Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti è a rischio di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 22 agosto 2018 Gentili lettori, gentili amici di Ristretti Orizzonti, vi dobbiamo prima di tutto delle scuse per il ritardo con cui state ricevendo la nostra rivista (e comunque vi garantiamo che riceverete tutti i sette numeri previsti dall’abbonamento). Non era mai successo, in vent’anni di vita di Ristretti, un simile ritardo, e forse è il caso che ve ne spieghiamo le ragioni. A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni, a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto. Con l’obiettivo di togliere a Ristretti quella fondamentale funzione di “pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, che non è una nostra definizione, sono le parole di Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Per prima cosa purtroppo dobbiamo spiegare che questo “ridimensionamento” di attività, che ci hanno meritato la stima e l’apprezzamento di tanti in questi anni, per noi significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi in progetti importanti come quello di confronto tra le scuole e il carcere, Avvocato di strada, la preziosa Rassegna Stampa quotidiana che voi tutti conoscete, lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, un servizio che mettiamo a disposizione di tutte le persone detenute, aiutando così il lavoro degli operatori dell’Amministrazione, ma il rischio è anche maggiore, è quello di non farcela a sopravvivere e di dover chiudere l’esperienza di Ristretti, e non perché non funziona più, tutt’altro, ma perché qualcuno ha deciso che non gli piace e che va drasticamente ridimensionata. Qualche esempio di “ridimensionamento”? La Casa di reclusione di Padova è diventata in questi ultimi quindici anni un luogo da cui si fa davvero prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio. Protagonisti di questi percorsi sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione. E poi c’è il Comune di Padova, che crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. E c’era la Direzione della Casa di reclusione, che credeva all’efficacia di un progetto con al centro le storie di vita dei detenuti, e metteva al primo posto non la “visibilità” del carcere, ma il futuro dei ragazzi e quello che è più utile per fare con loro prevenzione. Ma oggi c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Insegnanti e dirigenti scolastici, invitati dal Direttore della Casa di reclusione il 28 giugno a esprimere la loro opinione, hanno affermato con convinzione che il senso di questa esperienza di conoscenza del carcere, che fanno i giovani studenti, sta soprattutto nei racconti di vita delle persone detenute, nel loro mettere a disposizione di questo progetto le loro storie perché i ragazzi capiscano dove nascono le scelte sbagliate, lo scivolamento in comportamenti pericolosamente trasgressivi, la voglia di imporsi con metodi violenti, che a volte inizia proprio negli anni della scuola. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente all’incontro, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo, importante e significativo, per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentire di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male. - Sette mesi ci abbiamo messo per ottenere di far venire qualche detenuto nuovo in redazione, eravamo rimasti in otto (grazie a Dio, qualcuno esce, in semilibertà, in affidamento, a fine pena, e qualcuno viene trasferito), c’erano moltissime richieste ed è stato lungo e faticoso il percorso per ricostruire Ristretti Orizzonti, ma quello che è più faticoso è far riconoscere il valore di quella minima autonomia della redazione nell’organizzare il proprio lavoro, scegliendo i temi da trattare, gli ospiti da invitare, le iniziative da organizzare. Quello che vorremmo è semplicemente avere ospite in redazione anche il nuovo direttore, e poterci confrontare su una idea di carcere, in cui le persone detenute abbiano spazi significativi di libertà e di decisione, e non vivano più la condizione per cui se qualcosa gli viene dato, si tratta sempre di una “concessione”, di un beneficio, di un “regalo”. - La rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate, di recente anche a Sollicciano, era stata approvata dal precedente direttore, su proposta di Ristretti, anche per Padova, c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge (ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?). E subito dopo la nuova Direzione ha dato vita a una “rappresentanza per estrazione” (che neppure dovrebbe essere chiamata rappresentanza) di 20 detenuti, che non si capisce dove trovi la sua legittimazione nella legge (che allora, a voler essere precisi, prevede solo l’estrazione di rappresentanti in diverse commissioni, e non di rappresentanti di sezione). Uno strumento di autentica democrazia è stato bocciato, come se invece di un serio lavoro per preparare le persone detenute a occuparsi degli interessi di tutti, si trattasse di fare le elezioni del Presidente degli Stati Uniti e mettere in piedi una gigantesca macchina elettorale. - E ancora, ci è stato comunicato con un brevissimo messaggio della Direzione che il progetto Mai dire mail, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori, tutor universitari, e per il quale attendiamo da mesi una risposta sul rinnovo della convenzione che abbiamo sottoscritto con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Provveditorato, veniva sospeso dall’1 agosto, proprio per una serie di obiezioni sollevate dal Provveditore stesso, a cui abbiamo puntualmente risposto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per confrontarci e cercare di evitare questa sospensione, dannosa per le persone detenute, per le loro famiglie e anche per l’Amministrazione stessa, ma si è preferita la strada di bloccare il servizio. Quello che chiediamo è che Mai dire mail possa continuare, visto che niente è cambiato dall’autorizzazione che ha dato l’Amministrazione, soprattutto in un periodo delicato come questo, in cui il clima pesante che si respira nelle carceri rende ancora più importante il supporto esterno di famigliari e amici. Allora, in un momento così difficile per noi, ma anche per tutto il mondo che gravita intorno alle carceri, con il sovraffollamento sempre più a livelli di guardia, e la perdita di tante speranze, legate alla mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e i suicidi che in questi giorni riempiono le cronache, vi chiediamo di sostenerci, di appoggiare le nostre battaglie, di CREDERE NEL NOSTRO GIORNALE E ABBONARVI, nonostante i ritardi, nonostante la stanchezza che riempie tutti noi, che abbiamo creduto nel cambiamento e ci ritroviamo invece a fare pesanti passi indietro e a dover difendere con le unghie e con i denti anche le poche conquiste di questi anni. *Redazione di Ristretti Orizzonti Così svanisce il mito della maggioranza pilotata dai giudici di Errico Novi Il Dubbio, 22 agosto 2018 Dalle verifiche ispettive alla prescrizione, Bonafede non agirà sotto dettatura dell’Anm. Doveva essere il terreno di gioco prediletto della maggioranza. In realtà sulla giustizia si annuncia una stagione di interventi lunga ma non impetuosa. I motivi sono due: non sono moltissimi i provvedimenti sui quali c’è assoluta convergenza tra i due azionisti dell’esecutivo; in secondo luogo il guardasigilli Alfonso Bonafede non intende scatenare conflitti con avvocati e magistrati, ai quali ha anzi chiesto di collaborare nella revisione di alcune materie, come le intercettazioni, tantomeno medita di assecondare ogni sollecitazione rivoltagli dalle toghe. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un mito per il quale si deve verificare un’ulteriore smentita. Prima e dopo il risultato delle Politiche, si era data per inevitabile una sorta di tutoraggio che Piercamillo Davigo avrebbe esercitato su un ministro della Giustizia dei Cinque Stelle. Teorema contraddetto dall’estrazione culturale dei magistrati chiamati a ricoprire i ruoli chiave del ministero, che non è affatto riconducibile alla corrente dell’ex pm del “Pool”. Ma l’emancipazione del governo dal rapporto con i giudici, quanto a riforme sulla giustizia, è un dato più generale. Non ci sarà la raffica di provvedimenti in materia penale data a lungo per inevitabile. La scaletta prevede passi non traumatici. Ieri ne ha fatto cenno il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nella sua intervista al Corriere della Sera, in cui ha annunciato, per l’autunno, “decisioni” che riguarderanno anche “riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno”, tra cui la “accelerazione dei processi” e un intervento anticorruzione, senza altri riferimenti alla giustizia. Il ddl sulla lotta al malaffare sarà la prima iniziativa di legge non emergenziale (qual è stato il decreto su Bari) firmata da Bonafede. Più o meno in parallelo, dal ministro arriveranno indicazioni su un potenziamento delle misure alternative di soluzione delle controversie, in particolare della negoziazione assistita, che potrebbe essere la vera leva del governo per la accelerazione dei processi di cui parla il premier. Un risvolto di cui finora si è parlato poco, eppure centrale nel confronto avviato tra il guardasigilli e il Consiglio nazionale forense, che ha sottoposto al ministro un documento con obiettivi e visioni dell’avvocatura in cui si dà ampio spazio agli strumenti di mediazione. Dietro i primi due tavoli, uno in campo penale e il secondo in materia civile, c’è una seconda e affollata griglia di questioni, alcune date troppo precipitosamente in rampa di lancio: dalla legittima difesa alla prescrizione, dai ritocchi alla riforma del diritto fallimentare rimasta in sospeso alle intercettazioni, dalla cancellazione dell’atto di citazione come atto introduttivo nel rito civile fino all’impossibilità di reindossare la toga per i magistrati che assumono incarichi politici. Vanno classificate a parte altre due voci: un ripensamento sulle misure alternative al carcere, di cui Bonafede negli ultimi tempi ha riconosciuto l’utilità seppur a determinate condizioni, e un radicale intervento sul sistema per scegliere i togati del Csm, che rischia di aprire un confronto assai aspro con i magistrati. Proprio i dossier che intrecciano in modo più sensibile le aspettative dei giudici sono destinati a non avere vita facile: l’Anm ha alzato la guardia non appena Bonafede ha fatto un generico cenno a più approfondite verifiche, da parte del suo ispettorato, sulla produttività delle toghe. “Assoluta contrarietà a quest’ipotesi”, ha dichiarato presidente dell’Associazione, Francesco Minisci, in un’intervista ad Avvenire domenica scorsa. Di certo Bonafede non sarà un ministro “dogmatico”. Si prenda l’anticorruzione: nel contratto di governo l’”agente provocatore” c’era eccome, seppure “in presenza di elementi fondati”. Nello schema che dovrebbe uscire da via Arenula ci sarà invece solo l’estensione ai reati contro la pubblica amministrazione dell’agente sotto copertura. Spazio a una revisione del voto di scambio politico- mafioso e al controverso Daspo, ossia l’”interdizione dai pubblici uffici e la perpetua incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per chi è stato condannato definitivamente per un reato di tipo corruttivo”. Sulle misure alternative al giudizio civile si dovrà aspettare la manovra, considerato che per potenziarle servono incentivi, dunque risorse. Certo non pare casuale il passaggio che il ministro ha inserito nel documento depositato l’11 luglio alle commissioni Giustizia di Camera e Senato: “Se ho un minor numero di contenziosi, non per questo devo pensare che la giustizia civile in Italia funziona meglio: potrebbe voler dire che i cittadini rinunciano a rivolgersi al tribunale”, ed è per ridurre i costi, ha spiegato Bonafede, che “ho avviato uno studio analitico dell’impatto che hanno avuto i tentativi di mediazione obbligatori prima di andare in tribunale: lì si vede come dietro i numeri c’è una risposta, ci sono dei settori in cui questo strumento ha avuto un impatto importante in termini di deflazione del processo”. Una strada appunto, che il guardasigilli spiega di preferire a una “produzione scomposta e spesso illogica di norme e di riti”. Sulla legittima difesa non è da escludere un ddl governativo, ipotesi avanzata per primo dallo stesso Bonafede, che punta a un testo “il più equilibrato possibile”, senza automatismi sulla scriminante da riconoscere a chi reagisce nel proprio domicilio. Anche in questo caso l’Anm e la magistratura in generale chiedono di non toccare in alcun modo la legge del 2006. L’eventuale “riforma” della prescrizione ha bisogno a propria volta di un potenziamento degli organici ed è dunque sospesa alla manovra economica. Si tratta in ogni caso di un dossier sul quale il confronto con la Lega sarà impervio. Più semplice intervenire sulle intercettazioni, seppure le richieste di magistrati e avvocati non sempre convergano. Mentre un intervento su toghe e politica vedrebbe una netta sintonia nella maggioranza e potrebbe diventare l’ulteriore segno di un esecutivo libero dalla tutela dei magistrati. Il ponte Morandi e gli sceriffi senza pistola di Massimo Giannini La Repubblica, 22 agosto 2018 Tra le macerie del ponte Morandi si aggira dunque il fantasma dello Stato Padrone. Dopo i fallimenti del privato, è legittima una riflessione sul ruolo del pubblico. Purché sia chiaro il senso di marcia, e al momento non lo è. Che vuole fare il governo con la concessione di Autostrade nessuno lo sa. Il ministro Toninelli è come sempre pieno di certezze: “Nazionalizzazione immediata”. Il sottosegretario Giorgetti è come sempre pieno di incertezze: “Ragioniamo, ma Io Stato non deve fare i panettoni”. Il premier Conte è come sempre pieno di vaghezze: “Avanti con la revoca, valuteremo la modalità migliore per soddisfare l’interesse pubblico”. Nella confusione generale spunta il solito jolly, buono per tutte le stagioni e per tutte le occasioni: Cdp, la cassaforte del risparmio postale da 420 miliardi, ora in pista per rilevare la quota di maggioranza di Atlantia (non si capisce se in guerra o in pace con i Benetton). Vedremo nei prossimi giorni se è un’ipotesi seria, o una bufala d’agosto. Due cose, nel frattempo, sono evidenti. La prima è che la convenzione con Autostrade, al di là delle intemerate demagogiche dei pentastellati, è un groviglio giuridico e persino costituzionale complicatissimo da sciogliere. La seconda è che la ridefinizione di tutte le concessioni pubbliche in essere, dai telefonini alle televisioni, è una sfida ambiziosissima da raccogliere. Questo governo non pare all’altezza del compito. Non lo sono stati neanche i governi precedenti, di sinistra e di destra, che hanno aperto ai privati le porte dei settori strategici senza vigilare su investimenti, pedaggi, efficienza dei mercati. Oggi, quindi, l’idea di ridare un ruolo allo Stato non è di per sé un “atto eversivo”. È invece un’esigenza della fase, perché anche così si ricostruisce un terreno di coesione sociale per i cittadini. E se il Pd non capisce questo, se non realizza che il partito nato dalle ceneri di Moro e Berlinguer, di fronte a 43 morti, non può preoccuparsi del crollo dei titoli in Borsa, allora “si merita i fischi di Genova”, come ha detto De Rita su queste pagine. Ma chi, al contrario, immagina il ritorno dello Stato Padrone che schiaccia le “mosche del capitale” e risolve tutti i problemi, non sa di cosa parla. La stagione delle privatizzazioni italiane è stata un lavacro necessario per un Paese fallito. Non solo per ragioni economiche: in 25 anni le vendite di Stato hanno fruttato 168,5 miliardi di euro. Ma anche per ragioni etiche: le grandi PpSs del Dopoguerra, l’Iri e l’Intersind degli accordi sindacali avanzati, la Grande Eni di Mattei, il piano siderurgico di Sinigaglia, negli anni ‘80 sono diventate solo una grande mangiatoia per i partiti. Di Maio che indica le buone pratiche autostradali di Germania e Austria o Di Battista che continua a postare sognanti proclami castristi da Oltreoceano sanno qualcosa di come funzionavano i Comitati di presidenza degli enti pubblici ai tempi del Caf? Hanno contezza di cos’erano le “notti delle nomine” nei banchi pubblici (Banco Napoli e Bnl) o nelle tre “bin” (Credit, Comit, Bancoroma)? Qualcuno ha raccontato loro di Enimont, la “madre di tutte le mazzette” che sancì la fine della grande chimica tricolore? E adesso che ipotizzano di trasferire ad Anas le autostrade, sanno qualcosa di un tal ministro Prandini, per gli amici “Attila”, che per conto del Psdi trasformò quell’ente in una gioiosa macchina da tangenti? E ora che vogliono statalizzare Alitalia, hanno mai sentito parlare di un tal ministro Scajola, che per suo diletto impose alla compagnia di bandiera il volo di linea Roma-Albenga? Studino un po’ di Prima Repubblica. Scopriranno che il pubblico non è buono in sé. Soprattutto oggi, che la fu “quinta potenza economica del mondo” ha dilapidato tanta parte dei suoi tesori industriali. Colpa di una politica senza morale e di un capitalismo senza capitale. Nel 1993 raccontammo su Repubblica l’epica battaglia sulle privatizzazioni delle banche tra Prodi, presidente dell’Iri, ed Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca. In uno scambio di lettere segrete, quello scontro marchiò le vendite di Stato dei decenni successivi. Cuccia che propose una svendita, cioè “un nocciolo duro di azionisti stabili... di Credit e Comit” e un doppio aumento di capitale “perché solo un folle o un ente pubblico le comprerebbe così come sono!” Prodi che difese il modello public company, perché “una diminuzione del prezzo può essere giustificata solo se la vendita viene fatta a un numero grandissimo di piccoli azionisti”. Alla fine vinse Cuccia, che pilotò i collocamenti facendo finire le due banche in mano ai “nuclei duri” del famoso Salotto Buono per pochi miliardi di lire. Un modello che più tardi fu ripetuto per la Stet (che gli Agnelli si portarono a casa con lo 0,6% del capitale) e per le stesse Autostrade (che i Benetton si presero con 7 miliardi di euro di leva finanziaria). Convenzioni senza gara e poi “controllori” trasformati in propaggini politiche al servizio delle lobby dei “controllati” hanno fatto il resto. Agcom, Autorità per l’energia. Authority per i Trasporti: controlli virtuali, sanzioni inconsistenti, tariffe più alte d’Europa (800 mila euro a chilometro nel caso delle autostrade, oltre al paradosso delle “concessioni in essere” blindate). Sceriffi senza pistola. Dal 1992 questo hanno fatto privati e pubblici, insieme. Dunque ora riflettiamo pure senza tabù sullo Stato Imprenditore. Ma chiediamoci se non basterebbe anche solo un buono Stato Regolatore. Quello che è scandalosamente mancato da allora. Con una differenza non trascurabile. Allora i Poteri Forti c’erano sul serio. Oggi in giro si vedono solo Poteri Morti. Csm, quel saluto (un po’ costoso) ai nuovi magistrati di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 agosto 2018 Il Csm inverte la rotta pauperista e spende 140mila euro per organizzare il saluto del presidente della Repubblica con i giovani togati. In tempi di pauperismo dilagante, dove la dittatura del politicamente corretto impone che i vertici dello Stato si debbano spostare con l’autobus o a piedi, rinunciando al simbolo per eccellenza della “casta”, la famigerata auto blu, il Consiglio superiore della magistratura inverte la rotta e spende 140mila euro per organizzare il saluto del presidente della Repubblica con i giovani magistrati. Tanto è costato il mese scorso l’incontro al Quirinale, durato meno di un’ora, del Capo dello Stato con i 370 Mot (i magistrati ordinari in tirocinio, gli ex uditori giudiziari) nominati a febbraio dal Ministero della giustizia. Prima del conferimento delle funzioni giurisdizionali e dell’assegnazione della prima sede di servizio, è consuetudine organizzare da parte del Csm una visita al presidente della Repubblica, nella sua qualità di presidente dell’Organo di autogoverno delle toghe. La cerimonia, come si ricorderà, si è svolta lo scorso 23 luglio. “Sono lieto di proseguire nella tradizione, ormai consolidata, di incontrare i giovani magistrati prima dell’assunzione delle funzioni negli uffici di destinazione”, aveva detto durante il suo intervento Sergio Mattarella, evidenziando come “la presenza del ministro della Giustizia, dei componenti del Csm e del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura è il segno tangibile della rilevanza istituzionale di questo incontro, a cui attribuisco, come presidente del Csm, particolare valore e significato”. Il giorno successivo, sempre come da prassi, i neo magistrati hanno poi provveduto ad indicare la se- de di servizio, scegliendola fra quelle vacanti riportate nell’elenco del Csm, in base alla graduatoria finale del concorso. I 140mila euro hanno, dunque, coperto le spese di viaggio, di pernottamento e dei pasti per la due giorni romana delle toghe. Erano esclusi dal rimborso solo i neo magistrati che stavano svolgendo il tirocinio nella Capitale. Sicuramente qualcuno storcerà la bocca ritenendo questi “riti” ormai superati. Formalità datate, vuote e prive di senso. E criticherà anche il sistema di scelta della sede di servizio organizzato dal Csm: l’appello nominativo per alzata di mano. In un contesto totalmente informatizzato, caratterizzato da procedure just in time, una metodo sicuramente collaudato ma forse non proprio al passo con i tempi. Con i Tribunali che cadono a pezzi, tipo il palazzo di giustizia di Bari evacuato per rischio crollo lo scorso mese di maggio, o quello della Capitale dove solo qualche giorno fa è venuto giù il soffitto della cancelleria penale, in molti si chiedono se questi soldi potessero essere spesi in maniera diversa. Ma la forma è anche sostanza. Come quando in Tribunale entra la Corte e bisogna alzarsi in piedi. Un rigore formale, quindi, che vuole essere anche un monito per chi è chiamato ad esercitare le funzioni giurisdizionali. Un indirizzo preciso e puntuale che è stato fra i primi obiettivi di questo Csm che terminerà il mandato quadriennale fra qualche settimana. Vedasi il richiamo alle toghe ad una maggiore sobrietà nell’uso dei social network o, con l’approvazione di una circolare specifica, ad una comunicazione istituzionale rispettosa dei diritti delle altre parti processuali. 86 nuovi volontari del servizio civile negli Uffici dell’esecuzione penale esterna agenpress.it, 22 agosto 2018 86 nuovi volontari del servizio civile, giovani di età non superiore ai 28 anni, saranno impegnati per un anno presso 30 uffici dell’esecuzione penale esterna. È quanto prevede il Bando del Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato ieri, con il quale sono stati ammessi al finanziamento i quattro progetti presentati dalla Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. I progetti finanziati sono i seguenti: “Insieme: per il potenziamento della rete di giustizia di comunità”, che impiegherà 44 volontari presso gli uffici della Direzione generale e gli undici Uffici interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe); “Guidare l’inserimento operativo dei volontari per l’accompagnamento nell’Esecuzione Penale esterna”, elaborato dall’Uiepe della Puglia e Basilicata, per l’inserimento di 14 volontari in cinque sedi Uepe del distretto; Progetto “di Comunità”, elaborato dall’Uiepe del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta, che impegnerà 24 volontari in tutte le undici sedi dell’interdistretto; Progetto “Mettersi in prova pensando al futuro”, elaborato dall’Uiepe del Veneto, Trentino Alto Adige/Süd Tirol e Friuli Venezia Giulia, che prevede l’inserimento di 4 volontari in due uffici territoriali. Si tratta della seconda edizione di un progetto del 2017, tuttora in corso, che ha già permesso a 48 giovani volontari del servizio civile di fare esperienza nel settore dell’esecuzione penale esterna, lavorando in 12 uffici e supportandone l’operatività nel settore della sospensione del procedimento con messa alla prova. Quest’anno il progetto è stato esteso anche al settore delle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento alla detenzione domiciliare. “Forze fresche del volontariato civile andranno in tal modo a supportare le attività degli uffici, per qualificare ulteriormente l’azione di recupero e il reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a misure e sanzioni di comunità e a favorire così il contenimento del rischio di recidiva”, ha dichiarato il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità del nostro Ministero e il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno sono le due uniche Amministrazioni dello Stato ad aver fruito di questa importante opportunità. L’apporto di questi giovani - ha concluso il Guardasigilli - sarà utile per consolidare le collaborazioni esistenti tra i servizi territoriali dell’esecuzione penale esterna, la magistratura ordinaria e di sorveglianza e l’insieme delle agenzie pubbliche, private ed il volontariato, presenti nella comunità”. Sul sito istituzionale saranno pubblicati i comunicati per la selezione degli aspiranti volontari di servizio civile che, entro il prossimo 28 settembre, potranno presentare domanda di partecipazione ad uno dei 4 progetti, che si realizzeranno tra il 2018 e il 2019 nelle 30 sedi coinvolte. Carcere e sequestro motivati anche con un “copia-incolla” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 21 agosto 2018 n. 38750. “Copia e incolla” ammesso, ma solo in modica quantità. La Corte di cassazione, con la sentenza 38750 della Terza sezione penale depositata ieri, ha considerato legittima la condotta del Gip che, di fronte alla richiesta da parte dell’accusa di applicazione congiunta di misure cautelari personali e reali, utilizza anche letteralmente le motivazioni del pm, ma le accoglie solo in parte. La Corte ha così respinto il ricorso presentato dalla difesa di un imprenditore, accusato del reato di traffico illecito di rifiuti. La Procura aveva chiesto di procedere a misure restrittive della libertà personale e, contestualmente, al sequestro preventivo dei beni aziendali utilizzati per il normale svolgimento dell’attività d’impresa. Domanda accolta dal Gip quanto a quest’ultimo punto, ma respinta sul primo. La decisione del giudice delle indagini preliminari era poi stata confermata dal Tribunale. Tra i motivi dell’impugnazione, c’era anche la contestazione del sostanziale appiattimento del giudice sulle tesi del pubblico ministero attraverso un utilizzo del sistema del “copia e incolla”, trascurando di effettuare qualsiasi valutazione critica del materiale accusatorio. La Cassazione, nell’affrontare la questione, ricorda che l’ordinanza impugnata è in realtà allineata a una precedente pronuncia delle Sezioni unite che ha chiarito natura e limiti dei poteri di annullamento di una misura cautelare (anche del sequestro probatorio) del Tribunale introdotti dalla legge 47 del 2015. Il Tribunale cioè procederà ad annullare il provvedimento impugnato se la motivazione è assente oppure non contiene un’autonoma valutazione degli elementi fondamentali della misura del sequestro stesso oltre che delle specifiche richieste presentate dalla difesa. E allora, va innanzitutto confermata la portata estensiva di quanto è stato previsto in materia di misure cautelari personali e cioè che la necessità dell’autonoma valutazione da parte del giudice delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza va considerata soddisfatta quando l’ordinanza, anche se redatta con la tecnica del “copia e incolla” accoglie le richieste del pubblico ministero solo per alcune delle imputazioni oppure soltanto per alcuni indagati “in quanto il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa graduazione delle misure, costituiscono di per sè indice di una valutazione critica e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne”. Una linea interpretativa che può essere tradotta senza difficoltà, sottolinea la Cassazione, anche nel settore delle misure cautelari patrimoniali, e, nel caso preso in esame dalla Corte, la legittimità della lettura del Gip trova conferma nel fatto che, benché il richiamo in alcuni passaggi alla tesi del Pm sia evidente sul piano letterale, sul campo è comunque rimasto uno dei cardini delle richieste formulate originariamente dell’accusa e cioè quella dell’applicazione anche di misure dirette sulla persona dell’imprenditore. Sentenza di applicazione della pena irrevocabile, recidiva insussistente di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 luglio 2018 n. 32492. In tema di riti alternativi la declaratoria di estinzione del reato comporta l’esclusione degli effetti penali anche ai fini della recidiva. È sulla scorta di questo principio che la Corte di cassazione, con sentenza n. 32492 del 16 luglio 2018, ha annullato una decisione di merito limitatamente alla qualificazione della recidiva. La vicenda - Il tribunale di Palermo avendo ritenuto responsabile l’imputato del reato di detenzione di stupefacenti a scopo di vendita, articolo 73, comma quinto, del Dpr 309/1990, lo condannava a due anni e sei mesi di reclusione più multa, applicando un incremento di pena in considerazione della recidiva contestata (reiterata specifica). La Corte territoriale in riforma parziale della sentenza riduceva la reclusione ad un anno ed otto mesi, confermando invece la multa. Avverso la condanna della Corte di appello l’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo violazione di legge, in quanto i giudici di merito avevano erroneamente ritenuto la sussistenza della recidiva. Infatti, secondo l’imputato da quanto emergeva dal certificato del casellario giudiziale, a carico del ricorrente risultavano solo due sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, divenute irrevocabili. In relazione al verificarsi delle condizioni di cui al secondo comma dell’articolo 445, del codice di procedura penale la contestazione della recidiva era da ritenere erronea. La decisione - Gli Ermellini hanno annullato la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione della recidiva, rinviando per nuovo giudizio sul punto e sulla rideterminazione della pena, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. La disposizione, in tema di effetti dell’applicazione della pena su richiesta, prevede che il reato è estinto, ove sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni, quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale, e se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l’applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena. Ed inoltre l’estinzione del reato oggetto di sentenza di patteggiamento, in conseguenza del verificarsi delle condizioni previste dall’articolo 445, comma secondo, codice di procedura penale, opera “ipso jure” e non richiede una formale pronuncia da parte del giudice dell’esecuzione. Come conseguenza logica va ritenuta errata l’affermazione della Corte territoriale con cui esclude l’applicabilità del disposto dell’articolo 445, secondo comma citato ai fini della valutazione e qualificazione della recidiva, che, risulta, pertanto, erroneamente qualificata quale recidiva specifica reiterata. Ergo la Corte territoriale deve procedere alla riqualificazione della recidiva tenendo conto dei principi di diritto evidenziati Sì al patteggiamento anche se il debito non è stato saldato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2018 Non serve l’integrale pagamento del debito tributario per potere avere accesso al patteggiamento. Neppure dopo la riforma del 2015. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 38684 della Terza sezione penale depositata ieri. Con la pronuncia è stato respinto il ricorso presentato dalla Procura generale contro la condanna a 10 mesi di detenzione inflitta dopo patteggiamento per il reato di omesso versamento dell’Iva. La tesi della Procura generale era centrata sull’illegalità della pena inflitta perché l’applicazione di una pena concordata tra le parti sarebbe esclusa nel caso non sia stato interamente saldato il debito con il Fisco. La Cassazione arriva però a una conclusione diversa e ci arriva attraverso un ragionamento che fa perno sul rilievo da dare invece all’articolo 13 comma 1 del decreto legislativo n. 74 del 2000 che ammette espressamente come causa di non punibilità per i reati di omesso versamento di ritenute, di omesso versamento Iva e di indebita compensazione, l’estinzione dell’esposizione verso l’Erario attraverso il pagamento integrale di quanto dovuto. Pagamento che dovrà però arrivare prima dell’apertura del dibattimento di primo grado. Per la linea della Procura generale invece da valorizzare sarebbe quanto previsto dai commi 1 e 2 dell’articolo 13 bis del medesimo decreto(introdotti nel 2015 per effetto dell’ultima riforma del penale tributario), in base ai quali la condizione per l’applicazione della pena, per tutti i reati fiscali, sarebbe rappresentata dall’intervenuto integrale pagamento del debito, delle sanzioni e degli interessi, oltre che dal ravvedimento operoso. Per la Cassazione, tuttavia, la coesistenza delle diverse disposizioni, a meno di non volere sostenere una insanabile contraddizione di tutto il sistema, non può che stare a significare, come del resto testimoniava la stessa relazione dell’Ufficio del Massimario all’indomani dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 158 del 2015, che se l’integrale pagamento è logicamente la condizione per la non punibilità, allora il medesimo integrale pagamento non può allo stesso tempo essere condizione per applicare una pena patteggiata. Per quest’ultima allora non serve il saldo totale del debito. Per essere compresi nel perimetro del patteggiamento dunque potrebbe bastare un pagamento anche solo parziale o, al limite, anche nessun pagamento. “Sicché - conclude la Corte, in altri termini, o l’imputato provvede entro l’apertura del dibattimento, al pagamento de debito, in tal modo ottenendo la declaratoria di assoluzione, per non punibilità di uno dei reati di cui agli articoli 10 bis, 10 ter e 10 quater, ovvero non provvede ad alcun pagamento, restando in tal modo logicamente del tutto impregiudicata la possibilità di richiedere e ottenere l’applicazione della pena per i medesimi reati”. E allora non si configura nessuna illegalità delle pena che costituiva invece un necessario presupposto per l’ammissibilità del ricorso del rappresentante della pubblica accusa. Sequestro anticipato possibile ma priorità ai beni societari di Alessandro Galimberti Il Sole 24 ore, 22 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 21 agosto 2018 n. 38723. L’applicazione di misure cautelari reali per il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” è possibile dal momento in cui la fattura è inserita nella contabilità aziendale, a prescindere quindi dall’atto dichiarativo vero e proprio. Questo perché “se l’imprenditore acquisisce una fattura passiva per prestazioni inesistenti e la inserisce in contabilità lo fa di regola per ragioni di evasione fiscale” e pertanto la situazione “integra il fumus commissi delicti del reato di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 74/200o”. La Cassazione (sentenza 38723/18 della Terza penale, depositata ieri) torna sull’applicabilità delle misure cautelari ai reati fiscali (dlgs 74/2000) ribadendo l’orientamento più recente e ormai consolidato su entrambi i fronti aperti: non solo, cioè, sull’applicabilità “anticipata” del vincolo (quindi senza attendere la formale dichiarazione fiscale, che garantirebbe una prolungata “agibilità” al contribuente) ma anche sulla più arata questione delle priorità nella selezione dei beni da congelare in attesa di confisca. Nel caso analizzato dalla Terza, relativo alle indagini su un contribuente di Taranto, il Gip prima e il Riesame poi avevano consentito al pubblico ministero di aggredire immediatamente e direttamente il patrimonio personale del legale rappresentante della società sotto inchiesta della Guardia di finanza. Si trattava, come chiaro, di un sequestro per equivalente, consentito dalla legge penal-tributaria ma solamente come alternativa alla preventiva caccia senza esito al profitto diretto (e cioè societario) dell’attività illecita (articolo 12 dlgs 74/2000: “È sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”). Secondo la Terza penale, se nulla osta alla scelta della misura cautelare anticipata sui tempi della dichiarazione fiscale, molto invece c’è da obiettare sulla priorità temporale degli obiettivi adottata dalla Procura tarantina, Non solo perché la legge impone di tentare, in prima battuta, il sequestro diretto dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato (di fatture false, ndr) ma anche perché così facendo la procura pugliese si troverebbe scoperta nel caso in cui si dovesse accertare - come del resto si accerta - l’inefficacia del sequestro per equivalente. In circostanze come queste, infatti, e trovandosi già in fase esecutiva senza prima aver effettuato il sequestro a fini di confisca sui beni aziendali “non si potrà ovviamente apprendere beni di proprietà della società”. Il procedimento corretto, sottolinea la Terza penale, consiste pertanto nel “disporre entrambe le misure cautelari reali in via subordinata, così da poter predisporre il titolo per riservare effettivamente alla fase dell’esecuzione la ricerca di eventuali beni da sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca diretta e, in caso di mancato rinvenimento, la ricerca di beni da sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca per equivalente”. Milano: “la Costituzione e il Vangelo, così si recuperano i detenuti” di Paolo Viana Avvenire, 22 agosto 2018 Il direttore del carcere di Opera: insegnare un lavoro investimento di giustizia, che serve a tutta la società. Si potrebbe cominciare con il dire che in piena crisi occupazionale non si sente quella grande urgenza di formare al lavoro i detenuti... Questa è l’obiezione più ricorrente con cui mi trovo a fare i conti quando parlo del lavoro in carcere. Secondo quest’obiezione, la crisi non consente azioni a favore di chi è detenuto o ex detenuto, ma è una semplificazione che dobbiamo superare. Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera (in passato, direttore a Parma e capo dell’ufficio del personale e della scuola di formazione del corpo di Polizia Penitenziaria che dipende dal ministero della Giustizia) ha due stelle fisse: la Costituzione e il Vangelo. Oggi, questo cattolico cresciuto tra i salesiani parlerà di formazione per il lavoro nelle carceri al Meeting di Rimini. Lo abbiamo incontrato. Sarà pure semplicistico, ma è umano provare diffidenza verso un criminale… Ognuno di noi, almeno dopo essere stato toccato da un crimine, ha invocato il carcere quale panacea e ricucitura dello “strappo”, ma per la nostra Costituzione “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Discende da una concezione personalista, anche cristiana. Quali sono gli ostacoli che incontra questo percorso formativo? La difficoltà del mondo “esterno” di capire che si stanno formando delle persone nuove e diverse, che hanno compiuto un percorso interiore: esso li rende consapevoli del male commesso e stimola l’ambizione ad assumersi la propria responsabilità. Tuttavia, se una persona ha compiuto o sta compiendo questa metamorfosi, continuare a tenerla in carcere significa aumentare sempre più il gap con la società civile. Il carcere può giustificarsi, come diceva il cardinale Martini, solo con l’esigenza di proteggere la società da un pericolo grave ed attuale. Come capite che un condannato non è più pericoloso? Intanto è necessario che ogni colpevole comprenda il male che ha commesso. Riconoscere l’errore vuol dire crearsi le necessarie basi etiche e morali che consentano di avere una “coscienza” in grado di permettere l’esercizio di un consapevole “discernimento”. Questo vuol dire che il colpevole deve “cambiare” radicalmente il proprio stile di vita. Non è un approccio buonista: la pretesa del ripianamento del danno, per quanto possibile, deve sempre trovare soddisfazione piena. Ma san Giovanni Paolo II insegna: non vi è Giustizia senza Misericordia. Come si realizza questo connubio? Anche con la formazione al lavoro, che confluisce nel “trattamento rieducativo”, come l’istruzione, la religione, le attività ricreative e sportive e i rapporti con la famiglia e la comunità esterna. Lo prevede la legge 354/75. L’ordinamento penitenziario ha avuto nel tempo una diversa concezione del lavoro dei detenuti: all’inizio del secolo (R.D. 18 giugno 1931 n. 787) il lavoro era previsto come obbligatorio. Lavorare rientrava nella sfera afflittiva della pena. L’articolo 15 della legge 354 prevede che il lavoro debba essere uno degli elementi del trattamento, anche se per molto tempo non è stato attuato il principio costituzionale della proporzionalità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato; fino alla Legge Gozzini, era prevista una trattenuta di 3/10 a favore della cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime dei delitti. Nel 1993 la Legge n. 296 ha modificato gli artt. 20 e 21 dell’ordinamento penitenziario introducendo l’art. 20 bis: il lavoro dei detenuti non è più appannaggio esclusivo dell’Amministrazione Penitenziaria. La Legge Smuraglia ha introdotto sgravi fiscali e contributi. Com’è cambiata concretamente la figura del detenuto lavoratore? Con la sentenza 1027 del 30 novembre 1988 della Corte di Cassazione è stato affermato il principio della sostanziale parità del lavoratore detenuto al lavoratore non detenuto. Il detenuto ha davvero gli stessi diritti del lavoratore “esterno”? Gli stessi. Retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, diritto alle ferie, diritto alla sicurezza, diritto agli assegni familiari, diritto all’indennità di disoccupazione, diritto alla formazione professionale e all’avviamento al lavoro, diritti sindacali. Anche nella formazione? L’art. 20 della legge penitenziaria prevede che i detenuti e gli internati siano incentivati a partecipare a corsi di formazione professionale, onde fare in modo che il detenuto abbia l’opportunità di qualificarsi e di acquisire quelle competenze che gli possano rendere più facile l’inserimento nel modo del lavoro libero. Il trattamento penitenziario deve quindi avere anche la lungimiranza di far incontrare la domanda con l’offerta lavorativa. Da qui la necessità di una collaborazione con le Regioni. Concretamente, cosa fate a Opera? Lo strumento degli stage sta per essere messo a frutto con il duplice obbiettivo di eliminare le differenze “dentro-fuori” ed offrire le medesime opportunità per il raggiungimento di una sostanziale parità in ambito lavorativo. Incentiviamo quanti si preparino seriamente ad assumersi la responsabilità di impegnarsi per la collettività e di “smascherare” invece coloro che ancora non hanno maturato il proprio intimo e profondo convincimento al cambiamento necessario a un ritorno nella società civile. Oristano: il carcere di Massama resta senza coordinatore sanitario di Elia Sanna L’Unione Sarda, 22 agosto 2018 In pensione il coordinatore sanitario del carcere di Massama - Oristano. Alfredo Asuni, classe 1950, il medico penitenziario più anziano dell’isola, lascia la Casa circondariale. È ormai di fatto in quiescenza. “Nel formulare gli auguri per la pensione, guadagnata dopo non meno di 32 anni trascorsi tra il vecchio carcere di piazza Mannu e la nuova struttura di Massama, resta un vuoto che dovrà essere colmato al più presto - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” - sottolineando la necessità di una rivisitazione organizzativa della sanità penitenziaria, la cenerentola di un sistema tutt’altro che efficiente, per garantire a chi sconta una pena sempre adeguate misure di assistenza”. “Ma non c’è solo il problema di sostituire il coordinatore del presidio sanitario - evidenzia Caligaris - ma anche quello di trovare un medico che conosca le dinamiche interne ad una struttura detentiva in cui i soggetti, quando si rivolgono al sanitario, sono innanzitutto pazienti”. Secondo l’esponente dell’associazione, soprattutto a Oristano la realtà del mondo penitenziario è notevolmente cambiata. Attualmente infatti la quasi totalità (cinque sezioni su sei) di detenuti è costituita da cittadini privati della libertà, con lunghe condanne, in regime di alta sicurezza. Condizione molto diversa da quella del vecchio Istituto di piazza Manno. “La prima difficoltà sanitaria è rappresentata dall’invecchiamento della popolazione detenuta - osserva Madia Grazia Caligaris - e dalla necessità di effettuare continue visite di controllo o di ricorrere alle strutture esterne per ricoveri o analisi non effettuabili nell’Infermeria. Le problematiche sono ancora più complesse per i ristretti con disturbi psichiatrici e/o tossicodipendenze. A sei anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal ministero della Giustizia alle Assl e ora all’Ats (dall’1 gennaio 2017), e alle otto aree socio-sanitarie, le condizioni dell’assistenza in carcere hanno necessità di una seria riorganizzazione. La sanità penitenziaria ha bisogno di personale dedicato in modo esclusivo da affiancare a chi vi lavora da tempo e può offrire la propria esperienza. È un impegno particolare - conclude la presidente di Sdr - che non può accettare singoli rattoppi. Un lavoro in cui si fondono fiducia, scienza e conoscenza profonda dell’interlocutore, non sempre soltanto un cattivo paziente”. Genova: scacchi in carcere, la campionessa sfida i detenuti (che ha allenato) Redattore Sociale, 22 agosto 2018 Singolare partita in programma oggi nel penitenziario di Genova Pontedecimo tra il console dell’Ecuador, Martha Fierro, e i detenuti che proprio lei, Medaglia d’oro ai Giochi della Mente di Pechino, ha formato, con una serie di corsi tenuti anche a Marassi. Prima li ha allenati, ora li sfida. È una partita a scacchi singolare quella in programma per domani nel carcere di Genova Pontedecimo: perché si gioca dietro le sbarre e perché sarà Martha Lorena Fierro Baquero console dell’Ecuador nel capoluogo ligure ma nota al popolo internazionale degli scacchisti (oltre un miliardo nel mondo) come medaglia d’oro ai Giochi della Mente di Pechino 2008, a sfidare i giocatori-detenuti che la stessa componente dell’Accademia internazionale degli scacchi ha formato. In collaborazione con le direzioni degli istituti di Genova Marassi e di Genova Pontedecimo, la diplomatica ha organizzato infatti corsi destinati ai detenuti delle sezioni maschili e femminile tenuti da un gruppo di giovani maestri e, nella giornata conclusiva, sarà lei stessa a giocare in simultanea con i corsisti. “L’esperienza è stata di grande beneficio - racconta la campionessa - sia per il Consolato che per i detenuti che vi hanno preso parte. Gli scacchi aiutano a migliorare l’autocontrollo, a pensare sempre quale sia la mossa migliore, quali siano benefici e svantaggi di ogni decisione e ad agire quando abbiamo la sicurezza di avere dei buoni risultati. Questo calcolo della miglior decisione lo possiamo replicare anche nella nostra vita quotidiana. Il rispetto delle norme nello ‘sport-scienza’ degli scacchi è fondamentale, tant’è che la prima regola è stringersi la mano sia all’inizio che alla fine della partita, quindi il rispetto, il pensare, la strategia, analizzare, cercare obbiettivi, sono valori che si possono rafforzare con gli scacchi e che crediamo siano stati rafforzati nelle persone detenute attraverso questo corso”. “Già come componente dell’Accademia internazionale degli scacchi - si legge in una nota del ministero della Giustizia - Martha Fierro è stata sponsor di un’iniziativa analoga nel carcere di Spoleto dove ha organizzato un incontro tra una squadra di detenuti, adeguatamente formata, e la campionessa italiana in carica. Il progetto realizzato a Genova ha assunto però una ulteriore valenza educativa. Infatti il Consolato ha formato una squadra di dodici insegnanti, riconosciuti dalla Fide, costituita da studenti universitari ecuadoregni. Oltre che in scuole e caserme si è voluto far entrare i neo maestri anche in penitenziari per impartire lezioni ai reclusi proprio per la funzione educativa che si è ritenuto possa avere per i giovani vedere quali sono le conseguenze di comportamenti contro la legge”. “I corsi di scacchi in carcere si tengono già in altri paesi come Ecuador, Stati Uniti e Spagna e si sono svolte attività simili in altri istituti italiani. Sono iniziative che possono essere viste come forma di reinserimento sociale” conclude Martha Fierro che, nell’esprimere soddisfazione per gli esiti del progetto, comunica, anche a nome della Fide e dell’Accademia Internazionale di Scacchi, l’interesse ad avviare analoghe iniziative anche in altre carceri della penisola. Migranti. La Diciotti nel limbo, aiuto solo da Francia e Spagna di Francesco Grignetti La Stampa, 22 agosto 2018 Il ministro Salvini: “Ue solerte a bacchettare l’Italia, poi ci lascia qui quelli che sbarcano”. La nave della Guardia costiera “Ubaldo Diciotti” si è spostata, non è più al largo di Lampedusa bensì ormeggiata nel porto di Catania, ma la situazione non muta. I 177 migranti restano a bordo. Il ministro Matteo Salvini non dà il permesso allo sbarco, perché lo subordina a una condivisione dell’accoglienza in sede europea. Condivisione che non è all’orizzonte. Nonostante gli sforzi del ministro degli Esteri, Enzo Moavero, e il pressing della nostra diplomazia, infatti, pare che finora ci sia stata una generica e pallida disponibilità soltanto di Spagna e Francia. E basta. Di qui, l’ennesimo sfogo del ministro contro gli europei che non fanno abbastanza e le cui promesse restano sulla carta. Salvini fa l’esempio di altri 450 migranti che un mese fa sbarcarono a Pozzallo. Anche quella volta ci furono grandi polemiche e trattative. Alla fine Salvini concesse lo sbarco, ma sulla base di alcuni impegni precisi. Peccato che poi le cose siano andate diversamente: “Solo la Francia - rivela - ha mantenuto l’impegno, accogliendone 47 sui 50 promessi (tre cittadini stranieri sono ricoverati in ospedali e in attesa di trasferimento)”. Gli altri partner, cioè Germania, Portogallo, Spagna, Irlanda e Malta, hanno disatteso la promessa. I 450, insomma, sono rimasti quasi tutti sul groppone dell’Italia. Pare che l’ultimo ostacolo sia la spesa del viaggio, pari a 500 euro a migrante, che nessun Paese vuole accollarsi, tantomeno l’Italia. L’effetto perverso del tira-e-molla è che quei migranti da un mese sono chiusi nell’hotspot di Pozzallo. Bloccati anch’essi in una sorta di limbo diplomatico-giuridico al pari dei 177 trattenuti sulla nave della Guardia costiera. “In tutto questo - incalza Salvini - siamo in attesa di capire se l’Europa, così solerte nel sanzionare e bacchettare il nostro Paese, si degnerà di aprire un’inchiesta nei confronti de La Valletta”. Salvini ce l’ha particolarmente con Malta, ma è l’Europa il bersaglio grosso della polemica, oltre, naturalmente, il versante di chi in Italia chiede umanità. Sono intervenuti ieri molti esponenti della sinistra per criticare la sua linea dura, da Matteo Renzi a Laura Boldrini, a Sandro Gozi, Matteo Orfini, Emma Bonino. Si è fatto sentire l’Unhcr, così come Medici senza Frontiere. Save the Children denuncia la presenza a bordo di moltissimi minori. Mauro Palma, il Garante per i diritti dei detenuti, afferma: “La prolungata permanenza dei migranti a bordo della nave - a quanto risulta al Garante essi sono costretti a dormire sul ponte e esposti alle condizioni climatiche, in situazione di sovraffollamento e di promiscuità- potrebbe configurarsi come trattamento inumano e degradante e potrebbe violare la Costituzione”. Si può considerare un abuso? Di certo, dopo la procura di Agrigento, si è saputo che anche quella di Catania ha avviato una sua inchiesta. A tutti quelli che lo criticano, forte invece dei sondaggi che vanno sempre più forti, Salvini replica: “Prima di chiedere lo sbarco dalla “Diciotti”, forse sarebbe meglio alzare il telefono e chiedere spiegazioni a Bruxelles e agli altri governi europei”. Ha gioco facile nel rimarcare la mancata solidarietà europea. E intanto apre un altro fronte che farà la gioia dei suoi sostenitori: il centro di accoglienza di Mineo, in Sicilia, che è arrivato ad ospitare fino a 4 mila stranieri, passerà dagli attuali 3 mila a 2400 ospiti, e il costo giornaliero per immigrato scenderà da 29 a 15 euro. La misura comporterà risparmi superiori a 10 milioni di euro in un anno. “L’obiettivo finale resta la chiusura - conferma -, ma stiamo dimostrando di aver imboccato la strada giusta”. Il Garante dei detenuti, Mauro Palma: “la politica del Viminale è fuori dalla legge” di Adriana Pollice Il Manifesto, 22 agosto 2018 Ostaggi di governo. La nave Diciotti è territorio italiano, chi è a bordo deve poter esercitare i diritti assicurati sia dal nostro ordinamento che dal diritto internazionale. In una lettera al Viminale circa il caso della nave della Guardia costiera Diciotti, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, ha scritto: “La mancata autorizzazione allo sbarco, con l’impossibilità di valutare le singole situazioni, appare ancora più critica visto che la maggior parte sono di nazionalità eritrea e dunque in “evidente bisogno di protezione internazionale”. Il trattamento riservato finora è in contrasto con il diritto di accedere alla procedura d’asilo”. È possibile per il governo negare l’approdo alla Diciotti? Quello che sta facendo il Viminale non ha fondamento giuridico. Le navi della Marina sono territorio italiano, chi è a bordo deve poter esercitare i diritti che hanno coloro che sono nel paese, assicurati sia dal nostro ordinamento che dal diritto internazionale. Quando la Diciotti era in mare aperto, i migranti godevano della protezione dell’articolo 3 della Convenzione europea per cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Basta considerare che non c’è posto per tutti sottocoperta, il rischio che una situazione come questa degeneri verso il trattamento inumano è molto alto. E una volta arrivati a Catania? Se è vero che la vicinanza alla terra ferma attenua i rischi di violare l’articolo 3, resta l’articolo 5 della Convenzione europea: la privazione della libertà deve essere giustificata da un provvedimento impugnabile davanti all’autorità giudiziaria. Nel caso dei migranti sulla Diciotti non c’è nessun provvedimento e siamo molto oltre persino le regole per il fermo di pubblica sicurezza. Le norme italiane cosa prescrivono? Adesso che i naufraghi sono anche fisicamente sul nostro territorio già da lunedì sera, è ancora più tangibile la necessità di rispettare l’articolo 5 ma anche l’articolo 13 della Costituzione italiana: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria”. È poi gravissimo che i minori non siano stati fatti scendere subito: devono essere accolti e accolti in Italia. Alcuni paesi europei avrebbero voluto estendere i respingimenti anche a loro ma le leggi in vigore sono chiare. Infatti è già intervenuto il Garante per l’infanzia. Cosa rischia l’Italia? Se uno dei migranti sulla Diciotti ricorresse alla Corte di Strasburgo, il governo rischierebbe molto seriamente una condanna per detenzione illegale. Gli approdi si possono fermare ma nell’ordine di alcune ore e solo per decidere il porto sicuro o per organizzare le operazioni di sbarco. Quello che non è legittimo è tenerli in stallo a causa della conflittualità tra gli stati dell’Ue. Quello che sembra trasparire dal tono muscolare delle dichiarazioni è che vengono usati come strumento. Ma questo non è legittimo, anche se gli altri paesi non hanno rispettato gli accordi e non hanno preso le quote che si erano impegnati ad accogliere. Le persone non possono mai essere messe in mezzo a un conflitto. Il ministro Salvini ha minacciato di riportare i 177 in Libia È impossibile. La Libia è il luogo da cui fuggono, in cui si rischiano torture e maltrattamenti. Al di là delle dichiarazioni, non è una politica praticabile in base alla legge. Resta grave utilizzare questo tipo di minacce perché si dà l’impressione di poter bypassare le regole con un effetto devastante sul clima politico e l’opinione pubblica. Com’è la situazione negli hotspot? Va meglio però nel 2016 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per aver violato i diritti di libertà di alcuni tunisini nel centro di Lampedusa nel 2011 e per altri migranti su navi ormeggiate a Palermo. Come si può uscire da questa situazione? Basta pensare ai migranti come pedine o quote. L’Europa deve definire un piano. Violenze verso i migranti. Crepet: “Non sono casi isolati, ma un fenomeno preoccupante” di Domenico Agasso La Stampa, 22 agosto 2018 Dalla “caccia al nero” di Traini a Macerata agli immigrati presi di mira con armi ad aria compressa in tutta Italia, fino all’ultimo caso di Terracina. Ne parla lo psichiatra. Professor Paolo Crepet, nei giorni scorsi a Terracina un cittadino indiano è stato colpito da alcuni proiettili di piombo sparati da un’auto in corsa. Si contano in due mesi una quindicina di casi di intolleranza o violenza nei confronti di migranti: che cosa significano? “Che non si tratta di episodi isolati o casuali, ma di un vero e proprio fenomeno. Un fenomeno preoccupante: la denigrazione dell’immigrato, in particolare di chi ha la pelle scura, aggravata dall’emulazione”. Quale istituzione per prima deve affrontare questa situazione? “La famiglia. Ma tutti devono fare attenzione a una “cosa strana” che capita in fase di analisi a tutti i livelli, dai giornali alla chiacchierata al bar: tendenzialmente siamo molto severi nel giudicare questi fatti, ma poi se capita che a compierli è qualcuno vicino a noi, li definiamo una “ragazzata”. Si sentono troppo facilmente espressioni come: “Ma quale razzismo, sono solo ragazzi”. Ecco, così tutto si complica”. Lei come li definisce? “Di sicuro non sono ragazzate: classificarli così è un grande errore. Perché sta montando qualcosa di altamente pericoloso”. Qual è il punto fermo da cui partire per debellare queste dinamiche? “La consapevolezza che siamo diventati un paese multietnico. Siamo una società in cui in molti ambiti ci sono più stranieri che italiani”. Quali sono le difficoltà? “Per molti questo non è un problema, ma evidentemente per qualcuno sì. Bisogna capire perché è un problema. È di ordine pubblico? Non ne trovo la giustificazione: chiunque deve essere punito se ha trasgredito a qualche regola, di qualunque nazionalità sia; se poi un giudice libera il colpevole dopo 2 ore, allora bisogna riflettere sulle norme, oltre che ovviamente sulle particolarità del caso specifico e del singolo giudice”. E la politica ha delle responsabilità? “Molte. Soprattutto quando cerca il consenso: così muore. La politica vera infatti non lo cerca, lo costruisce. Se invece punta solo a parlare alla “pancia” degli elettori trova il consenso, però allo stesso tempo attua un’operazione culturale controproducente, perché fa perdere la visione del futuro”. In che senso? “Non si ragiona e opera pensando concretamente a come si vuole il Paese fra cinque o dieci anni. Si pensa solo a che cosa succede nel tempo che manca alle successive elezioni, e così si cerca di sfruttare le tensioni sociali per trasformarle in sostegno elettorale”. Qual è la via da percorrere? “Se si lavora con lungimiranza, non si ha una “rendita” immediata ma a medio termine: si costruisce una comunità dove c’è una pacifica e produttiva convivenza delle genti. Bisogna avere il coraggio di fare scelte impopolari nell’immediato per non costruire una civiltà sulla paura, che diventa poi far west, in cui il primo sospettato di una rapina in banca lo si appende a un albero. Questa non è civiltà”. Che cosa consiglia a questo governo? “Intanto lo descriverei un po’ revival, vintage. Deve smetterla di pensare al “qui e ora”: guardi avanti e ci guidi verso un tempo di apertura all’altro: così la nostra società vivrà in armonia. Un esempio da seguire è quello di un insegnante di un istituto superiore Torino, che ha invitato delle giovani scrittrici maghrebine a parlare agli alunni: la loro lezione è stata un’esperienza bellissima e preziosa. Così si sconfigge il pensiero inutile e dannoso dei “negri che devono tornarsene a casa”. Ecco, la scuola che ruolo ha? “Cruciale. Ha la possibilità di creare e valorizzare culture: che non vuol dire solo far studiare Manzoni, ma anche far conoscere la storia e la bontà del couscous, o spiegare che un piatto di pasta al pomodoro non ha origini italiane. E poi far comprendere che è bello, buono e utile mischiare culture: tutti i grandi artisti hanno tratto benefici dall’integrazione: se Leonardo non avesse incontrato pittori fiamminghi non avrebbe fatto quello sfondale della Gioconda. Ecco perché questo non è buonismo: è che ci conviene. Conviene proprio a noi, che tra l’altro in varie epoche siamo stati un popolo migrante. La scuola può sconfiggere l’ignoranza, aiutando a far capire che il razzismo non ha senso, è un controsenso letterario: siamo tutti della razza umana”. Droghe. Cannabis, le contraddizioni del governo gialloverde di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 22 agosto 2018 Il fronte della cannabis light pare invece essere quello dove le tensioni fra i due alleati produrranno una vera e propria guerra. La questione cannabis è fuori dal contratto di governo fra Lega e M5S, ma non per questo si può stare tranquilli che non sarà oggetto di azione governativa, magari solo sul terreno della propaganda. La legalizzazione rimarrà bloccata, almeno finché reggerà il patto fra Lega e M5S. Il ministro degli Interni però ha un ruolo strategico rispetto al sistema repressivo e le sue dichiarazioni, in tandem con quelle del ministro Lorenzo Fontana, destano preoccupazione. Come inquieta che la relazione al Parlamento sia tuttora desaparecida, nonostante Fontana citi dati contraddittori su Facebook invece di renderla pubblica. La cannabis terapeutica sembra il fronte meno presidiato dall’alleato di minoranza ma che oggi guida politicamente il governo. Del resto gli argomenti ideologici sono meno efficaci di fronte alla malattia, e la legislazione vigente già permette innovazioni importanti. Continuano purtroppo le difficoltà di approvvigionamento per i pazienti, ma non abbiamo sinora saputo nulla rispetto all’uso dei fondi per l’implementazione delle nuove serre a Firenze (c. 1 Art. 18 quater, Legge 4 dicembre 2017, n. 172) e alle autorizzazioni alla coltivazione a soggetti terzi (c. 3). Nulla sappiamo poi dell’aggiornamento del personale medico (c.4) e della presa in carico al Servizio Sanitario Nazionale delle prescrizioni di cannabis su tutto il territorio italiano (c. 6). I primi atti della ministra Grillo sono però positivi. Prima ha spostato per decreto la cannabis nei farmaci a prescrizione semplificata per la terapia del dolore (dando un importante segnale politico, anche se senza effetti pratici) e poi ha richiesto una importazione straordinaria di farmaci. Non sappiamo se e come tale richiesta verrà realizzata, ma va dato atto un cambio di passo deciso rispetto al boicottaggio della gestione precedente. Altro segnale interessante è la visita all’istituto Farmaceutico Militare di Firenze, dove viene prodotta la cannabis italiana, l’incontro con alcuni pazienti e l’annuncio di una “partnership pubblico-privata” per l’aumento della produzione nazionale di cannabis terapeutica. Pare ormai evidente a tutti che il fabbisogno italiano, ormai da misurarsi in termini di tonnellate e non più di kg, non può più dipendere dalle importazioni dall’estero. Il fronte della cannabis light pare invece essere quello dove le tensioni fra i due alleati produrranno una vera e propria guerra, non sappiamo se calda o fredda. Il ministro Fontana, pur stoppato dalla ministra Grillo, non perde occasione per lanciare messaggi alla filiera della cannabis industriale. Fra bizzarri pareri del Consiglio Superiore di Sanità e una lettera allarmistica dell’ex capo Dipartimento Antidroga Serpelloni, il ministro in un suo recente post su Facebook ha annunciato di aver chiesto un approfondimento legale sulla liceità della vendita di infiorescenze di canapa. Un po’ come chiedere un approfondimento sulla legalità della camomilla. Le infiorescenze, senza Thc, in Italia vengono commercializzate da anni. Ma il loro attuale boom rende evidente il processo di normalizzazione dell’uso di cannabis. E dietro le annunciate crociate forse ci sono anche gli interessi di chi non vuole essere estromesso dal business. Così l’obiettivo nascosto potrebbe essere quello di sottrarre al circuito dei canapai la distribuzione e vendita, per affidarla a più consolidate e introdotte lobby. Del resto, esistessero ancora, le “Drogherie” sarebbero chiuse per il messaggio equivoco dell’insegna. Il nono Libro Bianco presentato il 26 giugno ha confermato gli effetti pesanti sul carcere e l’aumento della repressione contro i consumatori di cannabis. Il M5S che ha la responsabilità del ministero della Giustizia dovrebbe essere preoccupato da questa deriva. Stati Uniti. Detenuti in sciopero per ottenere migliori condizioni di vita di Gerry Freda Il Giornale, 22 agosto 2018 I promotori dell’iniziativa sperano di superare, sul piano della partecipazione, le proteste del 2016. I detenuti statunitensi hanno proclamato uno “sciopero” per protestare contro le “disumane condizioni carcerarie”. La manifestazione di dissenso dovrebbe iniziare oggi per terminare il 9 settembre. Focolaio della ribellione sarebbero penitenziari situati in 17 Stati Usa. Secondo le associazioni per i diritti dei detenuti, lo “sciopero” mira a conseguire un “significativo miglioramento” delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena. Lo scorso aprile, in un penitenziario della Carolina del Sud, una protesta indetta dai carcerati contro il sovraffollamento della struttura è degenerata, terminando con un tragico bilancio: sette detenuti uccisi. Secondo Jailhouse Lawyers Speak (Jls), ong che si batte per la riforma della legislazione penale, lo “sciopero” proclamato oggi sarebbe una reazione alle morti avvenute nella Carolina del Sud e mirerebbe a fare trionfare le istanze dei carcerati di tutto il Paese. L’associazione, nel comunicato stampa con il quale ha informato i media nazionali riguardo all’imminente “sciopero”, precisa: “L’uccisione di sette detenuti perpetrata lo scorso aprile ha spinto all’azione la popolazione carceraria. Oggi, in 17 Stati, avrà inizio una imponente manifestazione di protesta contro le miserevoli condizioni di vita che si registrano all’interno degli istituti di pena. Nel nostro Paese, i carcerati sono trattati come animali. Essi sono costretti a vivere in ambienti sovraffollati e a fare lavori per i quali ricevono paghe ridicole. I carcerati sono vittime di una moderna schiavitù.” Lo “sciopero” dovrebbe concretizzarsi nel rifiuto dei detenuti di svolgere le attività assegnate loro dai secondini, in sit-in e in altre “azioni eclatanti”. Jls sostiene che gli obiettivi immediati della manifestazione di dissenso sarebbero “il ripristino del diritto di voto a vantaggio della popolazione carceraria, il miglioramento della refezione e l’incremento delle paghe corrisposte agli internati per i lavori svolti nei penitenziari”. A lungo termine, i promotori dell’iniziativa mirerebbero a conseguire l’abolizione dell’ergastolo e l’abrogazione delle normative che attualmente “legittimano i pregiudizi razziali, agevolando l’arresto e la detenzione degli individui di colore”. I promotori sperano di superare, sul piano della partecipazione, le manifestazioni di dissenso che hanno avuto luogo nel 2016 in 20 istituti di pena del Paese. Allora, gli internati che aderirono all’iniziativa furono 24mila. La protesta indetta oggi dovrebbe durare fino al 9 settembre, anniversario della rivolta carceraria esplosa nel 1971 nella prigione di Attica, Stato di New York. Jls, pur avendo fornito numerosi dettagli sugli obiettivi e sulle motivazioni dello “sciopero”, non ha precisato in quali Stati Usa e in quali istituti di pena dovrebbe avere luogo la manifestazione di dissenso. Analoga reticenza è stata osservata da un’altra associazione per i diritti dei detenuti, l’Incarcerated Workers Organizing Committee (Iwoc). Per il momento, l’Amministrazione Trump, tramite il Federal Bureau of Prisons, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali sulla vicenda. Secondo il Bureau of Justice Statistics (Bjs), agenzia del Dipartimento della Giustizia incaricata di monitorare le condizioni di vita nei penitenziari americani, la popolazione carceraria negli Usa ammonterebbe a 2,3 milioni di individui. A causa di tale ammontare, gli Stati Uniti si classificano al primo posto, a livello mondiale, per persone internate in istituti di pena. Carceri private? Dopo gli Usa anche nel Regno Unito il sistema è in crisi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2018 Dagli anni 1990 i governi britannici concessero appalti ai privati per costruire e gestire penitenziari. Un ritorno alla gestione pubblica delle carceri inglesi? Non solo gli Usa hanno messo in discussione la privatizzazione degli istituti penitenziari, ma anche l’Inghilterra inizierà una discussione sul coinvolgimento del settore privato nel sistema carcerario del paese. Soprattutto dopo che il ministero della Giustizia del Regno Unito è stato costretto a prendere il controllo del carcere di Birmingham togliendone la gestione all’azienda privata G4S, dopo un’ispezione che ha mostrato un preoccupante livello di degrado. L’ispettore capo delle carceri, Peter Clarke, ha detto che c’è stato un “drammatico deterioramento” nella struttura di Birmingham dall’ultima ispezione che risale all’inizio del 2017. I detenuti sono organizzati in bande, gli ispettori hanno visto persone sotto l’influenza di alcolici o droghe e sono stati testimoni, proprio durante la visita di controllo, di un incendio doloso in un parcheggio teoricamente riservato al personale. Le aree comuni erano sporche, con scarafaggi, parassiti, sangue e vomito, e le finestre dell’edificio erano danneggiate o non c’erano affatto. Nella sua lettera al Segretario di Stato per la giustizia del Regno Unito David Gauke, l’ispettore ha detto che c’era “un bisogno urgente e pressante di affrontare lo squallore, la violenza, la diffusione di droghe e la pesante mancanza di controllo”. G4S è un’azienda britannica che opera a livello mondiale nel campo dei servizi di sicurezza e aveva ottenuto, nel 2011, un contratto di 15 anni per gestire il carcere di Birmingham. La storia della gestione privata - In Gran Bretagna è dagli anni 1980 che la privatizzazione della pena è diventata un investimento finanziario di ampie proporzioni. Dal 1982 in poi, infatti, il governo iniziò a perseguire programmi volti a sostenere iniziative che prevedevano la gestione finanziaria degli istituti di pena con capitale privato. Durante il periodo del governo Thatcher, il rapporto tra il settore privato e il settore pubblico era regolamentato da forti pressioni ideologiche e politiche volte a sostenere una disciplina finanziaria che favoriva il libero mercato. Per quanto concerne il carcere, si riscontrò poco interesse per l’idea di una privatizzazione delle istituzioni penitenziarie, fino al 1986- 1987. Tuttavia già nel 1984, l’Adam Smith Institute, un centro di ricerca fautore del libero mercato, aveva sostenuto la privatizzazione del sistema carcerario nazionale, utilizzando come esempio il modello di carcere privato mutuato dagli Stati Uniti. Seguirono altre proposte da parte di centri di ricerca e di lobby, ma fu solo nel 1986 che una commissione governativa cominciò apertamente a sostenere l’afflusso di capitali privati per la costruzione e la gestione di istituti di pena. Dopo le elezioni del 1987 a seguito di una visita negli Stati Uniti di un sottosegretario del ministero degli Interni, fu posta in atto una partnership tra due imprese britanniche e la Corrections Corporation of America - azienda leader nelle carceri private degli Stati Uniti - con lo scopo di costruire e gestire istituti di pena privati nel Regno Unito. Tale accordo bilaterale confluì nel Criminal Justice Act (1991), che per la prima volta nella storia del Paese, permise la gestione di qualsiasi carcere, non solo istituti per la custodia cautelare, da parte di privati. Così nell’aprile del 1992, il Group 4 Security (l’azienda attualmente sotto l’occhio del ciclone) vinse l’appalto per gestire un nuova realtà penitenziaria costruita appositamente per i detenuti in attesa di giudizio - Wolds - mentre il secondo istituto penale, a Blakenhurst, fu aperto nel 1993. Il privato come l’antidoto al sovraffollamento - Fin dai primi anni 1990, i governi britannici concessero appalti a ditte private per la costruzione e la gestione delle strutture penitenziarie. La privatizzazione di alcuni servizi carcerari è stata supportata anche in tempi più recenti dal governo di matrice conservatrice e liberal- democratica per far fronte ai problemi di sovraffollamento nelle carceri e con lo scopo di ridurre i costi di gestione della popolazione detenuta in continuo aumento. Nonostante ciò, la popolazione carceraria della Gran Bretagna è in continua crescita. Basta andare direttamente sul sito del ministero della Giustizia ingleprivati se per vedere le statistiche e si nota che gli anni risultano altalenanti: quest’anno 82.728 detenuti, mentre negli anni precedenti come il 2015, il numero totale dei detenuti risultava essere di 85.591 unità, nel 2016 invariato ma con un tasso di suicidi - tra giugno 2015 e giugno 2016 - che si attestavano a 105 casi. Numeri esorbitanti. In un simile panorama, il ruolo del settore privato nel sistema della giustizia penale è ormai consistente, e non mostra segni di miglioramento. Nonostante la forte riduzione del coinvolgimento del pubblico, le carceri private sono soggette a sanzioni per il mancato raggiungimento degli obiettivi di performance stabiliti dal governo stesso. Ad esempio, un rapporto del lontano giugno 2003 del National Audit Office espresse profonda preoccupazione per una serie di aspetti del servizio fornito in istituti gestiti attraverso il Private Finance Initiative. L’accento venne posto sulla mancanza di personale esperto e sull’eccessivo turnover dello stesso. Come risultato, tale rapporto ha evidenziato come l’ambiente delle prigioni private sia generalmente meno sicuro di quello delle prigioni gestite pubblicamente, dove gli agenti di polizia penitenziaria, in media, hanno più esperienza e professionalità. Il rapporto ha anche messo in luce come i termini dei contratti stipulati con enti non siano stati adeguatamente vagliati, evidenziando contraddizioni e mancanza di trasparenza. Tuttavia, conclude il rapporto, nel complesso, il coinvolgimento del settore privato ha portato benefici al Prison Service, attraverso una maggiore competizione e una specifica esperienza di gestione dei contratti commerciali relativi al Private Finance Initiative. Il modello virtuoso scozzese - Attualmente - tolto il carcere appena rientrato in gestione pubblica - vi sono in Gran Bretagna 10 carceri private, contrattualmente gestite da società private come Gsl, Serco, G4S Justice Services e da un consorzio di capitali privati come la United Kingdom Detention Services (Ukds affiliata al gigante americano Correction Corporation of America e all’impresa francese di ristorazione Sodexho (Wacquant, 2000). In Scozia esiste una sola prigione gestita privatamente da Serco, a Kilmarnock. Lo Scottish Prison Service (Sps), il dipartimento di Affari penitenziari scozzese, ha dato in gestione a Serco con un contratto di 25 anni, rinnovabile, un istituto di pena ritenuto una delle più moderne strutture penitenziare della Scozia. È considerato un carcere modello dal punto di vista del design e soprattutto perché i detenuti hanno a disposizione uno spazio pro- capite maggiore che in tutti gli altri istituti di pena del Regno Unito. Vi sono 500 celle singole per una capacità massima di 692 detenuti. Molto spesso encomiato per la sua efficienza nel promuovere attività che sostengono il rapporto dei detenuti con le loro famiglie, il carcere privato di Kilmarnock è un carcere di massima sicurezza per detenuti in attesa di giudizio e con condanna definitiva mentre una sezione particolare del carcere ospita detenuti minorenni. Nonostante la gestione del carcere sia completamente delegata al privato, lo Scottish Prison Service ha la possibilità di monitorare l’istituto penitenziario adottando gli stessi criteri utilizzati nella gestione statale degli istituti di pena. Questo modello di partnership e collaborazione ha permesso la creazione di un regime di detenzione basato sull’educazione dei detenuti e su programmi di intervento terapeutico e comportamentale mirati a reclusi con problemi di dipendenza. 119 bambini detenuti sull’isola di Nauru: è violazione dei diritti umani di Sara Giuliani Il Giornale, 22 agosto 2018 Le organizzazioni per i diritti umani hanno lanciato l’allarme. Da anni centinaia di bambini e minori richiedenti asilo sono costretti alla detenzione forzata sull’isola di Nauru, nel Pacifico. A far scattare le accuse di violazione dei diritti umani sarebbero le pessime condizioni di salute e gli squallidi trattamenti umanitari riservati ai 119 bambini costretti sull’isola oceanica. Per l’amministratore delegato di World Vision Australia, Claire Rogers, i bambini detenuti a Nauru sono senza speranza: “Molti di loro hanno vissuto per anni in tendopoli, sono stati separati da familiari stretti e non hanno un posto sicuro dove giocare o accedere a cure mediche accettabili”. Il centro di Nauru non é nuovo agli scandali. Giá in passato era stato perseguitato dalle accuse di abusi e traumi diffusi ai danni di donne e bambini. E anche le Nazioni Uniti avevano espresso preoccupazione e risentimento per i trattamenti riservati ai minori. La struttura sull’isola di Nauru é stata istituita nel 2001 per arginare il problema dell’immigrazione clandestina in Australia e ridurre il numero di profughi e richiedenti asilo. Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato lo squallore diffuso e le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui sarebbero costretti a vivere 240 richiedenti asilo in totale, di cui 119 bambini e minori. Il malessere diffuso nel centro di detenzione sull’isola di Nauru avrebbero costretto un ragazzo iraniano di 12 anni ad avviare uno sciopero della fame. La protesta del giovane va avanti da circa venti giorni e ha attirato su di sé l’attenzione dei media di tutto il mondo, tanto da far scattare un movimento online: #KidsOffNauru (“Via i bambini da Nauru”). Il portavoce della Coalizione australiana per i Rifugiati, Ian Rintoul, ha ammesso che il dodicenne é in gravissime condizioni di salute avrebbe bisogno di cure mediche urgenti. La richiesta al governo australiano é che i centinaia di minorenni detenuti sull’isola di Nauru vengano trasferiti entro novembre in Australia o in luoghi più adatti. Russia. Il regista Sentsov in carcere in condizioni critiche di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 agosto 2018 Il regista ucraino Oleg Sentsov, oggi al suo centesimo giorno di sciopero della fame in un carcere russo, versa in condizioni critiche in terapia intensiva. Durante queste ultime settimane ha perso 30 chili e il suo battito cardiaco è molto rallentato. Lo sostiene la cugina Natalia Kaplan, in un’intervista all’Ap. Mosca però smentisce. Secondo la rappresentante del Cremlino per i diritti umani Tatiana Moskalkova, il sistema penitenziario ha inviato ieri in carcere un pool di medici per visitare Sentsov e secondo questi le condizioni del regista sarebbero soddisfacenti. Sentsov è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza “Orso Bianco” di Labytnangi, nell’estremo nord della Russia. È stato condannato a 20 anni di reclusione in Russia per aver tentato di “organizzare atti terroristici” in Crimea, la penisola in cui è nato e di cui non accetta l’annessione russa. Lui però si è sempre detto innocente e numerosi osservatori ritengono che dietro la condanna vi siano motivi politici. Sentsov digiuna dal 14 maggio chiedendo la sua scarcerazione e quella di altri 64 ucraini che ritiene “prigionieri politici”. Oggi un gruppo di persone ha protestato a Kiev, davanti all’ambasciata russa. Dopo la mobilitazione di alcune star internazionali del cinema come Pedro Almodovar, Johnny Depp e Ken Loach, oggi al coro di chi chiede la sua scarcerazione si sono uniti anche i registi della Repubblica ceca, che hanno lanciato uno sciopero della fame a rotazione, in solidarietà con il collega ucraino, nel giorno del 50esimo anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Il giornale francese Le Monde, inoltre, ha pubblicato un appello firmato da decine di rappresentanti del mondo della cultura per il suo rilascio. Anche il governo di Kiev è tornato oggi a chiedere la liberazione di quello che ritiene un prigioniero politico. “Chiediamo ai nostri partner e alle organizzazioni internazionali di aumentare la pressione sulla Russia, per salvare Oleg Sentsov e tutti i prigionieri politici ucraini”, ha scritto su Twitter la portavoce del ministero degli Esteri di Kiev, Mariana Betsa. Amnesty International ha definito “stalinista” il processo a cui è stato sottoposto Sentsov - che ha la doppia cittadinanza russo e ucraina - e critiche a Mosca in questo senso sono state mosse anche da Ue, Usa e Londra. Chi sono i “prigionieri politici” nelle carceri russe da Naira Davlashyan euronews.com, 22 agosto 2018 Da 100 giorni il regista ucraino Oleg Sentsov, 42 anni, critico dell’occupazione russa in Crimea, è in sciopero della fame e non ha intenzione di interromperlo finché non saranno liberati tutti i prigionieri politici ucraini. Sentsov era stato arrestato il 24 maggio scorso e condannato a 20 anni di prigione con accusa di terrorismo. Ma chi sono questi prigionieri politici di cui chiede il rilascio? Lo stesso Sensov è uno di loro, considerato tale da numerose ong tra cui Amnesty e l’organizzazione russa per i diritti umani, Memorial. Secondo quest’ultima, ci sono almeno 183 persone dietro le sbarre nelle carceri russe per motivi politici e religiosi. Sergei Davidis, a capo del programma di supporto per i prigionieri politici, ha detto a euronews che il tipo di persecuzione più diffusa nella Federazione Russa è quella religiosa. I testimoni di Geova - Nel maggio 2017 le autorità russe hanno arrestato Dennis Christensen, testimone di Geova e cittadino danese. Il 46enne emigrato è stato fermato nella città di Orel, nella Russia occidentale, mentre leggeva la Bibbia insieme ad altri credenti. Nell’aprile 2017 la Corte suprema russa ha bollato i Testimoni di Geova come “organizzazione estremista”. La confessione cristiana è perseguitata nel paese e sono ben 22 “studenti biblici” sono ora in carcere per “aver compiuto attività estremiste”. Agli arresti domiciliari si trovano altri 9 di loro. Christensen è in carcere da circa un anno e mezzo, ma l’Associazione Europea dei Testimoni di Geova ha detto a euronews che non si fa illusioni, crede che la vicenda non avrà un esito positivo. “Ciò che sta accadendo nella Federazione russa si chiama persecuzione religiosa”, ha detto un rappresentante della comunità, Yaroslav Sivulsky. “Osserviamo il rifiuto totale della Federazione russa di rispettare i diritti umani, ovvero la libertà di coscienza e di religione”, ha aggiunto Sivulsky. Dopo la decisione della Corte Suprema russa, sono stati chiusi circa 400 filiali regionali dell’organizzazione religiosa e il suo bureau principale a San Pietroburgo. Human Rights Watch ha lanciato un appello per il rilascio di Christensen. Contattato da euronews, Paul Gillies, portavoce internazionale dei Testimoni di Geova presso la sede centrale di New York, ha così commentato: “Anche se per noi è impossibile prevedere se Dennis Christensen sarà rilasciato o meno, confidiamo nel fatto che non è colpevole di alcun reato legato alla sua attività di Testimone di Geova. Il fatto è che la sentenza della Corte Suprema ha liquidato solo le nostre entità giuridiche, le autorità russe hanno sostenuto che i singoli Testimoni di Geova sono liberi di praticare la loro fede”. I tartari della Crimea - Nell’inverno del 2016, sei persone, tra cui l’attivista per i diritti umani dei tartari di Crimea, Emir-Usain Kuku, sono state arrestate a causa della loro appartenenza all’organizzazione politico-religiosa Hizb ut-Tahrir, che dal 2003 è stata riconosciuta come organizzazione terroristica in Russia. Il gruppo è vietato in Russia ma è legale in Ucraina. Secondo l’accusa, il gruppo si sarebbe riunito per studiare a tenuto riunioni in cui hanno studiato la letteratura di Hizb ut-Tahrir, discusso le relazioni tra Russia e Ucraina e pianificato di rovesciare l’attuale governo. Da fantasmi a cadaveri: le sparizioni forzate nella Siria di Assad di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 agosto 2018 “Ci vorranno anni, forse non succederà mai. Ma io devo combattere perché i responsabili di questo massacro paghino per i loro delitti”. Anwar Al Bunni sa bene cosa significa essere un prigioniero di Assad. Nel maggio 2006 è stato in carcere per aver firmato un documento in cui si chiedeva al regime una riforma democratica. Una volta uscito di prigione nel 2011 la situazione era peggiorata ulteriormente. Era iniziata la primavera araba e il governo di Damasco stava per torturare e uccidere migliaia di persone, soprattutto giovani. Oggi che sono passati più di otto anni, Al Bunni non riesce a dimenticare. “Molti di loro non sono più tornati ma io ho ancora davanti agli occhi tutti i loro volti”, dice al Corriere della Sera. Al Bunni è un avvocato e con l’aiuto della ong tedesca European Center for Consitution and Human Right si batte per assicurare alla giustizia i colpevoli delle sparizioni forzate. Di recente il governo siriano ha notificato la morte di alcuni attivisti morti in stato di detenzione a Damasco. E ci si aspetta che a breve faccia lo stesso per Aleppo. Ma Al Bunni sa bene quanto questa sia solo la punta dell’iceberg e che il regime non ammetterà mai le sue colpe. Assad e i suoi uomini si sentono al sicuro da ogni tipo di condanna. “La Siria non ha firmato il trattato di Roma che crea la Corte Penale Internazionale dell’Aja, dunque nessun siriano può essere processato di fronte a questo tribunale. Ma se un domani qualche gerarca di Assad o il presidente stesso dovessero lasciare la Siria, beh allora le cose potrebbero cambiare”, spiega ancora il legale. Affinché però ci sia una possibilità di assicurare queste persone alla giustizia sono necessari dei mandati di cattura internazionali. Non tutti i Paesi permettono di spiccare mandati per persone che abbiamo compiuto crimini al di fuori della loro giurisdizioni. Ma ci sono delle eccezioni: la Germania è uno di questi. E proprio il giugno scorso la giustizia tedesca ha emesso un mandato per Jamil Hassan, capo dei servizi segreti di Damasco, accusato di “aver ucciso centinaia di persone tra il 2011 e il 2013”. Tra le denunce che Al Bunni ha presentato per arrivare a questo importante risultato c’è quella di Yazan Awad, 30 anni. Nel 2011 Awad era uno studente figlio di una ricca famiglia di Damasco. Lui e i suoi amici scendevano spesso a manifestare in piazza. Fino a quando viene arrestato. Le forze di sicurezza lo portano alla base di Al Mezzeh. Al Mezzeh è un nome che tutti i siriani conoscono e temono: già Assad padre la usava per rinchiuderci gli oppositori. Il carcere venne dismesso ma nell’adiacente base militare le torture sono continuate. “Mi hanno frustato, volevano sapere i nomi dei miei compagni poi mi hanno sbattuto in una cella con altre 180 persone”, racconta al Corriere della Sera Awad. Il peggio doveva ancora venire. “Al 36esimo giorno mi hanno messo una pistola in bocca e mi hanno obbligato a recitare la shadada (la dichiarazione di fede musulmana)”. Awad rivede alcuni dei suoi amici in carcere, alcuni di loro oggi non ci sono più. “Io non ho mai incontrato Jamil Hassan ma alcuni di loro sì. Ed è stato terrificante”. Grazie all’intervento della famiglia Awad viene liberato al 137esimo giorno e con l’aiuto di Al Bunni i suoi genitori riescono a farlo scappare in Germania. “Allora non lo capivo ma se fossi rimasto sarei morto”. In quegli stessi mesi, come dimostrerà nel 2015 un approfondito rapporto di Human Rights Watch basato sulle immagini fornite da Caesar, il disertore del regime che ha fornito al mondo le prove delle torture, migliaia di giovani sono scomparsi. Queste fotografie, in cui vengono mostrati i cadaveri identificati da un numero, rappresentano uno sforzo burocratico da parte del governo siriano di tenere il conto dei morti nelle prigioni. Caesar, il nome è di fantasia, era incaricato di documentare i decessi a partire dal 2011. Quando il disertore porta fuori le prove (oltre 55 mila fotografie e documenti), finalmente ciò che era un sospetto diventa una certezza. Le immagini dei corpi mostrano segni di sevizie terribili. È un pugno nello stomaco per l’opinione pubblica. Quelle foto, che vi mostriamo, fanno il giro del mondo. È sulla base di queste prove che Al Bunni e i suoi assistenti riescono a imbastire i casi. E non a caso hanno deciso di lavorare in Germania. Qui a causa del conflitto ha trovato rifugio un milione di siriani. Oltre alla ong tedesca, sono tante le associazioni per i diritti umani che si sono messe al lavoro in questi anni per fornire le prove dei massacri. Tra queste la Commission for International Justice and Accountability (CIJA), in italiano “Commissione per la Giustizia e la Responsabilità Internazionale”, che ha svelato la massiccia documentazione finora raccolta sulle torture e le esecuzioni di massa ordinate personalmente anche da Assad. A riportarne i dettagli è un’accurata inchiesta di Ben Taub per il New Yorker, che ha avuto accesso agli archivi della Commissione. Il direttore e fondatore della CIJA è William Wiley, canadese che ha lavorato in diversi tribunali internazionali di alto profilo, mentre il Capo del team investigativo è l’avvocato Chris Engels. La Commissione lavora da anni per raccogliere elementi e documenti sui crimini di guerra e contro l’umanità compiuti in Siria, avvalendosi della collaborazione di siriani che rischiano la vita per far uscire all’esterno migliaia di documenti dei vari servizi di sicurezza, d’intelligence e di polizia. Il risultato è un documento legale di 400 pagine in cui parla di “un record di torture sponsorizzate dallo Stato che è quasi inimmaginabile nel suo scopo e nella sua crudeltà”. L’ora più buia per la Cambogia: le elezioni del 29 luglio di Matteo Angioli Il Dubbio, 22 agosto 2018 Dal 26 luglio al 5 agosto una delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito (Prntt) è stata in missione nel sudest asiatico, precisamente in Tailandia e Cambogia, in occasione delle elezioni legislative tenutesi domenica 29 luglio in Cambogia. Elezioni che hanno consegnato una scontatissima vittoria al partito al potere. La delegazione della quale facevo parte come membro della presidenza del partito radicale era composta dal senatore Roberto Rampi, dal corrispondente dall’Asia di Radio Radicale Francesco Radicioni ai quali si è affiancato il Senatore giapponese Yukihisa Fujita che è anche presidente della Commissione Esteri e Difesa del Senato. La Cambogia è un paese di quasi 16 milioni di abitanti, formalmente una monarchia costituzionale parlamentare bicamerale. L’Onu la classifica come uno dei “Paesi meno sviluppati” ed è infatti ampiamente dipendente da aiuti stanziati da paesi terzi. La Cambogia è governata da 33 anni dalla stessa persona, il primo ministro Hun Sen, un ex khmer rosso fuggito dal paese nel 1977 e rientrato con il sostegno del Vietnam per rovesciare il regime di Pol Pot. Affermatosi abilmente e rapidamente negli anni dell’occupazione vietnamita della Cambogia, Hun Sen guida il paese ufficialmente dal 1985 con il suo Partito Popolare Cambogiano (Ppc) diventando quindi la figura di riferimento anche per gli Accordi di Parigi che nel 1991 siglarono, sotto egida Onu, il passaggio alla democrazia rappresentativa multipartitica, fissata nel 1993 con l’adozione della nuova Costituzione. Tuttavia, l’alternanza democratica non si è mai realizzata. Anzi, Hun Sen ha continuato ad occupare progressivamente il potere allargando il suo clan e inserendo sempre più pedine nei gangli dello Stato. L’opposizione si è raccolta attorno a Sam Rainsy, ex ministro delle Finanze negli anni 90 quando il governo era costituito da un’alleanza di partiti, tra cui quello del re, guidato da Hun Sen. Finita l’esperienza di ministro, Rainsy ha animato il Cambodia National Rescue Party (Cnrp - Partito Cambogiano di Salvezza Nazionale), incrementando in consensi di elezione in elezione, fino a raggiungere addirittura il 44% alle comunali dell’aprile 2017. Ed è stato a quel punto che il vento è cambiato. Nel febbraio 2017 Rainsy era già stato raggiunto dall’ennesimo provvedimento ad personam che lo aveva costretto a dimettersi dalla presidenza del Cnrp e a far ritorno in esilio a Parigi. Il suo successore, Kem Sokha è stato incarcerato il 3 settembre 2017 con l’accusa di collusione con potenze straniere per rovesciare il governo. Da allora attende di essere giudicato. Il 4 settembre 2017 il Cambodia Daily, principale quotidiano anglofono non asservito al regime è stato chiuso e con esso oltre 30 stazioni radiofoniche. Ma il colpo di grazia è arrivato il 16 novembre 2017 quando la Corte Suprema, con una sentenza politicamente motivata, ha messo al bando il Cnrp radendo al suolo quanto edificato in termini sociali e politici ed escludendolo quindi dalle elezioni del 29 luglio 2018. Giova sottolineare che il presidente della Corte Suprema è un membro del Partito Popolare Cambogiano. Sam Rainsy è iscritto al Partito Radicale da circa quindici anni, che ha permesso l’esistenza di una lunga collaborazione tra l’opposizione cambogiana e il Partito Radicale. Nel 2003 e 2008 il Partito Radicale è stato in Cambogia con due delegazioni guidate da Marco Pannella in sostegno della compagine di Rainsy. Da alcuni anni, non solo Sam Rainsy, ma l’intera (ormai ex) opposizione parlamentare e circa 200 attivisti della diaspora cambogiana in Europa sono iscritti al Partito Radicale. La nostra presenza voleva ribadire il sostegno al Cnrp nel momento più buio e difficile per l’opposizione e la democrazia in Cambogia e verificare sul terreno le condizioni generali in cui si sarebbero svolte le elezioni. La visita non è stata dunque una missione di osservazione elettorale. Ciò in linea con la decisione di Stati Uniti, Ue e Giappone di non inviare nessun osservatore elettorale a causa dell’esclusione dalla competizione elettorale del principale partito di opposizione, il Cnrp. Sono stati comunque presenti numerosi osservatori elettorali ufficiali, su invito del governo di Hun Sen. Secondo la National Election Commission (Nec) erano oltre 50.000, in gran parte provenienti da Cina, Russia, Singapore, Tailandia, Filippine, Myanmar, Kazakistan. E mentre, all’indomani del voto, questi paesi hanno salutato le elezioni come un successo democratico e si sono congratulati con Hun Sen, Stati Uniti, Ue, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, UK, Francia, Germania e Svezia, le hanno invece condannate definendole né libere né corrette. A Bangkok abbiamo incontrato alcuni rifugiati Montagnard, fuggiti alla continua oppressione esercitata dal governo di Hanoi nei confronti degli indigeni che abitano gli altopiani centrali del Vietnam, l’Ambasciatore italiano in Tailandia Lorenzo Galanti, Stephen Majors, vice- direttore del programma di aiuti Usaid nell’Asia del sud- est e, prima di recarci a Phnom Penh, due membri del Cnrp, l’ex deputato Long Ry e l’ex candidato al Senato Mounh Sarath. Sono due dei sei ex parlamentari rimasti in Tailandia che non hanno ancora lasciato il paese nonostante i pedinamenti e le pressioni con cui devono convivere. Entrambi sono convinti che una delle vie da percorrere per indebolire Hun Sen sia quella delle sanzioni mirate. Sanzioni cioè che colpiscano i singoli membri del governo e non la popolazione. Il 27 luglio la delegazione ha raggiunto la capitale cambogiana Phnom Penh ed è stata subito evidente la onnipresenza del partito di Hun Sen. Gli unici cartelloni e manifesti elettorali che si vedono sono quelli del partito al potere, il Ppc. Forme e dimensioni differenti che ritraggono il volto di Hun Sen e il simbolo del partito. Sono davvero rari, e comunque sempre di piccola dimensione, i manifesti degli altri partiti. L’incontro principale è stato con Teav Vannol, ex senatore del Cnrp, uno dei pochissimi ex legislatori che ha deciso di non lasciare la Cambogia. Su 66, ne sono rimasti soltanto 13. Siamo stati accolti nella vecchia sede del Cnrp, a due passi dal centro della città. Un edificio che impiegava circa cento persone e in cui per molto tempo hanno vissuto giorno e notte Sam Rainsy e Kem Sokha. Teav si è detto intenzionato a ricostruire l’opposizione, senza però entrare nei dettagli sul come data la situazione assolutamente avversa che si è venuta a creare nel paese. Altro incontro è stato col direttore Asia di Human Rights Watch Phil Robertson che ci ha informati anche della presenza di un’altra delegazione formata da circa 50 parlamentari europei, in carica ed ex, provenienti prevalentemente da paesi dell’est europeo, tutti i paesi del gruppo Visegrad, ai quali si devono aggiungere sette italiani, un francese e un britannico. Tutti appartenenti a formazioni di estrema destra e tutti invitati da una Ong filorussa denominata “Kian”. Per l’Italia erano presenti tra gli altri, Antonio Razzi, Andrea Dalmastro e Fabrizio Bertot. La delegazione, che sguazza in un mare d’ignoranza rispetto alle condizioni del paese, dell’opposizione e degli aiuti che l’Ue fornisce a questo paese, è stata ricevuta con tutti gli onori da Hun Sen e a fine missione ha espresso soddisfazione per la perfetta organizzazione e lo svolgimento delle elezioni. I sistemi approntati dal governo per incoraggiare la partecipazione e verificare che gli elettori andassero alle urne: buste di 5 dollari distribuite ai lavoratori del tessile e dell’immobiliare, sconti sull’acquisto di beni di uso quotidiano, minacce di sospendere lo stipendio per alcuni giorni. Un ex giornalista del Phnom Penh Post ci ha raccontato che per verificare che nei villaggi le famiglie avessero votato “correttamente”, funzionari e/ o militanti del Ppc spiegavano ad ogni nucleo familiare come votare ovvero: alcuni dovevano fare una X, altri una V, altri un cerchio, altri ancora un meno, una parentesi e così via. A fine giornata la Nec ha annunciato il dato di affluenza: 82%. Man mano che affluivano i dati sull’affluenza, su tre canali differenti, tra cui Tvk il principale canale pubblico nazionale, veniva trasmesso un “documentario” propagandistico di celebrazione del leader Hun Sen che ha mantenuto la pace nel paese, neutralizzando il piano destabilizzante dei traditori Rainsy e Sokha volto a portare la guerra civile in Cambogia per mano di potenze straniere e di bande di traditori, facinorosi e drogati. In quella che possiamo definire “l’ora più buia” per la popolazione, la democrazia e l’opposizione cambogiana da circa vent’anni a questa parte, il Partito Radicale era presente portando il proprio sostegno a coloro che continuano a credere in un possibile cambiamento nel paese, Cnrp in primis. Il governo ha presentato le elezioni come una grande prova democratica calcando molto la presenza degli osservatori internazionali da cui trarre legittimità. Poco importa se provenienti da Stati che nulla hanno a che vedere con lo stato di diritto e il rispetto di procedure elettorali democratiche. Così come importa poco se in Assemblea Nazionale 5- 10 seggi andranno ai partiti minori. Sarà un atto strumentale a mantenere in vita l’illusione di un sistema multipartitico. In realtà il partito-stato, il partito unico esiste già e si rafforza. Basta pensare che il Senato cambogiano è già monocolore. A questo punto, Hun Sen può apprestarsi a governare per almeno altri cinque anni in cui dedicarsi, tra le altre cose, alla transizione di potere al primogenito Hun Manet. L’operazione di sbarazzarsi dell’opposizione e accrescere il sostegno politico, economico e militare assicurato dalla Cina è riuscita in pieno. È su questo che si misurerà la capacità delle democrazie di innescare non solo in Cambogia, ma nell’intera regione del sud- est asiatico, dinamiche di promozione dei diritti politici, sociali ed economici. Sulla carta, la Cambogia ha una Costituzione, la separazione dei poteri, un parlamento, un processo elettorale, una Corte Suprema e così via, ma sono istituzioni e processi vuoti. Specie alla luce delle ultime elezioni, la Cambogia ha abbandonato il cammino della democrazia per divenire pienamente cleptocrazia in cui, per dirla con le parole del fondatore di Global Witness, Patrick Alley, alla tv australiana Abc: “Non accade niente che sfugga al loro controllo, è la corruzione nella sua forma più alta. Questa è la Cambogia, uno stato mafioso”. Questo deve preoccuparci perché le ripercussioni nell’intera regione del sud- est asiatico e oltre non mancheranno. La Cambogia è divenuta un’autocrazia, o peggio ancora una cleptocrazia, nonostante i decenni di aiuti forniti da Stati Uniti, Ue, Giappone e Australia, aiuti che oggi Hun Sen può permettersi di snobbare avendo riportato il suo Stato a gravitare pienamente nella sfera d’influenza cinese. In conclusione, occuparsi di Cambogia non significa occuparsi semplicemente di un piccolo stato dimenticato dell’Asia. Vuol dire occuparsi dell’intera regione del sudest asiatico, un territorio cuscino in cui si scontrano valori, principi e interessi tra Cina, Ue, Usa che si riflettono anche sull’Italia. Gli aiuti allo sviluppo dell’Ue hanno permesso di estrarre la popolazione dall’estrema povertà: secondo gli industriali europei il tasso di povertà in Cambogia è passato dal 53% dei primi anni 2000, al 14% di oggi. La cooperazione ha facilitato ai democratici come Rainsy il compito di ritagliarsi spazi di lotta sempre maggiore per rivendicare diritti civili, sindacali, ambientali. L’Ue sapeva che il vento sarebbe cambiato ma non si è mossa per tempo. Oggi cambiare lo status quo è molto più complicato perché large fasce della popolazione sono divenute strutturalmente dipendenti dai nostri aiuti e la loro rimozione potrebbe essere davvero grave. L’intera regione è una zona cuscinetto attraversata da flussi di interessi politico- economici diversi e contrastanti tra Occidente e Cina. È una regione dove per un Myanmar che sembra fare un passo verso la libertà, vi è una Cambogia che regredisce nella dittatura. E in termini di libertà, osservando i membri dell’Asean, la tendenza è negativa. Nessuno dei dieci membri può considerarsi uno stato di diritto. Alcuni analisti parlano di “democrazie guidate” oppure di “democrazie controllate” che permettono una maggiore rapidità nel processo decisionale e quindi uno sviluppo e talvolta un ordine maggiore. Ma a quale prezzo? Quello di vivere in assenza di stato di diritto, per cui qualcuno sarà sempre al di sopra della legge.