Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti è a rischio di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 23 agosto 2018 Gentili lettori, gentili amici di Ristretti Orizzonti, vi dobbiamo prima di tutto delle scuse per il ritardo con cui state ricevendo la nostra rivista (e comunque vi garantiamo che riceverete tutti i sette numeri previsti dall’abbonamento). Non era mai successo, in vent’anni di vita di Ristretti, un simile ritardo, e forse è il caso che ve ne spieghiamo le ragioni. A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni, a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto. Con l’obiettivo di togliere a Ristretti quella fondamentale funzione di “pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, che non è una nostra definizione, sono le parole di Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Per prima cosa purtroppo dobbiamo spiegare che questo “ridimensionamento” di attività, che ci hanno meritato la stima e l’apprezzamento di tanti in questi anni, per noi significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi in progetti importanti come quello di confronto tra le scuole e il carcere, Avvocato di strada, la preziosa Rassegna Stampa quotidiana che voi tutti conoscete, lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, un servizio che mettiamo a disposizione di tutte le persone detenute, aiutando così il lavoro degli operatori dell’Amministrazione, ma il rischio è anche maggiore, è quello di non farcela a sopravvivere e di dover chiudere l’esperienza di Ristretti, e non perché non funziona più, tutt’altro, ma perché qualcuno ha deciso che non gli piace e che va drasticamente ridimensionata. Qualche esempio di “ridimensionamento”? La Casa di reclusione di Padova è diventata in questi ultimi quindici anni un luogo da cui si fa davvero prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio. Protagonisti di questi percorsi sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione. E poi c’è il Comune di Padova, che crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. E c’era la Direzione della Casa di reclusione, che credeva all’efficacia di un progetto con al centro le storie di vita dei detenuti, e metteva al primo posto non la “visibilità” del carcere, ma il futuro dei ragazzi e quello che è più utile per fare con loro prevenzione. Ma oggi c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Insegnanti e dirigenti scolastici, invitati dal Direttore della Casa di reclusione il 28 giugno a esprimere la loro opinione, hanno affermato con convinzione che il senso di questa esperienza di conoscenza del carcere, che fanno i giovani studenti, sta soprattutto nei racconti di vita delle persone detenute, nel loro mettere a disposizione di questo progetto le loro storie perché i ragazzi capiscano dove nascono le scelte sbagliate, lo scivolamento in comportamenti pericolosamente trasgressivi, la voglia di imporsi con metodi violenti, che a volte inizia proprio negli anni della scuola. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente all’incontro, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo, importante e significativo, per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentire di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male. - Sette mesi ci abbiamo messo per ottenere di far venire qualche detenuto nuovo in redazione, eravamo rimasti in otto (grazie a Dio, qualcuno esce, in semilibertà, in affidamento, a fine pena, e qualcuno viene trasferito), c’erano moltissime richieste ed è stato lungo e faticoso il percorso per ricostruire Ristretti Orizzonti, ma quello che è più faticoso è far riconoscere il valore di quella minima autonomia della redazione nell’organizzare il proprio lavoro, scegliendo i temi da trattare, gli ospiti da invitare, le iniziative da organizzare. Quello che vorremmo è semplicemente avere ospite in redazione anche il nuovo direttore, e poterci confrontare su una idea di carcere, in cui le persone detenute abbiano spazi significativi di libertà e di decisione, e non vivano più la condizione per cui se qualcosa gli viene dato, si tratta sempre di una “concessione”, di un beneficio, di un “regalo”. - La rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate, di recente anche a Sollicciano, era stata approvata dal precedente direttore, su proposta di Ristretti, anche per Padova, c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge (ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?). E subito dopo la nuova Direzione ha dato vita a una “rappresentanza per estrazione” (che neppure dovrebbe essere chiamata rappresentanza) di 20 detenuti, che non si capisce dove trovi la sua legittimazione nella legge (che allora, a voler essere precisi, prevede solo l’estrazione di rappresentanti in diverse commissioni, e non di rappresentanti di sezione). Uno strumento di autentica democrazia è stato bocciato, come se invece di un serio lavoro per preparare le persone detenute a occuparsi degli interessi di tutti, si trattasse di fare le elezioni del Presidente degli Stati Uniti e mettere in piedi una gigantesca macchina elettorale. - E ancora, ci è stato comunicato con un brevissimo messaggio della Direzione che il progetto Mai dire mail, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori, tutor universitari, e per il quale attendiamo da mesi una risposta sul rinnovo della convenzione che abbiamo sottoscritto con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Provveditorato, veniva sospeso dall’1 agosto, proprio per una serie di obiezioni sollevate dal Provveditore stesso, a cui abbiamo puntualmente risposto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per confrontarci e cercare di evitare questa sospensione, dannosa per le persone detenute, per le loro famiglie e anche per l’Amministrazione stessa, ma si è preferita la strada di bloccare il servizio. Quello che chiediamo è che Mai dire mail possa continuare, visto che niente è cambiato dall’autorizzazione che ha dato l’Amministrazione, soprattutto in un periodo delicato come questo, in cui il clima pesante che si respira nelle carceri rende ancora più importante il supporto esterno di famigliari e amici. Allora, in un momento così difficile per noi, ma anche per tutto il mondo che gravita intorno alle carceri, con il sovraffollamento sempre più a livelli di guardia, e la perdita di tante speranze, legate alla mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e i suicidi che in questi giorni riempiono le cronache, vi chiediamo di sostenerci, di appoggiare le nostre battaglie, di CREDERE NEL NOSTRO GIORNALE E ABBONARVI, nonostante i ritardi, nonostante la stanchezza che riempie tutti noi, che abbiamo creduto nel cambiamento e ci ritroviamo invece a fare pesanti passi indietro e a dover difendere con le unghie e con i denti anche le poche conquiste di questi anni. *Redazione di Ristretti Orizzonti Spezzo una lancia in difesa dei giovani magistrati alla prima scelta di Edmondo Bruti Liberati Il Dubbio, 23 agosto 2018 I vincitori del concorso per la magistratura, dopo un primo periodo di tirocinio in cui avvicinano tutte le possibili funzioni, sono assegnati alla futura sede ed effettuano la seconda parte del tirocinio cosiddetto “mirato” centrato sulle funzioni specifiche che andranno a svolgere. La scelta della prima sede di servizio per i magistrati è un momento che segna, spesso in modo decisivo, la loro futura carriera. Fino alla istituzione del Csm essa era assegnata dal Ministero, non sulla base di criteri prefissati, ma secondo “le esigenze di servizio”, concetto, come si può immaginare, alquanto permeabile a pratiche clientelari o discriminatorie. Il Csm, negli anni, ha progressivamente posto in essere una procedura trasparente, basata sul criterio oggettivo dell’ordine di graduatoria nel concorso, tra le sedi preventivamente comunicate come disponibili. Il mio concorso, nel lontano 1970, fu tra i primi a sperimentare questa procedura. Ricordo bene l’atmosfera di quella giornata, piuttosto tranquilla per i primi in graduatoria che avevano ampie possibilità di scelta, ma di grande tensione per tutti gli altri, i quali, man mano che procedeva la chiamata, vedevano restringersi i posti disponibili. Particolare la situazione di noi, quattro su trecento, vincitori di concorso del distretto di Milano cui era assicurata la riserva di una delle sedi milanesi, considerate disagiate e di difficile copertura. Infatti fino alla metà degli settanta i più brillanti tra i laureati in legge delle università milanesi tendevano a scegliere, oltre all’avvocatura, più remunerativi impieghi nel privato. I laureati con il massimo dei voti, ricevevano, come capitò anche a me, lettere con offerte di impiego nell’ufficio legale di grandi società, pubbliche o private o in uffici studi. La collega Elena Paciotti in un suo libro ha ricordato che quando vinse il concorso in magistratura ebbe uno stipendio che era circa la metà di quello che già percepiva nell’ufficio legale di una multinazionale. I tempi sono cambiati e oggi la magistratura, anche per i milanesi, è divenuta una prospettiva ambita. Allora eravamo tutti molto giovani, ora il percorso per la magistratura è divenuto alquanto accidentato. Per accedere al concorso occorre avere frequentato, dopo la laurea, le Scuole di specializzazione per altri due anni. A mio avviso, anche sulla base della mia esperienza nel comitato direttivo di una di queste Scuole, occorrerebbe superare questo sistema, consentendo di accedere al concorso subito dopo la laurea ormai divenuta quinquennale; anche per evitare che i migliori laureati scelgano altre strade immediatamente disponibili. Si deve prendere atto della realtà: le Scuole hanno fallito l’obbiettivo di fornire ai giovani laureati un primo bagaglio di pratica e si sono ridotte a riproporre un inutile prolungamento dell’impostazione teorica dell’insegnamento universitario. Tanto è vero che molti candidati al concorso frequentano scuole private di preparazione. Basterebbe rendere facoltativa la frequenza delle Scuole di specializzazione, che a questo punto sarebbero “costrette”, se vogliono sopravvivere, a riorientare in senso pratico l’insegnamento entrando in “concorrenza” con le scuole private. Allora si poteva entrare in magistratura a venticinque anni, oggi ben oltre i trenta, spesso con situazioni familiari già formate. Nella scelta della sede il vincitore di concorso deve prendere in considerazione la preferenza vocazionale (giudice, pm, giudice del lavoro, magistrato di sorveglianza), ma ineluttabilmente la deve raffrontare alla situazione familiare che può spingere verso un scelta diversa, basata piuttosto sulla collocazione geografica lungo la penisola e le isole. La prima scelta tra posto di giudice e pm comporterà poi conseguenze rilevanti se si vorrà passare all’altra funzione, date le preclusioni territoriali. Per di più a seguito del primo intervento del governo Renzi sulla carriera dei magistrati nessun trasferimento potrà essere chiesto se non dopo quattro anni. Quella modifica legislativa sull’età del pensionamento e sulla permanenza minima in una sede rispondeva, a mio avviso, ad esigenze razionali, ma fu attuata in modo alquanto maldestro, con lo stop and go e le proroghe ad personas sull’età del pensionamento e con la irragionevole estensione del quadriennio minimo di permanenza anche alla prima sede. È ragionevole imporre una permanenza minima di quattro, anziché tre anni, a chi ha fatto una libera scelta nel corso della carriera, ma non ai magistrati di prima nomina, che, per la gran parte, non hanno potuto fare una scelta vocazionale. Avere la possibilità di orientare la propria carriera tra le varie funzioni secondo le proprie preferenze e non secondo vincoli geografici, non deve essere considerato un privilegio, ma una valorizzazione di quelle che ciascuno ritiene le proprie attitudini o specializzazioni perseguite già nel corso degli studi. Non mancano successivamente, con il sistema delle valutazioni quadriennali di professionalità, le possibilità di correttivi qualora la scelta si sia rivelata non adeguata. Una lunga permessa per chiarire cosa significa in pratica la convocazione dei magistrati per la scelta della prima sede. Da diversi anni il Csm, dopo aver comunicato le sedi disponibili, convoca a Roma tutti i magistrati i quali, il primo giorno, procedono tutti insieme ad una informale simulazione di “prescelta” avendo a disposizione il tempo necessario per scelte meditate che possono essere fatte solo dopo aver preso atto dei posti man mano rimasti concretamente disponibili; il giorno dopo, nella riunione formale, la chiamata secondo l’ordine di graduatoria vedrà una situazione già largamente preparata. Il Csm stanzia qualcosa in più, oltre alle spese di viaggio, per un pernottamento per i non romani, ma consentire una scelta più meditata e informata mi sembra non una concessione corporativa, ma nell’interesse collettivo per un inizio di carriera in cui il magistrato abbia, in quanto possibile, una sede che gli ponga minori difficoltà logistiche. Non dimentichiamo comunque che approssimativamente un buon terzo dei vincitori di concorso finirà per avere una scelta comunque limitata nell’ambito di sedi disagiate. Si tratta per lo più di sedi di mini-tribunali che non raggiungono mai la dimensione minima per un funzionamento efficiente e che di conseguenza vedono un continuo turn over dei magistrati. Il tribunale “sotto casa” sarebbe bello ma oggi non è più possibile e dopo la benemerita riforma “Severino” su soppressioni e accorpamenti occorrerebbe fare passi avanti piuttosto che, come si sente dire, ripristinare uffici già soppressi. Ma questo è un altro discorso. Da diversi anni il Csm convoca a Roma tutti i neo magistrati, chiamati una volta “uditori” e oggi con il brutto acronimo Mot, Magistrati Ordinari in Tirocinio. Nel primo giorno, prima della simulazione sulla “prescelta”, vi è la “cerimonia al Quirinale” che è forma, ma anche sostanza, come bene ha rilevato nel suo articolo di ieri Jacobazzi: “Un rigore formale, quindi, che vuole essere anche un monito per chi è chiamato ad esercitare funzioni giurisdizionali”. La cerimonia dura meno di un’ora, ma il discorso, tutt’altro che rituale, del Presidente Mattarella, come d’altronde quello dei suoi predecessori, è stato l’occasione per un forte richiamo ai valori e ai principi deontologici della giurisdizione diretto non solo ai 370 Mot, ma a tutti i magistrati. Lo scorso 23 luglio la cerimonia al Quirinale il Presidente Mattarella ha proposto considerazioni importanti sulla funzione e sul ruolo della magistratura. Responsabilità per l’esercizio della funzione giurisdizionale che impone: “anche, a garanzia dell’imparzialità, il serio rispetto della deontologia professionale e sobrietà nei comportamenti individuali”. Dopo aver richiamato la fiducia con la quale i cittadini guardano alla magistratura “per la tutela delle loro posizioni giuridiche” il Presidente rivolge un augurio conclusivo: “Auguro a tutti voi di corrispondere appieno a questa fiducia, di conservare lo slancio ideale e la motivazione che vi hanno consentito di superare il concorso, arricchendoli del senso della misura e della passione e della tenacia che vi saranno necessari per affrontare le non poche difficoltà che potrete incontrare, l’impegno del prendere conoscenza e comprendere le fattispecie, la fatica del decidere. Ma avendo sempre ben presente anche il fascino del compito che la Repubblica vi affida”. Gli assistenti giudiziari “idonei”: adesso il ministero ci assuma Il Messaggero, 23 agosto 2018 Quasi duemila potenziali assistenti giudiziari sono nel limbo. Provengono da un po’ tutta Italia e attendono che la Pubblica amministrazione centrale - in particolare il ministero della Giustizia - batta un colpo per far scorrere la graduatoria del concorso a cui hanno partecipato (e a cui sono risultati appunto “idonei”) che gli permetterebbe di essere assunti nei tribunali o negli uffici ministeriali. La maggior parte sono avvocati, ma ci sono anche laureati in economia, scienze politiche e materie umanistiche. Hanno superato le prove selettive del concorso bandito alla fine del 2016 - ma si è svolto l’anno scorso - e ora attendono di entrare nei ranghi dell’amministrazione statale come è successo per molti loro colleghi vincitori. E in vista del ddl Concretezza - a cui sta lavorando la ministra Giulia Bongiorno - chiedono che il maxi piano di assunzioni del 2019 tenga conto anche di loro: “Noi abbiamo già sostenuto un concorso”, spiega Valentina Sacco, avvocato e membro del direttivo del Comitato idonei assistenti giudiziari. “È necessario dare priorità alla nostra graduatoria vigente prima di bandire nuovi concorsi, chiediamo di essere assunti subito considerate le carenze, i pensionamenti dichiarati e le dichiarazioni della ministra che parlando di ricambio generazionale”. In Italia il problema delle graduatorie concorsuali - dove finiscono coloro che hanno i requisiti per lavorare in attesa che si liberi un posto - è noto: molto spesso non vengono esaurite del tutto, anche se ci sarebbe necessità di assumere, o i tempi si allungano a dismisura con assunzioni che arrivano solo diversi anni dopo le prove. Complici il blocco del turnover, che ha ridotto drasticamente l’entrata di nuove leve, e la burocrazia che allunga i tempi. “L’assistente giudiziario - spiega ancora Sacco - si occupa di tutte le questioni che riguardano gli atti, ma la funzione principale è assistere il giudice in Tribunale durante le udienze, è in pratica la figura del vecchio cancellerie”. Insomma, figure importanti per snellire il carico giudiziario e per sostenere il processo telematico. Il concorso in questione si è concluso a ottobre 2017. Sul bando sono piovute migliaia di richieste (305 mila domande, 70 mila i partecipanti). Le prime assunzioni sono arrivate a gennaio con l’entrata di 1.400 persone, 800 vincitori più i primi 600 idonei in graduatoria. Poi ad aprile è arrivato un decreto dell’ex ministro Orlando che ha previsto altri 1024 contratti. La manovra 2018, invece, conteneva le risorse per altre 420 assunzioni (concretizzatesi a inizio agosto) e in autunno dovrebbero aggiungersi altre 200 assunzioni. E siamo a 3.044 su un totale di 4915 persone tra vincitori e idonei. Ne mancano all’appello circa 1.870. Affidamento in prova: l’esito positivo cancella la pena detentiva ma non l’interdizione dal voto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 22 agosto 2018 n. 20952. L’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, in virtù del quale il giudice dichiara estinta la pena detentiva e ogni altro effetto penale, non riguarda le pene interdittive accessorie. Il condannato per concussione resta dunque cancellato dalle liste elettorali. La Corte di cassazione, con la sentenza 20952 respinge la tesi del ricorrente, condannato per concussione e dunque interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, con conseguente cancellazione dagli liste degli elettori. L’uomo aveva chiesto alla commissione elettorale del Comune di essere reinserito nelle liste in seguito all’esito positivo della prova. Una circostanza che aveva indotto il giudice di sorveglianza ad ordinare l’estinzione della pena detentiva e di ogni altro effetto penale. Non essendosi la commissione ritenuta competente a decidere, era scattato il ricorso alla Corte d’Appello che aveva respinto la domanda. La Corte territoriale aveva precisato che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici non ha un effetto tale da ledere il diritto del cittadino di partecipare alla vita pubblica, senza una giustificazione legittima e proporzionata. La misura è, infatti, collegata alla valutazione della gravità del fatto, oltre che al tipo di illecito commesso, alle circostanze e alla personalità del condannato. In più non si tratta di un provvedimento non definitivo, visto che può essere rimosso attraverso la riabilitazione. Per finire, e l’argomento è dirimente, la Corte d’Appello ha precisato che l’estinzione della pena detentiva in conseguenza del superamento dell’affidamento in prova, non fa venire meno l’interdizione dai pubblici uffici. E la cassazione è d’accordo. La Suprema corte ricorda che la perdita del diritto di voto, decisa nei confronti del condannato interdetto è conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché la legislazione italiana lega il provvedimento alla gravità dei reati: la misura non ha dunque un carattere generale né è applicata in modo indiscriminato. La Cassazione è consapevole di un precedente di legittimità (sentenza 52551/2014) con il quale i giudici, muovendosi sulla scia di una sentenza delle Sezioni unite, hanno affermato che l’esito positivo dell’affidamento in prova determina l’automatica estinzione delle pene accessorie, definite dall’articolo 20 del Codice penale “effetti penali” della condanna. Una posizione che la Cassazione non condivide. E smonta la conclusione raggiunta ricordando che lo stesso legislatore ha fatto chiarezza sul punto riformulando la norma del testo ora in vigore, affermando che “L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale”. L’aggiunta della locuzione “detentiva” assente nel testo precedente dell’ordinamento penitenziario (articolo 47, comma 12) rende chiara la ratio dell’intervento. È dunque ora espressamente stabilito che l’effetto è limitato alla pena detentiva e lascia fuori sia la pecuniaria, a meno che non ci sia disagio economico, sia le pene accessorie, riguardo alle quali manca anche una “via” di salvezza. Reati prescritti, confisca per equivalente non ammissibile di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 23 agosto 2018 Non è ammissibile la confisca per equivalente nel caso di reati prescritti. Lo ha deciso la Corte di cassazione (sezione penale sesta, sentenza n. 38625 depositata il 14/06/2018). La vicenda trae origine dalla commissione del reato di bancarotta per distrazione, al quale aveva fatto seguito la contestazione del reato di riciclaggio, a carico dell’imputata alla quale veniva ascritta una condotta delittuosa, configurante il delitto di riciclaggio, data l’assenza naturalmente di ogni ipotesi di concorso nel reato. Condotta alla quale conseguiva il sequestro delle somme presenti sui conti correnti intestati all’imputata. Alla ricorrente venivano contestate due diverse condotte, e in particolare di avere versato sul proprio conto corrente somme di pertinenza della società fallita, nonché di avere fatto transitare assegni circolari provento della attività distrattiva, posta in essere nei confronti della società, su conti correnti comunque ad essa riferibili. Il giudice per le indagini preliminari, aveva disposto il dissequestro delle somme presenti sul conto corrente dell’imputata, non potendosi ravvisare nel caso di specie, il reato di riciclaggio, venendo così meno i presupposti per un provvedimento ablatorio. Osservava, sul punto il Gip, come non potesse essere ritenuto configurabile, il delitto di riciclaggio data l’assenza al momento della realizzazione delle condotte, che ne avrebbero costituito l’elemento oggettivo; del reato presupposto, bancarotta, nella fattispecie, dato che il perfezionamento del reato, si è verificato, solo in epoca successiva, alle condotte ascritte all’imputata, e in particolare nell’anno 2013. Il tribunale in appello, confermava la decisione del Gip, avverso la qual ricorreva il pubblico ministero; la Corte suprema investita della questione, accoglieva il ricorso rinviando ad altra sezione per un nuovo esame della questione. Il tribunale di appello, investito nuovamente della questione, ribaltava la decisione della precedente sezione, disponendo il sequestro dello somme presenti sul conto corrente dell’ imputata, ritenendo configurabile il reato di riciclaggio, posto che îl suo presupposto non sarebbe stato il reato di bancarotta ma quello di frode fiscale, già posto in essere al momento della realizzazione delle condotte ascritte all’imputata. Ricorreva, pertanto l’imputata, al fine di ottenere il dissequestro delle somme. Osservava, la ricorrente, nell’unico motivo di ricorso, come la confisca fosse illegittima, posto che essa si fondava su reati prescritti, in quanto riferentesi a condotte troppo risalenti nel tempo. Ravvisando, così nel caso di specie la necessità delle riforma, del provvedimento del tribunale di appello, in quanto illegittimo. Rappresentava, la ricorrente, come il giudice di merito avesse violato l’art. 157 del codice penale, che regolamenta i tempi di prescrizione dei reati, largamente superati nel caso di specie. Osservava la ricorrente come un reato prescritto, non poteva essere il presupposto per un provvedimento di confisca. Il predetto motivo, veniva ritenuto fondato, e il ricorso pertanto accolto, con il rinvio ad altra sezione del tribunale per un nuovo esame della questione. La Corte suprema, nella motivazione del provvedimento, qui in commento ravvisa nella motivazione del tribunale, una inesistenza strutturale, ritenendola carente, sotto gli aspetti dell’indicazione della data della realizzazione delle condotte delittuosa costituenti reato presupposto, nonché dell’indicazione di eventuali atti interruttivi della prescrizione. La motivazione della Corte suprema, si fonda sulla giurisprudenza unanime dello stesso organo, relativa alla questione dell’ammissibilità, della confisca per equivalente nel caso di reati prescritti. In particolare le sezioni unite della Corte di cassazione hanno fatto discendere, dal carattere affittivo e sanzionatorio del provvedimento, l’impossibilità della sua applicazione nel caso di reato prescritto. Frode in commercio se il ristorante non segnala gli alimenti surgelati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 2018 n. 38793. Frode in commercio per il presidente del Cda di un ristorante di élite, se nel menù non sono adeguatamente evidenziati i prodotti surgelati. E il reato scatta a prescindere dall’ottima qualità degli alimenti e dal fatto che siano stati trattati a regola d’arte. Non basta neppure che i clienti siano informati della possibilità di rivolgersi al personale di sala per avere notizie sui prodotti. La Cassazione (sentenza 38793) respinge il ricorso del presidente del Cda di un noto ristorante milanese. Per i giudici l’uso di prodotti trattati con l’abbattitore era un’evenienza non rara. E la circostanza non si poteva dedurre neppure dai prezzi. Né poteva essere lasciata al cliente l’iniziativa di informarsi, perché solo i più accorti avrebbero potuto farlo. Il ricorrente aveva fatto presente che il riferimento al costo dei piatti era non pertinente. In un posto che non era “una trattoria di periferia” sui prezzi incidevano una serie di elementi: dall’alta qualità delle materie prime usate, all’ambiente, fino al livello del servizio. Ma i giudici avvertono che non ci si può appellare neppure alla normativa comunitaria che prevedeva l’equiparazione tra prodotti surgelati e freschi, perché valeva solo ai fini igienico sanitari e non civili. Il cliente va informato con una grafica che non sfugga alla sua attenzione. Codice della strada: no a conservazione sangue prelevato per stabilire tasso alcolemico di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 9 agosto 2018 n. 38369. I giudici della quarta sezione Penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 38369 del 9 agosto 2018 hanno stabilito l’attendibilità della prova ematica per determinare l’alcolemia, in quanto nessuna disposizione del Cds o altra norma di legge dispone la conservazione del campione ematico esaminato, né la effettuazione di analisi di controllo in assenza delle quali il risultato fornito dall’ospedale pubblico sarebbe inutilizzabile. Il caso - Un automobilista proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte territoriale di Firenze che, in riforma della pronuncia assolutoria del tribunale di Grosseto, lo aveva ritenuto responsabile del reato di cui all’articolo 186, secondo comma, lettera c) e comma 2-bis, del codice della strada, condannandolo alla pena di mesi tre di arresto e ammenda. In sintesi, il ricorrente deduceva vari motivi di ricorso tra i quali nullità della sentenza per violazione in quanto non avvertito, all’atto del prelievo, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia. Sul punto il ricorrente rappresentava di avere eccepito il mancato avviso anche innanzi al giudice di primo grado attraverso il deposito di memoria difensiva, “ribadita” nel verbale di udienza. Il ricorrente lamentava che il giudice d’appello, pure avendo sovvertito il verdetto assolutorio non ha provveduto a rinnovare l’istruzione dibattimentale riassumendo la deposizione di un teste dalle cui dichiarazioni emergevano prove evidenti della non colpevolezza dell’imputato. Riteneva la sentenza nulla anche per violazione delle disposizioni del protocollo operativo per gli accertamenti richiesti ai sensi del quinto comma dell’articolo 186 del codice della strada, stilato dal ministero dell’Interno di concerto con quello della Salute e dei Trasporti. Evidenziava il ricorrente che nelle 48 ore dall’incidente e dalle analisi aveva presentato richiesta all’ospedale finalizzata alla conservazione del campione di sangue ed urine prelevati per effettuare ulteriore controlli sugli stessi, ritenendo che il risultato delle analisi fosse errato. Il protocollo tra i due ministeri stabilisce che il sangue prelevato sia contenuto in due provette, la prima destinata all’accertamento; la seconda destinata alla conservazione che deve protrarsi per un periodo non inferiore ad un anno, onde consentire una eventuale nuova prova. Nel caso de quo, lamenta il ricorrente, non si era fatto luogo alla conservazione del secondo campione. Data la impossibilità di pervenire ad un quadro probatorio attendibile e certo a carico del ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe dovuto pronunciare sentenza di condanna. La decisione - Gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso in quanto le censure sollevate riproducono pedissequamente questioni già attentamente vagliate dalla Corte territoriale che hanno trovato nella motivazione della sentenza una precisa e corretta risposta. In ordine al primo motivo si osserva: come ricordato dalla Corte territoriale la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente del veicolo da sottoporre a esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia deve essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado e nel caso de quo, non risulta che l’eccezione sia stata tempestivamente proposta Sul punto occorre rammentare come la giurisprudenza di questa Corte ritenga che sia intempestivo il deposito effettuato dopo che sia terminata la discussione e siano state rassegnate le conclusioni, di memorie difensive con le quali si introducano temi in precedenza non sviluppati, precisando che in tali casi l’omessa valutazione della memoria tardivamente depositata non determina la nullità della sentenza, né rileva ai fini della correttezza della motivazione della decisione. Inoltre, l’articolo 186, quinto comma stabilisce che, per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti a cure mediche, l’accertamento del tasso alcoolemico sia effettuato, su richiesta degli organi di Polizia stradale, da parte di strutture sanitarie che rilasciano la relativa certificazione. Nella disposizione non è contenuto alcun rinvio al protocollo menzionato dal ricorrente suscettibile di acquisire valore integrativo della norma penale in esame. Mantenimento figli: quando incapacità economica obbligato ha efficacia di causa scriminante Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2018 Obbligo di mantenimento figli - Indisponibilità economica dell’obbligato - Causa scriminante - Condizioni. L’indisponibilità da parte dell’obbligato al mantenimento dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se essa perduri per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non sia dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato stesso. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 23 luglio 2018 n. 34952. Obbligo di mantenimento figli - Incapacità economica dell’obbligato - Efficacia scriminante - Condizioni - Persistente, oggettiva ed incolpevole. L’incapacità economica dell’obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti fissati in sede civile, per assumere efficacia scriminante, deve, infatti, essere assoluta e deve integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti (Nel caso di specie, correttamente secondo la Suprema Corte, per i Giudici di merito, l’imputato non solo non aveva offerto alcuna dimostrazione di versare in una situazione di assoluta ed incolpevole indigenza, limitandosi ad una mera allegazione in tal senso, ma, soprattutto, i giudice del merito avevano escluso che il ricorrente versasse in condizioni economiche tali da rendere materialmente impossibile l’ottemperanza alle statuizioni civili impostegli poiché, pur avendo perso il lavoro alle dipendenze, continuava a svolgere attività lavorativa, sia pure saltuaria, secondo le concordi dichiarazioni rese dai testi escussi e non solo dalla parte civile e dalla madre di costei, sicché non sussistevano condizioni di fatto che si risolvesse nella impossibilità di adempiere all’obbligo contributivo. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 27 settembre 2017 n. 44632. Assegno di mantenimento in favore del figlio - Omesso versamento - Presupposti - Mero stato di disoccupazione - Non sufficiente. La condizione di incapacità a far fronte all’obbligo di versare l’assegno di mantenimento del figlio minore di età deve consistere in una situazione incolpevole di assoluta indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita degli aventi diritto e la cui allegazione non può ritenersi sufficiente allorché si basi sull’asserzione del mero stato di disoccupazione. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 26 giugno 2017, n. 31495. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Figli minori - Minore età - Condizione soggettiva dello stato di bisogno - Obbligo di entrambi i genitori di contribuire al mantenimento della prole - Mantenimento in via sussidiaria da parte dell’altro genitore - Non esclude la sussistenza del reato di cui all’articolo 570, 2 co., c.p. In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta “in re ipsa” una condizione soggettiva dello stato di bisogno, con il conseguente obbligo per i genitori di contribuire al loro mantenimento, assicurando ad essi detti mezzi di sussistenza e che entrambi i genitori sono tenuti ad ovviare allo stato di bisogno del figlio che non sia in grado di procurarsi un proprio reddito. Ne consegue che il reato di cui all’articolo 570 c.p., comma 2, sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 23 dicembre 2014, n. 53607. Lombardia: reinserimento degli ex detenuti grazie al Pirellone Libero, 23 agosto 2018 In occasione del Meeting di Rimini, la fiera che si svolge fino al 25 agosto, l’assessore regionale all’Istruzione, formazione e lavoro Melania Rizzoli, ha ribadito l’impegno di Lombardia per l’inserimento lavorativo dei carcerati e di persone fortemente a rischio di esclusione sociale. “Abbiamo avviato” ha spiegato la Rizzoli, che ha visitato anche lo stand del centro Galdus “un sistema integrato di interventi basati su una Legge regionale che promuove una serie di servizi che riguardano gli aspetti sanitari, educativi, di formazione e di reinserimento nel mondo del lavoro, in coordinamento con enti pubblici e operatori privati e amministrazione penitenziaria, e con il finanziamento del Fondo sociale europeo”. Grazie agli ultimi finanziamenti, quasi 11 milioni di euro sono stati investiti in progetti che hanno coinvolto in quasi due anni più di 2.000 persone e 10.000 detenuti. Iniziative che hanno lo scopo di ridare dignità a persone in difficoltà attraverso temi educativi, di formazione e di crescita umana. In ultimi 2 anni finanziati progetti per 11 mln (Askanews) “Da medico sono abituata a esercitare il dovere di tutelare la vita: davanti alla problematica carceraria, e come assessore regionale, questo dovere si allarga al tutelare la possibilità di una nuova vita”. Lo ha detto l’assessore regionale all’Istruzione, Formazione e Lavoro Melania Rizzoli, partecipando, al Meeting di Rimini, ad un confronto con il direttore del carcere milanese di Opera, Silvio Di Gregorio. L’assessore ha sottolineato le pratiche adottate da Regione Lombardia. “Abbiamo avviato - ha spiegato - un sistema integrato di interventi basati su una Legge regionale, riformata un anno fa, che promuove una serie di servizi che riguardano gli aspetti sanitari, educativi, di formazione e di reinserimento nel mondo del lavoro, in coordinamento con enti pubblici e operatori privati e amministrazione penitenziaria, e con il finanziamento del Fondo sociale europeo”. Negli ultimi due anni sono stati finanziati progetti per 11 milioni di euro, che hanno coinvolto 2.000 persone e hanno raggiunto quasi 10.000 detenuti. Rizzoli ha anche spiegato come è nato il suo rapporto con le carceri. “Nel 2008 - ha continuato - da parlamentare e membro della commissione Sanità, cominciai un viaggio nelle prigioni italiane, per verificare le condizioni sanitarie dei detenuti, e alla fine mi sono trovata a notare ed esaminare ancora di più le loro condizioni umane”. “Da questa scoperta è nato anche - ha concluso - un libro di ritratti e interviste eccellenti e non, in cui ho cercato di leggere tutto quello che del carcerato viene dimenticato, la sua complessità di essere umano, la possibilità di restituirlo al mondo”. Toscana: assistenza e incolumità nelle carceri, nasce una task force giustizia.it, 23 agosto 2018 Migliorare la qualità dell’assistenza e tutelare l’incolumità dei detenuti. Questo l’obiettivo dell’accordo di collaborazione sottoscritto tra il GRC (Centro Gestione Rischio clinico e Sicurezza del paziente della Regione Toscana) e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana e Umbria. Un gruppo di esperti, composto da referenti dell’amministrazione penitenziaria e del GRC per la salute in carcere, visiterà gli istituti per verificare gli standard di sicurezza e identificare le cause di eventuali criticità, focalizzando l’attenzione sui rischi attuali o potenziali da cui potrebbero scaturire situazioni di disagio e problematicità per i pazienti detenuti, valutando allo stesso tempo le misure da introdurre, in tempi brevi, per prevenirle. Tra le finalità delle visite, non ispettive ma di ascolto, anche quella di individuare, insieme agli operatori, le aree maggiormente critiche dal punto di vista della sicurezza e apprendere quali siano i problemi quotidiani. Particolare attenzione verrà dedicata all’analisi della gestione dei detenuti auto o etero aggressivi e le eventuali ricadute dei loro comportamenti sul personale. L’accordo, rinnovabile, è di durata biennale e prevede la possibilità apportare modifiche migliorative in corso d’opera sulla base degli esiti del monitoraggio. Torino: quel ponte tra il dentro e il fuori, dalla Casa circondariale all’Icam di Veronica Manca* Il Dubbio, 23 agosto 2018 La progettualità dell’Ufficio del Garante dei detenuti di Torino per gli istituti Lorusso e Cutugno. Con la Relazione 2017, la Garante per i diritti delle Persone private della Libertà personale del Comune di Torino, la dottoressa Monica Cristina Gallo, ha presentato al pubblico un lavoro corposo (oltre 200 pagine), ricco di informazioni e dati statistici relativi all’attività svolta dall’Ufficio del Garante per l’anno appena trascorso. Il documento - indice di un lavoro estremamente curato ed appassionato - fornisce un insieme di informazioni preziose per la realtà penitenziaria di Torino (per la consultazione della Relazione 2017 e 2016, comune.torino.it/garantedetenuti). Già da una prima lettura, si coglie la chiara volontà dell’Ufficio del Garante di Torino di rappresentare un punto fermo per la realtà territoriale, una sorta di “ponte” fra il dentro e fuori (non a caso, la relazione è stata presentata all’interno della Casa circondariale di Lorusso e Cutugno). Come si legge, a pag. 11, “Occuparsi di carcere obbliga a cercare soluzioni ai numerosi problemi irrisolti del nostro sistema di esecuzione. È facilmente comprensibile che lo scorrere della vita all’interno degli Istituti penitenziari è mossa da molteplici fattori emergenziali con i quali detenuti e operatori si trovano a convivere ogni giorno. Sovraffollamento, autolesionismo, suicidi, carenza di personale, strutture usurate, attese, disagio e malattie, conflitti e sofferenza sono condizioni persistenti nel tempo e negli spazi di detenzione”. Eppure - come riporta la relazione - “malgrado tutto si ha l’impressione che vi sia una capacità di affrontare le situazioni che nel carcere germogliano con analoga “capacità di recupero con cui un ecosistema si modifica dopo una perturbazione”. Questa è l’esatta impressione che si ricava dalla descrizione della Garante rispetto alla realtà della Casa circondariale di Lorusso e Cutugno: non vi è infatti ipocrisia, né buonismo; i problemi e le carenze vengono riportate in tutta la loro drammaticità, senza filtri od omissioni (a pag. 68, le detenute in un incontro con la Direzione hanno avuto modo di segnalare numerose criticità, come la presenza di scarafaggi, inadeguati standard igienici, come la mancanza di un rifornimento di prodotti per l’igiene personale). Le difficoltà sono numerose: si pensi che anche nel carcere di Torino si torna a parlare di sovraffollamento. Dall’ultimo rapporto di Antigone, dal 2016 al 2017 (poco meno di un anno) i detenuti sono aumentati di 3.000 unità; il tasso di sovraffollamento ha quindi raggiunto il 115%. La Casa circondariale di Torino, infatti, soffre di una grave situazione di sovraffollamento: a fronte di una capienza regolamentare di 1.065, i detenuti presenti sono 1.371 (mentre nel 2016 erano 1.321 e nel 2015 1.162). La quasi totalità dei detenuti presenti è di sesso maschile (89%); poco meno della popolazione detenuta è straniera (45%), provenienti da Marocco (24%), Romania (16%), Albania (12%), Senegal e Nigeria (7%). Il 50% dei detenuti, inoltre, sconta una condanna definitiva, mente il 30% è in attesa del primo grado di giudizio; nell’ 8% dei casi si è in presenza di appellanti e nel 4% di ricorrenti. La maggior parte dei detenuti, inoltre, è in regime di media sicurezza (94%), mentre il 6% è in regime di alta sicurezza. Nonostante un quadro così complesso e drammatico, si ha la percezione che l’Ufficio del Garante abbia saputo cogliere da un “ecosistema” così fragile ed inquinato, tutta l’umanità che le persone recluse necessitano anche in stato di detenzione perché pur sempre esseri umani. Veniamo ai dati della detenzione femminile. Come ricorda la Garante, le donne delinquono meno: sono infatti l’ 11% della popolazione detenuta (in leggero aumento, purtroppo): il dato preoccupante è che rispetto alla totalità della popolazione di detenute, ben il 43% è di origine straniera (in prevalenza provenienti dalla Romania, Nigeria, Marocco e Albania). La Garante evidenzia come il problema principale legato alla detenzione femminile sia rappresentato da un sistema penitenziario che non coglie con attenzione le esigenze ed i disagi delle donne. “La complessità della sfera affettiva pone le donne detenute in una condizione di sofferenza in particolare per la lontananza dalla famiglia e dai figli, cui si aggiunge spesso il senso di colpa per averli “abbandonati” e la preoccupazione per loro”. Meritevole l’iniziativa della Garante di farsi portavoce di tali sofferenze, con incontri interlocutori con la Direzione della Casa circondariale e le sedute congiunte con la Senatrice Narina Dirin, in qualità di Presidente del “Forum Nazionale per il Diritto alla salute delle Persone Private della Libertà”: in tali occasioni sono emerse numerose criticità rispetto alle quali la Direzione si è impegnata ad assumere iniziative propositive e migliorative. Ancora. Torino, come Venezia, Cagliari e Milano, ospita un Icam (Istituto a custodia attenuata per detenuti madri): il modello di Torino è stato realizzato nella palazzina esterna alle mura di cinta dell’Istituto penitenziario e accoglie le detenute madri con i loro bambini. Due note storiche: l’Icam di Torino è stato ufficialmente intitolato il primo febbraio 2018 all’agente penitenziaria, Maria Grazia Casazza, deceduta il 3 giugno 1989 in un incendio in cui persero la vita anche una collega e otto detenute. Esso è dotato di 11 posti per mamme con bambini sotto i sei anni d’età; in alcuni periodi - a causa dell’aumento delle presenze - si è ricorso anche al “Vecchio Nido” presente nella sezione femminile della Casa circondariale. Come riporta la Garante, la convivenza forzata di donne madri di nazionalità diversa ha fatto sorgere diverse problematiche, tanto che in un caso si è reso necessario il trasferimento di una mamma con i bambini presso il padiglione femminile, per evitare l’inasprimento di tensioni e di pericoli interni. La necessità di trovare un punto in comune tra diverse culture, nazionalità, tradizioni educative e genitoriali ha portato l’Ufficio del Garante a sviluppare un progetto pilota Icam “Con i Nostri Occhi”, il cui scopo è quello di garantire un rapporto cordiale e civile tra le detenute madri appartenenti a diverse nazionalità, con ricadute positive e benefici sul rapporto diretto con i figli minori al seguito. Si tratta dell’applicazione all’Icam e alle sue dinamiche di una metodologia già conosciuta agli esperti del settore (cfr. A. Moletto, R. Zucchi, La Metodologia Pedagogia dei Genitori, Maggioli editore, 2013), che si basa sul valore della famiglia, componente essenziale ed insostituibile dell’educazione. Il periodo di detenzione, infatti, mette a dura prova l’animo umano di una madre sola (senza il proprio contesto sociale e familiare di riferimento) con il proprio bambino: diviene, quindi, indispensabile attivare azioni in grado di tutelare il diritto al mantenimento delle relazioni familiari e affettive. A tale scopo - si legge nella presentazione del progetto - la Rete “Con i Nostri Occhi” propone un lavoro all’interno della struttura Icam a favore delle madri recluse con i loro bimbi, coinvolgendo anche le agenti della polizia penitenziaria della sezione, le educatrici ed altre figure di riferimento. In tali gruppi di lavoro, ogni persona è uguale alle altre, senza l’identificazione di un ruolo: la dinamica del gruppo di narrazione permette infatti un ascolto reciproco, rispettoso ed autentico che valorizzi non solo le singole individualità genitoriali ma anche la cultura di riferimento che viene visto - in questa prospettiva - non come una difficoltà, ma come uno strumento di arricchimento per tutti. *Responsabile della Sezione Diritto penitenziario per Giurisprudenza Penale Lodi: delegazione Radicale in carcere, ispezione dopo il suicidio di un detenuto Il Cittadino, 23 agosto 2018 Una delegazione dell’associazione Opera Radicale ha effettuato nei giorni scorsi un sopralluogo nel carcere di Lodi, poco dopo il tragico gesto di un detenuto 40enne che si è tolto la vita. Molti gli aspetti critici rilevati, come la presenza solo una volta a settimana dello psicologo, una figura giudicata fondamentale in un carcere con molti detenuti giovani e spesso incensurati, alla loro “prima volta” dietro le sbarre. Il clima all’interno della casa circondariale in ogni caso, e il rapporto fra detenuti e polizia penitenziaria, è stato giudicato “ottimo e disteso”. L’uomo trovato senza vita era un 40enne di Sant’Angelo. Da poco aveva ricevuto una condanna di otto anni di reclusione in primo grado per spaccio di stupefacenti e associazione a delinquere. Aveva appreso della sentenza in carcere ed era rimasto distrutto dalla notizia. La fidanzata andava a trovarlo ad ogni colloquio, l’ultima volta il sabato prima della tragedia. Meno frequenti gli incontri con la famiglia. “Forse, se avesse avuto attenzione da parte di uno psicologo o uno psichiatra, soprattutto nel momento in cui ha subito la condanna che lo ha distrutto...” le parole lasciate drammaticamente in sospeso dal presidente dell’Opera Radicale Mauro Toffetti. Con lui, nell’ispezione avvenuta il giorno di Ferragosto (se ne è stata data notizia solo ora) c’erano anche gli iscritti al Partito Radicale Simona Giannetti e Luca Arosio. Lucca: “Un rimedio al rancore”, una scuola per vincere l’odio Redattore Sociale, 23 agosto 2018 La tradizionale Summer School promossa sulle colline lucchesi dal Centro Nazionale per il Volontariato (Cnv) e dalla Fondazione Volontariato e Partecipazione (Fvp) mette sotto la lente i temi più caldi del dibattito contemporaneo. Il titolo è “Vox populi - Per una pedagogia del bene e un rimedio al rancore”. Così la tradizionale Summer School promossa sulle colline lucchesi dal Centro Nazionale per il Volontariato (Cnv) e dalla Fondazione Volontariato e Partecipazione (Fvp) mette sotto la lente i temi più caldi del dibattito contemporaneo, proponendo letture profonde e utili a chi opera nel terzo settore e non solo. L’appuntamento è alla Villa del Seminario di Arliano (Lucca) dal 7 al 9 settembre. Tanti i relatori in programma che forniranno la loro visione sui temi che il Cnv e la Fvp propongono. Il seminario residenziale di formazione civile è diventato un appuntamento di riferimento per la rete allargata del Cnv, per riflettere in maniera approfondita sulle tendenze sociali più rilevanti, anticipare i temi caldi dell’anno sociale che si sta aprendo, iniziare ad individuare i temi più rilevanti per costruire l’edizione successiva del Festival Italiano del Volontariato. Il via ai lavori venerdì 7 settembre alle 16.30 con la prima sessione “Stare insieme, fare insieme: la scelta etica nella società del risentimento”. Sarà il presidente del Centro Nazionale per il Volontariato Pier Giorgio Licheri a dialogare sul tema “La più alta forma di carità” con Mons. Gastone Simoni, Vescovo emerito di Prato, direttore di “Supplemento d’anima”. Alle 18 l’intervento del giornalista di Avvenire Paolo Lambruschi che parlerà de “I corpi sociali per la convivenza civile”. Particolarmente provocatorio l’ultimo dei temi del primo giorno che verrà affidato al Responsabile Area Nazionale di Caritas Italiana Francesco Marsico: “I poveri sono diventati ignoranti?”. Alle 21 l’incontro con Fabrizio Silei, scrittore e artista, vincitore del Premio Andersen come Miglior Autore nel 2014, finalista del Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2018. Silei parlerà su “Storie e rischio, storie a rischio. Crescere con le storie nell’epoca dello smartphone”. Sabato 8 settembre dalle 9 la seconda sessione “Gli strumenti del democratico: il dialogo sui valori e la comunicazione delle idee”. Sarà il sociologo Ivo Lizzola ad aprire i lavori con la relazione “Integrazione o disintegrazione?”; seguiranno due focus group condotti dai giornalisti Giulio Sensi e Gianluca Testa, con la collaborazione scientifica di Mariano Galizia del Centro di Statistica Aziendale, su “Comunicazione e percezione: esperienze a confronto”. Dopo i focus group la relazione del giurista Leonardo Bianchi dell’Università di Firenze sul tema “Cos’é la verità?”. La terza sessione “Illuminare le strade, percorsi pedagogici sport, educazione, cultura della solidarietà” vedrà il dialogo fra Bruno Molea, Presidente Nazionale AICS, Luisa Prodi, Vicepresidente Cnv, Paolo Balli, Direttore Cesvot, Maria Costanza Cipullo della Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione MIUR. Prima delle conclusioni della parte seminariale, un focus sulla riforma del terzo settore con il giurista Luca Gori della Scuole Superiore Sant’Anna di Pisa e il vice presidente del Cnv Andrea Bicocchi. Per l’edizione 2018 della Summer School Cnv/Fvp è previsto anche un programma opzionale dedicato a Lucca e i suoi artisti. Alle 21 del sabato sera “Puccini & Bollicine” con il soprano Elisabetta Della Santa e la pianista Loredana Bruno dell’associazione Artistico Culturale “Laboratorio Brunier”. Domenica 9 settembre tutti i partecipanti potranno partecipare gratuitamente alla visita guidata all’ex Ospedale psichiatrico di Maggiano con letture di brani di Mario Tobino a cura di Rosalia Santini. Alle 12 la conferenza del coordinatore nazionale Forum Salute Mentale Vito D’Anza dedicata alla rilettura della figura di Franco Basaglia e il pranzo conclusivo. La quota di compartecipazione ai costi organizzativi (cena del venerdì, pernottamento, colazione e pranzo del sabato) è di € 100. Per chi volesse aderire anche al programma opzionale, la quota per l’intero programma è di € 140. La scadenza delle iscrizioni è il 31 agosto. Info e iscrizioni: Centro Nazionale per il Volontariato, tel. 0583.419500, fax 0583.1809906, cnv@centrovolontariato.it. Info e programma su centrovolontariato.it. Locri (Rc): detenuti liberi di conoscere di Elena Gratteri reggiocalabriaweb.it, 23 agosto 2018 Libertà è una parola che racchiude tanti significati. Infatti, pensando alla libertà, nell’immaginario comune immediatamente viene in mente un luogo aperto, senza ostacoli e barriere, come il mare. Non si può escludere, però, che anche in un luogo chiuso e separato dal mondo esterno, come il carcere, possa parlarsi di libertà. La libertà che si respira in carcere non sprigiona gli stessi sentimenti di quando si guarda una distesa di mare o si ammira un paesaggio mozzafiato dalla cima di una montagna, ma allo stesso modo, non ha limiti. Ciò sembrerebbe paradossale in un luogo come il carcere, dove la vita è scandita da regole e limitazioni. In un penitenziario si può immaginare quello che fuori dal carcere rappresenta la libertà e magari dipingerlo, riproducendo sulla tela un bel ricordo o la speranza di vedere prima o poi quel luogo. In carcere, libertà vuol dire avere la possibilità di frequentare delle lezioni di letteratura italiana, di inglese, di matematica, di storia, ecc.. Libertà è poter guardare un film e commentarlo, è poter esprimere le proprie idee, sentimenti ed esperienze attraverso un copione teatrale ed interpretarlo come un vero attore. Nessuno mai pensa ad una libertà diversa da quella sognata ed attesa, da quella ottenuta al di fuori del carcere, perché spesso non ci si sofferma su tutto ciò che al detenuto in carcere viene offerto. Tutti i detenuti, come, forse è normale, si concentrano su ciò che manca: la famiglia, la tecnologia, per mettersi in comunicazione con il mondo e stare al passo con i tempi, il mare, la montagna, un giro in moto, ecc.. Quasi nessuno si sofferma su quello che ha durante la detenzione: la libertà della cultura. Molti detenuti nella loro vita fuori dal carcere non si sono mai potuti avvicinare alla cultura, non perché non lo desiderassero, ma perché vivevano in un contesto che non gli ha offerto la cultura come un bene di cui godere. Così è stato solo in carcere che molti detenuti si sono riscoperti attori, pittori, lettori, studiosi e sono diventati davvero liberi! Una libertà che, grazie all’idea geniale del docente Giovanni Lucà, si ricongiunge all’idea comune di libertà, che corrisponde ad uscire fuori dal carcere. Per alcuni detenuti, meritevoli di affacciarsi al mondo esterno, dopo aver scontato gran parte della loro pena, è stata programmata un’uscita didattica tra le bellezze archeologiche della Villa Romana di Casignana. Si è proseguito il percorso di conoscenza del territorio locrideo, dopo l’uscita a Gerace e quella agli scavi di Locri Epizephiry degli anni scorsi, si è passati ai fasti della Roma imperiale con visita alla c.d. contrada Palazzi di Casignana. Libertà, quindi, è poter conoscere qualcosa di nuovo, essere catapultati nella Roma imperiale, passando attraverso le terme (il calidarium ed il frigidarium) e le grandi stanze dei banchetti, potendo ammirare i magnifici mosaici, realizzati con dei tasselli piccolissimi e pregiati, che creano decori unici, fortunatamente rimasti intatti, per poter essere ammirati ancora oggi. Un’esperienza positiva, dunque, che ha senza dubbio arricchito i detenuti partecipanti, i quali, per la prima volta, pur avendo vissuto nelle vicinanze del sito, hanno potuto meravigliarsi davanti ad una bellezza, che a raccontarla non rende. Il binomio libertà - cultura esiste nella Casa Circondariale di Locri grazie a persone come il professore Lucà, la direttrice, Patrizia Delfino, che promuove ogni iniziativa culturale, all’area educativa, che guida ogni iniziativa ed i volontari, che offrono il loro tempo, per affrancare i detenuti dalla prigionia del torpore della mente. Teatro-carcere. Armando Punzo: “oltre quei muri c’è bellezza e libertà” di Francesca Fiocchi Famiglia Cristiana, 23 agosto 2018 Il regista 30 anni fa è entrato nel carcere di Volterra per mettere alla prova la sua idea d’arte: “non ne sono più uscito. Il male va scavalcato: dietro al recluso c’è un uomo”. La Compagnia della fortezza, nata all’interno del carcere di Volterra, è la dimostrazione di come il teatro non ha bisogno di categorizzazioni limitanti, di aggettivazioni che lo costringono dentro uno spazio precostituito, Teatro è ovunque c’è arte, ovunque volontà e talento sono allineati per creare qualcosa di oggettivamente bello. Teatro che crea nuovi linguaggi espressivi, forma d’arte trasversale a più saperi, stratificazione del reale, spazio mentale prima che fisico, necessità e architettura dell’impossibile. Lucida follia. Senza filtri, senza mediazione intellettuale. E un regista visionario: Armando Punzo, ospite del Festival della mente di Sarzana sabato 1° settembre. Colui che ha trasformato i detenuti di uno dei penitenziari più duri d’Italia in attori autodidatti, regalandogli il sogno di una nuova identità culturale e personale, regalandosi un nuovo percorso professionale e umano, un’utopia concreta oggi solida realtà: una compagnia stabile che gira l’Italia con spettacoli di alto livello qualitativo, dove la condizione del carcere resta sullo sfondo. Come non ricordare Aniello Arena, premiato con un David dì Donatello per il film Reality di Matteo Garrone. E quest’anno sono trent’anni di storia, con un ricco progetto speciale triennale a cura di Cinzia De Felice. Trent’anni di Fortezza, più di trenta spettacoli all’attivo. Dove la scenografia è protagonista in rapporto dialettico con il dramma degli attori. Una rivoluzione culturale per la storia del teatro... “Anche sociale. Cercavo un’altra possibilità per fare il mio teatro, non volevo lavorare con una rigida impostazione classica. Abitavo a Volterra e nel carcere potevo reclutare tante persone: il Sud del mondo recluso. Gli inizi sono sempre prossimi alla morte se non immetti linfa vitale. È il luogo che fa sembrare strana questa esperienza, che in fondo è un’esperienza di teatro, studio, sperimentazione continua. Dal carcere non sono più uscito. Avevo bisogno di rinchiudermi in quelle mura di pietra per mettere alla prova l’idea di bellezza, poesia, arte e cultura. Volevo vedere come reagiva confrontandosi con un pezzo di realtà estremamente dura”. Il carcere di Volterra è cambiato… “Si, non è stato più in grado di essere quello che era prima dell’arrivo del teatro. Trent’anni fa era uno degli istituti di reclusione più chiusi, oggi c’è apertura. Ma non è l’aspetto che mi interessava. Il carcere nell’immaginario è una comunità reclusa in contrapposizione a quella libera. Il teatro dimostra che è possibile una terza via: una comunità libera all’interno del carcere, andando oltre il mero concetto rieducativo. Un po’ come le scatole cinesi, dove all’interno del contenitore c’è un’altra situazione, un luogo che vive di altra vita. Qui devi combattere ogni giorno per mantenere questi spazi di apertura, non ti puoi mai rilassare. Appena arretri di un millimetro il carcere si riprende tutto”. Come si svolge una giornata tipo? “Entro tutti i giorni verso le nove, esco all’una e rientro alle tre fino alle sette. Sono un’ottantina gli attori, su 130 detenuti, che discutono, leggono, provano in un’ex cella di tre metri per nove che è stata riconvertita in teatro. È un carcere dove si scontano pene lunghe, dai dieci anni in su. Questo mi permette di sviluppare un progetto a lungo termine. Grazie all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, i detenuti che hanno maturato i permessi per uscire sono regolarmente assunti come attori, pagati e vengono in tournée nei teatri. Il male non deve essere un muro che non puoi attraversare, bisogna andare oltre, perché c’è sempre l’uomo dietro al recluso”. Beatitudo è lo spettacolo-manifesto di questi trent’anni, liberamente ispirato all’opera di Borges. Esiste un’altra realtà? “La nostra è una battaglia a destrutturare la realtà, a non dare niente per assodato perché questo uccide le potenzialità dell’uomo. Lo spettacolo nasce dentro il penitenziario e sarà riadattato in teatro. Abbiamo tolto delle sbarre, aperto ancora di più la prospettiva e costruito un laghetto dove si svolgeva l’opera. L’acqua è una realtà specchio a quella del carcere. Mettendo in discussione la realtà perdi la solidità del tuo riflesso, delle mura, dei luoghi. I personaggi si muovono come se emergessero dall’acqua, che resta alla caviglia. Acqua che ritorna anche ne Le rovine circolari, che abbiamo messo in scena in uno dei siti di archeologia industriale più interessanti d’Italia in occasione dei duecento anni della geotermia: la centrale di Larderello. Uno dei camini non più attivi è stato decapitato ed è stata costruita un’arena circolare con gradinate e al centro uno specchio d’acqua di 40 metri, dove si è svolto lo spettacolo”. Migranti. Le sfide, le leggi e il boomerang dei muscoli di Antonio Polito Corriere della Sera, 23 agosto 2018 Il governo italiano sta sperimentando l’impossibilità di risolvere il problema degli sbarchi in assenza di un accordo europeo. Una cosa è la politica, un’altra è la legge. Per realizzare obiettivi politici bisogna perciò muoversi dentro la legge, le convenzioni, le norme interne e internazionali. Più che mai in materia di migranti, e di sicuro quando sei il ministro degli Interni. Oggi il governo italiano sta invece sperimentando l’impossibilità di risolvere il problema degli sbarchi in assenza di un accordo europeo. Salvini può certo impedire a navi battenti bandiera di altri paesi di scaricare in Italia i migranti raccolti in mare, e lo ha fatto. Ma non può impedirlo a una nave militare italiana. Si sta riproducendo dunque a Catania un caso Diciotti bis, esattamente come a luglio, quando dovette intervenire il Capo dello Stato per ricordare al premier Conte che non si poteva negarle l’attracco. Ma il Presidente non può diventare un supplente del premier, e in un mese niente è cambiato. Così oggi ci troviamo di fronte alla situazione paradossale e francamente inquietante di una Procura che ipotizza un reato - sequestro di persona dei 177 “ostaggi” sulla nave - di cui il ministro degli Interni si assume apertamente la responsabilità, sfidando il procuratore. Mentre si accende uno scontro istituzionale esplicito perché Salvini intima al presidente della Camera Fico, che aveva criticato il blocco nel porto di Catania, di farsi i fatti suoi. È la prova che la questione migranti, se mal gestita, può diventare un boomerang per la stessa maggioranza. Ciò che manca - spiace dirlo - è ancora una volta il Presidente del Consiglio. È lui che dovrebbe far sbarcare i migranti. Ed è lui che si era impegnato a trovare in sede europea una intesa per proteggere il giusto interesse italiano a non diventare l’unico porto di accoglienza di fuggiaschi che in realtà sono diretti in Europa. La sua promessa di far sì che i confini dell’Italia venissero da ora in poi considerati confini comuni dell’Unione europea non si è realizzata: ha ottenuto solo una “cabina di regia”, che a Bruxelles non si nega a nessuno. In qualche occasione l’uno o l’altro paese ha fatto il bel gesto di prendersi una decina di migranti; ma questo non equivale a una nuova politica europea. Che infatti non c’è. E se il governo sovranista si fa trattare come i governi precedenti, allora il suo gioco è perso. Viene qui al pettine il nodo cruciale della maggioranza giallo-verde: ha detto agli italiani che il nostro problema sono i vincoli europei, e che li avrebbe rimossi. Ma in realtà il nostro problema è che senza l’aiuto europeo non possiamo farcela. Chiudendosi all’Europa, l’Italia rischia solo di diventare un imbuto in cui i migranti arrivano ma da cui non escono. Ci sono governanti negli altri Paesi, spesso più sovranisti e “cattivisti” dei nostri, che sono felicissimi di questo isolamento italiano e che lavorano cinicamente per aggravarlo. Più i migranti restano da noi e meno problemi hanno loro. Ma il nostro governo non deve fare il loro gioco, al contrario. Il ministro Salvini dovrebbe perciò capire che con le misure di polizia, come quella di bloccare lo sbarco a Catania, non solo non risolverà il problema internazionale che lui stesso ha posto, ma anzi rischierà di trasformarlo in un problema interno: mostrando i muscoli, invece che a Bruxelles, a Fico e a Toninelli, alle procure e al Quirinale, e generando così una vera e propria crisi istituzionale. Qual è il vantaggio che ne trarrebbe l’Italia? Migranti. Diciotti, la procura di Agrigento indaga per sequestro di persona di Alfredo Marsala Il Manifesto, 23 agosto 2018 Per i pm i migranti sarebbero trattenuti a bordo illegalmente. Salvini: “Non sono ignoto, processatemi”. Il fascicolo per il momento è a carico di ignoti ma le indagini, che sta conducendo la Procura di Agrigento in un contesto complicato e senza precedenti, potrebbe coinvolgere vertici del Viminale, militari e a cascata altri esponenti delle istituzioni. Il reato ipotizzato dal pool guidato dal procuratore capo Luigi Patronaggio è sequestro di persona. Secondo i pm i 177 migranti soccorsi dalla nave Diciotti, sarebbero trattenuti illegalmente a bordo del mezzo militare, prima rimasto al largo di Lampedusa per giorni e poi giunto, su disposizione del ministro per le Infrastrutture Danilo Toninelli nel porto di Catania, ma qui bloccata dal diktat del ministro degli Interni Matteo Salvini che ha ordinato ai militari di tenere a bordo i profughi in attesa che Bruxelles si faccia carico del “problema”. Immediata la reazione di sfida del ministro Salvini: “Leggevo che la Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo contro ignoti per sequestro di persona. Sono qua, non sono ignoto”. E ancora: “Sono ministro dell’Interno di questo Paese con il mandato preciso di difendere i confini di questo Paese, di occuparsi della sicurezza. Se bloccare una, due, tre, quattro o cinque navi mi comporta accuse e processi, ci sono”. Proprio Salvini, ieri in serata, ha dato il suo via libera allo sbarco dei minori, in totale 29. Un passo arrivato al culmine di una giornata tesissima, con due Procure, quelle di Agrigento e di Catania, che avevano chiesto ufficialmente la liberazione dei minori non accompagnati. A rendersi personalmente conto della “situazione critica” è stato il procuratore Patronaggio, salito sulla nave Diciotti per una ispezione mentre a diversi parlamentari è stato impedito l’accesso per motivi sanitari. “In base alle convenzioni internazionali e alla legge italiana, i minori non accompagnati hanno il diritto di sbarcare”, ha detto il procuratore capo scendendo dalla nave. Nel pomeriggio una lettera ai ministri dell’Interno e delle Infrastruttura, al capo dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione e al Prefetto era stata inviata dalla Procura per i minorenni di Catania secondo cui “sono stati elusi i diritti” dei minorenni non accompagnati tra cui “il divieto di respingimento, essere accolti in strutture idonee, avere un tutore, presentare domanda di protezione internazionale e di essere ricongiunti ad eventuali parenti regolarmente soggiornanti in altri stati europei”. A sollecitare i pm catanesi è stato il team Unicef-Intersos presente a bordo, che ha chiesto “di tutelare i diritti riconosciuti dalle convenzioni internazionali, dalla normativa europea e da quella italiana”. Il fronte giudiziario è incandescente. Oltre ad Agrigento e Catania, indaga anche la Procura di Palermo che ipotizza il resto di associazione a delinquere finalizzata al traffico di uomini. Ai pm, coordinati dal procuratore Francesco Lo Voi, saranno trasmessi gli atti d’indagine - tra cui i verbali di interrogatorio dei 13 migranti fatti sbarcare dalla Diciotti a Lampedusa prima dell’approdo a Catania - compiuti finora dalla procura di Agrigento che inizialmente aveva aperto un fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’inchiesta dunque dovrebbe essere trasmessa ai colleghi della Dda palermitana, competenti per le ipotesi di traffico di uomini e in caso di contestazione dell’associazione a delinquere. Nel porto di Catania, intanto, è proseguito per tutto il giorno il presidio della Rete antirazzista con lo striscione “Restiamo umani. Mai più naufragi. Diritto d’asilo x non morire”. I manifestanti hanno sventolato fogli di carta, ognuno con una scritta diversa: “Siamo tutti clandestini”, “Difendiamo le persone non i confini”, “Gesù è forestiero”. “La situazione che si sta verificando - dice Matteo Iannitti, della Rete Antirazzista catanese - è gravissima e assurda. Noi chiediamo che tutte le istituzioni e tutta la catena di comando disponga immediatamente lo sbarco delle persone che sono state sequestrate dal ministro dell’Interno”. Perché “qui non c’entrano nulla i ricatti con l’Ue rispetto alla redistribuzione dei migranti, non c’entrano nulla le norme europee rispetto all’accoglienza”. Di “valorosi uomini della guardi costiera sequestri” parla il sindaco di Palermo Leoluca Orlando che accusa Salvini di “ossessione patologica verso i migranti”. Per la comunità di Sant’Egidio “è indecoroso e disumano il modo in cui vengono trattenute persone che già hanno sofferto attraversando il Sahara, la Libia e la traversata in mare”. Una delegazione della Cgil in serata si è recata nel porto di Catania: “La Sicilia, terra generosa ma fustigata da disoccupazione, povertà e mala amministrazione, sa bene che non sono i migranti la causa dei disagi passati e presenti; da anni conosciamo le storie personali dei migranti e non li lasceremo mai soli”. Visita del Garante nazionale alla nave Diciotti per verificare le condizioni dei 177 migranti Di fronte al perdurare della situazione di stallo della nave Diciotti, con 177 migranti a bordo, da quasi una settimana privati di fatto della libertà senza alcuna base legale e tutela giudiziaria, il Garante nazionale visiterà domani con una sua delegazione la nave della Guardia costiera. Lo ha stabilito il presidente Mauro Palma, in forza dei poteri conferiti all’Autorità di garanzia in quanto Meccanismo di prevenzione nazionale ai sensi del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (Opcat): accesso a tutti i luoghi di privazione della libertà siano essi de iure o de facto, accesso a colloqui riservati con tutte le persone private della libertà e a tutta la documentazione. La delegazione sarà guidata da Daniela de Robert, membro del Collegio del Garante nazionale, e composta da Fabrizio Leonardi e Elena Adamoli, componenti dell’Ufficio. Verificare le condizioni materiali in cui sono costrette a vivere da una settimana 177 persone, tra le quali 29 minori non accompagnati e 12 donne, così come la possibilità di accedere alla richiesta di protezione internazionale data anche la provenienza dei migranti da Paesi come l’Eritrea, la Siria, la Somalia e il Sudan e accertare i termini in base ai quali perdura la situazione di trattenimento dei migranti sono gli obiettivi prioritari della visita. Francia. Mille e-cigarette ai detenuti, sperimentazione nelle carceri di Caen di Ettore Bianchi Italia Oggi, 23 agosto 2018 Mille sigarette elettroniche in meno di due anni sono state distribuite nelle carceri francesi per ridurre il fumo. In particolare, l’esperimento, riuscito, ha avuto inizio nelle due prigioni di Caen, in Normandia, dove è stato riscontrato un consumo eccessivo di tabacco: l’80% dei detenuti fuma. E, non basta. Nel 2017 un detenuto di un istituto penitenziario di Caen è riuscito a far condannare lo Stato francese per fumo passivo perché costretto a condividere la cella per 245 giorni con fumatori. Pensare di vietare il fumo nelle carceri francesi è impossibile, come invece è avvenuto in Canada e Australia. Dunque, per ridurre i rischi del tabagismo in prigione una soluzione inedita è arrivata dall’accordo siglato fra l’ospedale universitario di Caen e l’associazione La Vape du Coeur che cerca di spingere i fumatori più incalliti verso le sigarette elettroniche, le e-cigarette. Ai prigionieri delle due carceri di Caen ne sono state distribuite 200, come ha riportato Le Figaro. Il progetto risale al 2017 e ha goduto di un finanziamento pubblico di 50 mila euro equivalenti a mille sigarette elettroniche validate per l’uso in carcere. Fra le altre cose, per esempio, devono essere ricaricabili con una chiavetta Usb perché il filo elettrico potrebbe essere utilizzato per altri scopi, pericolosi. Da marzo, professionisti della salute hanno elargito consulenze ai detenuti e al personale penitenziario sull’utilizzo delle sigarette elettroniche: 150 persone dei due istituti carcerari hanno scelto l’e-cigarette. Positivi, dunque, i risultati della sperimentazione che, nelle intenzioni dei promotori, va oltre la riduzione del tabagismo attivo e passivo in prigione e punta anche a limitare i problemi di mancanza che sono tra le cause di aggressività e di violenza fra i detenuti. Gran Bretagna. Birmingham, droga e sangue nel carcere in concessione ai privati di Ines Tabusso Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2018 Ci stiamo chiedendo, dopo la tragedia di Genova, quali vantaggi siano venuti ai cittadini italiani dalla concessione ai privati della nostra rete autostradale e il bilancio è negativo. La stessa domanda se la stanno ponendo in questi giorni gli inglesi a proposito della gestione del loro sistema carcerario. Tra i tanti servizi pubblici affidati ai privati in Gran Bretagna, nell’ambito del programma di privatizzazioni avviato da Margaret Thatcher a partire dagli anni Ottanta e continuato negli anni successivi dai governi laburisti di Tony Blair e Gordon Brown, vi sono anche alcune strutture carcerarie date in gestione a società private. Nel 2011 il ministero delle Giustizia inglese ha stipulato un contratto, della durata di 15 anni, per la gestione del carcere di Birmingham con la società G4S, una multinazionale che opera in più di 90 Paesi ed è ritenuta la più grande tra le società private che forniscono servizi di sicurezza. Nei giorni scorsi è stato reso noto il rapporto sulle condizioni del carcere di Birmingham stilato dall’Ispettore capo delle carceri, Peter Clarke, che ha rilevato una situazione di profonda crisi: detenuti che fanno largo uso di alcolici e droghe, fenomeni di bullismo, guardie carcerarie intimidite, condizioni igieniche spaventose, sangue, vomito, escrementi sui pavimenti, scarafaggi che scorrazzano ovunque e, addirittura, proprio durante la visita degli ispettori, un incendio appiccato alle macchine posteggiate nel parcheggio riservato al personale. L’ispettore capo delle carceri (Her Majesty’s Chief Inspector of Prisons) è una figura esterna e indipendente che viene nominata ogni cinque anni dal ministro della Giustizia britannico e non deve provenire né dal sistema carcerario né dal ministero della Giustizia perché entrambi le istituzioni sono oggetto del suo controllo e delle sue eventuali critiche. Deve effettuare visite, con o senza preavviso, alle carceri, agli istituti correzionali e ai centri di detenzione per gli immigrati, compilare i relativi rapporti e redigere una relazione annuale. Nel caso del carcere di Birmingham, l’ispettore capo Clarke ha deciso di ricorrere a un particolare iter, detto Procedura di notifica urgente (Urgent Notification process - UN) che, dal novembre dell’anno scorso, gli permette di allertare direttamente il Lord Cancelliere e ministro della Giustizia in caso di urgenti e gravi preoccupazioni per la situazione di una struttura carceraria. In una lettera al ministro David Gauke, Clarke ha descritto in dettaglio le condizioni del carcere definendole, nelle sue conclusioni, un “completo fallimento nella gestione del contratto e nell’erogazione del servizio”. Secondo la procedura il ministro aveva 28 giorni per rispondere con un piano di azione, ma gliene sono bastati molti di meno per decidere, già il 20 agosto, di intervenire per sospendere temporaneamente l’accordo con G4S e assumere direttamente la gestione del carcere per sei mesi, prorogabili in caso di necessità, finché non saranno raggiunti risultati accettabili. Il tutto senza ulteriori aggravi per i contribuenti, in conformità con il Criminal Justice Act del 1991 e con il contratto stipulato con G4S. La società G4S collaborerà con il governo durante questo periodo per migliorare e stabilizzare la situazione del carcere. Jerry Petherick, per conto di G4S ha dichiarato: “Il benessere e la sicurezza dei detenuti e dello staff delle carceri costituisce la nostra priorità e accogliamo con piacere l’intervento e la possibilità di lavorare di concerto con il ministero della Giustizia per affrontare con la massima urgenza i problemi della prigione”. L’intervento, lo “step in” nel carcere di Birmingham, è una misura drastica che viene attuata per la prima volta durante la vita di un contratto. Già nel 2016 era stato deciso un intervento in una diversa struttura, ma quando il contratto era giunto quasi a termine. Non è invece la prima volta che G4S non ottempera alle clausole dei contratti stipulati con il ministero della Giustizia: è stata infatti ripetutamente multata per il mancato rispetto degli standard concordati. In seguito allo “step in” del governo sul carcere di Birmingham il titolo G4S ha immediatamente perso in Borsa il 2,5%. Tuttavia, tecnicamente, lo “step in” non è una nazionalizzazione, ma un procedimento che non grava sui contribuenti e che è consentito quando si ritiene che un provider sia venuto meno ai termini del contratto che gli impongono di gestire la prigione in condizioni di sicurezza. Alla nazionalizzazione, visti i fallimenti di molte privatizzazioni, stanno invece pensando di ritornare i Laburisti che si chiedono come mai il governo, dopo i miseri risultati conseguiti, continui a stipulare contratti con la società G4S. Alcune risposte le ha date un ex ministro della Giustizia, il laburista Charles Falconer, che in un articolo pubblicato dal Guardian ha criticato l’inerzia dell’attuale ministero che doveva sapere della situazione a Birmingham e nulla ha fatto fino alla pubblicazione del rapporto dell’ispettore Clarke. Secondo Falconer la consapevolezza della grave situazione di tutte le carceri, pubbliche e private, potrebbe essere il motivo per cui il Governo non ha ritenuto opportuno intervenire prima. I provvedimenti appena presi (ridurre il numero di detenuti, aumentare i numeri del personale del carcere, sostituire il direttore) sono corretti, ma inutili se il problema verrà affrontato in casi singoli e non a livello di sistema. I ceceni nelle carceri russe di Kazbek Chanturiya balcanicaucaso.org, 23 agosto 2018 Il 3 agosto scorso un cittadino ceceno è stato trovato morto in una prigione in Siberia. Scontava una pena di 15 anni per aver ucciso un ex soldato russo. Una morte sospetta che ha sollevato interrogativi e proteste su come i ceceni vengono trattati nelle prigioni russe. Yusup Temirkhanov è morto il 3 agosto in un carcere ad alta sicurezza nella regione di Omsk, nella Siberia sud-occidentale. Stava scontando 15 anni per l’omicidio di Yury Budanov, un ex colonnello dell’esercito russo. La vicenda di Elsa Kungaeva e il processo a Budanov sono raccontati anche nel libro di Anna Politkovskaja “La Russia di Putin” Nel 2000, Budanov aveva rapito Elza Kungayeva, una ragazza cecena di 18 anni, dalla sua casa nel villaggio di Tangi-Chu, l’aveva uccisa nella sua base militare e aveva ordinato che il suo corpo fosse sepolto. L’omicidio è stato uno degli episodi più infami della Seconda guerra cecena (1999-2009) e, sotto pressione, le autorità russe avevano avviato un processo contro Budanov. L’ex colonnello aveva scontato la pena nella regione di Ulyanovsk, all’epoca governata dal suo ex comandante, ora deputato della Duma, l’eroe della Russia Anatoly Shamanov. Nel 2011, Budanov fu ucciso a Mosca da un assalitore sconosciuto. Ne venne incolpato successivamente Yusup Temirkhanov che però ha negato la propria colpevolezza fino alla fine. L’avvocato di Temirkhanov, Roza Magomedova, ha confermato a Ria Novosti che Temirkhanov è morto nell’infermeria della prigione. “È morto per insufficienza cardiaca in infermeria. Ha sempre avuto problemi di salute. La difesa ha cercato di farlo rilasciare per malattia, ma senza successo”, ha dichiarato all’agenzia di stampa. Temirkhanov fu condannato nel 2013 e al suo arrivo in carcere, secondo la difesa, subì un avvelenamento - probabilmente da metalli pesanti. Il suo avvocato, Murad Musayev, fu colpito dalle sue condizioni dopo avergli fatto visita in prigione. Secondo lui, sebbene fosse alto 1,90, Temirkhanov pesava solo 40 chilogrammi. Musayev dichiarò a Moskovsky Komsomolets: “Siamo abituati a vedere immagini come questa nelle testimonianze dei campi di concentramento nazisti”. La morte di Yusup Temirkhanov ha causato un’ondata di risentimento nella sua terra natale. Al suo funerale hanno partecipato decine di migliaia di persone, tra cui il leader della Cecenia Ramzan Kadyrov. Temirkhanov era diventato un “vendicatore del popolo” agli occhi di molti ceceni. Il politico ceceno Ruslan Kutayev, che ha trascorso quattro anni in prigione per accuse che il gruppo per i diritti umani Memorial definisce politiche, ha scritto sulla sua pagina Facebook che la morte di Yusup Temirkhanov è diventata una cartina di tornasole dell’efficacia dei servizi speciali russi e dei loro scagnozzi in Cecenia e che “gli eventi successivi alla morte di Temirkhanov hanno chiarito che i ceceni sanno chi sono i loro nemici”, aggiungendo che i tecnocrati russi “hanno subito una sconfitta schiacciante” in Cecenia. Dopo aver assistito al funerale, Kadyrov ha scritto sul suo canale Telegram che considera Temirkhanov vittima di un errore giudiziario, non un eroe. Molti in Cecenia lo hanno ridicolizzato per questo, speculando che Kadyrov fosse scontento del fatto che Temirkhanov aveva eclissato la sua popolarità. Un atteggiamento particolare - Molti hanno collegato la morte di Temirkhanov con i casi di torture e morti inspiegabili che riguardano prevalentemente i ceceni nel sistema carcerario russo, una questione che è stata ripetutamente seguita dai media. All’inizio della Seconda guerra cecena sono emerse voci sulla brutale tortura dei ceceni detenuti in una prigione nel villaggio di Chernokozovo, in Cecenia. Ali, originario della Cecenia, che ha trascorso 12 anni in prigione, ha dichiarato a OC Media che nelle carceri russe c’è un atteggiamento particolare nei confronti dei ceceni. “Alcune violazioni commesse da detenuti ordinari possono essere ignorate [dalle autorità carcerarie], ma se a commetterle sono i ceceni, loro vengono puniti. Sono spesso picchiati, a volte torturati e tutto ciò avviene nelle colonie penali di alta sicurezza. Raramente cediamo e questo li fa infuriare”, ha dichiarato. Usam Baysayev, del gruppo Memorial, ha dichiarato a Caucasian Knot nel 2007 di aver sentito storie di ceceni maltrattati nelle prigioni russe. “Mi è stato raccontato che in una prigione il direttore aveva radunato i prigionieri, fatto uscire i ceceni dalla fila e in pratica detto: ‘È un ceceno. È un bandito. Ha ucciso i nostri soldati russi. Quindi organizzate una “bella vita” per lui. Non deve avere un momento di pace”. Decine di ceceni sono morti in prigione prima di Yusup Temirkhanov, e molti in Cecenia si sono chiesti perché. Tra i defunti anche il generale di brigata Salman Raduyev e il capo del servizio di sicurezza della Repubblica cecena di Ichkeria, Turpal-Ali Atgeriyev. L’Ichkeria era il governo secessionista ceceno emerso dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica. Raduyev fu arrestato nel 2000 e condannato all’ergastolo un anno dopo nella colonia penale di Bely Lebed a Solikamsk, nella regione di Perm. Morì l’anno successivo. Bislan Validov, che è stato in carcere con Raduyev, ha dichiarato alla Pravda nel 2005 che ai ceceni veniva dato un “benvenuto speciale”: venivano picchiati all’arrivo in carcere. Lui e Raduyev erano detenuti nella stessa ala della prigione di Solikamsk. “Sentivo le sue urla durante la tortura, succedeva tutte le sere nel cortile della prigione sotto le nostre finestre”, ha detto Validov. L’ex capo del servizio di sicurezza dello stato di Ichkeria, Turpal-Ali Atgeriyev, fu incarcerato a Makhachkala nel 2000 e condannato a 15 anni in una colonia penale a Ekaterinburg. Mentre era lì, al 33enne fu diagnosticata una leucemia acuta, che alla fine lo uccise. Né i parenti né gli avvocati di Turpal-Ali Atgeriyev hanno creduto alla spiegazione ufficiale della sua morte. Non sono disponibili statistiche sul numero di morti per appartenenza etnica nelle prigioni russe, e i parenti dei defunti spesso non provano nemmeno ad arrivare alla verità che sta dietro la morte dei loro cari. Dopo la morte di Temirkhanov si sono registrati in Cecenia diversi attentati terroristici, in cui sono rimasti uccisi dei poliziotti. Gli attacchi sono stati rivendicati dallo “Stato islamico”. La reazione delle forze di sicurezza in Cecenia è stata molto dura e ha coinvolto anche un bambino che era a bordo dell’auto di un attentatore e che è rimasto ucciso. I responsabili degli attentati erano poco più che adolescenti e ciò conferma la preoccupante tendenza denunciata da Caucasian Knot in merito al ringiovanimento della lotta armata cecena. La riforma del sistema penale russo viene discussa da tempo. Il commissario per i diritti umani in Cecenia, Nurdi Nukhazhiyev, ha dichiarato all’agenzia di informazione Grozny Inform nel 2015 che “l’attuale sistema carcerario è incentrato su misure punitive e repressive contro i condannati”. Secondo lui, questo ha portato ad una crisi sistemica. “Riceviamo continuamente reclami da parte dei detenuti in merito al loro trattamento illegale”, ha aggiunto. Le autorità cecene hanno tentato di rimpatriare i connazionali detenuti nelle prigioni russe nel 2007. I media hanno riferito che era stato raggiunto un accordo, ma alla fine l’iniziativa non si è mai concretizzata. Un video apparso sui social media nel giugno 2018, mostrava una decina di guardie carcerarie che picchiavano violentemente un detenuto. Diverse guardie tenevano fermo il prigioniero su un tavolo, mentre il resto lo picchiava con delle mazze. I dirigenti della colonia, anziché commentare i contenuti del video, hanno dato la caccia a chi l’ha fatto trapelare. Valentina Matviyenko, portavoce della Camera alta della Russia, il Consiglio della Federazione, ha reagito duramente a questo video, affermando che il sistema carcerario richiede una profonda riforma. L’attivista cecena Aset Malsagova afferma che l’attuale sistema penale russo mina il sistema statale dall’interno. “Questo sistema consuma centinaia di migliaia di persone ogni anno. Questa situazione ha enormi conseguenze. Insieme alla libertà, i detenuti sono privati dell’umanità. Non sono solo loro a soffrire, ma anche i loro parenti stretti. Se un milione di persone vengono imprigionate ogni anno e si considerano anche i loro parenti, allora il paese diventa il nemico di 7-8 milioni di persone”, ha dichiarato a OC Media. Brasile. Favelas, affari e pallottole: governano gli squadroni di Giuseppe Bizzarri Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2018 “Non ho il minimo dubbio. Non occuperanno mai le favelas controllate dai miliziani”. Alba Zaluar, professoressa d’antropologia esperta in violenza e sicurezza urbana dell’Università statale di Rio de Janeiro, aveva dichiarato, il 18 febbraio scorso, al Fatto Quotidiano che l’intervento del governo federale sulla sicurezza di Rio non avrebbe coinvolto le aree urbane occupate dalle milizie carioca. Sono passati circa sei mesi ed in effetti l’esercito, che controllerà la polizia civile e militare sino al termine delle presidenziali previste per il sette ottobre, non ha occupato nessuna area della capitale dove sono attivi gruppi paramilitari: si tratta di formazioni di poliziotti, vigili del fuoco, vigilantes e militari, in servizio attivo e non, che terrorizzano forse più delle storiche fazioni narcos, come il Comando Vermelho. Sempre più giovani preferiscono entrare nelle milizie, anziché nelle file dei narcotrafficanti, poiché i gruppi non entrano in conflitto tra loro, offrono un impiego più sicuro, non ostentano armamento bellico e, oltre ad eleggere rappresentanti nell’amministrazione pubblica, agiscono in maniera professionale e organizzata nell’industria del crimine. I paramilitari sono oggi i dominatori del territorio urbano. Una ricerca della Segreteria di sicurezza pubblica dello stato di Rio de Janeiro indica che i miliziani gestiscono 37 quartieri e 165 favelas della regione metropolitana. Circa due milioni di persone vivono in quest’area, l’equivalente di un sesto della popolazione cittadina. Una statistica realizzata da The Intercept Brasil: su 6.475 denunce telefoniche anonime alla polizia, tra il 2016 e il 2017, riguardanti attività illegali, il 65 per cento era legato alle azioni dei miliziani. La loro origine risale agli “squadroni della morte” degli anni Settanta. Imprenditori e commercianti li usavano per proteggere i propri interessi e risolvere i problemi locali. L’appoggio politico a questi nuclei fu dato dal regime militare, secondo il sociologo Orlando Alves dos Santos, professore di sociologia dell’Università federale di Rio: dal 1990 vari matadores furono eletti a cariche pubbliche. Dentro la politica, i matadores smisero di essere assassini e divennero mandanti per eliminare i loro avversari. Quello che, secondo il sociologo, le milizie fanno oggi è dare continuità a questa politica, ma incorporando una dimensione di controllo degli affari, illeciti e non. “Lo stato non è stato corrotto, né deturpato, né sequestrato. Lo Stato è organizzatore. Prefetti, deputati, consiglieri, persino giudici lavoravano per i gli squadroni della morte e oggi lo fanno per le milizie. È una struttura che si sviluppa sin dagli anni Settanta e non è mai stata colpita” sostiene Alves dos Santos. I paramilitari - da sempre considerati un male minore e utilizzati in modo non ufficiale nella lotta al narcotraffico - sono diventati oggi il maggior problema della sicurezza pubblica. Nonostante ciò - secondo il sociologo - continuano a essere trattati marginalmente rispetto ai narcos e hanno così più spazio per crescere. Le milizie prosperano grazie al “pizzo” imposto su ogni genere d’attività, come la vendita delle bombole di gas, l’allacciamento Internet, nel controllo del trasporto pubblico, nella protezione imposta ai commercianti e inquilini, nel contrabbando di sigarette, ma anche imponendo gabelle alle fazioni narcos, soprattutto al Terceiro Comando Puro che vorrebbe vendere droga in aree controllate dai paramilitari. Grazie all’impunità garantita con gli appoggi nelle istituzioni pubbliche, le milizie come la Liga da Justiga, il maggior gruppo carioca, si espandono in altri settori economici, come il controllo di discariche clandestine, la vendita di terreni dello stato, furti di combustibile dagli oleodotti dell’azienda statale Petrobras. L’attivista dei diritti umani e consigliere comunale del Psol, Marielle Franco, assassinata il 14 marzo con l’autista Anderson Barbosa, lavorò nel 2008 con il leader del suo partito, Marcelo Freixo, nella Commissione parlamentare investigativa dell’Assemblea legislativa dello stato di Rio de Janeiro. Nonostante 226 persone - tra loro anche deputati e consiglieri comunali - sono state indiziate di reati, poco o nulla, secondo gli esperti, è cambiato nel come i paramilitari gestiscono una parte del potere pubblico. Freixo, minacciato di morte, vive sotto scorta e dopo Marielle, altri attivisti sono stati uccisi in vista del suffragio d’ottobre che prevede anche l’elezione dei nuovi governatori degli Stati. “Non c’è modo d’escludere l’influenza delle organizzazioni criminali nel breve periodo che ci separa dall’elezione, ma l’attività dei miliziani deve essere combattuta con rapidità”, ha affermato il giudice Carlos Eduardo da Roa da Fonseca Passos al El Pais. Ma i miliziani approfittano persino delle elezioni, facendo pagare fino a 150 mila reais di pedaggio ai candidati che intendono fare campagna elettorale nelle aree sotto il loro dominio. Arabia Saudita. Diritti umani, i sanguinosi passi indietro di Riad Il Foglio, 23 agosto 2018 Il regno saudita condanna a morte la sua prima attivista donna. E le riforme? L’Arabia Saudita è sul punto di stabilire un nuovo primato nella violazione dei diritti umani: sta per condannare a morte per la prima volta un’attivista d’opposizione di sesso femminile, che assieme ad altri quattro compagni rischia di essere giustiziata con accuse “legate esclusivamente al loro attivismo pacifico”. La donna si chiama Israa al Ghomgham, è in carcere dal 2015 e ieri Human Rights Watch ha denunciato che Riad si sta preparando a giustiziarla per reati come: partecipare a una manifestazione, intonare slogan ostili al governo, cercare di aizzare l’opinione pubblica e filmare le proteste con il fine di pubblicare i video sui social media. Non esattamente il curriculum di un individuo pericoloso per la tenuta sociale. Che Riad si possa macchiare di questa violazione aberrante è particolarmente sconfortante in questo frangente politico. Da mesi il principe ereditario Mohammed bin Salman ha annunciato riforme per liberalizzare l’economia e, in piccola parte, anche la società del regno saudita. Alcuni passi incoraggianti erano stati fatti, specie nei riguardi delle donne, alle quali era stato concesso di guidare l’automobile e di frequentare i cinema e gli stadi. Ma dopo la terrificante disputa diplomatica con il Canada, reo di aver criticato il regno per la violazione dei diritti umani, ecco arrivare un altro cattivo presagio per chi sperava che bin Salman sarebbe stato in grado di cambiare le sorti dell’Arabia Saudita: o il principe è troppo debole contro l’opposizione conservatrice, oppure lui stesso ha ripudiato le sue promesse. Arabia Saudita. L’attivista politica Israa Al-Ghomgham rischia la decapitazione di Giordano Stabile La Stampa, 23 agosto 2018 Restano due mesi per salvare Israa Al-Ghomgham, la prima attivista politica dell’Arabia Saudita a rischiare la decapitazione. La richiesta della pena capitale da parte dell’accusa, per fatti non di sangue, è senza precedenti per una donna, e mette il Regno al centro delle preoccupazione delle Ong impegnate nella difesa dei diritti umani, dove di solito c’è l’Iran. Il tribunale ha accettato la domanda di appello e dovrà pronunciarsi a ottobre. Se la raccomandazione dell’accusa verrà accolta il caso passerà nelle mani di Re Salman, che però di solito si limita a ratificare la decisione. Il rischio è quindi molto alto. “Sovvertire l’ordine del Regno” Al-Ghomgham, 29 anni, è stata arrestata nel dicembre del 2015 assieme al marito Moussa al-Hashem per aver organizzato manifestazioni nella città di Qatif, nell’Est del Paese, contro le “discriminazioni” subite dagli sciiti. Era la “primavera araba” in una zona strategica, dove ci sono gran parte dei pozzi petroliferi e una popolazione in prevalenza sciita. Un mese dopo la regione esplose, per l’esecuzione dell’imam Nimr al-Nimr, massima guida politica e spirituale. La “pericolosità” di Al-Ghomgham risiede in questo contesto, e nella guerra che si fanno Arabia Saudita, potenza sunnita, e Iran. È stata accusata di voler rovesciare “l’ordine dello Stato” in base alle norme anti-terrorismo. Il caso è stato sollevato in Occidente dall’European Saudi Organisation for Human Rights (Esohr), che segue le vicende di altre decine di attivisti detenuti e di 51 condannati a morte che in questo momento attendono l’esecuzione. Ma ora anche altre ong si sono interessate. Due giorni fa media filo-iraniani avevano dato la notizia dell’avvenuta esecuzione, che si era rivelata poi falsa. L’appello dà tempo alle associazioni di organizzare una campagna a favore dell’attivista ma preoccupa il nuovo clima di repressione, un’inversione di marcia dopo le aperture del principe ereditario bin Salman ai diritti delle donne, a cominciare da quello alla guida. A maggio diciassette attiviste per i diritti delle donne sono state arrestate, alcune sono ancora in carcere e rischiano condanne pesanti. Per il direttore dell’Esohr, Ali Abudisi, la richiesta di pena capitale per Al-Ghomgham è “un pericoloso precedente”. Secondo Amnesty International il Regno si sta trasformando in uno dei Paesi “più prolifici” nelle condanne a morte. Ma il giro di vite è anche un segnale da parte della corte agli attivisti di ogni genere: il passo delle riforme lo decidiamo noi, e non accettiamo nessuna pressione.