Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti è a rischio di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 24 agosto 2018 Gentili lettori, gentili amici di Ristretti Orizzonti, vi dobbiamo prima di tutto delle scuse per il ritardo con cui state ricevendo la nostra rivista (e comunque vi garantiamo che riceverete tutti i sette numeri previsti dall’abbonamento). Non era mai successo, in vent’anni di vita di Ristretti, un simile ritardo, e forse è il caso che ve ne spieghiamo le ragioni. A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni, a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto. Con l’obiettivo di togliere a Ristretti quella fondamentale funzione di “pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, che non è una nostra definizione, sono le parole di Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Per prima cosa purtroppo dobbiamo spiegare che questo “ridimensionamento” di attività, che ci hanno meritato la stima e l’apprezzamento di tanti in questi anni, per noi significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi in progetti importanti come quello di confronto tra le scuole e il carcere, Avvocato di strada, la preziosa Rassegna Stampa quotidiana che voi tutti conoscete, lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, un servizio che mettiamo a disposizione di tutte le persone detenute, aiutando così il lavoro degli operatori dell’Amministrazione, ma il rischio è anche maggiore, è quello di non farcela a sopravvivere e di dover chiudere l’esperienza di Ristretti, e non perché non funziona più, tutt’altro, ma perché qualcuno ha deciso che non gli piace e che va drasticamente ridimensionata. Qualche esempio di “ridimensionamento”? La Casa di reclusione di Padova è diventata in questi ultimi quindici anni un luogo da cui si fa davvero prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio. Protagonisti di questi percorsi sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione. E poi c’è il Comune di Padova, che crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. E c’era la Direzione della Casa di reclusione, che credeva all’efficacia di un progetto con al centro le storie di vita dei detenuti, e metteva al primo posto non la “visibilità” del carcere, ma il futuro dei ragazzi e quello che è più utile per fare con loro prevenzione. Ma oggi c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Insegnanti e dirigenti scolastici, invitati dal Direttore della Casa di reclusione il 28 giugno a esprimere la loro opinione, hanno affermato con convinzione che il senso di questa esperienza di conoscenza del carcere, che fanno i giovani studenti, sta soprattutto nei racconti di vita delle persone detenute, nel loro mettere a disposizione di questo progetto le loro storie perché i ragazzi capiscano dove nascono le scelte sbagliate, lo scivolamento in comportamenti pericolosamente trasgressivi, la voglia di imporsi con metodi violenti, che a volte inizia proprio negli anni della scuola. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente all’incontro, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo, importante e significativo, per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentire di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male. - Sette mesi ci abbiamo messo per ottenere di far venire qualche detenuto nuovo in redazione, eravamo rimasti in otto (grazie a Dio, qualcuno esce, in semilibertà, in affidamento, a fine pena, e qualcuno viene trasferito), c’erano moltissime richieste ed è stato lungo e faticoso il percorso per ricostruire Ristretti Orizzonti, ma quello che è più faticoso è far riconoscere il valore di quella minima autonomia della redazione nell’organizzare il proprio lavoro, scegliendo i temi da trattare, gli ospiti da invitare, le iniziative da organizzare. Quello che vorremmo è semplicemente avere ospite in redazione anche il nuovo direttore, e poterci confrontare su una idea di carcere, in cui le persone detenute abbiano spazi significativi di libertà e di decisione, e non vivano più la condizione per cui se qualcosa gli viene dato, si tratta sempre di una “concessione”, di un beneficio, di un “regalo”. - La rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate, di recente anche a Sollicciano, era stata approvata dal precedente direttore, su proposta di Ristretti, anche per Padova, c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge (ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?). E subito dopo la nuova Direzione ha dato vita a una “rappresentanza per estrazione” (che neppure dovrebbe essere chiamata rappresentanza) di 20 detenuti, che non si capisce dove trovi la sua legittimazione nella legge (che allora, a voler essere precisi, prevede solo l’estrazione di rappresentanti in diverse commissioni, e non di rappresentanti di sezione). Uno strumento di autentica democrazia è stato bocciato, come se invece di un serio lavoro per preparare le persone detenute a occuparsi degli interessi di tutti, si trattasse di fare le elezioni del Presidente degli Stati Uniti e mettere in piedi una gigantesca macchina elettorale. - E ancora, ci è stato comunicato con un brevissimo messaggio della Direzione che il progetto Mai dire mail, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori, tutor universitari, e per il quale attendiamo da mesi una risposta sul rinnovo della convenzione che abbiamo sottoscritto con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Provveditorato, veniva sospeso dall’1 agosto, proprio per una serie di obiezioni sollevate dal Provveditore stesso, a cui abbiamo puntualmente risposto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per confrontarci e cercare di evitare questa sospensione, dannosa per le persone detenute, per le loro famiglie e anche per l’Amministrazione stessa, ma si è preferita la strada di bloccare il servizio. Quello che chiediamo è che Mai dire mail possa continuare, visto che niente è cambiato dall’autorizzazione che ha dato l’Amministrazione, soprattutto in un periodo delicato come questo, in cui il clima pesante che si respira nelle carceri rende ancora più importante il supporto esterno di famigliari e amici. Allora, in un momento così difficile per noi, ma anche per tutto il mondo che gravita intorno alle carceri, con il sovraffollamento sempre più a livelli di guardia, e la perdita di tante speranze, legate alla mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e i suicidi che in questi giorni riempiono le cronache, vi chiediamo di sostenerci, di appoggiare le nostre battaglie, di CREDERE NEL NOSTRO GIORNALE E ABBONARVI, nonostante i ritardi, nonostante la stanchezza che riempie tutti noi, che abbiamo creduto nel cambiamento e ci ritroviamo invece a fare pesanti passi indietro e a dover difendere con le unghie e con i denti anche le poche conquiste di questi anni. *Redazione di Ristretti Orizzonti Giù le mani da Ristretti Orizzonti camerepenali.it, 24 agosto 2018 La solidarietà ed il sostegno dell’Unione Camere Penali a Ristretti Orizzonti. L’Unione delle Camere Penali, con il proprio Osservatorio Carcere, esprime stupore e preoccupazione quanto denunciato da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, nonché Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia. Nella lettera di denuncia, diffusa attraverso le pagine della rivista edita dai detenuti della Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto Penale femminile della Giudecca (www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/nelle-carceri-si-sta-perdendo-la-speranza-nel-cambiamento-e-anche-ristretti-e-a-rischio), si paventa il pericolo di un pesante ridimensionamento, forse addirittura tale da metterne a repentaglio la sopravvivenza, dell’esperienza di Ristretti Orizzonti, le cui numerose attività sembra abbiano recentemente incontrato inediti ostacoli da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. La lettera ricorda che proprio quest’anno Ristretti Orizzonti compie vent’anni, un periodo sufficientemente lungo da far ritenere ormai consolidati la fiducia e l’apprezzamento delle Istituzioni, del resto più volte dimostrati, oltre a quelli di numerosi cittadini, fra cui certamente gli avvocati penalisti e tutti coloro che si interessano al mondo della Giustizia. Il lavoro di Ristretti Orizzonti ha il grande merito di coniugare l’indubbio e rilevante contributo culturale al percorso di risocializzazione dei detenuti coinvolti. Per questo, crediamo che dovrebbe rappresentare un modello da esportare piuttosto che da ridimensionare. Ci auguriamo pertanto che si sia trattato solo di coincidenze e che a nessuno venga in mente di interpretare il vento del cambiamento spazzando via le primizie come se fossero rami secchi. A Ristretti Orizzonti e ad Ornella, intanto, vanno la nostra solidarietà ed il nostro affettuoso sostegno. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Il legame governo-cittadini di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 24 agosto 2018 Il principale obiettivo della Lega e del Movimento Cinque Stelle è stato quello di rispondere alle paure degli elettori, innanzitutto rassicurandoli. Il governo Conte si sta avvicinando alla fatidica svolta dei cento giorni e i suoi indici di gradimento continuano a salire. Molti pensano però che non durerà. In autunno il castello di carta delle promesse da decine di miliardi si troverà di colpo esposto ai venti dei mercati internazionali e dovrà fare i conti con le regole europee. Gli elettori capiranno in quali mani hanno scelto di mettersi e la “pacchia populista” finirà. In politica tutto è possibile. Chi dà questo scenario per scontato sottovaluta tuttavia le dinamiche profonde che hanno condotto alla situazione attuale. L’ondata di voti e il persistente sostegno per i Cinque Stelle e la Lega sono il risultato di una crisi lunga e dolorosa, punteggiata da una inedita sequenza di disastri: prima la crisi finanziaria, poi una forte recessione, con pesanti e pervasive implicazioni sociali. E infine lo tsunami dei rifugiati e l’impennata degli sbarchi dall’Africa. Impoverimento e disoccupazione hanno generato un sentimento diffuso di insicurezza e risentimento fra gli elettori, anche per le difficoltà a comprendere le cause della crisi e a prevederne la durata. I partiti al governo si sono trovati a gestire sfide senza precedenti, barcamenandosi fra l’incudine dei vincoli europei e il martello del biasimo elettorale. Si possono dare valutazioni diverse, ma non si può negare che da Mario Monti in poi siano state adottate importanti riforme strutturali, che hanno letteralmente salvato il Paese dal baratro. La maggior parte degli elettori non ha colto il rischio e ha concentrato l’attenzione sui sacrifici, considerati come indebite “sottrazioni di diritti”. Il fatto che i benefici delle riforme abbiano tardato ad arrivare - in termini di reddito e occupazione - ha alimentato l’impressione che chi ha governato durante la crisi sia stato in realtà un incapace. I Cinque Stelle sono nati e cresciuti in questo contesto e la Lega ha saputo salire sul treno al momento giusto. Il principale obiettivo dei due partiti è stato quello di rispondere alle paure degli elettori, innanzitutto rassicurandoli. Non è stata colpa “vostra”, ma “loro”: della casta, dell’Unione Europea, degli speculatori finanziari, delle multinazionali che delocalizzano, degli immigrati. I due leader hanno poi rispolverato e popolarizzato vecchi simboli di identificazione collettiva (“cittadini”, “italiani”), hanno fornito diagnosi semplificate sulle cause della crisi e soprattutto hanno fatto promesse di rapido e diffuso miglioramento tramite le più elementari forme di protezione: soldi, meno tasse, difesa dei confini esterni, ordine pubblico. La strategia di Salvini e Di Maio è stata un mix di “anti-politica” e “iper-politica”: mobilitazione contro l’establishment (anti), potenziamento della dimensione emotiva e passionale del dibattito e della comunicazione (iper). A tutto questo, si è aggiunto un nuovo stile di linguaggio, la delegittimazione della sfera pubblica tradizionale - secondo Di Maio tutti i giornali sono bugiardi - nonché la creazione di sfere di informazione e dibattito “di area” (social media, piattaforme dedicate). In questo modo si è spezzato non solo il legame fra fatti, da un lato, e impressioni o valutazioni dall’altro, ma soprattutto il filo di quella conversazione “nazionale”, aperta e inclusiva alla quale la democrazia liberale affida la formazione della volontà popolare fra un’elezione e l’altra. Tutte le lune di miele a un certo punto finiscono. Le decisioni politiche concrete dividono sia chi le prende sia chi le subisce (i famosi cittadini). Governare richiede pragmatismo, disponibilità al compromesso. Ragione, non passioni. L’esperienza di Syriza in Grecia è lì a dimostrarlo. Il giorno dopo un plebiscito popolare contro le condizioni della Troika nel giugno 2015, il premier Tsipras decise di firmare comunque l’accordo con Bruxelles, in modo da tenere in vita l’economia ellenica. Succederà lo stesso al governo giallo-verde? Un certo grado di “normalizzazione” sarà inevitabile: il venire a patti con la realtà, l’assunzione di responsabilità, l’attenzione verso le conseguenze di ciò che si decide. Non siamo in America Latina, dove i governi populisti possono resistere a lungo, spesso portando i loro Paesi alla rovina. Con tutte le sue debolezze, il sistema politico italiano dispone di anticorpi liberali che dovrebbero essere sufficienti ad arginare gli eccessi di estremizzazione. La stessa natura “trina” della leadership di governo fornisce incentivi al bilanciamento fra i due partner di coalizione, attraverso la mediazione di un presidente del Consiglio che per formazione incarna (o così dovrebbe) lo stato di diritto. Dal canto suo, l’Unione Europea non può permettersi di abbandonare l’Italia al suo destino. Ma nella misura in cui avverrà, la normalizzazione della coalizione giallo-verde sarà probabilmente un processo lento e non lineare. I tempi e gli esiti dipenderanno molto anche dalle opposizioni, dalla loro capacità - in quest’ordine - di sopravvivere, riorganizzarsi, rinnovarsi nelle persone e nei programmi. Una sfida non facile da superare, che richiede molto lavoro politico e qualche benefica discontinuità. L’ultima frontiera di Salvini: prima il popolo, poi le istituzioni di Francesca Schianchi La Stampa, 24 agosto 2018 Per il leader-ministro un crescendo di dichiarazioni e linea sempre più dura in diretta Facebook. Se il Colle, il premier e i giudici non sono d’accordo poco importa: basta che la gente sia con lui. Quale fosse l’aria si poteva capire fin dai primi giorni di governo, da quando, poche ore dopo aver giurato, già metteva da parte la grisaglia ministeriale e si scaldava in piazza a Vicenza coniando uno degli slogan più infelici e virali di questa stagione: “Per i clandestini è finita la pacchia”. Da allora, in barba alla moderazione istituzionale che di solito porta il ruolo, per il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini è stato tutto un crescendo: contro l’opposizione in Parlamento e contro la Ue, i poteri forti e la stampa, il rapper, l’attrice, l’intellettuale. Beffardi bacioni per tutti, sempre in nome del popolo italiano, in un florilegio di attacchi e critiche e taglienti sfottò che arriva fino alla magistratura (“Indagatemi”) e ai vertici dello Stato: la nuova frontiera del salvinismo è lo scontro istituzionale, la sfida al presidente della Repubblica, ma anche al premier, entrambi provocatoriamente invitati, dopo che hanno tentato la moral suasion, a dare il via allo sbarco dalla Diciotti se vogliono, “ma senza il mio consenso”, e al presidente della Camera, Roberto Fico, accomunato malignamente a “Bertinotti, Fini e Boldrini”, la terza carica dello Stato descritta con sprezzo come uno che “ha tempo per parlare”. Un rivale via l’altro - Va in tv, interviene in radio, fa interviste sui giornali. Ma la specialità è il rapporto col suo pubblico, “è un po’ che non ci sentivamo e non ci vedevamo in diretta live”, li saluta con il sorriso che si riserva agli amici parlando via Facebook, rassicurandoli di aver detto no allo sbarco “a nome mio, ma anche a nome vostro perché per questo mi avete scelto e votato”, e mentre parla “da ministro, da papà, da italiano”, mentre spuntano un attimo gli occhi della figlia in un quadretto di famiglia che sembra perfetto per dire “sono come voi”, è tutto un tripudio di cuoricini e pollici alzati, “sei un grande non fermarti” e “l’Italia vi ama”, più di centomila commenti e oltre un milione di visualizzazioni. I nemici sono Maurizio Martina e il Pd, “ma poveretto”, Asia Argento “sperando che la notte stia tranquilla”, Roberto Saviano con cui lo scontro è aperto da tempo, “sperando che non abbia esaurito la scorta di Maalox”, Gad Lerner che “chissà se il Rolex funziona ancora perfettamente”. E poi “l’Europa vigliacca”, il “giornalismo ipocrita”, la magistratura che apre un fascicolo contro ignoti, “sono qua, non sono ignoto” e via via, un nemico dopo l’altro in una escalation che sente benedetta dall’umore popolare, “è con me la maggioranza degli italiani”, e pazienza se il 4 marzo scorso a votare per lui fu il 17 e rotti per cento che non corrisponde esattamente alla maggioranza. La rivalità di Di Maio - Da allora, in questi due mesi e mezzo di governo, proprio questo viaggiare solo in accelerazione, mai fare marcia indietro nella convinzione che qualcun altro risolverà il problema (come quando, a luglio, fu Conte su input di Mattarella a decidere lo sbarco) o, mal che vada, si finirà alla crisi di governo e all’incasso, lo fa crescere nei sondaggi, lievitare su fino a raddoppiare lo score o giù di lì. Tutto questo nello stesso momento in cui Luigi Di Maio, il gemello diverso del M5S, l’alleato con cui “lavoro molto bene” gli sta dietro a fatica. Ne imita il linguaggio (“Passeranno sul mio cadavere”, “Hanno fatto marchette ad Autostrade”), alza i toni pure lui (“Se l’Ue non fa nulla non siamo più disposti a dare 20 miliardi all’anno all’Unione europea”), eppure il ritmo è sincopato, ogni tanto gli tocca abbozzare come su Ilva, nascondersi dietro formule tipo “il delitto perfetto”, per dire che la gara non gli piace ma le regole si rispettano. Mica come Salvini, disposto a tirare la corda fino quasi a farla spezzare. Anche oltre le regole dello Stato di diritto, l’umanità, il buon senso, spronato da una valanga di like. Il re è nudo, bisogna solo avere il coraggio di vederlo di Francesco Petrelli* Il Foglio, 24 agosto 2018 L’onda populista che si è allungata possente sull’Europa e sull’intero mondo occidentale ha investito anche la nostra società, travolgendone i pur modesti caratteri democratici. Quest’onda ha tuttavia assunto nel nostro paese un tratto originale che la rende particolarmente insidiosa. Quella che il professore Ilvo Diamanti ha chiamato la “disintermediazione”, ovvero la polverizzazione dei corpi intermedi e la desertificazione degli spazi che tali formazioni un tempo positivamente occupavano, attuata in maniera scientifica oramai da tempo, è infatti un elemento che ha dotato la spinta populistica di una efficacia a dir poco fatale. Non sono infatti tanto lo stimolo emotivo e l’uso disinvolto delle pulsioni (in fondo la politica ne ha spesso fatto uso anche in passato), quanto proprio l’assenza di categorie intermedie, fatte anche di ideologie, di cultura, di informazione, di pensiero intellettuale, di pubbliche opinioni, di storia e di memoria, oltre che di partiti e sindacati, che possano interporsi fra il politico e il cittadino, a caratterizzare questa nuova forma di “populocrazia”. L’immediatezza del rapporto del singolo con la politica, è dunque una cosa diversa da quella rapidità che pure caratterizza questa nuova forma di populismo, e che Massimo Gramellini ha chiamato “dittatura dell’istante”, proprio perché quello di “im-mediatezza” non è solo un concetto di ordine cronologico, ma descrive al tempo stesso proprio quella temibile “mancanza di mediazioni” che costituisce l’aspetto critico di questo nuovo contesto. È infatti proprio l’assenza di ogni possibile strumento di elaborazione che sia capace di dare senso allo spazio che necessariamente si pone fra il singolo e chi lo governa a costituirne il limite più evidente. Se la caduta totale delle “intermediazioni” assume un significato negativo per la sopravvivenza delle categorie della politica e della democrazia, essa ha un riflesso particolarmente negativo per il mondo della giustizia. Se vi è difatti una istituzione civile intrinsecamente e inevitabilmente (ci scapperebbe qui un ontologicamente) coessenziale alla “mediazione” è proprio la giustizia. L’atto stesso del giudicare e il processo non sono altro che una mediazione fra interessi contrapposti: la libertà e l’autorità. Nulla della giurisdizione, ivi compresa la necessaria funzione svolta dai difensori, può sopravvivere all’annichilimento di tale fondamentale funzione politica e civile. L’idea, ora vincente, che tra il decisore e il cittadino non possa e non debba esservi nulla che si frappone a quel felice rapporto, rende la giustizia un istituto incomprensibile e insopportabile. L’idea stessa che un giudice o un pubblico ministero possano autonomamente ed indipendentemente decidere della qualificazione di un fatto, della esistenza di un illecito, della responsabilità di un ente o di un soggetto, della necessità o meno di una cautela, magari utilizzando un proprio incomprensibile armamentario giuridico, entra evidentemente in rotta di collisione con la purezza e con la trasparenza di quell’idillio che si è oggi instaurato fra governato e governante. Appaiono in linea con questa idea di fondo le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla lentezza-inutilità della giustizia, e le affermazioni formulate dai vicepresidenti in occasione dei tragici fatti di Genova, che postulano giudizi trancianti e inoppugnabili che di gran lunga esautorano ogni parallelo intervento giudiziario (inutile residuo di un ancien régime travolto e superato dai fatti). Tali appaiono le tracotanti affermazioni del Ministro che decide della libertà personale dei migranti, che sentenzia se sia legittimo usare esseri umani come ostaggi. Se un tempo la giustizia era oggetto di un rispettoso interesse da parte della politica, e ogni partito sperava di governarne le funzioni, con finalità più o meno edificanti, oggi il vero rischio è quello di un collasso strutturale ben più grave. Quello di una magistratura vista come intralcio al rapporto diretto con i cittadini. Quello di politici autocrati che si auto-investono di un vastissimo potere di giudizio, che sostituisce quello giudiziario, e che si fanno dunque giustizia da sé in nome del popolo sovrano, riscattandolo e vendicandolo dai soprusi. Che non vogliono attendere le sentenze, che non vogliono magistrati a valutare la sussistenza o meno dei diritti, da quello alla legittima-difesa-che-è-sempre-legittima, a quello del richiedente asilo. Liberi dai lacci e lacciuoli della giurisdizione e dell’amministrazione, riassumono in uno tutti i poteri. Dall’incubo della “repubblica giudiziaria” governata dai magistrati a quello del politico Leviatano che si fa “giudice vendicatore a furor di popolo”. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane L’attacco al Parlamento prefigura una Repubblica identitaria di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 24 agosto 2018 Sconcertante l’attualità del confronto sul futuro del parlamentarismo che si è svolto tra Kelsen e Shmitt nella fase più vivace della repubblica di Weimar. Poi sappiamo com’è finita. “Non si può seriamente dubitare che il parlamentarismo sia l’unica forma reale in cui l’idea di democrazia possa essere attuata nell’odierno contesto sociale”. È la risposta che diede Hans Kelsen a Carl Schmitt il quale riteneva che il Parlamento avesse esaurito le proprie ragioni “storico-spirituali”. Tanto Kelsen quanto Schmitt erano, entrambi, del tutto consapevoli della grave crisi in cui versava l’organo della rappresentanza popolare, ciò che però radicalmente li separava era la visione di democrazia. Per Kelsen, infatti, l’essenza e il valore della democrazia era da rinvenire nelle garanzie del procedimento parlamentare, poiché esse sole potevano assicurare la dialettica e il contraddittorio (la “contrapposizione di tesi e antitesi”) tra i diversi interessi politici. È solo a seguito di questo necessario confronto che si può formare la volontà dello Stato democratico. Il “compromesso” parlamentare si regge sul principio di maggioranza s’intende, e dunque non c’è alcun cedimento verso forme di governo assembleari che minino le prerogative e l’attività dei Governi. Ma proprio per assicurare capacità di governo è necessario garantire che si possano esprime e far valere entro il Parlamento gli effettivi rapporti sociali. Altrimenti, scriverà con drammatica chiarezza Kelsen, il conflitto finirà per travolgere la democrazia: “Se c’è una forma che offra la possibilità di eliminare questo profondo contrasto - che si può deplorare ma non seriamente negare - non mediante sanguinose rivoluzioni ma in modo pacifico e graduale, questa è la forma della democrazia parlamentare”. Carl Schmitt riteneva invece il Parlamento il luogo dell’inconcludenza politica, mero “teatro della divisione pluralistica della società”. Si doveva, dunque, immaginare un futuro senza quest’organo, ormai entrato in una fase di “auto-disfacimento”. La volontà statale non si sarebbe più assicurata mediante il principio di rappresentanza politica plurale, bensì poteva essere conseguita ben più efficacemente in base al principio d’identità. Identità in un capo (Führerprinzip) e adozione di un sistema di pronunce dirette della volontà popolare su singole questioni (“Se i cittadini aventi diritto al voto non eleggono un deputato, ma in un referendum, in un cosiddetto plebiscito reale, decidono effettivamente da sé e rispondono con un sì o un no a una domanda loro posta, il principio dell’identità è veramente realizzato al massimo grado”). Nei termini più propriamente istituzionali, dunque, la ricetta per superare la crisi del Parlamento era in questo caso indicata nel passaggio ad un sistema di presidenzialismo plebiscitario. Questo confronto sul futuro del parlamentarismo si è svolto negli anni Venti del secolo scorso, durante la fase più vivace della repubblica di Weimar. Poi sappiamo come è andata a finire. A me sembra di un’attualità sconcertante ed una lezione su cui meditare, poiché essa coglie l’essenza dei problemi del nostro tempo con una distanza e una profondità d’analisi del tutto assenti nel dibattito convulso che si è acceso su queste delicatissime questioni. Non vorrei nobilitare troppo gli attuali critici del Parlamento (da Casaleggio a Giorgetti), ma le tesi da loro sostenute non possono essere considerate in sé e per sé, devono essere valutate alla luce della visione di superamento della democrazia parlamentare lucidamente fissata da Carl Schmitt. Non sono, infatti, in discussione le aspre critiche che vengono rivolte alle patologie del sistema: che il Parlamento non conti più nulla, che non sia più riconosciuto dai cittadini (Giorgetti), o che la sfiducia dei cittadini nella classe politica abbia radici lontane e lo scollamento tra i palazzi e la vita reale non sia una novità (Casaleggio) sono certamente dati di realtà. Quel che inquieta sono le conclusioni che se ne traggono e le prospettive che si indicano. Per Casaleggio “il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile”, sostituito da forme in cui il volere dei cittadini venga tradotto direttamente in atti concreti e coerenti; mentre con più pragmatismo Giorgetti indica la classica strada della repubblica presidenziale come via per superare un parlamentarismo inconcludente e andare alla ricerca di un rapporto diretto tra il popolo e un capo. È una repubblica identitaria il futuro che ci viene prospettato. Forse solo, in termini schmittiani, un’altra forma di democrazia, privata però del suo valore e della sua essenza. Eppure, quel che impressiona sopra ogni altra cosa è che nel dibattito attuale sia scomparsa la voce di chi, pur consapevole della crisi del sistema parlamentare, voglia riaffermarne il suo primato. Non fosse altro perché è questa l’unica forma reale in cui l’idea di democrazia può essere attuata. In fondo basterebbe tornare a Kelsen per individuare una strada alternativa a quella che ci è stata sin qui proposta, e non solo con le ultime dichiarazioni degli esponenti del governo giallo-verde, ma dall’intero establishment politico ormai da qualche lustro. La crisi delle democrazie contemporanee si lega indissolubilmente al disfacimento del sistema parlamentare. Ed è proprio questo doppio stallo che impone di riflettere sulle forme assunte dalle procedure parlamentari, non più in grado di assicurare il confronto tra i diversi interessi politici. Se qualcuno volesse seriamente affrontare le drammatiche questioni poste dall’odierno contesto sociale, sempre più asfittico e chiuso, dovrebbe con forza rivendicare una nuova centralità del sistema parlamentare. Poiché senza un Parlamento in grado di essere effettivo luogo del compromesso politico non c’è spazio per un’idea di democrazia plurale. Il Csm ora ferma i giovani Gip: “serve esperienza” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 agosto 2018 Le toghe devono prima aver svolto per due anni le funzioni di giudice del dibattimento. Stop ai “baby gip”. Per poter firmare un’ordinanza di custodia cautelare servono almeno due anni di servizio. Il quesito al Consiglio superiore della magistratura era stato avanzato nei mesi scorsi dai presidenti dei Tribunali di Caltagirone, Lamezia Terme, Isernia e Vercelli. Considerate le carenze organiche dei loro uffici, i quattro presidenti avevano chiesto a Palazzo dei Marescialli di essere autorizzati ad attribuire le funzioni di giudice per le indagini preliminari ai neo magistrati che avevano ultimato il tirocinio. La normativa attuale prevede infatti che per poter ricoprire le funzioni di gip sia necessario aver svolto almeno due anni le funzioni di giudice del dibattimento. È possibile, però, una deroga in caso di “imprescindibili e straordinarie esigenze di servizio”. Il termine dei due anni era stato indicato dal legislatore in quanto la funzione di gip è quella più delicata in assoluto nell’ambito del processo. Tantissime le competenze che sono attribuite a questo magistrato dal codice di procedura penale. Dall’autorizzazione allo svolgimento delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, all’ordine di applicazione di misure cautelari personali ed interdittive, dall’applicazione di misure di sicurezza personali provvisorie (come l’internamento in una Rems), ai sequestri preventivi di natura patrimoniale. Con indagini preliminari che si protraggono ormai per anni, quasi sempre svolte attraverso il massiccio ricorso di mezzi di ricerca della prova estremamente invasivi come appunto le intercettazione telefoniche, ed il ricorso costante alle misure cautelari, è di tutta evidenza l’importanza del corretto ed equilibrato esercizio di questa funzione. Il gip, scrive il Csm, fonda la sua decisione sulla base di un contraddittorio “meramente cartolare”, e opera valutazioni cautelari “dell’insidiosa materia indiziaria” esclusivamente sulla scorsa degli elementi di prova forniti dal pubblico ministero. Da qui, dunque, la necessità di magistrati che “abbiano maturato una specifica e concreta esperienza con riguardo alla formazione della prova nel contraddittorio pieno delle parti, momento topico in cui, esplicandosi appieno i diritti della difesa, è dato saggiare approfondita-mente la tenuta dell’impianto accusatorio”. Non è quindi possibile affidare questa funzione, prosegue il Csm, “a magistrati privi di qualsiasi esperienza di trattazione diretta ed autonoma di procedimenti giurisdizionali”. Neppure a titolo di supplenza. Verosimilmente per evitare la tentazione che ricorrano al “copia ed incolla”, conformandosi acriticamente alle richieste dell’accusa. Se non sono presenti nel Tribunale magistrati con queste caratteristiche, il capo dell’Ufficio dovrà richiedere al presidente della Corte d’Appello di applicare una toga, anche fuori dal distretto, che abbia i requisiti richiesti. Il Csm, però, lascia aperta una finestra: in caso di necessità, potrà svolgere le funzioni di gip anche il magistrato proveniente dal settore civile, purché abbia la prevista anzianità di servizio. Lettera a Bonafede sulle nomine del Csm: “fermi le ingiustizie” di Errico Novi Il Dubbio, 24 agosto 2018 Caso sul Tribunale di Massa: giudice chiede l’intervento del Ministro. Su una delle ultime nomine votate dal Csm si apre un caso che può cambiare gli equilibri nella scelta dei “capi” degli uffici: uno dei candidati alla presidenza del Tribunale di Massa scrive al guardasigilli Alfonso Bonafede e gli chiede “individuare gli elementi” che avrebbero portato a “una proposta di maggioranza disancorata dai parametri”, cioè incoerente rispetto alle regole che lo stesso Csm si è dato. Secondo il giudice, penalizzato dal voto della commissione vista del ballottaggio decisivo in plenum (che è in calendario per settembre), si può intervenire nella fase del “concerto” sulla nomina, che il ministro dovrà esprimere a breve. Di ricorsi contro le nomine del Csm se ne contano centinaia. Di obiezioni sulla correttezza delle scelte di procuratori capo e presidenti di Tribunale è lastricata ogni campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio. Ma il caso del Tribunale di Massa, sulla cui guida il plenum deciderà a settembre, potrebbe portare una novità clamorosa: una richiesta di “ripensamento” avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede rispetto al primo voto in commissione. Ipotesi non remota. E certo tutt’altro che fantasiosa in termini di procedura: al guardasigilli, infatti, la legge istitutiva del Csm attribuisce la facoltà di esprimere un “concerto” sulle proposte di nomina avanzate dalla quinta commissione, preposta appunto all’attribuzione degli incarichi. Passaggio che la prassi sembrerebbe aver ridotto a formalità. Ma stavolta la prassi potrebbe interrompersi. Il piccolo “terremoto” per gli equilibri nella magistratura è annunciato dalla mossa con cui il dottor Carmelo Leotta, presidente vicario del Tribunale di Busto Arsizio, ha reagito al voto della quinta commissione di Palazzo dei Marescialli, che lo scorso 26 luglio gli ha preferito un altro giudice. La maggioranza dei consensi è andata infatti a Paolo Puzone, attualmente in servizio presso il Tribunale conteso, quello di Massa. A pochi giorni dal ballottaggio decisivo, che sarà calendarizzato in plenum per inizio settembre, Leotta ha scritto al guardasigilli. A Bonafede. In vista del “concerto”, appunto, che il nuovo responsabile della Giustizia è chiamato a esprimere. Nella sua lettera Leotta sostiene che il voto di fine luglio non ha tenuto “nella dovuta considerazione le pregresse esperienze professionali dei singoli candidati, con ciò discostandosi dai criteri indicati nella circolare P14858 del 28 luglio 2015”, ossia il Testo unico per l’assegnazione degli incarichi. In pratica, sostiene il magistrato, il Csm avrebbe “tradito” le stesse regole che, con orgoglio, rivendica di essersi dato all’inizio di questa consiliatura. E a dare un’occhiata ai dati sui candidati per la presidenza del Tribunale toscano, è difficile dar torto a Leotta. Che non è solo il candidato con la maggiore anzianità di servizio, ma è anche il solo dotato del requisito essenziale, secondo le regole di Palazzo dei Marescialli, per assumere il ruolo di capo: aver maturato esperienza dal punto di vista organizzativo. È stato presidente di sezione civile a Varese. Dopodiché è stato nominato presidente della sezione fallimentare del Tribunale in cui lavora attualmente, quello di Busto Arsizio. Dal 2009 al 2017 si è occupato cioè di coordinare l’attività giudicante nelle crisi d’impresa nel cuore della regione più produttiva del Paese e nel pieno della congiuntura più nera del dopoguerra. Basterebbe, dopodiché, sempre nella sede lombarda, Leotta ha assunto l’incarico, tuttora ricoperto, di presidente vicario già dal 2013. Ruolo in virtù del quale è stato presidente facente funzioni per quasi l’intero 2017. E il collega che gli è stato preferito? Il dottor Puzone negli ultimi dieci anni è stato semplicemente uno dei 15 giudici del Tribunale di Massa, finché nella primavera di quest’anno, dopo il congedo dell’ex presidente Maria Cristina Failla, ha svolto pure lui il ruolo di facente funzioni del Tribunale. A occhio nudo una disparità sembra esserci. E la scelta della quinta commissione del Csm resta esposta alle obiezioni di Leotta. Che ha ricevuto solo uno dei 6 voti espressi: quello di Aldo Morgigni, togato di “Autonomia & Indipendenza”, la corrente di Piercamillo Davigo. Le altre 5 preferenze, tutte per Puzone, provengono dagli altri gruppi della magistratura e dai laici. Il ministro “ha certamente tutti gli strumenti atti ad individuare gli elementi che nel caso concreto hanno portato ad una proposta di maggioranza disancorata dai parametri dettati dalla normazione secondaria che ne regolamenta l’adozione”, si legge nella missiva firmata da Leotta e ricevuta alcuni giorni fa dal guardasigilli. Secondo il magistrato, “il concerto previsto dalla legge” non deve “ridursi a una semplice presa d’atto” ma può garantire la necessaria verifica “sul metodo e quindi sui parametri utilizzati per la formulazione delle proposte”. E questo in ragione del “bilanciamento, sottolineato più volte dalla Corte costituzionale, dei valori contenuti negli articoli 105 e 110 della Carta”. Della lettera inviata a Bonafede, Leotta ha informato il comitato di presidenza del Csm. E certo con questa mossa crea i presupposti perché il nuovo guardasigilli si occupi in prima persona della trasparenza nelle nomine del Consiglio. Obiettivo implicitamente affermato dal programma del Movimento Cinque Stelle. Che non a caso ha inserito nel “contratto” di governo anche la possibile riforma elettorale del Csm. Mancate informazioni sui dipendenti non depenalizzata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2018 L’illecito, previsto dalla legge 628/61, per chi non fornisce all’ispettorato del lavoro la corretta documentazione sulla posizione dei dipendenti, non rientra tra quelli depenalizzati, essendo una contravvenzione punita con la pena alternativa dell’ammenda. Ed è dunque soggetto al termine di prescrizione ordinario. Con questa motivazione la Corte di cassazione (sentenza 38836) accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la sentenza con la quale il Tribunale aveva chiuso il caso, dichiarando di non potersi procedere per il reato perché ormai prescritto. La pubblica accusa, con cui la Suprema corte concorda, aveva, infatti, sottolineato che la contestazione riguardava una contravvenzione punita con pena alternativa. Questo per effetto delle modifiche apportate alla legge del 1961 dal Dlgs 758 del 1994, che ha sostituito il carcere con l’ammenda per chi non fornisce informazioni o la dà incomplete agli ispettori del lavoro, ai quali compete la verifica del rispetto delle norme di igiene e sicurezza sul posto di lavoro. La norma è dunque sottratta all’effetto depenalizzazione messo in atto con il Dlgs 8/2015, ed è soggetta al termine di prescrizione ordinario dettato dall’articolo 157 del Codice penale. Un tempo che sarebbe scaduto il 6 dicembre 2017, per un reato commesso il 6 dicembre del 2013. Ma la sentenza impugnata è arrivata prima. Sottrazione fraudolenta con la vendita fittizia di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 38834/18. Commette sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte l’imprenditore che, dopo aver ricevuto gli avvisi di accertamento, vende il proprio complesso immobiliare alla dipendente restando ad abitarvi. A precisarlo è la Corte di cassazione con la sentenza 38834, depositata ieri. Un imprenditore riceveva due avvisi di accertamento, a seguito dei quali l’agenzia delle Entrate, temendo un pericolo per la riscossione, otteneva dal presidente della competente Ctp iscrizione ipotecaria su un complesso immobiliare di proprietà. Tuttavia, pochi giorni prima della decisione dei giudici tributari sulla richiesta di iscrizione del vincolo da parte dell’amministrazione, gli immobili erano venduti ad una dipendente dell’imprenditore. Il mutuo che gravava su di essi era accollato dall’acquirente, per un importo annuo corrispondente al proprio stipendio. Il venditore manteneva la residenza in uno degli immobili e la dipendente non acquisiva mai il godimento dei beni. Veniva, così, ipotizzata la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 del Dlgs 74/2000), per la quale l’imputato era condannato in primo ed in secondo grado. La difesa ricorreva per cassazione lamentando, tra l’altro, che la vendita era stata eseguita con accollo del mutuo e che, quindi, non vi era stata alcuna diminuzione patrimoniale, semmai un miglioramento della posizione dell’imputato. Il fatto che l’acquirente non potesse sostenere il pagamento del mutuo non escludeva che altri avessero prestato adeguate garanzie, altrimenti la banca non avrebbe mai liberato l’originario mutuatario. Il mancato spostamento della residenza dell’immobile venduto non provava che l’imputato avesse continuato ad averne la disponibilità e, in ogni caso, la crisi di impresa giustificava la vendita. Da ultimo, secondo la difesa, se fosse stato veritiero il disegno criminoso ipotizzato, sarebbe stata singolare l’estraneità dell’acquirente al procedimento penale, avendo concorso negli illeciti. La Corte ha così respinto il ricorso. Secondo i giudici, infatti, l’alienazione degli immobili ha determinato oggettivamente la diminuzione del patrimonio dell’imputato, frustrando la sua funzione di garanzia del credito erariale. Nello specifico la vendita non ha consentito all’amministrazione di iscrivere ipoteca di primo grado, come disposta dal presidente della commissione tributaria provinciale. L’accollo residuo del mutuo da parte dell’acquirente era irrilevante, in quanto questa modalità di pagamento non aveva determinato in concreto alcun vantaggio a favore dell’amministrazione. Anche la paventata eventuale infondatezza della pretesa erariale non era fondata, perché l’oggetto giuridico del reato contestato non è il diritto di credito del fisco ma la garanzia data dai beni dell’obbligato, potendo addirittura ipotizzarsi il delitto se a seguito del compimento degli atti fraudolenti avvenga il pagamento delle imposte. Da ultimo, è stato anche ritenuto che fosse del tutto irrilevante, rispetto alle responsabilità penali dell’imprenditore, il mancato coinvolgimento nel procedimento penale da parte dell’acquirente dell’immobile. Guida in stato di ebbrezza, rivalsa assicurativa contro conducente e proprietario di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2018 Corte di cassazione -?Sentenza 23 agosto 2018 n. 21027. Del tutto legittima la clausola di rivalsa prevista nella polizza Rca per i sinistri causati in stato di ebbrezza. La Cassazione, sentenza 21027 di oggi, chiarisce inoltre che la Compagnia può rivalersi sia contro l’assicurato che il proprietario, se diversi come nel caso affrontato. Non solo, per certificare l’abuso di sostanze alcoliche è sufficiente l’attestazione contenuta nel verbale di polizia, senza dunque la necessità di attendere l’esito di un giudizio. Il caso partiva dalla richiesta di risarcimento per i danni patiti a causa della perdita di controllo del veicolo finito fuori carreggiata, formulata da un terzo trasportato nei confronti dell’assicurazione oltreché del conducente e del proprietario dell’automobile. La Compagnia nel costituirsi aveva però contro dedotto che “la copertura assicurativa non era operante perché il conducente era risultato guidare in stato di ebrezza, sicché aveva diritto di rivalersi nei confronti sia del conducente che del proprietario”. In primo grado il Tribunale aveva accolto la domanda di rivalsa nei confronti del conducente ma non del proprietario in quanto non aveva contratto alcuna polizza. In appello tuttavia la Corte territoriale veneta ha esteso la rivalsa anche al proprietario. Proposto ricorso, gli obbligati, con un primo motivo, hanno dedotto la violazione del codice delle assicurazioni per aver ritenuto responsabile anche il proprietario. Sul punto la Suprema corte chiarisce che “la rivalsa dell’assicuratore nei confronti dell’assicurato, per la responsabilità civile da circolazione dei veicoli, è da riferire sia al conducente, nella specie contraente, sia al proprietario del veicolo - sempre che il mezzo non abbia circolato contro la sua volontà - in quanto responsabili civili e titolari dell’interesse esposto al rischio”. Con gli altri due motivi, affrontati congiuntamente, i ricorrenti hanno sostenuto “la violazione e falsa applicazione dell’art. 186 del codice stradale e degli artt. 18 della legge n. 990 del 1969 e 144, codice assicurazioni private, poiché la corte di appello avrebbe errato ritenendo sufficiente, per accertare la guida in stato di ebbrezza, il mero dato di fatto evinto dal verbale dei militari occorsi su luogo, fermo restando che nessuna influenza avrebbe comunque potuto darsi ai provvedimenti amministrativi prefettizi conseguenti, in quanto cautelari e revocabili dal giudice penale, unico giurisdizionalmente competente all’accertamento in questione”. Doglianze anch’esse bocciate dai giudici di legittimità che ricordano come la clausola contrattuale escludeva l’operatività della polizza “nel caso di veicolo guidato da persona in stato di ebbrezza..., ovvero alla quale sia stata applicata una sanzione ai sensi degli articoli 186 e 187 del codice della strada”. Per cui, proseguono gli ermellini, nulla può obiettarsi contro la decisione della corte territoriale che “ha implicitamente quanto univocamente interpretato il patto nel senso di escludere la necessità di un giudizio penale, e dunque accertando essa stessa la sussistenza dell’ipotesi, in ragione del più volte richiamato verbale di polizia giudiziaria”. Infatti, ricorda la Cassazione “le censure relative all’ermeneutica negoziale non possono in ogni caso risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione della parte ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra”. Del resto, conclude la decisione, “se si fosse voluto imporre il previo accertamento del giudice penale lo si sarebbe enunciato nel contratto”. Umbria: la Lega contro il Garante regionale dei detenuti umbrianotizieweb.it, 24 agosto 2018 La Lega incontra la Polizia Penitenziaria di Capanne e promette battaglia a fianco degli agenti stessi. “Con la Lega al governo del Paese gli agenti della Polizia penitenziaria torneranno ad essere tali e appenderanno al chiodo il camice di assistenti sociali e psicologi, un ruolo importante ma che non compete loro”. Queste le dichiarazioni del consigliere regionale Lega, Valerio Mancini e del Senatore e Capogruppo in Commissione Giustizia, On. Simone Pillon, all’indomani dell’incontro con alcuni rappresentanti dei sindacati degli agenti del carcere di Capanne. “La ricetta della Lega per restituire dignità ad un corpo fortemente penalizzato dal precedente Governo è chiara - ha spiegato il consigliere Valerio Mancini agli intervenuti - I nostri uffici stanno già lavorando per chiedere l’abolizione di un’inutile figura quale quella garante regionale dei detenuti: un ruolo superfluo, creato ad hoc dal Pd, per assegnare una poltrona agli amici degli amici. In Umbria, grazie alla proposta dal garante dei detenuti, chi delinque e sconta la sua pena all’interno di un carcere gode del totale esonero delle tasse universitarie, un affronto a tutti gli studenti e alle loro famiglie che pur di per far studiare i propri figli rinunciano anche a beni di primaria necessità. Un paradosso - lo ha definito Mancini - che testimonia la totale incapacità amministrativa del Pd”. Nel suo intervento il Senatore Pillon ha, invece, rassicurato gli agenti della Polizia penitenziaria affermando che: “In commissione Giustizia, la riforma dell’ordinamento penitenziario voluto dal passato governo, è stata bloccata”. Respiro di sollievo per gli intervenuti che a questa affermazione hanno fatto seguire un lungo applauso. Il Senatore ha poi affermato che le richieste degli agenti sono legittime e realizzabili. Tra queste la necessità di dotarli di strumenti idonei al proprio lavoro come la pistola elettrica, lo spray al peperoncino e le fasce per immobilizzare in supporto alle ordinarie manette. Fino ad oggi - ha concluso Pillon - c’è stato un Governo che non riconosceva l’importanza del lavoro messo in atto da tutte le forze dell’ordine, oggi la musica è cambiata abbiamo un Governo e ancor di più un Ministero degli interni che riconosce in voi la speranza di un futuro migliore” Firenze: i detenuti scrivono al Governo “da 20 giorni senza ora d’aria” Redattore Sociale, 24 agosto 2018 Dopo il crollo dei calcinacci nei passeggi esterni, i reclusi non possono uscire all’aria aperta. E si appellano al ministro della giustizia: “Condizioni insostenibili, cambiare il carcere oppure dichiararlo inagibile”. Nel carcere fiorentino di Sollicciano i detenuti sono da venti giorni senza ora d’aria. È la conseguenza della chiusura di tutti e 13 i passeggi esterni dovuta a un crollo all’inizio di agosto. La direzione e i tecnici del carcere, a causa di un potenziale rischio crolli in uno dei passeggi, hanno optato per chiuderli tutti. Così, i reclusi non possono uscire all’aria aperta neppure per pochi minuti. Stremati da questa situazione, insieme al cappellano del penitenziario don Vincenzo Russo, hanno scritto una lettera al ministro della giustizia Alfonso Bonafede, come riportato oggi dal Corriere Fiorentino, per denunciare una situazione giudicata “insostenibile”. “Al disagio del caldo di questo periodo - scrivono i reclusi - si aggiunge il disagio di non poter accedere più a nessuno spazio all’aria aperta, come previsto dalla legge, creando una situazione fisicamente insostenibile la cui fine non è data prevedere. La gestione delle situazioni di emergenza all’interno del carcere di Sollicciano ci ha insegnato che i tempi per porre rimedio ad un siffatto stato di cose saranno, probabilmente, estremamente lunghi. Il tempo sinora trascorso senza che nessun intervento sia stato nemmeno previsto ci sta dando tristemente ragione. A differenza di altre situazioni però, in questo caso, è la vivibilità degli spazi minimi che viene meno, rendendo la pena, già di per sé pesante, ancor più insostenibile”. Detenuti e cappellano chiedono soluzioni forti e immediate: “Tutto questo non è accettabile da un punto di vista umano e legislativo. La situazione va risolta con misure d’urgenza, trovando spazi alternativi, allestendo protezioni provvisorie, oppure se anche queste fossero ritenute non sufficienti, dichiarando inagibile la struttura fino alla risoluzione dell’emergenza”. E infine: “Non vogliamo attendere l’esplosione della disperazione, con atti eclatanti per fare notizia e per far sì che il problema venga affrontato e risolto. Non è un’impresa impossibile, basterà un po’ di senso di responsabilità da parte di chi ha le competenze del caso”. La lettera è stata inviata, oltre che al ministro, al capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al Sottosegretario alla giustizia, al presidente del Tribunale di Sorveglianza, al provveditore regionale del Dap, ai garanti territoriali, al sindaco di Firenze, al direttore di Sollicciano e al comandante della polizia penitenziaria. Firenze: carcere di Sollicciano, una rete para-sassi per consentire l’ora d’aria di Paolo Ceccarelli e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 24 agosto 2018 Il grido di Sollicciano è arrivato a Roma. Sul tavolo del ministro Alfonso Bonafede c’è la lettera-appello con cui i detenuti e il cappellano del carcere don Vincenzo Russo denunciano l’impossibilità da quasi un mese di usufruire dell’ora d’aria giornaliera, un diritto sancito dalla legge, a causa della chiusura dei passeggi esterni dopo i ripetuti crolli di calcinacci nei cortili. “Una situazione fisicamente insostenibile”, hanno scritto i reclusi del penitenziario fiorentino, che da inizio agosto non hanno più potuto respirare un’aria diversa da quelle delle loro celle. “Bisogna intervenire con misure d’urgenza - è scritto nella missiva - trovando spazi alternativi, allestendo protezioni provvisorie, oppure se anche queste fossero ritenute non sufficienti, dichiarando inagibile la struttura fino alla risoluzione dell’emergenza”. Ed è proprio ad un provvedimento tampone che sta lavorando il ministero della Giustizia: “Sarà a breve ripristinata l’agibilità degli ambienti dei passeggi esterni della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano: l’applicazione di una apposita rete para-sassi, adeguata per caratteristiche e portanza, consentirà infatti la ripresa nell’immediato delle attività dei detenuti nei cortili di passeggio”, fanno sapere dal dicastero guidato dal Cinque Stelle Bonafede. “Tale protezione consentirà di mettere mano a un primo intervento per ripristinare le ordinarie attività d’istituto e rispondere ai disagi lamentati dai detenuti per le restrizioni di ambienti dopo il distacco”. Secondo il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, che stava lavorando alla risoluzione del caso, “serviranno circa due settimane per ultimare i lavori e riaprire i passeggi”. Ma questa non sarà la soluzione di tutti i problemi di Sollicciano e a Roma ne sembrano consapevoli. “Per quanto riguarda la manutenzione del penitenziario, mal concepito in origine e bisognoso di interventi - spiegano dalla sede di via Arenula - il Dap ha già appaltato nel dicembre 2017 un progetto per circa 2,8 milioni di euro, volto al risanamento delle facciate ed al consolidamento dei frangisole” della facciata interna caduti nei sottostanti cortili di passeggio. Bonafede conosce bene la situazione del carcere: da deputato eletto a Firenze, nella scorsa legislatura, ha visitato il carcere e ha letto alla Camera una lettera in cui i detenuti descrivevano gli effetti del sovraffollamento. Da settembre il ministro farà un giro di sopralluoghi nelle carceri italiane: ci sarà anche Sollicciano? “Sì, potrebbe essere una tappa”, rispondono dal ministero. Un invito che arriva anche dall’assessore al sociale Sara Funaro: “Invitiamo il ministro a Firenze per discutere di Sollicciano”. Sul tema dei passeggi è intervenuto anche Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze: “Apprezzo chi si è mosso, ma la macchina amministrativa del carcere è lentissima ed è assurdo tenere i detenuti d’estate dentro le loro celle”. Napoli: i detenuti del Padiglione San Paolo di Poggioreale terminano lo sciopero linkabile.it, 24 agosto 2018 Lo sciopero intrapreso dai detenuti malati, del Padiglione San Paolo, del carcere di Poggioreale, è terminato ieri. Tutto è iniziato tre giorni fa con i detenuti che non hanno ritirato il vitto e molti di loro nemmeno le medicine, per protestare contro le inadempienze di carattere sanitario, l’invivibilità delle celle. Il Garante dei Detenuti della Campania, era subito intervenuto nella mattinata stessa di inizio sciopero, dichiarando: “Insieme a due volontari ho incontrato il dirigente sanitario per esprimergli le loro doglianze e la mia preoccupazione di Garante dei detenuti. Il diritto alla salute non può essere negato. Visite specialistiche interne ed esterne, ricoveri, operazioni presso gli ospedali vengono svolte in condizione di costante emergenza. Molte celle che ho visitato non sono idonee, hanno bisogno di lavori di manutenzione La sanità penitenziaria da dieci anni è regionale, non dipende più dal ministero della Giustizia”. Pronto si è rivelato essere anche l’intervento del Direttore Sanitario del carcere, il quale ha incontrato i detenuti e ha spiegato loro che le visite mediche, e i ritardi non dipendono dalla direzione sanitaria, tuttavia ha ugualmente promesso loro, maggiori infermieri e medici. Ha fatto lo stesso la neo direttrice Palma, che ha incontrato anch’essa i detenuti malati, promettendo loro di fare dei lavori nelle celle, chiedendo dei finanziamenti per l’ammodernamento delle celle, e per rendere più vivibili i luoghi in cui vivono e passano il loro tempo, i detenuti di Poggioreale. Il Garante, Samuele Ciambriello, si è espresso a tal proposito, in maniera soddisfatta affermando che: “Sono molto contento dell’esito della protesta dei detenuti, della mia denuncia e della sensibilità usata dia dalla Direttrice Luisa Palma, che dalle Istituzioni sanitarie. Il diritto alla salute è fondamentale per i detenuti che entrano in carcere per aver commesso un reato e rischiano di uscire dopo aver subito un reato”. Salerno: condizioni disumane in carcere, detenuto risarcito con 2.360 euro di Viviana De Vita Il Mattino, 24 agosto 2018 Ristretto per 295 giorni in una cella del carcere di Fuorni con altri sette detenuti potendo usufruire di uno spazio vitale quantificato in poco più di un metro quadro. Un trattamento inumano patito dietro le sbarre del penitenziario cittadino da un 41enne salernitano che, ora, sarà risarcito per quella detenzione che ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Una sentenza del giudice Giorgio Jachia della prima sezione civile del tribunale di Salerno a condannare il Ministero della Giustizia accogliendo il ricorso avanzato dai legali dell’ex detenuto, gli avvocati Dario Barbirotti ed Anna Sassano. Il 41enne della zona orientale, in base a quanto stabilito dalla legge sull’ordinamento penitenziario numero 354/75 che prevede l’erogazione di 8 euro per ogni giorno vissuto in condizioni inumane, avrà diritto al risarcimento di 2.360 euro in base a quanto stabilito dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, pronunciata l’8 gennaio 2013, che ha imposto all’Italia di prevedere una norma che consenta, a chi ha subito il trattamento disumano in carcere, di essere risarcito. Padova: detenuti e volontari preparano il pranzo per la cocomerata di Sant’Egidio di Biagio Campailla Ristretti Orizzonti, 24 agosto 2018 Giorno di Ferragosto: in permesso premio 5 detenuti della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova, per preparare la cena alle persone disagiate del territorio di Padova, presso il Patronato della parrocchia di Ognissanti in Via Giuseppe Orus. Più volte l’anno la Comunità di Sant’Egidio organizza degli incontri per le persone anziane che vivono da sole, i poveri senza un tetto che vivono e dormono per le strade di Padova. Oggi a preparare il pranzo per queste 150 persone, sono stati i volontari insieme ai detenuti della Casa Reclusione di Padova. Alle ore 17:00 iniziano a servire delle fette di cocomero fresco, accompagnati con della musica, alle ore 19:00 inizia il primo piatto della cena, con insalata di riso, misti di pasta con verdure, preparati dagli stessi volontari. Si passa al secondo piatto, con stracciatelle di carne di tacchino e salsicciotti di pollo, accompagnati con insalata di pomodori e cetrioli. Alle ore 20:00 arriva il terzo piatto creato dai detenuti e volontari. Arancini caldi preparati sul posto, alla fine anche il gelato. Per chiudere: arriva un grandissimo tavolo con torta di crema fresca, ricoperta con panna: è frutta esotica mista, di un peso di 20 chili, fatta sul luogo dagli stessi detenuti del “Due Palazzi”, con tanto di logo di Sant’Egidio e il logo del “Due Palazzi”. L’idea nasce dalla volontaria Maria Ferrari, che svolge servizio di volontariato dentro la Casa di Reclusione di Padova. Infatti da mesi ci si preparava per organizzare questo pranzo della cocomerata. Per prima cosa è stato “reclutato” Pasquale, un pasticciere detenuto che lavora presso la Pasticceria “Giotto” del “Due Palazzi”, capace di preparare una bellissima torta. Poi Biagio, detenuto operatore della Redazione Ristretti Orizzonti, addetto alle riprese del TG2 Palazzi, che si offriva alla preparazione degli arancini, e Massimiliano, un detenuto operatore del call center del “Due Palazzi”, che dava la sua disponibilità insieme alla moglie per preparare le insalate, Guglielmo detenuto del call center anche lui operatore del “Due Palazzi”, partecipava nel riempire gli arancini e al taglio dei cocomeri, Franco operaio detenuto con l’amministrazione Penitenziaria del “Due Palazzi”, che riordinava e puliva. Finalmente tutti si sono resi utili per qualcosa di buono. Infatti durante un’intervista fatta a Rai3, Biagio spiegava che nella vita tutti loro avevamo investito il proprio tempo in comportamenti sbagliati; il realizzare oggi azioni di aiuto a persone in difficoltà li rende felici, arricchisce il loro percorso di riflessione e autocritica iniziato da anni. Svolgere del volontariato per queste persone in disagio fa capire che il male distrugge la persona mentre fare del bene porta soddisfazione e serenità Biagio spiegava anche che, grazie alla rieducazione, il cambiamento personale dentro il carcere di Padova è stato grandissimo. Il suo bagaglio di esperienza è molto grande e inizia nel 2013, nella Redazione di Ristretti Orizzonti, con il progetto “Scuola carcere”, che fa incontrare i redattori con migliaia di studenti del Veneto e Triveneto. “È stata un’esperienza travolgente per la mia vita, che mi ha insegnato a riflettere, a pensare in modo differente, ad agire in modi civili e a saper dialogare con le persone, a riconoscere gli sbagli commessi nella mia vita, purtroppo molto gravi.” Oggi questi detenuti hanno iniziato con entusiasmo anche il percorso con la Comunità di Sant’Egidio, perché rendendosi utili per le persone disagiate rende più umani. Ovviamente sono ancora guidati da volontari esperti, come Maria Ferrari, Volontaria O.C.V. con il marito Massimo, Nicoletta Ariani, Mirko Sossai, e Alessandra Coin, responsabili e volontari della Comunità Sant’Egidio, persone che hanno tantissima esperienza nel gestire questi grandissimi incontri. Il 10 luglio di quest’anno i detenuti di Padova hanno incontrato dentro la Casa di Reclusione, alcuni responsabili della Comunità Sant’Egidio, Silvia Maraconi, Letizia Quintas, e Nicoletta Ariani, venuti a presentare i progetti di questa associazione. Gli stessi detenuti hanno voluto aderire alla donazione per il progetto “Liberare i Prigionieri in Africa” e infatti la Casa di Reclusione di Padova oggi è il 201° carcere d’Italia che partecipa a questa iniziativa. I detenuti ringraziano la Comunità per l’accoglienza e il coinvolgimento nei loro progetti: ciò li fa sentire utili e non socialmente diversi, fatto importante per non provare emarginazione o umiliazione. Ora i detenuti e i volontari stanno cercando di organizzare, assieme alla Comunità di S. Egidio, il pranzo di Natale, nella palestra del carcere, a favore di tutti i detenuti, come avviene in tanti istituti penitenziari d’Italia. Speriamo che questa iniziativa sia accolta: un’altra occasione per far sì che la detenzione sia più umana e proficua al cambiamento delle persone. Tanti saluti da Biagio, Franco, Guglielmo, Massimiliano e Pasquale. Ferrara: musica oltre il lutto, questo è il Buskers Festival in carcere estense.com, 24 agosto 2018 Un’autentica festa irlandese, anticipata da passi di flamenco, ha allietato una mattinata particolarmente difficile per i detenuti di via Arginone. Alla vigilia dell’ormai tradizionale tappa del Ferrara Buskers Festival alla casa circondariale, infatti, un detenuto è venuto a mancare a causa di un arresto cardiaco. Un lutto che ha colpito tutti i suoi compagni, molti dei quali hanno comunque deciso di partecipare alla festa osservando un minuto di silenzio prima dello spettacolo dei musicisti di strada. Ancora più difficile il compito degli artisti invitati, gli irlandesi Sin a Deir Sì e gli italo-spagnoli A Compas Flamenco, chiamati a rallegrare l’atmosfera e offrire un’ora di spensieratezza a chi vive dietro le sbarre. Un obiettivo che anche quest’anno dopo la pausa dell’anno scorso è stato raggiunto in pieno: i detenuti hanno accompagnato l’esibizione catalana con dei rappresentativi “olé” e quella dublinese con degli scroscianti applausi. “Abbiamo riflettuto se sospendere o meno questo appuntamento per il lutto che ha colpito il vostro compagno, un detenuto conosciuto e benvoluto, deceduto questa notte per arresto cardiaco, ma abbiamo deciso di proseguire perché non sarebbe stato giusto” commenta il commissario Paolo Li Marzi, nella veste di sostituto comandante, proclamando un minuto di silenzio nella sala ricreativa della casa circondariale “C. Satta”. “Non siete gli unici ad attraversare un momento tragico: anche la cantante di flamenco è dovuta tornare a casa, a Barcellona, per stare vicina a un familiare colpito da ictus” aggiunge sommessamente il direttore organizzativo del Fbf Luigi Russo, prima che il cordoglio aprisse uno spiraglio verso un clima più festoso. Ad aprire le danze sono i A Compas Flamenco che, ‘azzoppati’ senza la voce di Vanesa Cortés, hanno rivisto il loro programma vocale e strumentale per concentrarsi sui ritmi di chitarra e basso che accompagnano il ballo andaluso delle due danzatrici, vestite da perfetta señorita. Il flamenco piace agli spettatori - in sala, oltre ai detenuti e allo staff del festival, ci sono le educatrici dell’istituto penitenziario e gli agenti di polizia penitenziaria - ma la musica si fa ancora più vivace con i Sin a Deir Sì direttamente da Galway, a un paio d’ore di viaggio da Dublino. Ed è inevitabile: l’omaggio alla città ospite della 31° edizione passa dal suo gruppo più rappresentativo in grado di coinvolgere, che sia in centro storico o a due passi dalle celle, tutti i presenti con il loro folk irlandese. Fioccano gli applausi e i segni di apprezzamento (“per me è si” sorride un detenuto, richiamando il famoso format di X-Factor) nei confronti dei cinque musicisti armati di flauto, chitarra, contrabbasso, banjo e bodhran e della danzatrice che saltella sul reel, un ballo popolare per cui si usano scarpe con il tacco duro da battere saltellando appunto sul suolo. Un bell’assaggio del cielo d’Irlanda per chi sta attendendo il momento di tornare in libertà. E intanto si cimenta in laboratori creativi come quello degli Artenuti che, al termine dello show, hanno consegnato i simpatici gadget in legno creati con le loro mani durante le ore di laboratorio di riuso: un portachiavi a chiave di violino per tutti e una mini-batteria interamente in legno per gli organizzatori del Ferrara Buskers Festival che non mancano mai di far sentire la loro vicinanza a un luogo di reclusione ma anche di reinserimento nella società in nome della musica di strada. Videosorveglianza: ci piace essere guardati? di Chiara Severgnini Corriere della Sera, 24 agosto 2018 La videosorveglianza spopola nelle città, piccole o grandi che siano, e conquista i cieli grazie ai droni. Il motivo? Le telecamere rassicurano i cittadini e aiutano le forze dell’ordine. Ma non dobbiamo dimenticarci della privacy. La settimana scorsa sono uscita di casa per prendere il treno. Nel percorso che mi ha portato dall’androne del mio condominio (videosorvegliato) al binario della stazione (videosorvegliata), sono stata inquadrata da almeno cinque telecamere. Ma, probabilmente, sono molte di più. Succede a ciascuno di noi, ogni giorno: appena ci chiudiamo la porta di casa alle spalle entriamo nel raggio d’azione di migliaia di telecamere, pubbliche o private, visibili o invisibili, all’avanguardia (digitali e connesse a internet) o vecchio stile (analogiche e a circuito chiuso). Gli occhi elettronici ci guardano ed essere guardati ci piace, almeno a giudicare dai numeri: nel 2006 la domanda mondiale di telecamere per la videosorveglianza era di 10 milioni di unità, nel 2018 dovrebbe superare i 130. In Italia, il fatturato del comparto delle telecamere a circuito chiuso è cresciuto del 15% tra 2016 e 2017, mentre le loro sorelle smart (le cosiddette telecamere IP) sono tra i prodotti che trainano il mercato italiano dell’Internet delle Cose. In mezzo a tutte queste cifre, quella che sarebbe più utile per tracciare le dimensioni del fenomeno non esiste, perché nessuno sa quante siano le telecamere di sorveglianza in Italia. Secondo una stima riportata nel 2017 da la Stampa, quelle comunali sono circa 2 milioni. Ma questo numero non tiene conto degli impianti installati da aziende, esercizi commerciali e cittadini. E non sono pochi. Stando al Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia realizzato da Fondazione Censis e Federsicurezza, ad esempio, gli italiani che hanno un occhio elettronico in casa sono oltre 15 milioni. Per loro, spiega l’avvocato Valentina Frediani (fondatrice della società di consulenza specializzata in diritto informatico Colin & Partners), non c’è che un obbligo: rispettare la privacy altrui, facendo attenzione a non inquadrare il giardino dei vicini, le loro finestre o la strada. Aziende ed esercizi commerciali, invece, sono tenuti anche a segnalare le aree videosorvegliate e a cancellare le eventuali registrazioni entro un certo lasso di tempo (di norma 24 ore). Inoltre, se intendono monitorare anche aree di lavoro, possono farlo solo se hanno ottenuto il via libera dei sindacati, come richiede lo Statuto dei lavoratori. Gli occhi elettronici che ci guardano negli spazi pubblici, come piazze o incroci, sono però soprattutto comunali, installati dai sindaci per motivi di sicurezza, viabilità o tutela del patrimonio cittadino. Di norma devono essere segnalati, ma non se le immagini sono accessibili solo alle forze dell’ordine. Anche queste ultime, poi, possono servirsi delle telecamere per motivi di indagine. E non sono, per ovvi motivi, tenute a segnalarne la presenza. In breve, non sempre sappiamo di essere guardati, né da chi. C’è di più: gli occhi elettronici sono sempre più tecnologici. Le telecamere per il riconoscimento facciale sono già in uso in Cina (dove la polizia può rintracciare un individuo in mezzo alla folla in pochi minuti), ma anche nella vicina Londra. In Italia, per il momento, sono rare: sono state installate in una manciata di aziende (autorizzate dal Garante per la privacy) per garantire che solo il personale autorizzato possa accedere a certi stabilimenti. E poi ci sono i droni. Gli aeromobili a pilotaggio remoto dotati di telecamera sono utilissimi per le forze dell’ordine, che hanno iniziato a sperimentarli nel 2015 e dal 2017 li impiegano regolarmente per monitorare i grandi eventi, dal G7 al concerto di Vasco Rossi a Modena. Il problema è che, nelle mani sbagliate, si possono rivelare insidiosi. Per usarli bisogna adeguarsi al regolamento dell’Ente nazionale per l’aviazione civile, che distingue tra Aeromobili a Pilotaggio Remoto (Arp) e aeromodelli. Solo questi ultimi si possono usare per scopi ludici o ricreativi (videoripresa inclusa) senza bisogno di patentino, purché il drone non superi l’altezza massima di 70 metri e non si allontani per più di 200 metri dal pilota. Oltre alla sicurezza, però, c’è in gioco anche la privacy. La legge vieta di invadere con un drone le proprietà altrui, ma anche di spiarle a distanza. E per quanto riguarda spiagge, piazze e altri spazi pubblici? “In quel caso è possibile usare un drone per fare riprese, ma solo a fini privati”, spiega l’avvocato Frediani, “quindi le immagini non possono essere diffuse senza il consenso dei soggetti. Chi si vede inquadrato da un aeromodello ha il diritto di chiedere al pilota la cancellazione delle immagini, se lo desidera”. La vista di un drone che scorrazza sopra le nostre teste, di solito, non passa inosservata (a meno che, s’intende, il pilota non si tenga deliberatamente fuori dal nostro campo visivo). Le telecamere, invece, sono così diffuse da essere ormai quasi parte integrante dell’arredo urbano: non le notiamo neanche più. E gli occhi elettronici, in ogni caso, non sono che la punta visibile dell’iceberg della videosorveglianza: il vero cuore pulsante - anzi, il cervello - sta nelle centrali operative dove le forze dell’ordine possono monitorare in diretta le immagini. Tutto questo, però, ha un costo, non certo basso, soprattutto se si considera che telecamere e relativi software sono soggetti a obsolescenza e quindi non durano in eterno. Il comune di Milano, ad esempio, ha annunciato da poco un corposo investimento: quasi 3 milioni di euro per installare, nei prossimi tre anni, 450 nuovi occhi elettronici, molti dei quali andranno a sostituire quelli vecchi e ormai superati. Il comandante della Polizia Locale, Marco Ciacci, non ha dubbi sul fatto che faranno la differenza: “Avere immagini di qualità permette, all’occorrenza, di identificare i sospettati o di leggere le targhe. Nei casi di omissione di soccorso, ad esempio, possiamo vantare percentuali molto alte di risoluzione proprio grazie alla videosorveglianza”. E la privacy? “I cittadini ci tengono”, risponde il comandante, “ed è importante rispettarla. Ma i milanesi accolgono bene le telecamere perché in loro prevale il bisogno di sicurezza”. Un bisogno che, a quanto pare, si avverte non solo nelle grandi città, ma anche in quelle più piccole. Un esempio arriva dalla Sicilia, dove Palermo e altri 56 comuni della provincia - compresi alcuni con meno di mille abitanti, come Blufi e Scillato - hanno siglato un Patto per la sicurezza urbana con la prefettura che permetterà loro di accedere a un fondo ministeriale di 37 milioni di euro per l’installazione di sistemi di videosorveglianza. “Per i comuni piccoli”, spiega il prefetto Antonella De Miro, “è difficile dare risposta alle esigenze di sicurezza del territorio. Grazie ai Patti (introdotti nel 2017 dal decreto Minniti, lo stesso del Daspo urbano, ndr) ottengono un supporto finanziario, ma non solo: li abbiamo anche aiutati a realizzare progetti conformi alle prescrizioni e quindi ammissibili al finanziamento”. Per aggirare il problema dei costi c’è anche chi cerca soluzioni inedite, come Perugia, che ad aprile ha lanciato un censimento obbligatorio delle telecamere private. L’obiettivo è creare una mappa - accessibile solo alle forze dell’ordine - degli occhi elettronici presenti sul territorio (esclusi quelli che inquadrano solo le abitazioni). In questo modo, in caso di reati, gli agenti sapranno subito a chi rivolgersi per accedere alle immagini. “Questa città è stata a lungo identificata con l’omicidio di Meredith Kercher e considerata pericolosa”, spiega l’assessore Francesco Calabrese, “ora la situazione è migliorata, con la mappa puntiamo a migliorarla ancora di più”. E i cittadini che ne pensano? “I titolari degli impianti sono contenti di mettere le loro telecamere al servizio della collettività. In generale, abbiamo ricevuto molti apprezzamenti: anche su Facebook, dove di norma si legge di tutto, solo un commento su mille evocava il Grande Fratello”. “Le telecamere non possono sostituire gli agenti sul campo e non vanno mitizzate”, precisa la comandante della Polizia Locale di Perugia, Nicoletta Caponi, “però sono molto utili, per le indagini e anche per tante altre cose, come la gestione dei flussi di veicoli”. “La sicurezza percepita è diversa da quella reale”, aggiunge, “ma il cittadino ha diritto a sentirsi al sicuro. E la telecamera rassicura”. Di rassicurazioni l’Italia sembra aver bisogno. Nonostante il calo dei reati (che l’anno scorso sono stati il 17% in meno rispetto al 2008), la mancanza di sicurezza è citata dal 21% dei cittadini come un “problema grave” del Paese. Non c’è da stupirsi, quindi, se le telecamere siano benvolute. La sociologa Sonia Paone, autrice di Città nel disordine. Marginalità, sorveglianza, controllo (edizioni ETS), sottolinea però come attorno alla videosorveglianza ci siano diversi “equivoci di fondo”: “Dà sicurezza perché si pensa che faccia da deterrente, ma molte ricerche fanno pensare che le telecamere spostino il problema anziché risolverlo, spingendo il crimine al di fuori delle aree sorvegliate. Inoltre le forze dell’ordine si servono delle immagini soprattutto in sede di indagine, ovvero dopo che i crimini si sono verificati. Per certi versi, quindi, ogni volta che una telecamera riprende un reato assistiamo al suo fallimento. Non va poi dimenticato che molti degli occhi elettronici che ci guardano non sono pubblici, ma appartengono ad aziende, commercianti, cittadini. E questo non è irrilevante”. Non c’è bisogno di scomodare Orwell per rendersi conto che il problema sta tutto nell’equilibrio tra sicurezza e privacy. “La risposta va cercata nel bilanciamento tra le due esigenze, nel rispetto dei princìpi che ispirano il Regolamento europeo sulla privacy”, spiega il presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro. “La domanda di rispetto della vita privata e quella di sicurezza sono due poli di un momento molto complesso della modernità, in cui c’è la tendenza a delegare alla tecnologia la soluzione dei problemi in modo a volte acritico”. In un’Italia che ha fame di sicurezza, le telecamere capaci di riconoscimento facciale potrebbero rappresentare una tentazione forte. Lei che ne pensa? “Il tema merita di essere valutato non sulla base della passione per la tecnologia della sorveglianza, ma guardando con realismo agli studi scientifici. I dati dimostrano che, almeno per ora, i tassi di fallibilità di queste tecnologie sono elevati”. “Oggi come oggi”, aggiunge il presidente, “mi sembra che l’enfasi venga posta un po’ più sulla sicurezza e un po’ meno sugli altri diritti, privacy inclusa. Sento spesso dire: “Col pretesto della privacy si vuole impedire di fare questo o quello”. Ma la privacy è libertà, e la libertà non è un pretesto: è un diritto fondamentale dell’uomo”. La minaccia della cyber-war è ogni giorno più grave di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 24 agosto 2018 In alcuni casi, dagli Stati Uniti all’Italia, capi dell’esecutivo hanno addirittura assolto la Russia ignorando l’evidenza dei fatti. Ora scopriamo che, mentre l’Occidente continua a minimizzare, le interferenze si stanno moltiplicando ed estendendo a macchia d’olio. Nel giro di un paio di giorni Facebook ha identificato e rimosso 652 siti fake creati da entità della Russia e dell’Iran per seminare discordia e disinformazione politica nei social media degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, di altri Paesi europei, del Medio Oriente e dell’America Latina. Anche YouTube e Twitter hanno intercettato ed eliminato molti account falsi, mentre Microsoft ha scoperto un’altra campagna di hacker russi che ha preso di mira i centri di elaborazione politica dei conservatori americani. Intanto il partito democratico ha scoperto e denunciato all’Fbi un tentativo di penetrare nell’archivio dei suoi iscritti (anche se qui pare si sia trattato di un falso allarme: la simulazione di un attacco informatico per testare la solidità delle difese elettroniche dell’organizzazione). Mark Zuckerberg ha presentato l’operazione di Facebook come il risultato di un nuovo approccio proattivo - agire con prontezza anziché reagire a danno ormai fatto - contro attacchi miranti a creare caos sociale e a sovvertire gli equilibri politici. Il progresso rispetto a due anni fa, quando il fondatore del gigante dei social media addirittura negava ogni strumentalizzazione della sua rete, è evidente. Ma l’intensità degli attacchi, la loro durata e spudoratezza e il fatto che altri regimi avversari dell’Occidente hanno cominciato a usare le tecniche di disinformazione sperimentate con successo dai russi, indicano che la battaglia contro le campagne di manipolazione non solo non è vinta, ma non può nemmeno essere condotta con successo in assenza di una piena consapevolezza dei cittadini (che devono imparare a valutare con cautela ciò che trovano in Rete) e di un impegno deciso dei governi a trattare quella che è ormai una vera cyber-war come un fenomeno della massima gravità. Per ora, però, le opinioni pubbliche prendono sottogamba la nuova minaccia ma, soprattutto, i governi, con poche eccezioni (Gran Bretagna) hanno reagito in modo blando. In alcuni casi, dagli Stati Uniti all’Italia, capi dell’esecutivo hanno addirittura assolto la Russia di Vladimir Putin ignorando l’evidenza dei fatti. Ora scopriamo che, mentre l’Occidente continua a minimizzare, le interferenze si stanno moltiplicando ed estendendo a macchia d’olio (quelle dell’Iran scoperte oggi sono iniziate nel 2013) e che, anche quando parlamenti e governi hanno reagito (le sanzioni contro il Cremlino imposte dal Congresso Usa), queste misure si sono rivelate inefficaci: Mosca continua e moltiplica le campagne di disinformazione come se nulla fosse. Migranti. Per coscienza e per legalità. I profughi eritrei, una politica minuscola di Marco Tarquinio Avvenire, 24 agosto 2018 Ricapitoliamo. La gran parte delle 190 persone salvate in mare, a poche miglia da Lampedusa, dalla nave “Diciotti” è di origine eritrea. “Eritreo” per le regole internazionali che sono legge anche in Italia è, purtroppo, diventato sinonimo di “meritevole di protezione umanitaria rafforzata”. Non sono gli unici, gli eritrei, a trovarsi in questa condizione che nessuno si va a cercare e nella quale si precipita per sopraffazioni e persecuzioni e violenze, ma in essa ci sono certamente. E sono, appunto, loro la grande maggioranza delle persone che dal porto di Catania stanno bussando alle porte di casa nostra, italiana ed europea, e che personaggi politici che dovrebbero parlare con più responsabilità e cognizione di causa hanno osato presentare all’opinione pubblica come “palestrati” a zonzo per il Nord Africa e il Mediterraneo. Quando parliamo di “eritrei”, ci dovrebbe venire subito alla mente l’idea di un popolo col quale l’Italia e gli italiani per motivi storici e culturali hanno un legame speciale. In realtà soprattutto negli ultimi dieci armi, un po’ per cattiva conoscenza della storia e molto per cattiva politica, la smemoratezza ostile l’ha fatta da padrona. E a infelice intermittenza, senza che si generasse abbastanza indignazione per questo, ci sono stati e ci sono governanti italiani che ai richiedenti asilo eritrei in fuga da una lunga dittatura e da una lunga guerra (la prima che non accenna a finire, perché l’eterno presidente Isaias Afewerki resta saldo al potere; la seconda, invece, che sembra finalmente giunta al termine, grazie soprattutto alla lucidità e al coraggio del nuovo e giovane leader etiopico Abiy Ahmed) hanno inteso, a loro volta, fare guerra. Anche con respingimenti ciechi in mare aperto, come quelli voluti nel 2009 dall’allora ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, e decisi dal quarto Governo Berlusconi e che sono costati all’Italia la macchia di una condanna definitiva (sentenziata il 23 febbraio 2012) da parte della Corte europea dei diritti umani. Ad avviare la riparazione degli errori, e dei conseguenti procurati orrori, di quel passato recente - raccontati per mesi, in solitudine, da “Avvenire” con i lunghi e accurati reportage di Paolo Lambruschi - è arrivata la porta sicura (e stretta) dei “corridoi umanitari” dal Corno d’Africa tenuta aperta da poco più di un anno e mezzo grazie all’intesa tra Conferenza episcopale italiana, Comunità di Sant’Egidio e Governo italiano. I profughi della “Diciotti” sono sorelle e fratelli di coloro che arrivano con i “corridoi”. E sono fratelli e sorelle, lo ricordino i presunti appassionati della nostra patria e della sua storia, degli uomini inquadrati nei reparti militari coloniali degli “Ascari” (dall’arabo astrar, soldato) che si sono battuti al fianco dei nostri genitori, nonni e bisnonni per decenni e decenni tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, con particolare sacrificio e speciale fedeltà. Per questo il termine “ascaro” viene usato nella nostra lingua, a volte in modo polemico soprattutto in ambito politico e parlamentare, per indicare chi dimostra una fedeltà senza esitazioni. Come quella che pretendono certi leader, da compagni di partito e magari anche dai mezzi di informazione. Ma ricapitoliamo ancora. Dal 16 agosto, 177 degli uomini, delle donne e dei ragazzi, in massima parte eritrei, salvati in mare a poche miglia da Lampedusa sono stati bloccati - dopo il trasferimento a terra di 13 di loro in evidente pericolo - a bordo dell’imbarcazione della nostra Guardia Costiera. E così la “Diciotti” e idealmente i suoi uomini- tenuti lontani dagli (urgenti) compiti a loro affidati - condividono la stessa condizione dei profughi che hanno raccolto, e cioè quella di essere, di fatto, in ostaggio. Dal 20 agosto, poi, la “Diciotti” con il suo carico umano è costretta in porto a Catania dalla posizione politica assunta dal ministro dell’Interno e vicepremier, il leader leghista Matteo Salvini. I122 agosto, finalmente, Salvini ha acconsentito-dopo una duro scambio verbale col presidente della Camera Roberto Fico, intervenuto a difesa della “dignità umana” dei 177 salvati - al trasferimento a terra dei 27 minori soli ancora a bordo. Venticinque ragazzini e due ragazzine scheletrici, sopravvissuti - come attestano le terribili testimonianze raccolte da coloro che li hanno accuditi - a sofferenze inenarrabili in patria, nel cammino per il deserto d’Africa e infine in Libia dove per molti mesi (alcuni per tre anni) sono stati rinchiusi e vessati nei tristemente noti campi di detenzione (e di sfruttamento) locali. Gli altri 150 salvati restano invece ancora confinati su un pezzo di territorio italiano (questo è una nave che batte la nostra bandiera) controllato da militari italiani, eppure trasformato in una sorta di limbo mentre da Roma si conduce un faticoso braccio di ferro con gli altri Stati dell’Unione Europea per stabilire dove e come accogliere persone che sono arrivate irregolarmente via mare, ma che - è necessario sottolinearlo - hanno diritto di veder valutata la loro richiesta di aiuto e, nella quasi totalità, hanno la prospettiva di ricevere l’asilo che sollecitano. Il quadro è questo. Ed è triste e vergognoso, al limite della sopportazione. Nessun essere umano può essere lasciato o rigettato nel pericolo, che si tratti del mare o di “lager” altrui. A nessun essere umano può venire negato il diritto di essere guardato in faccia e di essere riconosciuto - bambino, donna, uomo - nella sua condizione reale e nella verità del suo bisogno. Le persone di cui parliamo stanno subendo l’ultima ingiustizia di una catena già troppo lunga, e la subiscono proprio nel nostro Paese e di nuovo per una deliberata azione della nostra politica (e la minuscola, qui, non basta a dirne la pochezza). Con un ministro e capopartito che li rifiuta e li irride, minacciando una crisi di governo, giocando sulla loro pelle in nome della retorica arcigna dei “porti chiusi” (mentre in realtà approdi avventurosi continuano in altri punti delle nostre coste) e arrivando a progettare di riprecipitarli tutti nell’inferno libico: come se gli inglesi o gli americani avessero brigato di rispedire in Germania o nei Paesi occupati o alleati del Terzo Reich i profughi ebrei scampati alle retate dei nazisti. Nonostante tutto, però, per ora, quest’ultima è forse l’ingiustizia relativamente meno pesante tra quelle che i profughi eritrei hanno dovuto affrontare, ma è anche la più intollerabile per chi tiene viva la consapevolezza del bene necessario e mantiene alta l’idea di civiltà che l’Italia e gli italiani han contribuito a costruire. In conclusione. È inevitabile, e amaro, dover ripetere oggi concetti che abbiamo già dovuto annotare più volte in questa tormentata estate 2018. Visto e considerato lo svuotamento - tra pochi assensi, aperti rifiuti e maldissimulata indifferenza - del piano di “ricollocamenti” dall’Italia e dalla Grecia predisposto nel 2015 dalla Commissione europea, è legittimo e del tutto condivisibile l’obiettivo del Governo Conte di responsabilizzare l’Europa concordando una nuova e più efficace regola di accoglienza comunitaria nella Ue di richiedenti asilo ed emigranti. Una regola alla quale tutti si attengano, grandi e piccoli dell’Unione, mediterranei e nordici, non esclusi in alcun modo, ovviamente, i Paesi dell’Est ex-comunista e neo-sovranista riuniti nel Patto di Visegrad. Ma è illegittimo ed è vergognoso perseguire tale obiettivo, e forse anche altri, più spregiudicati, “usando” persone inermi prese “in ostaggio” dopo il sacrosanto intervento umanitario che le ha sottratte a un rischio acuto e imminente. Il 12 luglio, coi 67 raccolti ancora dalla “Diciotti” e portati a Trapani, fu un intervento del presidente Mattarella e del premier Conte a evitare che si innescasse una crisi umanitaria, morale e di legalità simile a quella che stiamo vivendo. Questa volta il ministro Salvini, sbagliando con ostinazione il mezzo (la messa in discussione di un’operazione condotta da nostri militari), in modo più grave il bersaglio (i profughi eritrei) e forse centrando dal suo punto vista solo i tempi (la vigilia di una manovra economica e di un autunno roventi) lavora perché la crisi esploda. Libero lui di farlo. Liberi tutti di giudicare. Ci sono cose su cui non si può giocare nessuna partita di potere. E noi non possiamo dimenticare la strage del 3 ottobre 2013 a breve distanza dalle coste di Lampedusa, la disperata e durissima lotta col mare per salvare i salvabili, le file di bare scure e bianche, i “mai più” scanditi con emozione e solennità in quei giorni, anche se altre stragi seguirono e altre ancora incombono. È questa coscienza, o chiamatela pure anima, che non ci consente di fingere che il mondo non ci guardi e non ci riguardi, e che ciò che accade nel “mare nostro” sia solo affare “loro”. Migranti. I paradossi umanitari e loro effetti di Carlo Nordio Il Messaggero, 24 agosto 2018 Può sembrare paradossale che una nave militare italiana venga tenuta sotto controllo dai carabinieri per evitare sbarchi indesiderabili. In realtà è un paradosso solo apparente, perché le ragioni di igiene, o di ordine pubblico, valgono anche per le forze armate. È appena il caso di ricordare che le decisioni, secondo i vari momenti e i vari allarmi, spettano ai ministri competenti e in particolare a quello dell’Interno. Se però dai paradossi apparenti passiamo a quelli reali, c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Possiamo, per brevità, elencare i principali. Prima di tutto i rapporti con la magistratura. Il Procuratore della Repubblica di Agrigento, munito di mascherina e galosce protettive, è salito a bordo della “Diciotti” tra gli obiettivi delle televisioni. A noi, magistrati di vecchio conio, il gesto ricorda quello di un pm di Milano che quarant’anni fa, durante un’operazione antirapina, esibì una pistola alla cintola, suscitando il panico tra gli addetti ai lavori visto che per l’ingresso in magistratura non è previsto l’esame di tiro a segno e spesso, tra gli inesperti, l’arma spara da sola. Ora, l’iniziativa del Pm di Agrigento è certamente lodevole, tuttavia ci permettiamo di ricordargli, sempre in virtù della nostra anzianità, che i confini tra la solerte diligenza e l’esibizionismo imprudente sono sottili e incerti. Anche perché il magistrato non si è limitato a questa operazione che, secondo il codice, avrebbe potuto benissimo delegare alla Polizia giudiziaria, ma ha anche ipotizzato un’indagine per arresto illegale e addirittura per sequestro di persona. Una tesi ardita per entrambi i reati: il primo, infatti, scatta quando c’ è un arresto, e qui non risulta sia stato arrestato nessuno; il secondo si verifica quando la privazione della libertà personale è illegittima, altrimenti finirebbero sotto inchiesta anche i giudici che privano della libertà gli imputati mandandoli in galera. E in questo caso è ben difficile definire illegittima una decisione squisitamente politica, di competenza discrezionale del ministro. A tacer del fatto che, proprio per questa ragione, se reato vi fosse, le indagini sarebbero di competenza del relativo tribunale a sensi dell’articolo 96 della Costituzione. Da ultimo, può suscitar perplessità che, a fronte di gravi e reiterate violazioni delle leggi vigenti sulla immigrazione, invece di individuare e processare scafisti e trafficanti, si ipotizzi l’incriminazione di un ministro per un atteggiamento, criticabile fin che si vuole, ma che fa parte di un accordo approvato dal Parlamento sovrano. Ancora una volta, siamo di fronte al postino che morde il cane. Poi c’è stato l’intervento del presidente della Camera. Un intervento squisitamente politico, che si sovrappone in modo improprio alle prerogative del ministro, il quale se ne assume, appunto, la responsabilità politica. Fico si è giustificato invocando la libertà di parola e i principi umanitari. Sarà. Ma di questo passo, se ognuno dice la sua, non si sgretola solo la maggioranza: si sgretolano il Paese e le sue istituzioni. In questa confusione c’è, infine, un convitato di pietra, che, come il marmoreo Commendatore del Don Giovanni può trascinare nell’abisso ministri, governo e anche la legislatura. Il Presidente Mattarella ha già contribuito a risolvere un caso analogo poco tempo fa. Un po’ per deferenza, un po’ per buona volontà, un po’ per quieto vivere, l’intervento è passato senza grosse polemiche, suscitando anzi un sollievo compiaciuto. Ora però il caso è diverso. Il ministro Salvini, che certo non avrà dimenticato il precedente, ha già detto che stavolta non cederà. Il che significa che neanche la più serrata “moral suasion” potrebbe fargli cambiare idea. Naturalmente, poiché la politica è l’arte del possibile, può darsi che Salvini la cambi “in limine vitae”, per evitare cioè la morte del governo, e forse della legislatura. Ma potrebbe anche tener duro e, nel caso estremo, dimettersi. Un’ipotesi che potrebbe esser favorita dalla tentazione di monetizzare l’enorme consenso di cui, almeno per ora, il ministro pare godere. Sono valutazioni complesse, di cui pensiamo, e speriamo, tengano conto tutti. Persino i magistrati. Migranti. Da Madrid a Malta, ecco le “scuse” di chi si è rimangiato l’ok di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 24 agosto 2018 La Spagna attende le impronte digitali dei profughi per fornire i lasciapassare, La Valletta “compensa” con un altro sbarco, Berlino è preoccupata dal confine con l’Austria, Lisbona (e l’Ue) pretende che a pagare il viaggio sia l’Italia. In 270 sarebbero dovuti andare in altri Paesi. Trasferiti dall’Italia, a sue spese secondo la Commissione Ue con i fondi dell’operazione Relocation, in virtù di un accordo con Germania, Francia, Portogallo, Irlanda, Malta e Spagna. Gli altri, compresi 106 minorenni, hanno saputo subito che sarebbero rimasti qui. Ma impedimenti vari e qualche contrasto hanno bloccato fino a oggi l’operazione che il 16 luglio scorso ha coinvolto i 447 migranti sbarcati da una nave Frontex - la Protector (che batte bandiera estone) - e da una della Guardia di finanza - la Monte Sperone - nell’hot spot siciliano di Pozzallo. Giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha affermato con disappunto che quella che sembrava inizialmente “una vittoria politica” è invece diventata una testimonianza delle “cronache di un’Europa che non c’è”. Fino a oggi 223 di quei 270 migranti (soprattutto eritrei e somali) non si sono mossi dalla Sicilia, nonostante l’impegno preso ufficialmente da un pezzo d’Europa di aiutare l’Italia: in 163 sono ancora a Pozzallo in attesa che la situazione si sblocchi - ma appare molto difficile -, gli altri sono già stati redistribuiti in Italia. Solo la Francia, come ha riconosciuto il responsabile del Viminale, ha mantenuto la promessa accogliendo 47 migranti dei 50 annunciati. Gli altri tre sono ricoverati in ospedale. Ed ecco perché Parigi viene ritenuta affidabile anche per il suo interessamento sul caso Diciotti. Diverso per ora l’atteggiamento degli altri cinque Paesi che si sarebbero dovuti occupare degli immigrati di Pozzallo. Secondo il Viminale Germania, Portogallo, Malta e Spagna si erano impegnati a provvedere al trasferimento di 200 migranti (50 per uno), l’Irlanda di altri 20. A tre giorni fa, nulla si era ancora mosso. La Valletta, con la quale Roma è ai ferri corti per la Diciotti e il presunto abbandono in mare del barcone con 190 migranti prima del soccorso della Guardia costiera, non ha dato seguito all’accordo per il trasferimento della sua quota di profughi stabilita come “compensazione” per lo sbarco a Malta lo scorso 27 giugno di una parte dei 234 della Lifeline (ong con bandiera olandese, non riconosciuta da L’Aia) dopo un’odissea in mare di una settimana. E ancora: la Germania, concluse le interviste a Pozzallo, non ha deciso quali saranno i 50 da accogliere e peraltro sulla questione si attende che venga sciolta la riserva sui trasferimenti dal confine con l’Austria. L’ambasciata spagnola poi non ha firmato i lasciapassare, in attesa che la polizia scientifica invii le impronte digitali dei migranti alle autorità di Madrid. Il Portogallo, almeno sulla carta, è un passo avanti, visto che ultimati i controlli di sicurezza sarebbe disponibile a cominciare il trasferimento dei migranti la prossima settimana, ma ritiene che in base al Regolamento di Dublino (Lisbona considera l’intera operazione un’assunzione di responsabilità in base all’articolo 17) a pagare il viaggio (500 euro a persona) debba essere l’Italia. Infine l’Irlanda che ha proposto di accogliere 20 migranti al massimo come iniziativa eccezionale e comunque ancora da mettere a punto. Anche in questo caso non se n’è fatto nulla: sono troppo pochi rispetto agli impegni condivisi dagli altri Paesi Ue. Migranti. Caso Diciotti, sulla nave eritrei in fuga dalla tortura di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 24 agosto 2018 Il ministro aveva promesso: guanti bianchi per i profughi. Secondo Reporters Sans Frontieres il Paese africano contende il 180° posto, quello dello Stato meno libero del Mondo, alla Corea del Nord. Era il 21 giugno scorso, quando il vicepremier leghista, in visita a Terni, disse quelle parole parlando “da ministro e da padre di famiglia”. Spiegò che molti dei richiedenti asilo, a suo dire, imbrogliavano: “Solo 7 su 100 ne han diritto davvero” e al contrario di quanti “bivaccano in giro mentre gli paghiamo colazione, pranzo e cena”, quei sette su cento “hanno in casa mia casa loro. Perché se scappano davvero dalla guerra vanno trattati con i guanti bianchi”. Due mesi fa. E non faceva una generosa regalia tra una fucilata e l’altra sugli immigrati. Glielo imponeva la legge. L’articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo”. La convenzione di Ginevra del 1951 da noi ratificata nel 1954: ha diritto all’asilo chi scappa per il “giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni”. La stessa liceità o meno d’una politica muscolare sulla immigrazione che raccoglie di qua applausi e di là sgomento passa in secondo piano davanti al tema di oggi: i rifugiati hanno diritto o no a essere trattati non coi guanti bianchi, troppa grazia, ma secondo le regole della Carta? Perché nessuno, che si sappia, ha messo mai in discussione casi come quello degli eritrei. Non a caso riconosciuti come profughi, negli anni, con quote anche superiori al 90%. Soprattutto nei paesi nordici. Certo, fece eccezione ad esempio Piergianni Prosperini, già assessore alla sicurezza della Lombardia a cavallo tra la Lega e la destra più rabbiosa, che si avventurò a definire “l’amico Isaias”, cioè il dittatore Isaias Afewerki al potere dal 1991 e presidente a vita dal 1993, “un uomo capace e sagace” che dominava l’Eritrea “con mano ferma e paterna”. E sputò sui giovani in fuga: “Dove sono questi torturati? Ho girato il Paese in lungo e in largo ma non ho visto prigioni con torturati o torturanti”. Macché torture: “Casomai li ammazzano: li butti in un formicaio e li troveremo fra duemila anni…” Tempo dopo, si sarebbe capito il motivo di tanta devozione: un traffico d’armi con Asmara che l’avrebbe portato a una condanna a quattro anni di galera. Cosa sia l’Eritrea lo dicono l’implacabile rapporto della Commissione d’Inchiesta Onu (con 830 interviste e 160 deposizioni scritte) sulle torture più spaventose usate contro i prigionieri. E la scomparsa di giornalisti e oppositori inabissati nelle carceri. E le classifiche di Reporters Sans Frontieres che da anni vedono il paese africano contendere il 180° posto, quello dello Stato meno libero del creato, alla Corea del Nord. E poi lo ricordano la chiusura dal 2006 dell’Università di Asmara, rimpiazzata da una specie di ateneo militare dove ogni refolo di aspirazione alla libertà didattica è stroncato all’istante. E l’abolizione della stampa, eccetto il quotidiano Haddas Ertra posseduto al 100% dal ministero dell’Informazione. E i libri di scuola che traboccano di peana al regime facendo tornare alla mente certi temini fascisti: “Il passo romano di parata / è un esempio di moto uniforme”. E i rapporti di Amnesty International come l’ultimo, del febbraio scorso: “Sono in migliaia a tentare di fuggire per non subire l’oppressione del governo o per evitare la leva obbligatoria a tempo indeterminato”. Tempo indeterminato. Va da sé che è possibile chiedere il passaporto (se te lo danno) non prima dei 40 anni per le donne e non prima dei 50 per l’uomo. Tema: chi più degli eritrei (soprattutto quelli cristiani che più acutamente soffrono l’asfissia della dittatura nata marxista) ha diritto a chiedere (senza automatismi: chiedere) lo status di rifugiato in un Paese come l’Italia che, stando alle ultime tabelle del Global Trends Unhcr, ha 2,76 profughi riconosciuti ogni 1.000 abitanti contro gli 11,5 della Svizzera, gli 11,7 della Germania, il 17,4 di Malta o i 23,7 della Svezia? E può bastare il sorprendente abbraccio di un mese fa fra Isaias Afewerki e il nuovo premier etiope Abiy Ahmed, figlio di un islamico e di una cristiana, a rassicurare gli eritrei sulla fine reale di una guerra un po’ rovente e un po’ fredda durata un’eternità? Certo, gli stessi operatori umanitari e i diplomatici che operano in zona riconoscono che per i “tigrini” che vivevano in Etiopia non è stato difficile per anni spacciarsi per eritrei e godere d’un pregiudizio positivo. È successo. Non si sa in quanti casi, ma è successo. C’è un solo modo per scoprire chi fa il furbo: parlare con le persone, ascoltarle, farle interrogare da interpreti che conoscano la lingua, approfondire... Ma è difficile farlo, tenendo tutti al di là di una barriera. Afghanistan. L’Italia può far valere le ragioni della pace di Franco Venturini Corriere della Sera, 24 agosto 2018 Gli ostacoli ancora da superare, è vero, non sono di poco conto. E i Talebani non sempre sono affidabili. Ma l’alternativa, ormai, è soltanto una guerra ancor più terribile perché vana. Secondo soltanto all’Africa nella classifica mondiale delle guerre dimenticate, l’Afghanistan vive queste settimane all’insegna delle sue tragedie ma anche delle sue speranze: alla accelerazione dei combattimenti e degli attentati si affianca un ennesimo tentativo di fare la pace con i Talebani, dopo diciassette anni di conflitto, centinaia di migliaia di morti e una quantità incalcolabile di miliardi spesi inutilmente. Perché questa guerra nessuno è più in grado di vincerla. Nemmeno la Nato, nemmeno la potentissima America. Ed è per questo che le ragioni della pace non sono mai state così forti. Dall’inizio di giugno si sono moltiplicate le tregue d’armi, americani e talebani si sono incontrati ripetutamente in Qatar, e la violentissima battaglia di Ghazni è stata un tentativo talebano di negoziare da posizioni di forza un possibile accordo. Il problema, si dice a Kabul, è che il negoziato fa pochi progressi perché da Washington arrivano scarse e confuse direttive politiche, i militari hanno le idee chiare ma il Presidente pensa ai suoi problemi e ha gli occhi fissi sulle presidenziali del 2020. Qualcuno dovrebbe ricordargli che la pace e il risparmio di somme colossali sono di solito utili anche in chiave elettorale. Chi meglio dell’Italia? In Afghanistan abbiamo ancora 800 militari. Abbiamo avuto 55 morti. Siamo rimasti quando altri se ne andavano, francesi e britannici compresi. Il ritiro unilaterale a suo tempo annunciato da Di Maio è diventato “graduale e concordato”. Abbiamo le carte in regola, insomma, per dire agli alleati americani che questo può essere l’ultimo treno per la pace, e che serve una volontà politica più coraggiosa nella trattativa con i Talebani. Gli ostacoli ancora da superare, è vero, non sono di poco conto. E i Talebani non sempre sono affidabili. Ma l’alternativa, ormai, è soltanto una guerra ancor più terribile perché vana. Etiopia ed Eritrea, una pace che può cambiare l’Africa di Giulio Albanese Avvenire, 24 agosto 2018 La “rivoluzione” buona del premier di Addis Abeba. All’inizio dell’anno nessuno avrebbe immaginato che il 2018 sarebbe stato un tempo di cambiamenti così radicali nelle relazioni tra Etiopia ed Eritrea e più in generale nella cornice geopolitica del Corno d’Africa. Infatti, lo scorso 8 luglio, è stata firmata una dichiarazione che pone fine allo “stato di guerra” tra i due Paesi. A siglarla sono stati Abiy Ahmed, nuovo primo ministro etiope e il presidente eritreo, Isaias Afwerki. Il disgelo nelle relazioni diplomatiche era iniziato lo scorso aprile con l’insediamento, ad Addis Abeba, del nuovo premier Abiy che ha subito espresso un indirizzo politico all’insegna del dialogo, non solo con le opposizioni interne, ma anche con la vicina Eritrea. La sorpresa è comunque stata ufficializzata a giugno quando Abiy ha dichiarato che il suo esecutivo avrebbe rinunciato alle rivendicazioni territoriali in Eritrea, quelle che hanno rappresentato l’oggetto del contenzioso sfociato, il 1 maggio del 1998, nella sanguinosa guerra fratricida tra i due Paesi. La riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, Addis Abeba e Asmara, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate, sono segnali incoraggianti. Ma per comprendere il significato del nuovo corso è necessario tornare indietro con la moviola della Storia. L’Eritrea, infatti, era storicamente parte integrante del grande impero d’Etiopia, ma nel 1950 ottenne finalmente lo status di regione autonoma federata dell’Etiopia per decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Purtroppo, nel 1962, per decisione unilaterale dell’imperatore d’allora, il negus Hailé Selassié, l’Eritrea venne nuovamente annessa all’Etiopia, scatenando l’inizio di una trentennale guerra per l’indipendenza. Il 12 settembre del 1974 un colpo di Stato compiuto ad Addis Abeba da un gruppo di ufficiali dell’esercito etiope detronizzò Hailé Selassié, proclamando poi, il 12 marzo del 1975 la fine del regime imperiale e la nascita di uno Stato comunista. Due anni dopo prevalse l’ala più radicale del partito guidata dal maggiore Menghiastu Hailè Mariàm, soprannominato il “Negus Rosso” che instaurò, per alcuni anni, un regime dispotico contro chiunque si opponesse à suo delirio di onnipotenza. A pagare un prezzo altissimo furono i civili, in particolare quelli eritrei, che si opposero strenuamente al regime di Menghiastu con azioni di guerriglia. Successivamente, con la caduta dell’ex Unione Sovietica, iniziò un nuovo corso con la nascita di uno Stato repubblicano, sancito ufficialmente con la nuova costituzione del 1995. Nel frattempo nel 1993, l’Eritrea aveva ottenuto l’indipendenza dopo essere stata a lungo una provincia dell’Etiopia. Inizialmente, i due Paesi mantennero buone relazioni, ma nel 1998 iniziò una guerra per il possesso di Badme, una località sperduta a cavallo del vecchio confine coloniale italo-abissino. Per quella petraia sassosa e polverosa morirono circa ottantamila soldati, in uno scenario bellico devastante. Poi dal 2000, con gli accordi di Algeri, si giunse d un “cessate il fuoco provvisorio”, che ha offerto il pretesto ad Afewerki, “padre-padrone” dell’Eritrea, di militarizzare l’intero Paese imponendo a tutti la leva permanente e drenando le poche risorse in armamenti. Da qui la fuga di massa dei giovani verso l’Europa. Da rilevare che Afewerki ha imposto il monopartitismo impedendo lo svolgimento di libere elezioni. E dall’indipendenza in poi, molti oppositori politici sono stati arrestati, mentre l’economia nazionale è stata fortemente penalizzata. Afewerki, con la ristretta cerchia dei suoi collaboratori più fidati, ha, ancora oggi, il controllo di tutto: assetti istituzionali e militari, scelte politiche e programmi economici. Sul versante opposto, in Etiopia, il continuo stato di allerta sul confine nord-orientale, ha fatto sì che la spesa militare crescesse a dismisura. La crisi economica e il montare delle proteste regionaliste, soprattutto nella regione dell’Oromia, hanno rischiato di generare vere e proprie insurrezioni. Un clima di forte instabilità che ha allarmato i principali investitori stranieri, in primis, il governo di Pechino. A questo punto non restava altra possibilità che innescare l’agognato cambiamento, affermando nei fatti una piattaforma democratica. Il merito è tutto di Abiy, il 42enne ex ministro della Scienza e della Tecnologia, leader dell’Organizzazione democratica del popolo oromo (Opdo), una delle 4 formazioni politiche su base etnica che formano la coalizione al governo, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Nato nella città di Beshasha, nella regione dell’Oromia, appartiene ad una famiglia mista, con padre musulmano e madre cristiana. Ha svolto il servizio militare nelle forze armate, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Successivamente, ha fondato e diretto l’agenzia governativa responsabile della sicurezza informatica. Ebbene questo giovane premier si sta rivelando un vero e proprio statista e un grande riformatore. Abiy ha avviato da subito cambiamenti forti e radicali. Anzitutto ha decretato la fine dello stato d’emergenza, liberando gli oppositori politici, denunciando l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza. Inoltre, nei primi cento giorni del suo governo, ha licenziato i funzionari governativi implicati nelle violazioni dei diritti umani. Abiy è certamente una figura carismatica ed è visto come latore di speranza anche dal gruppo etnico degli oromo, che costituisce pìù del 40 per cento della popolazione, e che da anni patisce l’esclusione sociale e politica, oltre che economica, rispetto agli interessi generali dei governi centrali che si sono succeduti al potere. A ciò si aggiunga il fatto che provenendo da una famiglia mista (padre musulmano e madre cristiana), Abiy potrebbe avviare una stagione di confronto e collaborazione in Etiopia tra le due principali comunità religiose, quella dei cristiani e quella dei musulmani. Da rilevare che ha anche riformato i vertici delle forze armate e avviato un processo di liberalizzazione dell’economia. Sta anche studiando una riforma della costituzione, secondo lui, troppo condizionata dal federalismo etnico. Ma l’orizzonte di Abiy, va ben oltre la cornice del Corno d’Africa. Non è un caso se già all’indomani della sua nomina, il neopremier etiope si è recato nella capitale saudita, Ryad, per incontrare l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman, anch’egli protagonista di una svolta nel suo Paese. Per le rispettive diplomazie, è importante creare un nuovo arco d’alleanze dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, in grado di contenere l’esuberanza di Turchia e Qatar in Sudan e in Somalia. Ma attenzione, non è tutto oro quello che luccica. Lo dimostra l’attentato dello scorso 23 giugno, contro Abiy. È avvenuto durante un comizio del leader etiope: una granata ha fatto una vittima e 150 feriti. Abiy, comunque, non vuole cedere alle intimidazioni e intende andare avanti con determinazione. Ha capito bene che una radicalizzazione del confronto con le opposizioni politiche ed etniche avrebbe a lungo andare determinato l’implosione del suo Paese. Inoltre, il nuovo corso avviato con l’Eritrea era indispensabile per ridare stabilità all’intera regione del Corno d’Africa, una delle più instabili e povere di tutto il continente africano. E poi, come molti analisti hanno evidenziato, l’Unione Africana ha estremo bisogno di nuovi leader, del calibro di Abiy, capaci di fare sistema, contrastando l’indirizzo delle oligarchie dominanti nel continente. Sarà la Storia a giudicare. Iran. Per l’anglo-iraniana Nazanin un po’ di luce dopo due anni di carcere di Angela Napoletano Avvenire, 24 agosto 2018 Dopo più di due anni, Nazanin Zaghari-Ratcliffe, reclusa nel carcere di Evin, a Teheran, per sospetta attività di spionaggio e propaganda contro l’Iran - accuse sempre negate, ieri ha potuto riabbracciare sua figlia Gabriella, di appena quattro anni. Per la donna, 40 anni, di nazionalità anglo-iraniana, l’incubo non è tuttavia ancora finito. Quello che i suoi avvocati sono riusciti a ottenere, infatti, è solo un permesso di tre giorni che si spera possa essere esteso. Sulla sua testa pende una condanna a 5 anni. Nazanin è però fiduciosa e, forte dell’appoggio di suo marito, Richard Ratcliffe, che in questi mesi si è fatto promotore di una intensa campagna politica e mediatici per la sua scarcerazione, è certa che questa breve sospensione della pena sia “l’inizio della fine”. “Ho pianto tanto quando ho saputo del permesso, non me lo aspettavo”, racconta la donna. “Sono uscita dalla cella - continua - trai balli e i canti di tutte le altre detenute che facevano festa in mio onore”. Nazanin trascorrerà questi tre giorni di libertà insieme alla famiglia nella casa dei suoi genitori, a Damavand, nella periferia nord-est della capitale iraniana. Il suo pensiero, però, è già proteso verso il suo ritorno a Londra. Project manager alla Fondazione Thomson Reuters, la donna, residente in Inghilterra dal 2007, è stata arrestata nell’aprile del 2016 all’aeroporto di Teheran mentre aspettava il volo che l’avrebbe dovuta riportare a Londra, insieme alla piccola Gabriella, dopo aver trascorso qualche giorno di vacanza con i suoi genitori. I militari del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione l’hanno fermata e allontanata dalla sua bambina per condurla a Evin, quella che è nota essere una delle carceri più dure del mondo. Le accuse che gli vengono rivolte risalgono al periodo in cui Nazanin Zaghari-Ratcliffe lavorava alla Bbc, dal 2009 al 2010, quando- è quanto sostiene il Tribunale iraniano - la donna avrebbe “utilizzato un corso di giornalismo on line per reclutare e formare alcuni dissidenti della Repubblica islamica”. La condanna della cittadina anglo-iraniana, supportata da debole prove dedotte da alcune sue e-mail, è diventata un delicato caso diplomatico che ha coinvolto in prima persona sia l’ex ministro degli Esteri, Boris Johnson, sia il suo successore Jeremy Hunt. “Ringraziamo tutti coloro che hanno reso possibile questo a Teheran e Londra - ha dichiarato il marito, Richard Ratcliffe - e al nuovo ministro degli Esteri per tutti i suoi recenti sforzi”. “Nazanin deve essere rilasciata in modo definitivo - ha rilanciato il ministro Hunt in un tweet - cosa per cui continueremo a fare tutto il possibile”.