male a un’idea di Stato efficiente e laico. La speranza era che proprio l’Europa aiutasse a recuperare il distacco e in gran parte è andata così. Appartenere alla Ue ha enormemente accelerato la modernizzazione, poi però sono accadute alcune cose. La più evidente è che la promessa di prosperità o almeno di normalità offerta dall’euro non è stata mantenuta. Poco importa che ciò sia accaduto, in buona parte, perché i politici e il sistema produttivo non hanno avuto il coraggio e la lungimiranza di prepararsi davvero all’unione monetaria, in modo da sfruttarne meglio i vantaggi e contenerne gli svantaggi. Dal 1980 al 1998 il valore della lira espresso in marchi tedeschi è più che dimezzato e ciò stesso dimostra quanto lavoro scomodo si sarebbe dovuto fare per adeguare davvero il Paese all’euro in questi vent’anni. Gli italiani hanno capito soprattutto la sostanza, cioè che quella promessa europea è stata disattesa. Come Nino Manfredi in “Pane e cioccolata”, hanno scoperto che non bastava camuffarsi da nordici per diventare davvero tali. Negli ultimi anni hanno anche visto che alcune delle richieste di sacrifici più dolorose arrivate dal Nord Europa non erano nel loro vero interesse o nell’interesse dell’equilibrio generale europeo. Piuttosto, riflettevano una percezione tedesca dell’interesse europeo o magari solo una sete di consenso interno del governo di Berlino. Questa pressione per somigliare alla Germania ha finito così per produrre reazioni ambivalenti. Rivelava nella nazione leader un fastidioso innamoramento di se stessa e finiva per aggravare il complesso di inferiorità nei seguaci italiani, dato che le distanze aumentavano anziché ridursi. Un modello distante e irraggiungibile crea solo frustrazione. Peggio, gli italiani vedono che i membri delle élite europeiste che spingevano in quel senso, per qualche ragione, cascano sempre in piedi; non condividono mai il destino di penuria e insicurezza del loro popolo. Matteo Salvini e Luigi Di Maio entrano in scena a questo punto. Non hanno studiato molto, non pretendono di sapere, si vantano del loro passato di lavoretti o della “panzetta” perché, dice Salvini, “non vado in palestra e se vedo un cornetto alla crema me lo magno”. Hanno risposte sbagliate, ma domande giuste (disoccupazione, disuguaglianza...). Perfetti nella loro ostentata medietà, liberi da complessi e dal desiderio di piacere in Europa, i due sollevano l’elettore dal senso di inferiorità di doversi adattare a un modello superiore. I nuovi potenti hanno convinto gli italiani che sono liberi; vanno bene così, nei loro limiti, e più niente è atteso da loro. È un’illusione, purtroppo, perché l’Italia resta una società iniqua, familista e bloccata, la demografia in drammatico declino, l’emigrazione dei giovani un’emorragia e soffocanti interessi sul debito più alti della crescita. L’Italia non va bene com’è. Ma abbracciare la propria anomalia senza sentirsi giudicati, per ora, è una tremenda vendetta. Ma l’ansia di punizione rischia di fare molti danni di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 25 agosto 2018 All’indomani della tragedia di Raganello, la cui ondata di pieno ha ucciso dieci persone, tra gli articoli dedicati alla vicenda era presente, in tutti i quotidiani, una riflessione volta ad individuare le responsabilità. Vi era stata una allerta meteo, diramata sin dal giorno precedente, e sarebbe stato prudente impedire l’accesso alle gole. La Procura della Repubblica competente ha, perciò, aperto un’indagine. E non si tratta, è bene dire subito, della condotta di un inquirente che aspira alla visibilità mediatica e che svolge il proprio ruolo con un inammissibile protagonismo. La realtà è che di fronte alla tragedia verificatasi, è opinione assolutamente comu- ne che debbano esservi responsabilità da perseguire penalmente. Occorre, tuttavia, chiedersi se analoga reazione vi sarebbe stata 30 o 40 anni fa. La risposta è no. La responsabilità dell’accaduto sarebbe stata attribuita alla decisione dei singoli di effettuare la gita e la dichiarazione di scarico di responsabilità firmata da coloro che si sono affidati alle guide sarebbe stata considerata del tutto superflua. Oggi quella dichiarazione di scarico di responsabilità è dubbio che possa avere una reale efficacia. Cosa è successo, allora, in questi 30/ 40 anni di così significativo da travolgere completamente i criteri della responsabilità e dell’autoresponsabilità? Quali fattori hanno inciso così profondamente sul sentire comune da modificare stabilmente la coscienza collettiva? Un aspetto che ha certamente influito su questo nuovo sentire è che le insicurezze, generate dalla combinazione di globalizzazione e reiterato verificarsi di disastri portati nella casa di ciascuno da un sistema di mezzi di comunicazione la cui efficacia e capillarità è cresciuta a dismisura, si sono risolte in una richiesta di maggiore protezione da parte dei soggetti sia pubblici e sia privati. Ad essa si accompagna, poi, una ansia di punizione come unico mezzo idoneo a dare certezze ed a placare la collettività impaurita, stordita e confusa. Del resto, se si pensa agli applausi, rivolti dalla folla presente ai funerali delle vittime di Genova ai rappresentanti del Governo, non si può non rilevare che si tratta del riconoscimento di aver bene interpretato il ruolo di difensori della collettività. Anche l’atteggiamento di coloro che hanno rifiutato i funerali di stato, in definitiva, è stato ispirato dall’idea che spetta allo stato la protezione dei cittadini, solo che per costoro il compito non è stato assolto. L’altro aspetto che certamente ha rilievo è un diffuso, anche se non infrequentemente errato, convincimento di una piena conoscenza e della disponibilità di un efficace potere di controllo da parte dell’uomo di qualsiasi fenomeno, anche naturale, possa verificarsi. Si ritiene che, quantomeno sul piano della previsione, qualsiasi evento sia fronteggiabile, con conseguente responsabilità di tutti i soggetti, pubblici e privati, che nella vicenda hanno avuto un ruolo. Il pensiero non può non andare a quei componenti di una commissione scientifica, cui fu imputato di non aver previsto il terremoto de L’Aquila. Si tratta di un fenomeno, la cui portata è talmente ampia e così profondamente penetrata nella coscienza collettiva da non potere, almeno in questa epoca storica, essere messo in discussione. Il che, tuttavia, non impedisce di denunciare i pericoli cui possono dare luogo gli eccessi. Il primo e più importante è che l’ansia di punizione si risolva nella individuazione di meri capri espiatori, secondo una logica di risposta all’esigenza di placare le ansie collettive, che ha numerosi e collaudati precedenti storici. La seconda è che i risultati ottenibili comodamente attraverso una analisi che avviene successivamente siano automaticamente fatti coincidere con quelli di una molto più difficile analisi da svolgere anteriormente. Se non si presta rigorosa attenzione a questi rischi, il populismo giudiziario trova praterie sconfinate su cui dominare. È sintomatico il diffuso apprezzamento nell’opinione pubblica della dichiarazione governativa, all’indomani della tragedia di Genova, della volontà di adottare provvedimenti punitivi senza attendere le sentenze. Magistratura e politica, serve subito una riforma di Ludovico Polastri affaritaliani.it, 25 agosto 2018 Le procure d’Italia hanno iniziato la danza intorno a Salvini; la procura di Agrigento ha aizzato tutte le procure d’Italia a indagare Salvini per la questione del mancato sbarco della nave Diciotti. Qualche giorno fa gli strali dei magistrati si erano riversati sui presunti conti correnti della Lega che nascondevano i milioni di euro di Bossi &C: sequestrate tutti i conti della Lega o ad essa riconducibili ovunque essi si possano trovare! hanno tuonato i PM. C’è da chiedersi da quale parte della magistratura venga tanto odio e soprattutto cosa abbia in serbo per il futuro. Non vorrei sbagliarmi ma sembra di tornare a quei climi rivoluzionari, da piazza, che tanto piacevano ad una costola della magistratura e che hanno influenzato la politica fino ai nostri giorni. Prima con Mani Pulite, poi con i processi a Berlusconi ed ora chissà quelli a Salvini. Forse molti non sanno che una frangia della magistratura risponde solo a se stessa e si vanta di fare politica, anzi di intervenire pesantemente nelle scelte di qualunque governo che non sia di sinistra. Sto parlando di Magistratura Democratica (Md), le toghe rosse. Se ci sono dei processi civili o penali (magari quelli che non finiscono sui giornali) nei quali ci sono in gioco dei diritti civili o di libertà; se ci sono processi in cui sono in gioco la dignità o i bisogni di qualche disgraziato senza casa e senza lavoro; se in qualche parte vedrete qualcuno battersi per rendere giustizia agli emarginati di colore o a quelli che muoiono sul lavoro; se in qualche processo si sta tentando di scoprire episodi piccoli e grandi di corruzione e di malaffare, in tutte queste occasioni qualcuno di Magistratura Democratica, lì in mezzo a lavorare in silenzio, lo troverete sempre. È questo il loro proclama e questo a prescindere di chi abbia torto o ragione. Sul loro sito c’è proprio il vanto dell’indipendenza da qualunque controllo, compreso quello del massimo organo istituzionale. Sul Bollettino di Questione Giustizia n.1 del 2011 si legge chiaramente: “penso che sarà noto come Magistratura Democratica nasca negli anni 60 proprio per porre mano ad un’opera di demistificazione nei confronti del mito della neutralità (o della c.d. apoliticità) del giudice, attraverso cui per lungo tempo si era inteso in realtà giustificare una condizione di subalternità di cui si era ammantata la magistratura verso forze di governo e poteri forti” ed ancora “Magistratura Democratica ha di fatto rivendicato il carattere indefettibilmente politico della giurisdizione e ponendosi come obiettivo quello di contribuire all’opera di inveramento della Costituzione; in particolare dell’art. 3, 2° comma”. Insomma negli anni 60 nasce una magistratura che rivendica costituzionalmente corretto fare una “propria politica” corporativa che, a detta sua, pur rimanendo all’interno del dettame costituzionale, debba favorire, a priori, i più deboli e bisognosi. Non la Giustizia vera, attenzione! Sergio D’Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Magistratura Democratica da cui poi ha preso le distanze ha dichiarato: “dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale”. Il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all’attaccapanni si sono buttati in politica. Capite ora perché il rom di turno dopo due mesi, nonostante abbia investito ed ucciso una persona sia già fuori? Perché il nigeriano spacciatore possa impunemente picchiare i carabinieri senza che gli si possa fare nulla o che possa smembrare ritualmente una ragazza e ricondurre il tutto a semplice fatto di droga e via di questo passo? Livio Pepino con il suo articolo Appunti per la Storia di Magistratura Democratica scrive: “che Magistratura Democratica sia stata e sia la sinistra della magistratura è noto e da sempre rivendicato”. Ecco dunque lo stereotipo di giudice che si afferma come contropotere, libero da ogni giudizio, se non il proprio: il giudice che fugge dal Palazzo, inteso come luogo di conservazione e di stagnazione, e si mette in testa al popolo, ne guida le battaglie, lo conduce verso la liberazione secondo dei propri principi rivoluzionari. Chi giudicherà i giudici ?Se in uno Stato che si definisce democratico ci sono queste storture allora non si può dire che la Legge sia uguale per tutti. C’è una legge personale, politicizzata, che può comodamente delegittimare chi viene democraticamente eletto. Almeno che la gente lo sappia e che Salvini sappia che la sua forza non viene dal popolo, dalla democrazia, perché come disse Napolitano commentando la Brexit: “è stato incauto promuovere questo referendum e affidare ad un no o ad un sì problemi tanto complessi”. Trentuno mesi senza Giulio Regeni, la mobilitazione per la verità continua di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 agosto 2018 Il 25 gennaio 2016 Giulio Regeni, lo studente italiano impegnato in una ricerca sull’economia egiziana, scompariva al Cairo, inghiottito dal buco nero della feroce repressione dell’era al-Sisi, sotto la quale tanti erano già scomparsi e tanti altri lo sarebbero stati in seguito. Giulio fu trattenuto per nove giorni in uno o più centri di detenzione, torturato e assassinato. Da allora sono passati oltre due anni e mezzo, 31 mesi. Intorno a Giulio e ai suoi valori, è sorto un movimento per i diritti umani che continua a chiedere la verità: i nomi dei mandanti e degli esecutori di quello che da subito coloro che conoscono la storia dei diritti umani in Egitto hanno definito un “omicidio di stato”. I depistaggi, la mancanza di una collaborazione piena e sincera (al di là delle parole e delle cordialità di circostanza) da parte della magistratura egiziana con la procura di Roma ci hanno portato fin qua: all’assenza di una verità giudiziaria che confermi quella definizione. Il trentunesimo mese dalla scomparsa cade a metà tra due “giorni 14”: Quello di agosto, in cui - tra l’altro nel quarto anniversario del peggiore massacro della storia contemporanea egiziana - inopportunamente, sconsideratamente e irresponsabilmente il governo Gentiloni decise di rinviare l’ambasciatore al Cairo; e quello di settembre, in cui l’ambasciatore si reinsediò, formalizzando quel segnale di resa già da tempo avvertito dalle autorità egiziane. Diceva, il governo allora in carica, che il ritorno dell’ambasciatore italiano in Egitto avrebbe dato nuovo impulso alle indagini e meglio stimolato la collaborazione delle autorità del Cairo. Cosa è successo nei mesi successivi? Dal punto di vista della collaborazione giudiziaria da parte della procura egiziana poco o nulla: è stato messo a disposizione un dossier di centinaia di fogli accatastati e scritti in arabo asseritamente contenenti informazioni sulle indagini compiute dalla magistratura locale (va sottolineato che, per recuperarli, è dovuta andare al Cairo l’avvocata della famiglia Regeni). Poi, sono stati consegnati i video delle immagini delle telecamere a circuito chiuso promessi sin dall’inizio: avrebbero potuto contenere informazioni sugli ultimi minuti trascorsi, nel tardo pomeriggio del 25 gennaio 2016, da Giulio Regeni nel percorso dalla sua abitazione alla fermata della metropolitana di Dokki. Peccato che quelle immagini siano state sovrimpresse non si sa quante volte e che il materiale consegnato risulti incompleto e “mancante” proprio nei minuti decisivi. Il vero motivo della decisione di ripristinare normali relazioni diplomatiche con l’Egitto lo avrebbe poi ammesso, con brutale e cinica schiettezza, il ministro dell’Interno dell’attuale governo italiano in una recente intervista all’emittente televisiva al-Jazeera: non è che possiamo rinunciare ad avere relazioni con l’Egitto in attesa che arrivi la verità per Giulio Regeni. Le occasioni d’incontro, anche ad alto livello politico, tra Italia ed Egitto non mancano e in ognuna di queste il nome di Giulio Regeni viene fatto (perché al ritorno non si venga accusati di averlo omesso) ma la verità appare ancora lontana. A mantenere alta l’attenzione, oltre a non pochi giornalisti riuniti nella “scorta mediatica per Giulio”, c’è il “popolo giallo”. Non passa giorno in cui non vi sia qualche iniziativa: molti Comuni italiani, a ciò sollecitati, appendono lo striscione “Verità per Giulio Regeni”, si svolgono incontri pubblici, si organizzano eventi, come la corsa a tappe in bicicletta dal Collegio del mondo unito di Duino a Roma. In queste ore il “popolo giallo” è mobilitato a sostegno di Amal Fathy, moglie di Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’ong egiziana dall’inizio accanto alla famiglia Regeni e alla loro avvocata e che per questo ha subito arresti e altre persecuzioni. Amal Fathy è al centro di due distinte e pretestuose inchieste: il caso 7991/2018 per “diffusione di notizie false”, “possesso di materiale indecente” e “uso di linguaggio offensivo” in relazione a un video postato su Facebook nel quale l’attivista aveva accusato il governo di non fare nulla per proteggere le donne dalle molestie sessuali; e il caso 621/2018, per “appartenenza a un gruppo terrorista”, “trasmissione di idee che invocano azioni terroristiche” e “diffusione di notizie false”. Il processo per il primo caso è iniziato l’11 agosto ed è stato subito rinviato, mentre nella seconda inchiesta Amal continua a essere detenuta in attesa di giudizio. L’udienza in cui si deciderà se prorogare la detenzione preventiva o rilasciarla si terrà il 28 agosto. Il giorno prima, lunedì 27, si svolgerà un nuovo digiuno di solidarietà promosso da Paola e Claudio, i genitori di Giulio, e dall’avvocata Alessandra Ballerini. Per segnalare la propria adesione si possono contattare gli account Twitter @GiulioSiamoNoi e Facebook Giulio Siamo Noi. Pena sospesa nel giudizio di legittimità senza rinvio alla corte di merito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2018 Dopo le modifiche al Codice di rito penale la Cassazione può concedere direttamente la sospensione condizionale della pena evitando la “navetta” del rinvio. La Suprema corte, con la sentenza 38903 depositata ieri, sottolinea che, per effetto dell’intervento sull’articolo 620 (comma 1, lettera f) del Codice penale messo in atto dalla legge 103/2017,è possibile per il giudice di legittimità annullare senza rinvio la sentenza, se, in sede di merito, è stata disattesa, senza motivo, la richiesta di concessione del beneficio. La precisazione nel caso esaminato, porta ad accogliere il ricorso di un imputato, condannato a pagare un’ammenda per aver violato gli obblighi di formazione dei dipendenti imposti dal Testo unico sulla sicurezza lavoro (Dlgs 81/2008). Nello specifico a vantaggio del ricorrente c’è anche una rideterminazione della cifra da pagare, sempre in virtù del nuovo Codice. La Suprema corte ricorda, infatti, che il “restyling” del Codice di procedura penale ha riguardato anche il giudizio abbreviato. Secondo il nuovo articolo, in caso di condanna per una contravvenzione la pena, che il giudice stabilisce tenendo conto di tutte le circostanze, è “tagliata” della metà e non solo ridotta di un terzo come previsto dalla precedente disciplina. Nel concreto dunque la pena passa da 5 mila euro a 2.500. Per quanto riguarda il no alla sospensione condizionale, chiesto dal difensore, la Cassazione lo considera immotivato, essendoci tutti i presupposti per concederlo. Il Tribunale aveva, infatti, riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche. Ma era andato oltre il giudice, mettendo nero su bianco il suo parere: si presume che “il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati”. Le attenuanti, lo stato di incensurato del ricorrente e la prognosi positiva sull’improbabilità di una “ricaduta”, avrebbero dovuto indurre il giudice di merito ad essere consequenziale, concedendo il beneficio della sospensione condizionale. Per la Corte di Cassazione ci sono gli estremi per una disposizione diretta. Tutto ciò che serve, per rendere superflui ulteriori accertamenti di fatto, è già contenuto nella sentenza impugnata. La Suprema corte esercita, ormai di frequente, una facoltà in linea con quanto stabilito dalle Sezioni Unite, con la sentenza 3464 del 2018, e con la ratio del legislatore. La legge 103/2017 é stata, infatti, disegnata con l’obiettivo di razionalizzare, deflazionare e rendere più efficaci le impugnazioni, ampliando le ipotesi di annullamento senza rinvio. Una riforma che si è mossa sulla falsariga del giudizio civile e, in particolare dell’articolo 384 del Codice di procedura civile che, in caso di accoglimento del ricorso, consente alla Suprema corte di decidere la causa nel merito se non servono maggiori accertamenti. Cagliari: Sdr “Casa circondariale da tre mesi senza coordinatore sanitario” Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2018 “Tre mesi fa Antonio Piras, che per 4 anni ha coordinato i colleghi penitenziari nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari, ubicata nel territorio di Uta, ha lasciato la struttura avendo scelto un nuovo percorso professionale, ma da allora manca un responsabile. Il temporaneo supplente, Matteo Papoff, già coordinatore a Buoncammino, è stato cooptato dal Dpartimento di Salute Mentale sottraendolo in parte al suo ruolo interno all’Istituto e del tutto al servizio psichiatrico territoriale con negative conseguenze per i pazienti affetti da disagio mentale. È urgente dunque assegnare l’incarico in modo non estemporaneo e riorganizzare la sanità penitenziaria in ogni Istituto isolano”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, ricordando che “nel Villaggio Penitenziario di Uta sono ristrette 556 persone di cui 21 donne e 121 stranieri, una realtà particolarmente problematica in cui il coordinatore sanitario riveste un ruolo molto importante, ma ha bisogno di supporti e riferimenti certi”. “A caratterizzare il ruolo del coordinatore sanitario - sottolinea - è la gestione dell’intero sistema clinico-sanitario e burocratico. Oltre a favorire il lavoro dei colleghi dei diversi settori e garantire il controllo sull’efficienza organizzativa, interagisce con la Direzione dell’Istituto e la Magistratura, in particolare quella di Sorveglianza, e con i liberi professionisti, qualora il detenuto chieda una visita specialistica o debba produrre una relazione di parte a integrazione di un’istanza. Il coordinatore inoltre si occupa dell’inoltro e predisposizione delle domande di invalidità, delle denunce Inail, tiene i rapporti con i Consolati e i Mediatori Culturali, oltre a predisporre o integrare relazioni per l’incompatibilità dietro le sbarre. Ovviamente per poter far fronte a questi impegni, la sua deve essere una presenza costante ed esclusiva che però possa avvalersi di una rete strutturata anche perché quello di Cagliari-Uta è l’unico carcere con un Centro Clinico in cui sono ricoverati circa 25 pazienti”. “Dopo Oristano-Massama e Cagliari-Uta entrambi senza coordinatori sanitari, l’organizzazione della Sanita Penitenziaria in Sardegna ha necessità di una rivisitazione e di un aggiornamento. Sono infatti trascorsi 6 anni dalla riforma e da allora non è mai stata fatta una verifica sull’efficienza del sistema. La situazione delle strutture detentive in questi anni è profondamente cambiata perché si è partiti da dodici Istituti di medio-piccole dimensioni con detenuti appartenenti alla tradizionale malavita, a dieci carceri di media-grande capacità con un’altissima percentuale di tossicodipendenti e persone con problemi psichici. Sono inoltre presenti circa un migliaio di ristretti in regime di alta sicurezza nonché oltre 90 in regime di 41bis, quasi tutti provenienti dagli Istituti della Penisola. Insomma - conclude la presidente di Sdr - occorre riconsiderare seriamente le condizioni attuali del servizio per offrire maggiori garanzie a operatori, detenuti e familiari”. Modena: le parlamentari M5S visitano il carcere “dialogo per garantire la sicurezza” modenatoday.it, 25 agosto 2018 “Un dialogo costruttivo per migliorare il sistema penitenziario italiano partendo dal territorio”. Così Maria Laura Mantovani e Stefania Ascari, rispettivamente Senatrice e Deputata del Movimento 5 Stelle, commentano la visita odierna all’istituto Sant’Anna. ù “Durante l’incontro abbiamo potuto constatare con mano la situazione del carcere modenese - proseguono Mantovani e Ascari - e conoscere da vicino sia le criticità maggiori sia i progetti d’eccellenza. Abbiamo visitato le cucine e gli orti, abbiamo conosciuto il progetto Ulisse, unico in tutta l’Emilia Romagna, e le biblioteche, i laboratori musicali e le sale d’incontro con i familiari, alcune a misura di famiglie con bambini. Tutte esperienze che ci auguriamo possano essere confermate in futuro per garantire un sempre maggiore coinvolgimento dei detenuti nella vita quotidiana del carcere. In tal senso, abbiamo apprezzato la richiesta degli ospiti di poter avere maggiori opportunità lavorative per poter rientrare nella società all’insegna della legalità”. Le Parlamentari M5S hanno avuto modo di confrontarsi anche con il personale del Sant’Anna. “Sappiamo che c’è una carenza di organico pari a cinquanta unità per quanto riguarda gli ispettori e i sottoufficiali della Polizia Penitenziaria - riprendono Mantovani e Ascari - e che difficoltà simili si manifestano per le educatrici. Queste ultime svolgono un importante ruolo per l’intero istituto, ma sono di fatto tre professioniste a fronte di oltre 450 detenuti. Nonostante le carenze, in carcere abbiamo trovato un ambiente serio e sereno, grazie al lavoro quotidiano del comandante Massimo Bertini e dell’intero personale”. La Deputata Ascari è componente della Commissione Giustizia e relatrice alla Camera dell’Atto di Governo 16 sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. “La visita di oggi per me ha avuto un significato particolare - spiega la parlamentare modenese - perché ho potuto osservare attentamente quanto serve per migliorare il sistema carcerario italiano. È necessario tradurre nella vita quotidiana delle persone ospiti della struttura parole chiave quali socializzazione, integrazione, autonomia, responsabilità. Tali concetti devono diventare sempre più la base del percorso delle donne e degli uomini ospitati nelle strutture italiane per favorire il loro positivo rientro nella società”. Alla delegazione ha preso parte il consigliere comunale Elisabetta Scardozzi. “Il Movimento 5 Stelle di Modena segue da tempo le vicende legate al carcere - il commento di Scardozzi - e per me si tratta della seconda visita. Un segno dell’attenzione costante del M5S per il tema”. La visita odierna non intende rappresentare un unicum, ma una tappa di un cammino all’insegna della collaborazione tra istituzioni. “Abbiamo preso nota delle richieste - concludono Mantovani e Ascari - e abbiamo confermato la massima disponibilità per costruire un dialogo diretto, dar vita a un confronto continuo e costruttivo per migliorare la condizione attuale dell’istituto. Inoltre, proseguendo su tale cammino di collaborazione contribuiremo al rinnovamento dell’intero sistema carceri italiano”. Belluno: transessuali e detenute, il loro racconto diventa un’opera teatrale di Francesca Valente Redattore Sociale, 25 agosto 2018 Da un progetto unico nel suo genere, avviato tra il carcere di Rebibbia e quello di Belluno, andrà in scena a novembre uno spettacolo di auto narrazione. Sette donne e la loro testimonianza di emarginazione, violenza e rivendicazione di identità. Quattro brasiliane, una napoletana, una paraguaiana e una peruviana, di età media attorno ai 35 anni. Cosa hanno in comune? Innanzitutto sono sette donne transessuali. Ma sono anche le sette detenute protagoniste di un laboratorio sperimentale di scrittura creativa e teatro in carcere unico nel suo genere in Italia, finalizzato alla realizzazione di uno spettacolo teatrale auto narrativo. È il cuore pulsante del progetto che unisce il carcere romano di Rebibbia, sezione media sicurezza, e quello bellunese di Baldenich, uno dei cinque penitenziari in cui esistono sezioni riservate alle transessuali (gli altri sono Firenze, Napoli, Rimini e lo stesso Rebibbia). Il primo approccio tra le detenute, quattro operatrici dell’associazione Jabar (che lavora da anni nel carcere bellunese) e due operatori di Rebibbia - Antonio Turco, attore, autore e funzionario pedagogico dell’amministrazione penitenziaria romana, e Tamara Boccia, pedagogista sua stretta collaboratrice - è stato caratterizzato da diffidenza, curiosità ed entusiasmo. “Il linguaggio è diventato comune quando abbiamo parlato con loro di tecnica, ovvero di scrittura creativa basata sul metodo del teatro “di testimonianza”“, raccontano i due ospiti romani, che sono stati a Belluno agli inizi di luglio proprio per lanciare questa sperimentazione. “Sono donne con passati violenti, - proseguono, - fatti di emarginazione, di inevitabile ricorso alla prostituzione, di rivendicazione sociale e di riconoscimento dell’identità. Donne che diventeranno protagoniste di un racconto teatrale che le accomunerà ai detenuti di Rebibbia (impegnati in vari progetti di recitazione, ndr) per una cosa in particolare: l’essere considerati diversi”. Lo spettacolo, scritto e inscenato dalle detenute, andrà in scena con ogni probabilità il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza di genere, e si impernierà su intrecci di storie individuali e di condizioni collettive in cui l’emarginazione sociale, il non essere riconosciute, lo stigma, l’esilio relazionale saranno al centro della dimensione drammaturgica. Tra i due istituti penitenziari verranno condivisi alcuni estratti dei copioni scritti nei rispettivi laboratori, per lanciare un altro ponte con cui condividere non soltanto le parti, ma anche le persone. Si tratta di un progetto pilota a livello nazionale, un gemellaggio tra un carcere molto grande e strategico e uno più piccolo e periferico. “Molte cose accomunano detenuti e detenute, affermano Boccia e Turco: - il mare, quello di Napoli ma anche di Rio de Janeiro; la cultura del popolo che sgomita nei Quartieri spagnoli e nelle favelas; il ricordo di violenze subite e del sentirsi costantemente “marchettari”. Il progetto nella sua connotazione bellunese è finanziato dal Centro di servizio per il volontariato provinciale e sostenuto dal dipartimento Politiche sociali di Aics nazionale. Informazioni: associazione.jabar@gmail.com; ufficiostampa@csvbelluno.it. Migranti. Niente intesa a Bruxelles di Francesco Grignetti e Carlo Bertini La Stampa, 25 agosto 2018 Conte per la linea dura: “Ci saranno conseguenze”. Il premier: Europa ipocrita. Ma il governo teme ritorsioni sulla manovra e cerca Stati disposti ad accogliere. L’Ue: sanzioni se Roma non paga. “L’Europa non è riuscita a battere un colpo in direzione dei principi di solidarietà e di responsabilità che pure vengono costantemente declamati quali valori fondamentali. Ne trarremo le conseguenze”. Parola di Giuseppe Conte. Con l’Ue è guerra aperta, ma nel governo la tensione si taglia a fette: la crisi con l’Europa rischia di trascinare l’Italia in un contenzioso così aspro con Bruxelles tale da mettere a rischio perfino la manovra economica che il governo dovrà presentare. I rischi sulla flessibilità - Perché senza flessibilità concordata sul deficit, sarebbe perfino arduo stendere gli articoli con le misure che richiedono spesa. Per questo il premier, stando a quanto trapela da fonti qualificate, avrebbe messo in campo insieme alla diplomazia ufficiale anche la diplomazia parallela dei servizi: per rivolgersi agli interlocutori dei Paesi più aperti al dialogo e trovare un accordo, almeno con un paio di Stati o “staterelli” che accettino di prendersi in carico una quota dei migranti della Diciotti. In modo da poter incassare un segnale, un “beau geste” in grado di sciogliere i nodi e risolvere la questione. La proposta inaccettabile - La situazione è drammatica e fin dalla mattina si capisce che l’aria è brutta: “le minacce non portano da nessuna parte”, dicono i portavoce della Commissione. Dalla riunione degli sherpa a Bruxelles non si cava un ragno dal buco. Nessuna bozza di accordo possibile. Agli italiani viene avanzata una proposta definita inaccettabile: una tiepida promessa di apertura sulla Diciotti, ma in cambio della sottoscrizione di “una sorta di regolamento di Dublino “mascherato” - così lo definisce Conte - che avrebbe individuato l’Italia come Paese di approdo sicuro, con disponibilità degli altri Stati a partecipare alla redistribuzione dei soli aventi diritto all’asilo, che notoriamente sono una percentuale minima dei migranti che arrivano per mare”. Una bozza irricevibile - Già nei giorni precedenti, i tentativi di convincere francesi e spagnoli erano falliti: Conte aveva però chiesto a Salvini e Di Maio di moderare i toni per non ostacolare gli sforzi diplomatici, “aspettiamo l’esito di Bruxelles”. Ma quando arriva la fumata nera, la linea che il premier raccoglie da Salvini è che “dalla nave non sbarca nessuno per quanto mi riguarda” e che bisogna andare allo scontro con questo “ente astratto”. E Di Maio non è da meno: “A questo punto l’Italia deve prendersi in maniera unilaterale una riparazione. Non abbiamo più intenzione di farci mettere i piedi in testa”. Il Colle preoccupato - Il premier sa di avere i riflettori puntati addosso, compresi quelli del Colle. Al Capo dello Stato non avrà certo fatto piacere sentir minacciare a Di Maio lo stop dei contributi italiani all’Europa. Sergio Mattarella segue con grande attenzione e preoccupazione e si aspetta dal governo una soluzione. Quindi Conte fa uscire il suo duro avvertimento all’Europa, ma sulle “conseguenze” parte un serrato dibattito, uno scontro tra due linee nel governo. Da una parte quella moderata, interpretata dal titolare degli Esteri Moavero, che dice “pagare i contributi è un dovere legale dei Paesi membri”. Dall’altra, il partito dei falchi che fa capo ai due vicepremier. I tecnici dei ministeri cominciano a studiare la possibile ritorsione verso l’Europa: qualcuno ipotizza che possa tradursi in un taglio dai contributi dovuti della quota di fondi che l’Italia spende per gli immigrati. Potrebbe essere ciò a cui si riferisce Salvini quando dice “se fanno finta di non capire, vedremo di pagare l’Europa un po’ di meno. Il contributo possiamo diminuirlo in quota parte con quello che l’Ue non fa danneggiando l’Italia, non solo sull’immigrazione”. Un atto di rottura che avrebbe conseguenze non da poco. “Se l’Italia si rifiutasse di pagare i suoi contributi all’EUbudget, sarebbe la prima volta nella storia della Ue - fa sapere il commissario al Bilancio Oettinger - Questo comporterebbe interessi per ritardi nei pagamenti. E una violazione delle obbligazioni dei trattati che condurrebbe a possibili ulteriori pesanti sanzioni”. Stretta sui migranti, ecco le nuove regole nella bozza del decreto Salvini di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2018 Il pacchetto Salvini per l’immigrazione è pronto. La bozza del decreto tra pochi giorni sarà sottoposta alle ultime verifiche. Poi approderà al Consiglio dei ministri, forse già il primo utile a settembre. L’intervento è massiccio: se passa in Parlamento, dove non si escludono ulteriori integrazioni, sarà una rivoluzione. Contestata dalle associazioni umanitarie, lodata dalle forze politiche di centrodestra. Resta da vedere se M5S sottoscriverà tutte le indicazioni normative: nove, al momento, quasi tutte ad alto impatto. Una delle novità previste dal ministro dell’Interno è stata anticipata il 17 agosto a Radio24 dal sottosegretario Nicola Molteni. “Con Salvini siamo a -85% di sbarchi a giugno e luglio rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ora è fondamentale allungare i tempi del trattenimento degli irregolari nei Cpr (centri per i rimpatri, ndr) - sottolinea Molteni - per svolgere tutte le procedure di identificazione necessarie per rimpatriare i migranti. Probabilmente passeremo dagli attuali 90 a 180 giorni”. Si raddoppia, dunque, da tre a sei mesi: torna il periodo di detenzione dei migranti irregolari previsto quando al Viminale c’era Roberto Maroni e i centri si chiamavano Cie (centri di identificazione ed espulsione). La misura è notevole, come sanno gli addetti ai lavori, anche per il cosiddetto effetto deterrenza sui flussi. Nel dossier di Ferragosto, del resto, si ricorda come ai Cpr oggi attivi - Torino, Roma, Bari, Brindisi, Palazzo S. Gervasio (Pz) e Caltanissetta per un totale di 880 posti, si sommeranno quelli “in fase di attivazione” per altri 400 posti i centri di Macomer (Nu), Modena, Gradisca di Isonzo (Go) e Milano. Ed è probabile che a questa lista si aggiunga qualche altra sede. Lo conferma Molteni: “C’è un piano per incrementare gli attuali centri con altri Cpr e altri “luoghi” per i rimpatri. Da concordare naturalmente con le Regioni e le istituzioni locali”. La collana delle norme previste dalla bozza di decreto rafforza il segnale di contrasto e di deterrenza. Anche se mancano ancora alcuni dettagli, si stabilisce il venir meno dello status di rifugiato in caso di un viaggio nella nazione di provenienza. Si amplia, inoltre, la lista dei reati sufficienti secondo Salvini per poter negare o revocare la protezione internazionale. E si conferma l’indicazione di una stretta sui permessi umanitari: percentuale in maggioranza, se si guardano le statistiche, nel luglio scorso: sono stati il 23% delle decisioni delle commissioni, a fronte del 7% di rifugiati, 3% di “protezione sussidiaria” e 67% di dinieghi. Il sistema giudicante sulle domande di protezione è gravato poi da tempo da un contenzioso abnorme alimentato, tra l’altro, dai ricorsi reiterati dei migranti, consentiti dalle attuali disposizioni. Ma il pacchetto Salvini vuole eliminare anche la possibilità per un migrante di ripetere l’impugnazione dopo aver svolto fino al completamento l’iter per la prima volta. A completare il quadro si conferma l’idea di restringere l’accesso ai servizi comunali per i richiedenti asilo: potrebbe venir meno, tra l’altro la carta di identità, sostituita da un analogo documento di riconoscimento e identificazione. Il pacchetto si completa con altre norme: l’istituzione in alcune prefetture di sportelli dedicati alle questioni migranti legate al trattato di Dublino e la previsione di inserire nello Sprar, il sistema di protezione e richiedenti asilo in capo ai Comuni, solo migranti rifugiati o con protezione sussidiaria e non umanitaria. Ma c’è anche la richiesta di proroga di un anno, infine, per la delega a un testo unico sull’asilo. Un provvedimento, quest’ultimo, suscettibile di ulteriori sorprese. Nave Diciotti. No, non sono migranti economici di Claudio Cerasa Il Foglio, 25 agosto 2018 Salvini dice che la pace tra Eritrea ed Etiopia risolve tutto. Non è così. La maggior parte dei migranti a bordo della nave Diciotti è di origine eritrea. I migranti dell’Eritrea sono il secondo gruppo per ingressi in Italia. E non arrivano solo via mare, attraversando il Sahara a piedi e poi prendendo i barconi dalla Libia, ma anche con gli aerei. Secondo le regole internazionali gli eritrei hanno diritto a una “protezione umanitaria rafforzata”, ma questo, secondo il ministro dell’Interno Matteo Salvini, potrebbe cambiare presto: “Una delle poche buone notizie di questa estate disastrosa è che tra Etiopia ed Eritrea la pace resiste. Il cappellano degli eritrei in Europa, don Mussie Zerai, dice di sperare che anche l’Italia faccia la sua parte. Come governo, noi siamo assolutamente disponibili”, ha detto ieri al Corriere. Effettivamente la pace sancita dall’abbraccio tra il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, e il presidente eritreo Isaias Afewerki, è una delle migliori notizie del 2018. Negli ultimi vent’anni il conflitto tra i due paesi è diventato uno dei motivi principali della fuga di eritrei ed etiopi dai rispettivi paesi. Ma mentre l’Etiopia è un paese in pieno sviluppo, con un primo ministro progressista, l’Eritrea si trova ancora incastrata in un complicato gioco geopolitico, governata sin dal 1993 dallo stesso uomo. Isaias ha trasformato il paese in una Corea del nord africana, con una capillare repressione dei dissidenti politici, servizio militare obbligatorio per tutti gli uomini, un dilagante sistema corruttivo e l’appoggio ad alcune fazioni dei guerriglieri islamisti di al-Shabaab in chiave anti-etiope. Secondo un report dell’Onu del 2015, Isaias ha creato “un regno del terrore attraverso i sistematici abusi sulla popolazione che potrebbero configurarsi come crimini contro l’umanità”. Insomma, la gente scappa dall’Eritrea per validi motivi. Tecnicamente il ministro Salvini sbaglia a considerare gli eritrei “immigrati illegali”, non solo perché il trattato di pace tra Addis Abeba e Asmara non è ancora riconosciuto dalla legge internazionale, ma perché gli eritrei hanno diritto alla protezione, perché scappano da una dittatura. Le esternazioni dure di Salvini zoppicano sul piano legale e non fanno altro che complicare la posizione italiana davanti al resto del mondo. Nave Diciotti. De Robert (Garante detenuti): condizioni inaccettabili, Italia a rischio sanzioni di Patrizia Caiffa agensir.it, 25 agosto 2018 “Al di là della grandissima attenzione e dedizione e dispendio di energie del personale è una condizione oggettivamente inaccettabile”. Lo afferma Daniela De Robert, capo delegazione della visita alla nave Diciotti del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, che ha inviato due informative alle procure di Agrigento e Catania. “Non si possono usare ricatti - ribadisce - Le persone sono dei fini e non dei mezzi”. “È una situazione che mette anche l’Italia a rischio di una condanna in sede internazionale per trattamenti inumani”: così Daniela De Robert, capo delegazione della visita alla nave Diciotti del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, racconta al Sir cosa ha visto ieri a bordo della nave della Guardia costiera con 150 migranti bloccata da quattro giorni al porto di Catania: “Dormono, mangiano, pregano, parlano, sperano e aspettano su un ponte, con due bagni per 150 persone. Non hanno un lavandino. Per farsi una doccia hanno dovuto improvvisare un sistema di tende. Per cui è una situazione di gravissimo disagio. Al di là della grandissima attenzione e dedizione e dispendio di energie del personale è una condizione oggettivamente inaccettabile”. Il Garante ha confermato “le preoccupazioni per i rischi di violazione di norme nazionali e sovranazionali” e inviato “una informativa su quanto riscontrato alle Procure di Agrigento e di Catania, che hanno aperto dei fascicoli relativamente alla vicenda Diciotti, per le loro opportune valutazioni”. Per esigenze di trasparenza le lettere sono state pubblicate sul sito www.garantenpl.it. Cosa avete visto a bordo della Diciotti? Abbiamo verificato e trovato quello che ci aspettavamo. Le persone vivono da nove giorni su una nave progettata per il soccorso in mare, costretta ad ospitare invece per giorni 150 persone. Persone già arrivate in condizione di fragilità fisica e psicologica, con denutrizione e disidratazione, tant’è che devono somministrare integratori. Dormono, mangiano, pregano, parlano, sperano e aspettano su un ponte, con due bagni per 150 persone. Non hanno un lavandino. Per farsi una doccia hanno dovuto improvvisare un sistema di tende. Per cui è una situazione di gravissimo disagio. Al di là della grandissima attenzione e dedizione e dispendio di energie del personale è una condizione oggettivamente inaccettabile. La sera dell’arrivo hanno chiesto candele per celebrare un culto cristiano, le hanno accese sul ponte per pregare. Cercano di andare incontro alle loro richieste ma è chiaro che una nave pensata per salvare e riportare a terra non può far vivere 150 persone a lungo sul ponte. Anche i medici e gli infermieri, che sono bravissimi, come fanno a debellare la scabbia su persone debilitate che vivono in promiscuità totale? Avete mandato due informative alle procure di Agrigento e Catania, che hanno già avviato indagini... Sì, per informarli di quello che abbiamo visto e mettere a disposizione del loro lavoro le nostre preoccupazioni, che purtroppo sono tutte confermate: abbiamo trovato persone private di fatto della libertà, senza un mandato dell’autorità giudiziaria, e questo non è ammesso né dalle leggi italiane, né dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È una situazione che mette anche l’Italia a rischio di una condanna in sede internazionale per trattamenti inumani. Al di là della grandissima disponibilità del comandante, dell’equipaggio, delle Ong, degli sforzi fatti, le persone cercano di ripararsi dal sole con un telone ma non basta. Ieri erano tranquilli ma non capivano perché sono in Italia e non possono scendere. Hanno ragione. Sono persone che vengono da storie devastanti. Un ragazzo aveva una mano ferita da un’arma da fuoco ma curata male, una ragazza di 20 anni è stata sei mesi in un campo libico. La maggioranza vengono da Paesi per cui possono chiedere protezione internazionale - Eritrea, Siria, Somalia - e non viene consentito loro di esercitare questo diritto. Il paradosso è che sono in Italia, non sono in mare. Pensate ci siano gli estremi per un’azione penale? Noi abbiamo raccolto le informazioni e messo tutto a disposizione della magistratura, poi saranno loro a verificare. Le nostre preoccupazioni sono molto forti. Sicuramente l’Italia rischia sanzioni, che poi pagheremo un po’ tutti. Quindi ribadite il vostro appello a farli scendere con urgenza e a non usare forme di ricatto con l’Europa? Noi ribadiamo che non si possono mai usare le persone, anche per richieste legittime e sacrosante. Le persone sono dei fini e non dei mezzi. Bisogna che l’Europa qualcosa faccia, assuma i suoi impegni e li rispetti. Qui il problema non è decidere un caso, ma una politica di accoglienza comune. Decidere e portarla avanti. E una cosa del genere non si può fare sotto ricatto. Non c’è un motivo accettabile per tenerli a bordo. Facciamoli scendere, identifichiamoli, chi vuole potrà fare la procedura prevista, poi si deciderà chi può rimanere e chi no. L’Europa dovrà farsi carico di un problema che non è solo italiano, greco, spagnolo ma coinvolge tutti i Paesi, non può essere scaricato solo sulle frontiere europee. Non possiamo rimpallarci responsabilità solo tra Malta, Spagna, Grecia e Italia. Quali saranno i vostri prossimi passi? Abbiamo ritenuto di rendere pubblici i nostri comunicati. Certo oggi i termini sembrano inasprirsi, piuttosto che andare verso una soluzione. E non serve una contrapposizione. Anche per ottenere la cosa più lecita non si possono mai usare le persone, devono essere sempre rispettate. Libano. Vicentino in carcere da sei mesi, mistero sull’arresto vicenzatoday.it, 25 agosto 2018 Un 24enne residente a Trissino è finito nelle carceri libanesi. Dalle prime informazioni il capo di accusa riguarderebbe il fatto che il giovane avrebbe fotografato delle installazioni militari. È avvolta dal mistero la vicenda dell’italiano Karim Bachri, 24 anni, residente a Trissino. Il giovane è stato arresto in Libano nel marzo del 2018 e sarebbe attualmente detenuto in un carcere del paese arabo che sta vivendo una situazione di conflitto. Sei mesi di prigionia avvolti dal silenzio e una notizia uscita solo nei giorni scorsi. La vicenda è seguita dalla Farnesina ed è a conoscenza della questura di Vicenza. “La situazione è seguita da parte nostra: siamo a conoscenza di questo cittadino italiano all’estero in una situazione particolare”, è lo stringato messaggio che arriva dagli uffici di viale Mazzini. Dalle prime, sommarie informazioni, sembrerebbe che il 24enne sia accusato dalle autorità libanesi di aver fotogragato dei siti militari ma nessuna ipotesi è da escludere, inclusa quella che il giovane potrebbe essere in qualche modo coinvolto in attività che potrebbero riguardare la raccolta di informazioni per conto di qualcuno. “Non ho elementi da evidenziare formalmente in tal senso - risponde David De Leo, dirigente Digos vicentino - la vicenda è in monitoraggio e c’è un’attività in corso per la quale non posso dare i dettagli, cose di interesse riservate di polizia”. La Digos ha infatti ricevuto qualche mese fa delle richieste di informazioni sull’attività di Karim. “Attendiamo sviluppo di carattere internazionale”, conclude De Leo. Mentre la senatrice vicentina Daniela Sbrollini ha già annunciato che la settimana prossima presenterà una interrogazione parlamentare per far luce sulla vicenda. Bangladesh. I Rohingya a un anno dalla fuga vivono in campi terribili La Repubblica, 25 agosto 2018 Sono oggi oltre 919.000 i Rohingya che vivono nel distretto di Cox’s Bazar. In questi 12 mesi, le équipe di Medici Senza Frontiere hanno effettuato oltre 656.200 visite mediche in 19 strutture. Il 25 agosto di un anno fa 706.000 Rohingya fuggivano in Bangladesh a causa di una “operazione di pulizia” nello Stato di Rakhine da parte dell’esercito del Myanmar. Sommate alle oltre 200.000 persone che erano già scappate a seguito di precedenti ondate di violenza, sono oggi oltre 919.000 i Rohingya che vivono nel distretto di Cox’s Bazar. In questi 12 mesi, le équipe di Medici Senza Frontiere (Msf) hanno effettuato oltre 656.200 visite mediche in 19 strutture, tra ospedali, ambulatori e cliniche mobili. All’inizio, più della metà dei pazienti venivano curati per lesioni legate alla violenza, ma presto sono emersi altri problemi di salute causati dal sovraffollamento e dalle scarse condizioni igieniche nei campi. Una vita indecente ed estremamente vulnerabile. Nonostante il Bangladesh abbia mostrato una straordinaria generosità, aprendo le porte ai rifugiati, un anno dopo l’esodo di massa, il destino dei Rohingya resta molto incerto. Gli stati ospitanti nella regione negano loro qualsiasi status legale formale, nonostante siano a tutti gli effetti rifugiati e siano stati resi apolidi dal Myanmar. “Ci troviamo in una situazione in cui è perfino difficile definire i Rohingya rifugiati”, dice Francesca Zuccaro, capomissione di MSF in Bangladesh. “Rifiutando di riconoscere i diritti dei Rohingya come rifugiati o negando loro qualsiasi altro status legale, i governi li costringono a vivere in uno stato indecente e di estrema vulnerabilità”. La risposta umanitaria dell’Onu, finanziata al 31%. I donatori e i governi in grado di esercitare un’influenza sul governo del Myanmar non sono riusciti a porre fine alle persecuzioni contro i Rohingya, motivo della loro fuga. Inoltre, la risposta umanitaria dell’ONU in Bangladesh è, ad oggi, finanziata solo per il 31,7%. E all’interno di questa entità i finanziamenti per l’assistenza sanitaria si attestano solo al 16,9%, lasciando lacune significative nella fornitura di servizi medici vitali. I Rohingya, esclusi per molto tempo dall’assistenza sanitaria in Myanmar, hanno una copertura vaccinale molto bassa. Le campagne di vaccinazione di MSF hanno dunque contribuito a prevenire epidemie di colera e morbillo e a contenere la diffusione della difterite. Ancora rifugi di plastica e bambù. Con il pretesto che i Rohingya torneranno presto in Myanmar, la risposta umanitaria è stata ostacolata nella fornitura di aiuti a lungo termine. Le condizioni di vita nei campi sono di gran lunga inferiori agli standard umanitari internazionali: i rifugiati Rohingya vivono ancora negli stessi rifugi temporanei di plastica e bambù che sono stati costruiti al loro arrivo. “In una zona in cui cicloni e monsoni sono comuni, non esistono praticamente rifugi solidi e stabili e le conseguenze di questa condizione sono tangibili sulla sicurezza e la dignità dei Rohingya” afferma Pavlo Kolovosd, responsabile dei progetti di Msf in Bangladesh. “È inaccettabile che la diarrea acquosa resti uno dei principali problemi di salute che vediamo nei campi. Le infrastrutture capaci di soddisfare anche i bisogni più elementari della popolazione non sono ancora disponibili e questo influenza seriamente il benessere delle persone”. Nessuno status giuridico, dunque: nessun diritto. Considerando il livello di violenza che i Rohingya hanno dovuto subire in Myanmar e i traumi che ne sono derivati, i servizi di sostegno psicologico, anche per le vittime di violenze sessuali e di violenza di genere, rimangono inadeguati. Sono anche complicati per la mancanza di uno status giuridico, condizione che impedisce alle persone di ricorrere alla giustizia. Inoltre, i Rohingya restano confinati con la forza nei campi e la maggior parte della popolazione di rifugiati ha scarso accesso all’acqua pulita, alle latrine, all’istruzione, alle opportunità di lavoro e all’assistenza sanitaria. “Queste restrizioni non solo limitano la qualità e l’ampiezza degli aiuti, ma costringono anche i Rohingya a dipendere interamente dagli aiuti umanitari. Li depriva di qualsiasi possibilità di costruire un futuro dignitoso per loro stessi e rende ogni giorno una non necessaria lotta per la sopravvivenza” aggiunge Kolovos di MSF. Passeranno altri anni prima che possano tornare in Myanmar. È necessario trovare soluzioni durevoli perché probabilmente i Rohingya resteranno in Bangladesh per non poco tempo. “La realtà è che centinaia di migliaia di Rohingya sono fuggiti in Bangladesh e in altri paesi per decenni, e potrebbero volercene altri prima che possano tornare in sicurezza in Myanmar, ammesso che sia possibile. La grande sofferenza dei Rohingya merita una risposta molto più solida a livello locale, regionale e globale” afferma Kolovos di MSF. “Nel frattempo, devono continuare le pressioni sul governo del Myanmar affinché fermi la sua campagna contro i Rohingya”. Il lavoro di Msf in Bangladesh. Le équipe di Medici Senza Frontiere lavorano in Bangladesh dal 1985. Dal 25 agosto 2017 Msf ha intensificato le sue operazioni nel distretto di Cox’s Bazar dove attualmente gestisce 15 cliniche, 3 centri sanitari di base e 5 ospedali. Uno studio retrospettivo sulla mortalità condotto da Msf a dicembre 2017 ha rivelato che almeno 6.700 Rohingya sono stati uccisi in Myanmar nel primo mese dopo lo scoppio delle violenze, tra loro 730 bambini al di sotto dei 5 anni. Msf lavora inoltre nella baraccopoli di Kamrangirchar, nella capitale Dhaka, fornendo cure di salute mentale, di salute riproduttiva, servizi di pianificazione familiare e consultazioni prenatali, e gestendo un programma di salute sul posto di lavoro per gli operai. Corea del Sud. 25 anni in appello all’ex presidente condannata di Angelo Aquaro La Repubblica, 25 agosto 2018 L’ex presidente sudcoreana Park Geun-hye, già condannata in primo grado a 24 anni di carcere nell’ambito di una vicenda di corruzione che l’ha portata a subire l’impeachment, ha visto la sua pena aumentata a 25 anni dopo il giudizio di appello. La Seoul High Court ha condannato l’ex presidente anche al pagamento di 20 miliardi di won (17,8 milioni di dollari) di multa: la sentenza ha inasprito quella di primo grado (24 anni di detenzione e 18 miliardi) del 6 aprile, risultato del riconoscimento della colpevolezza per cospirazione con la confidente di lunga data, la sciamana Choi Soon-sil, finalizzata a forzare le conglomerate sudcoreane, tra cui il colosso Samsung, a donare 77,4 miliardi di won a due fondazioni riconducibili a Choi. Lo scandalo ha portato all’impeachment di Park e alla rimozione dalla carica dopo procedimento dinanzi alla Corte costituzione conclusosi a marzo 2017. La procura, in appello, aveva chiesto il 20 luglio la condanna a 30 anni di carcere e il pagamento della multa di 118,5 miliardi di won. La Corte dovrà presto esprimersi sull’appello di Choi e Ahn Jong-beom, ex capo advisor politico di Park, condannati rispettivamente a 20 e 6 anni di reclusioni. L’ex presidente non ha assistito al processo di secondo grado, contestando l’intero procedimento già a partire da ottobre ritenendo le accuse “motivate politicamente” quando il tribunale decise di prolungare la sua detenzione cautelare. Rilievi che si legano alle più ampie contestazioni di carenza dei requisiti minimi “del giusto processo”. Il dispositivo della sentenza non è stato trasmesso in diretta tv, come invece accaduto nel giudizio di primo grado.