Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti è a rischio di Ornella Favero* Il Dubbio, 21 agosto 2018 Gentili lettori, gentili amici di Ristretti Orizzonti, vi dobbiamo prima di tutto delle scuse per il ritardo con cui state ricevendo la nostra rivista (e comunque vi garantiamo che riceverete tutti i sette numeri previsti dall’abbonamento). Non era mai successo, in vent’anni di vita di Ristretti, un simile ritardo, e forse è il caso che ve ne spieghiamo le ragioni. A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni, a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto. Con l’obiettivo di togliere a Ristretti quella fondamentale funzione di “pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, che non è una nostra definizione, sono le parole di Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Per prima cosa purtroppo dobbiamo spiegare che questo “ridimensionamento” di attività, che ci hanno meritato la stima e l’apprezzamento di tanti in questi anni, per noi significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi in progetti importanti come quello di confronto tra le scuole e il carcere, Avvocato di strada, la preziosa Rassegna Stampa quotidiana che voi tutti conoscete, lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, un servizio che mettiamo a disposizione di tutte le persone detenute, aiutando così il lavoro degli operatori dell’Amministrazione, ma il rischio è anche maggiore, è quello di non farcela a sopravvivere e di dover chiudere l’esperienza di Ristretti, e non perché non funziona più, tutt’altro, ma perché qualcuno ha deciso che non gli piace e che va drasticamente ridimensionata. Qualche esempio di “ridimensionamento”? La Casa di reclusione di Padova è diventata in questi ultimi quindici anni un luogo da cui si fa davvero prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio. Protagonisti di questi percorsi sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione. E poi c’è il Comune di Padova, che crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. E c’era la Direzione della Casa di reclusione, che credeva all’efficacia di un progetto con al centro le storie di vita dei detenuti, e metteva al primo posto non la “visibilità” del carcere, ma il futuro dei ragazzi e quello che è più utile per fare con loro prevenzione. Ma oggi c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Insegnanti e dirigenti scolastici, invitati dal Direttore della Casa di reclusione il 28 giugno a esprimere la loro opinione, hanno affermato con convinzione che il senso di questa esperienza di conoscenza del carcere, che fanno i giovani studenti, sta soprattutto nei racconti di vita delle persone detenute, nel loro mettere a disposizione di questo progetto le loro storie perché i ragazzi capiscano dove nascono le scelte sbagliate, lo scivolamento in comportamenti pericolosamente trasgressivi, la voglia di imporsi con metodi violenti, che a volte inizia proprio negli anni della scuola. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente all’incontro, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo, importante e significativo, per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentire di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male. - Sette mesi ci abbiamo messo per ottenere di far venire qualche detenuto nuovo in redazione, eravamo rimasti in otto (grazie a Dio, qualcuno esce, in semilibertà, in affidamento, a fine pena, e qualcuno viene trasferito), c’erano moltissime richieste ed è stato lungo e faticoso il percorso per ricostruire Ristretti Orizzonti, ma quello che è più faticoso è far riconoscere il valore di quella minima autonomia della redazione nell’organizzare il proprio lavoro, scegliendo i temi da trattare, gli ospiti da invitare, le iniziative da organizzare. Quello che vorremmo è semplicemente avere ospite in redazione anche il nuovo direttore, e poterci confrontare su una idea di carcere, in cui le persone detenute abbiano spazi significativi di libertà e di decisione, e non vivano più la condizione per cui se qualcosa gli viene dato, si tratta sempre di una “concessione”, di un beneficio, di un “regalo”. - La rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate, di recente anche a Sollicciano, era stata approvata dal precedente direttore, su proposta di Ristretti, anche per Padova, c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge (ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?). E subito dopo la nuova Direzione ha dato vita a una “rappresentanza per estrazione” (che neppure dovrebbe essere chiamata rappresentanza) di 20 detenuti, che non si capisce dove trovi la sua legittimazione nella legge (che allora, a voler essere precisi, prevede solo l’estrazione di rappresentanti in diverse commissioni, e non di rappresentanti di sezione). Uno strumento di autentica democrazia è stato bocciato, come se invece di un serio lavoro per preparare le persone detenute a occuparsi degli interessi di tutti, si trattasse di fare le elezioni del Presidente degli Stati Uniti e mettere in piedi una gigantesca macchina elettorale. - E ancora, ci è stato comunicato con un brevissimo messaggio della Direzione che il progetto Mai dire mail, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori, tutor universitari, e per il quale attendiamo da mesi una risposta sul rinnovo della convenzione che abbiamo sottoscritto con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Provveditorato, veniva sospeso dall’1 agosto, proprio per una serie di obiezioni sollevate dal Provveditore stesso, a cui abbiamo puntualmente risposto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per confrontarci e cercare di evitare questa sospensione, dannosa per le persone detenute, per le loro famiglie e anche per l’Amministrazione stessa, ma si è preferita la strada di bloccare il servizio. Quello che chiediamo è che Mai dire mail possa continuare, visto che niente è cambiato dall’autorizzazione che ha dato l’Amministrazione, soprattutto in un periodo delicato come questo, in cui il clima pesante che si respira nelle carceri rende ancora più importante il supporto esterno di famigliari e amici. Allora, in un momento così difficile per noi, ma anche per tutto il mondo che gravita intorno alle carceri, con il sovraffollamento sempre più a livelli di guardia, e la perdita di tante speranze, legate alla mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e i suicidi che in questi giorni riempiono le cronache, vi chiediamo di sostenerci, di appoggiare le nostre battaglie, di CREDERE NEL NOSTRO GIORNALE E ABBONARVI, nonostante i ritardi, nonostante la stanchezza che riempie tutti noi, che abbiamo creduto nel cambiamento e ci ritroviamo invece a fare pesanti passi indietro e a dover difendere con le unghie e con i denti anche le poche conquiste di questi anni. *Redazione di Ristretti Orizzonti Lettera di solidarietà della Camera Penale di Padova di Annamaria Alborghetti* Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2018 Il Notiziario Quotidiano dal Carcere pubblica oggi un’accorata lettera di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, nonché Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia. Una delle realtà più conosciute e importanti del panorama carcerario italiano sta vivendo un’inspiegabile ridimensionamento, anzi, oserei dire, sgretolamento, delle attività e dei progetti portati avanti all’interno della Casa di Reclusione e che da anni costituiscono un passaggio fondamentale nel percorso trattamentale volto alla rieducazione dei detenuti, così come previsto dall’art. 27 Cost. Come avvocati abbiamo avuto modo di verificare e apprezzare di persona l’utilità di tali progetti, la forza del cambiamento che portano in sé e il positivo coinvolgimento di tutti: detenuti, operatori, polizia penitenziaria e il mondo “fuori”. Ornella Favero ricorda le parole del dr. Piscitello, direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del DAP che ha definito Ristretti “pungolo dell’Amministrazione Penitenziaria, senza il quale l’Amministrazione Penitenziaria spesso dormirebbe”. Ci auguriamo che in un momento così difficile per il pianeta carcere, con la crescita progressiva del sovraffollamento, il numero sempre più preoccupante di suicidi, le delusioni per la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario, non venga dispersa e vanificata una risorsa così importante, da tutti riconosciuta, quale è sicuramente Ristretti Orizzonti. *Avvocato, Responsabile Commissione Carcere Camera Penale di Padova “Francesco de Castello” Legnini (Csm): tutte le riforme sbagliate del governo gialloverde di Federico Ferraù ilsussidiario.net, 21 agosto 2018 Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, è intervenuto ieri al Meeting di Rimini su “Le ingiustizie e la giustizia”. Legnini è a fine mandato: la consiliatura termina il 24 settembre. “Per una felice coincidenza” - ricorda - “la scadenza coinciderà con il giorno del 60esimo dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Csm. In quella data terremo un plenum, presieduto dal Capo dello Stato, nel quale daremo conto delle cose fatte”. Nel frattempo Legnini avverte il governo: “prima di rimettere mano a discipline appena introdotte bisognerebbe valutarne l’efficacia”. Lei ha parlato di deriva correntizia... Un rischio immanente nel funzionamento del Consiglio perché il Csm è un organo elettivo, democratico e collegiale. La volontà si forma attraverso il voto. Le correnti svolgono un ruolo importante nell’elaborazione culturale e di politica giudiziaria, meno in alcune decisioni consiliari perché a volte manifestano una tendenza autoreferenziale e corporativa. Dov’è esattamente il punto in cui la libertà associativa degenera in qualcosa d’altro? Accade quando lo spirito di appartenenza prevale su valutazioni oggettive e di interesse più generale. È un rischio che è appunto connaturato al carattere democratico dell’organo, scelta giusta voluta dai padri costituenti, che io difendo perché l’organo di governo della magistratura italiana costituisce un modello per molti altri Paesi democratici. Il modo per attenuarlo o superarlo? Una riforma della legge elettorale? Ne sono state cambiate diverse nel corso dei decenni. È un tema che non mi appassiona, sarebbe come dire che la qualità del Parlamento dipende solo dal sistema elettorale. Il punto fondamentale per il buon funzionamento del Csm è la trasparenza, la pubblicità degli atti, il rispetto rigoroso dell’obbligo di motivazione nelle scelte. Ora è tutto pubblico? E pubblico tutto ciò che la normativa primaria e secondaria non qualifica come segreto. Sulla pubblicità molto si è fatto ed altro rimane da fare. Se i componenti, laici compresi, sanno che le motivazioni del loro voto saranno conoscibili da tutti, come per larga parte è già oggi, penso che ciò possa rappresentare un argine alle pratiche correntizie non corrette. Come valuta le elezioni del nuovo Consiglio? Davigo è stato il primo degli eletti, ma la novità è stato il boom di Magistratura indipendente... Mi sono autoimposto di non commentare la competizione elettorale. Si può dire che c’è un sostanziale equilibrio tra le tre principali componenti, con una marcata redistribuzione di eletti dalla componente di sinistra verso quella più moderata. Ciò che conta comunque è la qualità degli eletti, che è elevata. In passato il centrodestra rimproverava ai magistrati di sinistra di essere “giustizialisti”, oggi al governo c’è una forza “giustizialista”. Che cos’è il giustizialismo? Anche questo è un tema antico che può essere declinato in modi diversi. La mia opinione è che si tratta di una visione, e non mi riferisco alle idee di quella che lei chiama forza giustizialista al governo, antitetica o distante dalla cultura delle garanzie e del rispetto dei diritti di tutte le parti nel processo. Una visione pan-penalistica che fa sua un’idea di giustizia sommaria anticipata e per questo non può essere condivisa. Il programma del ministro Bonafede? Faccio una premessa. Si tratta di intendimenti che non sono accompagnati da articolati analitici e di dettaglio ed è quindi giusto che il giudizio lo si dia sui testi che saranno proposti. Il nuovo Consiglio non mancherà di farlo. Detto questo, osservo che l’elenco dei temi e delle intenzioni scritte nel contratto di governo non è molto diverso da quello di altri governi che si sono alternati negli ultimi 20 anni. Tranne che su alcuni punti. Un esempio per tutti: rendere più efficiente la macchina dei processi... Un obiettivo di tutti i governi, appunto, che non si può non condividere. Altri propositi sui quali invece non è d’accordo? La volontà di intervenire sulla legittima difesa, o quella di abrogare la depenalizzazione di alcuni reati. Prima di rimettere mano a discipline introdotte da poco bisognerebbe valutarne l’efficacia. Si tratta di di un metodo che tiene in conto la necessità di salvaguardare la stabilità della legislazione, che è un valore positivo per l’efficienza del sistema giudiziario. Lo stesso ministro Bonafede lo ha sottolineato, ferma comunque l’ovvia legittimità delle diverse opzioni politiche su alcuni temi sensibili. Quali punti andrebbero posti sotto osservazione secondo lei? In materia di corruzione, il cui contrasto costituisce una priorità assoluta, negli ultimi anni sono state inasprite le pene, introdotta la disciplina di tutela del dipendente pubblico che la denuncia, aumentata la durata della prescrizione, introdotte misure di prevenzione estese come quelle che fanno capo all’Anac. Si tratterebbe prima di valutarne l’efficacia e poi, nel caso, di intervenire con altre riforme. C’è una riforma dell’ordinamento penitenziario comprensiva della disciplina delle pene alternative approvata dal precedente governo. Bonafede intende abbandonarla... Su questo la mia posizione è netta e coincide con quella espressa dall’intero Consiglio uscente: eravamo e siamo favorevoli a quel progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario e quindi siamo contrari a che lo si abbandoni. Occorre favorire il ricorso più esteso possibile a misure alternative alla detenzione, al lavoro dentro e fuori dal carcere, ad ogni altra misura di rieducazione e reinserimento sociale. E non c’entra la certezza della pena, esigenza che condivido. È in gioco invece l’efficacia rieducativa della sua esecuzione e i principi di umanizzazione nel solco delle disposizioni costituzionali. La legittima difesa? Uno degli aspetti più singolari, ignorato nel dibattito pubblico sul tema, è che la disciplina attuale fu introdotta nel 2005-2006 dal Governo Berlusconi. Il ministro della Giustizia era Roberto Castelli della Lega. I motivi di quella riforma erano gli stessi di cui oggi si discute. Eppure all’epoca le modifiche introdotte al codice penale, che pure furono criticate dalle opposizioni, consentirono di garantire un equilibrio accettabile tra i valori in gioco. La legittima difesa è oggi ampiamente esercitabile con i vincoli della proporzionalità della reazione e dell’attualità della minaccia. Perché cambiarla? Dove sta il rischio? Nel voler annullare o fortemente comprimere la valutazione sulla proporzionalità che spetta al giudice caso per caso. Ho molti dubbi che la sua soppressione sia conforme ai principi costituzionali ma, ripeto, senza un testo definito è difficile esprimere un giudizio compiuto. Il Meeting di Rimini ha sempre riservato grande attenzione al tema della giustizia. Può dirci qualcosa sulla sua relazione? Sono interessato a promuovere una riflessione sul cambiamento della domanda di giustizia conseguente al manifestarsi di nuove ingiustizie e diseguaglianze. In questi anni, infatti, sono cresciuti alcuni fenomeni, penso all’immigrazione, alle disuguaglianze sociali, al rischio immanente di violazione di diritti fondamentali quali la riservatezza personale, che generano nuove domande che si rivolgono alla giurisdizione. Il nostro sistema giudiziario è adeguato a farvi fronte? Lei cosa risponde? Che sta mutando la funzione del giudice nell’ordinamento e nel rapporto con la società. E che è in gioco il primato della legge. In passato le norme riuscivano a contenere i fatti, a prevederli, adesso questa funzione è in crisi e troppo spesso i fatti della vita anticipano e superano la capacità previsiva della leggi. Un tema che mette in discussione anche il principio della divisione tra i poteri e che carica di nuove responsabilità la giurisdizione. Un esempio? Gli effetti della rivoluzione digitale. Il legislatore è costretto a rincorrere l’evoluzione della tecnica senza grandi successi. Con la conseguenza che i conflitti si scaricano sulla giurisdizione. La soluzione è tecnica o politica? Occorrono un recupero di autorevolezza della politica e un’adeguata istruttoria tecnica delle norme che vengono emanate. Se non si agisce su ambedue le sfere, i risultati sono inesorabilmente negativi. Un bilancio della sua gestione? Dal mio punto di vista positivo. Abbiamo prodotto una pressoché integrale riforma delle norme di funzionamento del Consiglio e di quelle che orientano l’esercizio delle funzioni costituzionali del Csm. Poi interventi estesi e senza precedenti in materia di organizzazione degli uffici giudiziari; le molteplici circolari e linee guida saranno racchiuse in un testo unico che presenteremo il mese prossimo. Molteplici e nuove sono state le iniziative di apertura verso altre istituzioni e tutte le giurisdizioni anche europee. Al plenum del 24 settembre daremo conto dei risultati conseguiti, i cui effetti sarà il tempo a valutare. Il suo vero nome è “ legittima offesa” e va subito fermata di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 agosto 2018 L’appello dell’associazione Antigone: raccolte 26mila firme. “Fermiamo la legge sull’illegittima offesa”, è questo il nome della petizione lanciata prima di ferragosto dall’associazione Antigone, che da oltre venti anni si occupa di carcere, diritti umani e lotta alla tortura. L’iniziativa ha già raccolto oltre 26mila firme. L’obiettivo è comunque di arrivare almeno a 35mila, da consegnare alla riapertura delle Camere a tutti i gruppi parlamentari. Per i promotori, le norme in discussione delegittimerebbero “il lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura”, legittimando invece “l’omicidio”. Sempre secondo i proponenti, se questa proposta diventasse legge “porterebbe ad un incremento del numero di armi in circolazione, a scapito della sicurezza di tutti i cittadini”. “Non c’è bisogno di alcuna modifica, essendo l’attuale legge, modificata nel 2006, più che sufficiente”, aggiungono infine gli organizzatori della petizione, invitando il Parlamento ad “opporsi” al testo in discussione. A tal proposito, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede prima della pausa estiva aveva aperto ad un intervento del Governo, al fine di “eliminare le zone d’ombra dell’attuale normativa”. “Si vedrà se un provvedimento per la revisione della materia avverrà attraverso progetti di origine parlamentare o iniziative legislative governative”, aveva aggiunto, cercando di far sentire anche la voce del M5S su un riforma fortemente voluta dai partiti che un tempo componevano il centrodestra: Forza Italia, Lega e FdI. A dare man forte al Guardasigilli, Francesco Urraro, senatore pentastellato della Commissione giustizia di Palazzo Madama, secondo cui “in considerazione della delicatezza, della complessità e dell’impatto a livello sociale è necessaria un’analisi approfondita delle norme esistenti, dei testi presentati, con saldi riferimenti nella giurisprudenza”. Approfondimenti che, per il vicepresidente forzista della Camera Mara Carfagna, erano stati subiti letti “come un insulto al programma votato dalla stragrande maggioranza degli italia- ni alle ultime elezioni, quello del centrodestra”. Per l’ex ministro delle Pari Opportunità, “il testo presentato da Forza Italia è estremamente approfondito, è stato oggetto di accurata valutazione e resta il più equilibrato. Non è pensabile che la legge metta sullo stesso piano rapinatori e vittime”. Le modifiche proposte da Forza Italia traggono origine dalla Commissione “Nordio” per la riforma del codice penale. L’articolato opera su due livelli: mentre nell’attuale impianto la legittima difesa è inquadrata fra le scriminanti, nel nuovo verrebbe trasforma in un diritto, ovvero il “diritto di difesa”. Inoltre, si introdurrebbe l’obbligo per lo Stato di tenere indenne da tutte le spese del procedimento penale la persona che venga indagata per avere esercitato il diritto di difesa. La nuova legittima difesa diventerebbe un diritto soggettivo definito nei suoi limiti dal duplice requisito dell’attualità del pericolo e della non manifesta sproporzione fra l’offesa e la reazione. La difesa sarà legittima a meno che si dia prova che la reazione sia stata manifestamente sproporzionata rispetto all’offesa. La persona aggredita potrà essere punita solo laddove esorbiti in modo conclamato dai limiti dell’autotutela. La difesa sarà “eccessiva” solo in casa di esorbitanza manifesta. L’intento è quello di tenere conto del fatto che la vittima si viene a trovare in una situazione emergenziale che non sempre consente di giudicare con piena razionalità gli esatti limiti della reazione. La parte più dibattuta riguarda l’esercizio del diritto di difesa nel domicilio, con l’introduzione della “presunzione” del diritto di difesa, eliminando il limite della proporzione. La norma “Far west”, come dicono i critici, quella che autorizza a sparare contro chiunque si introduca nella proprietà privata. Una modifica quest’ultima che, per il presidente dell’Anm Francesco Minisci, “legittima di sparare a chiunque: se togliamo la proporzionalità e non facciamo accertamenti rigorosi, c’è il rischio concreto di una giustizia fai da te”. La giustizia, grande conquista di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 agosto 2018 A Genova si cerca un colpevole. Millenni sono trascorsi e non c’è più un Dio che punisce dall’alto, ma si delegano dei giudici a intraprendere indagini, il più possibile obiettive, per redigere una sentenza. Un ponte bellissimo sospeso per aria, un ponte che attraversa una città si spezza in due come un biscotto. Prime reazioni: cerchiamo il colpevole!. Ma il colpevole non si trova. Aspettiamo, dice una voce saggia, che si chiariscano le cose di queste terribile vicenda. Ma non si vuole aspettare. Quale occasione per incolpare chi ha governato prima! Attendere che la magistratura faccia una ricerca approfondita, trovi le prove e i testimoni porta via tempo, e invece bisogna subito dare addosso ai gestori i quali danno addosso ai controllori, che a loro volta se la prendono con le maestranze. Ho sentito un prete dire in televisione: “Solo Dio sa quello che fa, la morte è un mistero, e solo lui può consolare e abbracciare chi piange”. C’è in questa tesi qualcosa di minaccioso, come dire che c’è un Dio feroce che vuole vendicarsi dell’offesa subita: di offese ce ne sono tante: la debolezza della fede, l’arroganza umana, ecc.. Il Dio della Bibbia si vendicava distruggendo intere citta senza distinguere fra colpevoli e innocenti, come fece con Sodoma e Gomorra. Ma i millenni sono trascorsi e certamente una delle più grandi conquiste dell’umanità è stata quella di separare la vendetta dalla giustizia. Non c’è più un dio che punisce dall’alto, ma si delegano dei giudici a intraprendere indagini, il piu possibile obiettive, per redigere infine una sentenza. È vero che la giustizia ha i tempi lunghi e questa è un’altra ingiustizia, ma è sempre meglio della vendetta che è arbitraria e violenta. Direi che fra le più gravi manchevolezza di un paese anarcoide e intollerante verso ogni legge come il nostro c’è proprio la mancanza di un controllo serio e attento sulle grandi imprese pubbliche. Abbiamo ottime leggi che non vengono applicate perché mancano i soldi, dicono, manca il personale. Ma la verità e che i controlli creano nemici e nessun politico vuole farsene carico. E così si lascia l’iniziativa al buon senso del privato. Ma il privato troppo spesso trascura il buon senso per lucrare, soprattutto quando i controlli sono carenti. La cronaca ce lo racconta ogni giorno: gente che per risparmiare usa sabbia di mare costruendo case che crollano alla prima scossa di terremoto, gente che getta rifiuti pericolosi nei laghi e nei fiumi, gente che per non pagare le tasse utilizza lavoro nero, frodando oltre che lo Stato, anche i propri concittadini. Per questo i controlli sono la pratica più importante di uno Stato moderno ed efficiente. I controlli fra l’altro creano quella prudenza che dovrebbe nascere dal senso civico che tropo spesso latita nel nostro bellissimo paese. Esecuzione delle pene detentive: traduzione allo straniero dell’ordine di esecuzione Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2018 Ordine di esecuzione - Obbligo di traduzione al condannato alloglotta - Omissione - Conseguenze - Ipotesi di cui all’articolo 656 comma 5. L’ordine ex articolo 656 c.p.p., destinato alla carcerazione immediata del condannato, deve essere tradotto nei confronti dello straniero alloglotta nella lingua a lui nota, a pena di nullità. L’eventuale declaratoria di nullità non si ripercuote, di per sé, sulla carcerazione ormai instaurata, che non dipende direttamente dall’atto nullo ma trova autonomo titolo giustificativo nella condanna passata in giudicato. Diverso esito si imporrebbe nell’ipotesi regolata dall’articolo 656 comma 5 c.p.p.: qui a fronte di pena residua espianda contenuta entro i limiti stabiliti, l’ordine di esecuzione (assieme al decreto di sospensione che in tal caso vi accede) si atteggia ad autonomo presupposto di specifici diritti e facoltà in capo al condannato, da esercitarsi prima della materiale carcerazione (mediante la presentazione delle istanze di misura alternativa), in grado di essere irrimediabilmente pregiudicati dai vizi dell’ordine stesso, anche ad esso immanenti; vizi che dunque si si ripercuoterebbero sulla regolarità dell’espiazione che fosse ciò nonostante intrapresa. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10 maggio 2018 n. 20768. Esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali - Ordine di esecuzione - Obbligo di traduzione al condannato alloglotta - Omissione - Conseguenze. L’ordine di esecuzione di pena detentiva ex articolo 656 c.p.p. deve essere tradotto, a pena di nullità, nei confronti dello straniero alloglotta, nella lingua a lui conosciuta, salvo non risulti che egli comprenda la lingua italiana. La declaratoria di nullità importa senz’altro la necessità di rinnovare l’atto in modo conforme al modello legale (articolo 185, comma 2, c.p.p.); tuttavia, non si ripercuote, di per sé, sulla carcerazione ormai instaurata, che non discende direttamente dall’atto nullo ma trova autonomo titolo giustificativo nella sentenza di condanna passata in giudicato. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10 maggio 2018 n. 20768. Esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali - Esecuzione di sentenza di condanna a pena detentiva - Nei confronti di straniero - Traduzione del provvedimento - Pena nullità - Ratio. La traduzione nella lingua conosciuta dallo straniero alloglotta del provvedimento con cui il pubblico ministero emette l’ordine di carcerazione, in esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva, risponde alla necessità precipua di consentire al condannato di provocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità del titolo esecutivo e di metterlo, se del caso, in grado di esperire la procedura di cui all’articolo 175 c.p.c. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10 maggio 2018 n. 20768. Esecuzione - Pene detentive - Ordine di esecuzione - Traduzione per lo straniero alloglotta - Necessità - Omissione. Anche l’ordine di esecuzione della pena emanato ai sensi dell’articolo 656 c.p.p. è soggetto alle disposizioni di cui all’articolo 143 stesso codice in materia di traduzione degli atti destinati allo straniero che non conosca la lingua italiana. La traduzione non è però necessaria se dagli atti del procedimento di cognizione risulta che lo straniero capiva la lingua italiana. [Nella specie la Corte di merito correttamente e logicamente ha argomentato da più indicatori fattuali convergenti (relativi sia alla fase della cognizione che a quella esecutiva) la buona conoscenza della lingua italiana da parte del condannato, avendo costui diffusamente contraddetto le accuse in lingua italiana in sede di interrogatorio di garanzia]. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 27 novembre 2017 n. 53613. Esecuzione - Pene detentive - Ordine di esecuzione - Traduzione per lo straniero alloglotta - Necessità - Omissione - Conseguenze. È principio generale indiscutibile che gli atti processuali, significativi al fine di esercitare diritti difensivi, debbano essere tradotti all’imputato, o condannato, alloglotta che non conosca la lingua italiana. L’effettiva capacità dello straniero di conoscere a sufficienza la lingua italiana è, in concreto, questione di fatto rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e, quindi, non deducibile in sede di legittimità. La notifica dell’atto al difensore non può consentire di eludere la dovuta traduzione per il diretto interessato che detiene un diritto personale, non comprimibile, di conoscenza dell’ordine che lo riguarda (da lui impugnabile per diritto proprio). [Nella specie il Gip, in funzione di giudice dell’esecuzione, dichiarava la nullità dell’ordine di esecuzione spedito nei confronti del condannato in quanto non tradotto nella lingua araba, pur essendo pacifico in atti che il suddetto non comprendeva la lingua italiana poiché vi era stato l’ausilio di un interprete all’udienza di convalida ed il decreto di citazione per il giudizio immediato era stato tradotto]. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 27 maggio 2010 n. 20275. Per contestare l’auto-riciclaggio non serve il (solo) riutilizzo in attività legali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2018 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 9 agosto 2018, n. 38422. Per la contestazione del reato di auto-riciclaggio non serve che il bene che proviene dal reato presupposto sia poi utilizzato in un’attività economica lecita. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 38422della Seconda sezione penale. La pronuncia accoglie così il ricorso presentato dalla Procura contro la decisione del Tribunale del riesame, che aveva limitato l’applicazione di misure cautelari (limitandole alla sospensione interdittiva dal pubblico ufficio per un anno) nei confronti di un funzionario dell’amministrazione di giustizia che aveva realizzato, secondo l’accusa, una truffa ai danni degli utenti chiedendo un numero di valori bollati superiore al necessario, appropriandosi di quelli in eccesso. Il Riesame aveva sostenuto, in aderenza peraltro alla tesi del Gip, che la monetizzazione dei valori bollati integrava una condotta di impiego del bene provento del delitto idonea a dissimularne la provenienza illecita, ma, nello stesso tempo, era del tutto indimostrato l’ulteriore requisito della condotta costituito dall’impiego del medesimo bene in un’attività economica lecita. Una lettura che però la Cassazione non condivide. E lo motiva ricordando che la norma sull’auto-riciclaggio colpisce quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni commesse dallo stesso autore del reato presupposto che hanno la caratteristica di essere idonee a ostacolare concretamente la loro provenienza criminale. La norma, sottolinea la sentenza, nasce dalla necessità di evitare le operazioni di sostituzione da parte dell’autore del reato presupposto, limitando però la rilevanza penale a quei casi che comportano la reimmissione nel circuito economico finanziario o imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita con l’obiettivo, tuttavia, di ottenere un effetto dissimulatorio “che costituisce quel quid pluris che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile) da quella di nascondimento del profitto illecito (e perciò punibile)”. Semaforo rosso, così, secondo la Cassazione sia per la tesi difensiva secondo la quale la vendita del bene ottenuto con la truffa presupposta sarebbe l’unico modo per acquisire il profitto necessario a integrare il reato, sia per la posizione espressa dal Riesame, secondo la quale sarebbe necessario limitare l’ambito di applicazione dell’auto-riciclaggio all’impiego del provento in attività economiche perché, in caso contrario, potrebbe concretizzarsi una duplicazione sanzionatoria. Regge invece, almeno sul piano giuridico, perché poi su quello dei fatti toccherà al Riesame tornare a pronunciarsi, la linea dell’accusa per la quale il profitto della truffa è ottenuto dall’autore del reato con l’impossessamento dei valori bollati, mentre la reimmissione nel mercato dei valori stessi integra quell’elemento aggiuntivo richiesto dall’auto-riciclaggio solo se accompagnato dalla dissimulazione sulla provenienza dei beni che rappresenta l’ulteriore disvalore. Nella Rca deve essere risarcito anche il danno provocato con dolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2018 Corte di cassazione, Terza sezione civile, sentenza 20 agosto 2018 n. 20786. La copertura assicurativa si estende al danno provocato con dolo dal conducente. La persona danneggiata ha così diritto di ottenere il risarcimento dall’assicuratore perché non deve essere applicata la norma del Codice civile, articolo 1917, che, in materia di disciplina generale dell’assicurazione della responsabilità civile, esclude i danni derivanti da fatti dolosi. La determinazione di questo principio di diritto, che riconosce una specificità alla responsabilità civile da circolazione stradale, è stata raggiunta dalla Corte di cassazione con la sentenza 20786della Terza sezione civile, depositata ieri. La vicenda sulla quale è intervenuta la pronuncia della Corte aveva al centro la richiesta di risarcimento dei danni presentata dalla vittima di quello che si era rivelato essere tutt’altro che un incidente, quanto piuttosto un vero e proprio tentato omicidio, realizzato attraverso una manovra di retromarcia dolosamente eseguita. Se in primo grado la richiesta era stata accolta, la Corte d’appello aveva invece accolto l’impugnazione presentata dalla compagnia assicurativa, negando qualsiasi diritto al risarcimento. La Cassazione, tuttavia, accoglie il ricorso presentato dalla difesa dell’uomo, che aveva subito gravi danni a causa del reato, riconosciuto peraltro in sede penale, e rinvia per un nuovo esame alla Corte d’appello. La pronuncia di ieri muove da una premessa e cioè che la sentenza penale di condanna (nel caso quella di tentato omicidio) ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno sia sul versante dell’esistenza del fatto, sia su quello della sua rilevanza penale, sia su quello dell’attribuzione di responsabilità. La condanna, però, non è vincolante per quanto riguarda le valutazioni e qualificazioni giuridiche sugli effetti civili della pronuncia, come nel caso dei danni che possono essere alla base di una forma di risarcimento. Quanto all’altro punto affrontato dalla sentenza, la Cassazione mette in evidenza, con riferimento anche alla giurisprudenza comunitaria, la distinzione del rapporto tra assicuratore e assicurato, di solito confinato al campo privatistico e alla disciplina generale del contratto, dal rapporto tra assicuratore e danneggiato, che ha invece una fisionomia pubblicistica. Tanto più alla luce dell’allarme sociale provocato dalla gravità e frequenza degli incidenti provocati dalla circolazione dei veicoli. Ed è comunque una linea di tendenza del diritto europeo quella del riconoscimento dell’interesse prevalente del danneggiato. Da questa “cornice” la Cassazione conclude che l’articolo 1917 del Codice civile non costituisce “il paradigma tipico della responsabilità civile da circolazione e che per l’operatività della garanzia per la Rca è necessario il mantenimento da parte del veicolo delle caratteristiche che lo rendono tale sotto il profilo concettuale (...), risultando indifferente l’uso che in concreto si faccia del veicolo”. Indifferenza che, nella lettura della Corte, anche qui interpretando la disciplina comunitaria, si estende sino a ritenere che nella nozione di circolazione stradale indicata dall’articolo 2054 del Codice civile è compresa anche la posizione di arresto del veicolo. Nel caso esaminato peraltro, nel quale la vettura venne utilizzata come una vera e propria arma, investendo più volte la vittima, non c’è incertezza sul fatto che comunque si trattava di circolazione del veicolo. La sentenza comunque ricorda come la ricostruzione del sistema risarcitorio in vigore nel settore della circolazione dei veicoli preserva la facoltà della compagnia assicuratrice di rivalersi nei confronti dell’assicurato. Campania: carceri allo stremo, ci sono 1.300 detenuti in più della capienza di Nico Falco Il Mattino, 21 agosto 2018 Nel carcere di Poggioreale ci sono 700 detenuti in più rispetto alla capienza tollerabile, in quello di Secondigliano 380. Negli istituti campani sono stipate 1.249 persone oltre il limite, mentre il dato nazionale parla di quasi 8mila detenuti in eccesso. I numeri del sovraffollamento, aggiornati al 31 luglio 2018, cristallizzano una situazione sull’orlo del collasso, che col caldo estivo porta a un equilibrio ancora più precario. Le conseguenze sono quelle dell’escalation di proteste avvenute nelle ultime settimane tra i padiglioni di Poggioreale, e le condizioni di vita intollerabili avrebbero un forte ruolo anche nei suicidi registrati con frequenza allarmante nel carcere napoletano. Con ripercussioni anche sulla Polizia Penitenziaria, che deve fare i conti con un numero enorme di reclusi al fronte di risorse sempre più esigue. “Da giorni vanno avanti le proteste in alcuni padiglioni, specie nel “Livorno” - dice Ciro Auricchio, segretario regionale campano dell’Uspp - i detenuti manifestano per le condizioni di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere e per il trattamento, a loro dire violento, subìto ad opera degli agenti della Polizia Penitenziaria”. Il sindacalista, battendo sullo stesso tema su cui erano intervenute anche le altre sigle che riuniscono gli agenti della Penitenziaria, parla di “fallimento delle politiche penitenziarie imposte negli ultimi anni, basate sulla vigilanza dinamica e sul regime aperto, che hanno portato a uno stato di confusione e disordine”. “La legge prevede che la pena venga assicurata nel rispetto dell’ordinamento penitenziario, l’ordine e la sicurezza interni sono affidati alla Polizia Penitenziaria - conclude Auricchio - chiediamo estrema chiarezza e fermezza, non possiamo tollerare atteggiamenti di insofferenza alle regole e di sfida alle Istituzioni; se il nostro operato non verrà tutelato dai vertici regionali e nazionali dell’Amministrazione penitenziaria ci rivolgeremo al Ministro”. Le problematiche non si fermano al sovraffollamento e alla ristrettezza di spazi. Ieri mattina Samuele Ciambriello, garante per i detenuti della regione Campania, ha visitato il carcere di Poggioreale per controllare le condizioni dei reclusi. “Sono stato nel padiglione San Paolo - dice - dove i detenuti, tutti ammalati, da oggi hanno iniziato a non ritirare il vitto, e molti di loro nemmeno le medicine, per protestare contro le inadempienze sanitarie”. Successivamente Ciambriello, insieme a due volontari, ha incontrato il dirigente sanitario per farsi portavoce delle criticità lamentate nel padiglione. “Il diritto alla salute non può essere negato - continua - la sanità penitenziaria, da dieci anni, è regionale e non dipende più dal ministro della Giustizia. Molte celle non sono idonee, hanno bisogno di lavori di manutenzione. Visite specialistiche interne ed esterne, ricoveri, operazioni presso gli ospedali vengono svolte in condizione di costante emergenza”. Solo per il carcere di Poggioreale si stima che siano necessari almeno altri 250 agenti di Polizia Penitenziaria, mentre sul piano nazionale servirebbero circa 8mila nuove assunzioni. Nella principale casa circondariale napoletana risultano recluse 2300 persone (capienza 1600, 700 in più), a Secondigliano ce ne sono 1.380 (capienza 1.000, 380 in più). Nei 15 istituti campani il numero dei detenuti è di 7.410 (di cui 376 donne e 986 stranieri), al fronte di un capienza regolamentare totale di 6.161 persone: 1.249 in eccesso. Le altre regioni dove si registra una situazione critica per il sovraffollamento sono l’Emilia Romagna (728 tra 10 istituti), il Lazio (1.044 tra 14 istituti), la Lombardia (2.143 tra 18 istituti) e la Puglia (1.216 tra 11 istituti); in totale, con una capienza complessiva di 50.624 persone in 190 case circondariali, la popolazione carceraria è di 58.506 detenuti: 7.882 oltre il limite. Calabria: Garante dei detenuti, i Radicali sostengono la candidatura di Antonio Stango cn24tv.it, 21 agosto 2018 “Dopo la pubblicazione del relativo Bando lo scorso 6 giugno, il Consiglio Regionale della Calabria nelle prossime settimane sarà chiamato ad eleggere l’importante figura del “Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale”, finalmente istituito con la L.R. n. 1 del 29/01/2018. Il Garante - chiamato ad operare sull’intero territorio regionale “in piena autonomia e con indipendenza di giudizio” - dovrà essere eletto con deliberazione adottata a maggioranza dei due terzi dei Consiglieri. In mancanza di raggiungimento del quorum, dalla terza votazione, l’elezione avverrà a maggioranza semplice dei Consiglieri assegnati. Tra i candidati alla carica di Garante spicca senz’altro la figura del politologo Antonio Stango, presidente della Federazione per i Diritti Umani - Comitato Italiano Helsinki (Fidu), organizzazione non lucrativa di utilità sociale attiva dal 1987 che, appunto, promuove la tutela dei diritti umani stessi come sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Antonio Stango ha operato per i diritti umani fin dai primi anni Ottanta. La sua candidatura a Garante regionale può considerarsi una lusinga alla nostra Regione”. A darne notizia, con una nota, sono Giuseppe Candido e Rocco Ruffa - segretario dell’associazione radicale nonviolenta Abolire la miseria - 19 maggio il primo, e componente del Comitato Nazionale di Radicali Italiani il secondo, che, da anni, si spendono con visite ispettive o autorizzate dal Dap nelle carceri calabresi oltre che nel chiedere alla Regione, quando ancora non l’aveva fatto, proprio l’Istituzione dell’importante figura del Garante dei diritti dei detenuti. Come si legge nella nota, anche Candido ha presentato la propria candidatura alla carica di Garante ma, come lo stesso afferma, la sua è una “candidatura di servizio” e -come associazione di area radicale - loro sostengono quella di Antonio Stango. “Antonio Stango è il candidato ideale per questa figura”, sostengono infatti Candido e Ruffa. Che aggiungono: “Antonio Stango - storico militante del Partito di Marco Pannella - fin dagli anni Ottanta si è battuto contro le repressioni dei diritti in tutto il mondo, ha diretto ONG e progetti internazionali, svolto attività di monitoraggio in aree di conflitto e di crisi; ha inoltre collaborato come consulente con la Commissione e il Parlamento europei e con la Camera e il Senato italiani, ha organizzato decine di conferenze internazionali, condotto iniziative nonviolente in Stati totalitari e ha rappresentato il Partito Radicale Nonviolento, transnazionale e transpartito al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu a Ginevra”. “Negli anni” - ricordano ancora Candido e Ruffa “Stango ha partecipato a missioni in Romania, Albania, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Kirghizistan, Russia; per l’associazione Nessuno tocchi Caino di cui è membro del direttivo, ha guidato delegazioni in quattro Stati dell’Asia centrale e in quattro dell’Africa meridionale; e per varie Ong ha partecipato a quattro missioni a Cuba e due nel Kurdistan iracheno; per la Commissione Europea in Armenia, Russia e Tagikistan; per lo Euro-Mediterranean Human Rights Network ha organizzato una scuola estiva per i diritti umani in Libano; per Freedom House è stato per tre anni direttore in Kazakistan dello Human Rights Training and Support Program. Se ciò non bastasse a delineare Antonio Stango come figura qualificata, val la pena ricordare che, per E.C.P.M. (Ensemble contre la peine de mort) Stango è stato coordinatore del VI Congresso Mondiale contro la Pena di Morte, svoltosi ad Oslo nel giugno 2016. È stato membro dell’Executive Committee dell’International Helsinki Federation (1988-1992), oltre che tesoriere dell’associazione Radicale “Non c’è Pace Senza Giustizia” (1995-1996), membro del Consiglio Direttivo di Certi Diritti (2014-2015) e presidente della Lidu (dal novembre 2016 al 19 gennaio 2018). Senza dimenticare che attualmente è membro del Comitato scientifico di Foref (Forum Religionsfreiheit) ed è stato docente in corsi specialistici in Italia (SIOI, Roma Tre, Sapienza, Lumsa), Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Legato sentimentalmente alla Calabria, con il suo curriculum in favore dei diritti umani Stango ci onora con la sua candidatura ed è certamente una figura competente e imparziale, slegata dai partiti calabresi. Se il Garante” - concludono Candido e Ruffa “deve essere scelto tra “persone di specifica e comprovata formazione, competenza ed esperienza nel campo giuridico-amministrativo e nelle discipline afferenti alla promozione e tutela dei diritti umani o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale, con particolare riguardo ai temi della detenzione, e che offrano garanzie di probità, indipendenza e obiettività”, è evidente che Antonio Stango è il candidato ideale a ricoprire questa importante carica. Per ciò, oltre che - naturalmente - per il rapporto di amicizia che ci lega, come Associazione Radicale Nonviolenta Abolire la miseria - 19 maggio, pur avendo uno di noi presentato la propria candidatura, ci onoriamo di sostenere pubblicamente la candidatura di Antonio Stango alla carica di Garante Regionale per i diritti di tutte le persone private della libertà”. Napoli: detenuti in protesta, a Secondigliano e Poggioreale è emergenza internapoli.it, 21 agosto 2018 Il Garante regionale delle persone prive della libertà, Samuele Ciambriello si è recato in visita nell’istituto penitenziario di Secondigliano. Nell’istituto, diretto da Giulia Russo, sono presenti ad oggi 1.290 detenuti su una capienza ufficiale di 1.020 posti. La visita si è svolta nella sezione Adriatico (200 presenti), nell’Articolazione psichiatrica (18 presenti) e al SAI (78 presenti). “Come annunciato, ha dichiarato Samuele Ciambriello in questo mese che è tra i più difficili per chi si trova in carcere come per gli stessi operatori penitenziari, ho potenziato l’attività di vigilanza svolta dal mio ufficio. Devo rilevare subito, tra le note positive rispetto alla condizione di sovraffollamento che si vive in altri istituti, che qui i numeri e la tipologia di struttura consentono che la vita detentiva si possa svolgere in condizioni di rispettosa vivibilità”, ha spiegato Ciambriello. “Registro anche positivamente un regime di socialità a celle aperte che ritengo possa essere potenziato. Inoltre, si stanno attivando corsi universitari per circa 50 detenuti”, ha scritto ancora in una nota il Garante. “Ciò nonostante ha proseguito permangono delle situazioni di criticità, come l’assenza di doccia in cella nonostante siano previste dal 2000, e l’insufficienza delle risorse a disposizioni per garantire la manutenzione in alcune celle. Credo sia anche necessario si recuperino spazi per consentire, in particolare alle persone con sofferenza psichica, condizioni detentive che rendano possibile adeguati percorsi di riabilitazione. È necessario uno sforzo maggiore in termini di risorse umane e di capacità progettuale”. Da giorni vanno avanti nel carcere napoletano di Poggioreale le proteste dei detenuti di alcuni padiglioni, specie di quello denominato “Livorno”, fa sapere il sindacato Uspp (Unione Sindacale della Polizia Penitenziaria), che “manifestano per le condizioni di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere e per il trattamento, a loro dire violento, subito ad opera degli agenti della Polizia Penitenziaria”. Il sindacato Uspp, attraverso una nota del segretario regionale campano Ciro Auricchio, interviene sulla vicenda, parlando di “fallimento delle politiche penitenziarie imposte negli ultimi anni e basate sul regime aperto e sulla vigilanza dinamica”. “Chiediamo estrema chiarezza e fermezza, non potendo tollerare atteggiamenti di insofferenza alle regole e di sfida alle istituzioni” dice Auricchio. “Ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria sia regionali che nazionali chiediamo di intervenire al fine di impedire che l’operato del personale di Polizia Penitenziaria possa essere in tal modo diffamato e denigrato; altrimenti ci rivolgeremo al ministro”. “È evidente prosegue Auricchio che tale regime ha determinato uno stato di confusione e disordine. Tuttavia la legge prevede che la pena detentiva venga assicurata nel rispetto dell’ordinamento penitenziario e del regolamento interno con avvio di procedimento disciplinare ed eventualmente penale a carico di chi infrange tali regole. E tutto questo certamente non al fine di aggravare la condizione detentiva ma solo al fine di assicurare sempre secondo quanto prevede la legge l’ordine e la sicurezza interni. A tale compito prosegue Auricchio è preposta la Polizia Penitenziaria che è tenuta a garantire l’ordine interno ed il rispetto delle regole”. Cagliari: Sdr “detenuto in gravi condizioni di salute, incompatibile la detenzione” castedduonline.it, 21 agosto 2018 “L’impossibilità di gestire il grave disturbo respiratorio all’interno del Centro Clinico della Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta ha indotto i Medici a dichiarare l’incompatibilità per C.T., 58 anni, cagliaritano. Secondo i Sanitari, che hanno segnalato il caso alla Magistratura di Sorveglianza, l’uomo, più volte ricoverato per individuare e risolvere la problematica, ha necessità di un intervento gestibile solo in ambito ospedaliero”. Lo afferma in una dichiarazione Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che nei giorni scorsi si era fatta interprete delle ansie dei parenti e aveva segnalato il caso. “Sorprende sottolinea Caligaris che la struttura ospedaliera a cui è stato mandato il paziente privato della libertà non abbia da subito disposto un ricovero per programmare l’intervento anche in considerazione dell’esito della Tac. L’ultimo esame infatti ha escluso una neoplasia ma ha evidenziato una cisti purulenta che per poter trovare una positiva soluzione deve essere drenata. Il paziente detenuto infatti da alcuni mesi soffre, quasi senza tregua, di una tosse stizzosa che gli impedisce di riposare”. “Le preoccupazioni dei familiari sottolinea la presidente di Sdr sono accresciute anche in seguito alla consistente perdita di peso solo in parte compatibile con un normale disturbo broncopolmonare. Del resto anche l’impiego massiccio di antibiotici non ha sortito i risultati sperati. I Medici della struttura penitenziaria hanno quindi deciso di effettuare una serie di analisi pneumologiche. L’ultimo risultato è stato inequivocabile determinando la decisione di un ulteriore ricovero ma in condizioni di incompatibilità detentiva. L’auspicio è che al più presto si possa fare l’intervento per rimuovere la cisti purulenta e procedere con le cure più adeguate in Ospedale. Solo così si potrà restituire piena serenità al detenuto e ai suoi familiari”. Eboli (Sa): le parole dei detenuti del carcere modello di Amalia De Simone Corriere della Sera, 21 agosto 2018 La direttrice: “Così proviamo a tirare fuori il buono che c’è in ognuno di loro”. Dentro l’Icatt di Eboli, con le testimonianze dei carcerati: “Un luogo di recupero di cui siamo orgogliosi, anche se la sfida vera sarà il giorno che usciremo”. “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”. A Cesare Beccaria forse sarebbe piaciuto il carcere “Icatt” di Eboli. Un carcere che può cambiarti la vita, ad ascoltare la maggior parte dei detenuti e degli ex detenuti. Un castello medioevale dove solo le sbarre alle finestre ti restituiscono l’idea di un luogo di detenzione. All’esterno ci sono giardini, giostrine, un campo di calcio e una chiesette con degli affreschi che i detenuti descrivono con dovizia di particolari, curiosità e riferimenti storici. “Ho aperto un po’ di libri di storia dell’arte perché è giusto sapere le cose dei posti in cui si vive, anche se si tratta di un penitenziario spiega Fabio - sto qui da 14 mesi e in carcere sto da tre anni e quattro mesi. C’è un’enorme differenza con gli altri istituti di pena. Più che un carcere noi diciamo che è un luogo di recupero per me, per noi stessi perché possiamo svolgere varie attività mentre in un carcere ordinario la tua giornata la passi chiuso in una stanza”. “È bene sottolineare che questo tipo di carcere è rimasto l’unico in tutta Italia per la sua tipologia spiega Rita Romano, coraggiosa, amatissima ed energica direttrice - Qui si realizzano programmi di recupero per le persone che ci vengono affidate e che noi riusciamo a restituire alla società emendate”. Entrando nella struttura ci sono gli uffici, la biblioteca, la sala studio, la sala musica, il teatro, la palestra, i laboratori di artigianato e le cucine. Tutti gli spazi si raggiungono attraverso dei corridoi affrescati con dei bellissimi murales. Quanti libri hai letto? “Da quando sono qui ne ho letti alcuni. Anche uno che ha scritto un boss che conosco”, dice Giuseppe. E non pensi che ti abbia dato un esempio cattivo, che ti abbia affascinato con il male? “È andata proprio così, lui rappresentava un mito d eguagliare e invece mi portato a sbagliare tutto”. Nel laboratorio di pasticceria c’è una distesa di vassoi pieni di bignè e torte. Qui si realizzano tanti dolci della tradizione partenopea e grazie ad un progetto che si chiama “notti galeotte” i detenuti riescono perfino ad offrirle al pubblico organizzando delle vere proprie serate. È un occasione per mostrare cosa hanno imparato nel corso di questi laboratori e per proporsi alla società per delle opportunità lavorative una volta lasciato l’istituto di pena. All’Icatt si realizzano anche altri progetti come il giornalino mensile “diversamente liberi” a cura di Vitina Maiuoriello, dell’associazione “Mi girano le ruote”. L’avvocato Paola de Vita si occupa invece di diffondere la conoscenza dei diritti umani e delle convenzioni internazionali attraverso i progetti “mi rispetto se ti rispetto” e “Pusher di cultura” con anche incontri con studenti delle scuole. L’obiettivo è il cambiamento e il riscatto sociale che passa per lo studio e il confronto. Giovanni passa molte ore della sua giornata in palestra. Aiuta i suoi “colleghi” con esercizi e attrezzi. “È da quando ero un ragazzino che vengo in carcere. Ho cominciato con le rapine a 14 anni. Sono già 4 anni ora che sono dietro le sbarre e ora ho proprio voglia di uscire, di dimostrare qualcosa. Mi sento più maturo e voglio darmi una possibilità. Lo so che la giungla è fuori ed è quando si esce che si valutano le cose ma mi mancano solo 18 mesi e ho una voglia incredibile di confrontarmi con la vita. Non sono sposato e non ho famiglia perché non ho mai avuto il tempo di fare nulla essendo spesso stato dietro le sbarre. Vorrei fare mille cose e vorrei anche parlare ai ragazzini di oggi ma non saprei come: oggi vedo quindicenni in situazioni molto più grandi di loro. Si mettono già con una pistola in mano. Oggi si muore per niente e allora che cosa potrei dire a questi ragazzi di oggi... forse niente. Si devono salvare, devono capire che non devono fare la fine che abbiamo fatto noi qui dentro e non abbiamo poi visto nulla della vita”. Anche Mariano ha passato più di metà della sua vita in carcere. È detenuto dal 2009 e deve scontare altri cinque anni. “Passi le giornate in questo carcere e ti illudi di stare bene in realtà stai bene perché fai tante cose e impari molto. Io sono stato nel carcere di Poggioreale prima e quindi stare qui mi sembra una possibilità incredibile”. Giuseppe ha da scontare un cumulo di piena di 17 anni. Ha girato gli istituti di detenzione di tutta la Campania quando era minore e poi successivamente, da grande è stato in mezza Italia e anche all’estero. “Se sono cambiato potrò dirlo solamente nel momento in cui metterò piede fuori da questo carcere. Posso dirti però che un figlio di vent’anni ed io me ne sono fatti 14 di carcere. Questo significa che mio figlio non l’ho mai cresciuto. Ho degli altri bambini e anche una piccolina che quando viene qui va sulle giostrine e mi fai illudere che venga trovare il papà che lavora lontano e che poi le dà la possibilità di giocare come tutti gli altri bimbi. Questo ti riconcilia con la vita che ti fa capire tutto quello che hai perso. La direttrice che amiamo tutti ci fa fare gli incontri con le famiglie da vicino, cioè possiamo abbracciarci, cosa impossibile altrove. La domenica ci fa mangiare tutti insieme quello che abbiamo cucinato e ci sembra tutto normale, anche se poi di fatto non lo è”. Aniello dice che di 14 anni che si è fatto di carcere è la prima volta che viene un istituto così e si sente orgoglioso di essere stato accettato. Lui è figlio di un boss della camorra condannato all’ergastolo. “Mio padre è detenuto dal ‘92. L’ho visto poco e questa per me è una sofferenza che non so descrivere. Ho quattro bambini, penso che la cosa più forte che deve cambiarmi la vita (nel senso di non delinquere più) sono proprio i miei figli. Quello che ho vissuto e di cui mi porto dietro le conseguenze mi fa capire anche il significato della parola e del sistema “camorra” oggi. Io lo posso dire: non è niente non ti dà niente e ti togli solo la vita”. Giuseppe era un ragioniere di buona famiglia. Ha una condanna abbastanza lunga da scontare per delle truffe allo Stato ma questo carcere gli ha dato una possibilità: gli fa maneggiare soldi nonostante il tipo di reato che ha commesso e così lui gestisce i conti correnti dei detenuti. “Mi piacciono tanto i colori di questo carcere spiega - questi corridoi verdi pieni di foglie e rami ti fanno sentire che non sei detenuto e questa è una cosa che non puoi vedere da nessun altra parte. Io non sono uno abituato al carcere: ci sono entrato a 34 anni e questa cosa non me la dimenticherò e non ci tornerò mai più”. Il cruccio di molti detenuti ora è il possibile trasferimento della direttrice: “Noi abbiamo due donne al comando: la dott. Romano e il capo delle guardie penitenziarie. Sono straordinarie e hanno una forza, una professionalità e una umanità fuori dal comune. Noi vorremmo dirle di non andare via ma sappiamo che non dipende da lei”. “Noi all’interno facciamo la nostra parte la società all’esterno deve fare la sua spiega Rita Romano - accogliendo e aprendosi all’accoglienza, ma mi rendo anche conto che forse i tempi non sono tali da poter effettivamente accogliere persone che si porteranno sempre dietro uno stigma. Io credo invece che in ognuno di loro ci sia del buono: tutto sta a trovarlo e a tirarlo fuori”. “Quando uscirò mi prenderò qualcosa di positivo che mi ha dato questo posto e qualcosa di positivo che ho dentro di me. - dice Fabio - Ho una moglie dei figli che mi aspettano e quando li vedo qui vedo la luce nei loro occhi. In posto del genere possiamo perfino far credere che vengano trovare papà che lavora fuori, mentre in un carcere ordinario quando fai un colloquio in una stanza che cosa puoi mai dire a questi figli?”. Ci affacciamo sul cortile e alcuni suoi compagni sono tornati in cella. Si affacciano lasciando penzoloni le braccia dalle inferriate. “Le vedi le sbarre? Ci sono anche qui. Per ma la sbarra è come un punto nella tua vita. Serve per guardare meglio fuori, per capire che si può guardare più lontano. Serve perché non devi perdere il contatto con le realtà perché quando la guardi te ne accorgi che comunque sei sempre in un carcere”. Agrigento: “Il carcere non può essere mondo chiuso in sé”, intervista al nuovo direttore di Luca Mangione Corriere di Sciacca, 21 agosto 2018 “Il carcere e non solo il carcere deve essere un palazzo di vetro. Palazzo di vetro significa che tutta la comunità deve sapere come lavoriamo, in che condizioni lo facciamo, che cosa offriamo e che criticità abbiamo. Io considero una carcero-follia l’atteggiamento di chiusura o di conservatorismo nelle stanze delle segrete. Io sono un dirigente pubblico e devo fare conoscere le difficoltà in cui opero e devo interagire con le istituzioni. Il carcere non è mio è della comunità. Il carcere è un luogo di scommessa, vincere la recidiva è un grandissimo risultato per lo Stato”. È l’inizio di una piacevole chiacchierata a tutto campo con il dottore Valerio Pappalardo nuovo direttore del carcere della Petrusa. Un’occasione per conoscere l’istituto di pena che fa parte del tessuto sociale della collettività. Con la precedente direzione, il carcere interagì, per citarne una, in occasione del Natale 2017 e con le iniziative legate ad “Un’aiola per Natale”. Si parlò della struttura e occupò i dovuti spazi sulla stampa, perché non ci sono e non dovrebbero esserci due mondi diversi, quello dei reclusi e l’altro della società civile se davvero si scommette sul rinserimento di chi ha sbagliato e sta scontando la pena. “Da direttore del carcere di Trento continua Pappalardo ho fatto realizzare un sacco di cose, per esempio abbiamo fatto un progetto che ha ottenuto un finanziamento di 60mila euro per aprire un’officina meccanica. Si prende personale in grado di insegnare un mestiere dando la possibilità ai detenuti di lavorare e di apprendere un mestiere e poi quando escono hanno un titolo, hanno una opportunità in più”. Avverte la sensazione di esservi chiusi dentro, quando alla fine della fiera la gente fuori vorrebbe conoscere la vostra realtà? “Le iniziative sporadiche, tipo il teatro pur essendo utili non riescono a collegare stabilmente l’istituto al mondo esterno, per questo penso di dare vita a progetti capaci della continuità, ad un’apertura che dia un valore in più a tutti”. Cos’è un carcere? “Il carcere è un luogo nel quale bisogna dare la possibilità alla gente di rinvestire se stessi. Nella vita si può sbagliare, il carcere deve essere una opportunità per il rinserimento”. Con il dottor Valerio Pappalardo avremo altre occasioni per meglio conoscere quel mondo. Dentro quelle mura, come in quelle di Sciacca, si spendono tutti i giorni professionalità degli educatori e della polizia penitenziaria con l’obiettivo di dare sicurezza alla società civile. Quest’ultima ha il diritto si conoscere, sapere. Bari: un fronte unico delle istituzioni per la giustizia di Gaetano Sassanelli Corriere del Mezzogiorno, 21 agosto 2018 Pur se vicini alla pausa di ferragosto e nonostante la strategia ministeriale dell’annuncio in data 14 agosto dell’azzeramento della procedura di scelta del nuovo Tribunale penale, intendo riprendere il problema dell’edilizia giudiziaria a Bari che, come nel gioco dell’oca, dopo oltre 2 mesi di attesa, è tornato al punto di partenza. Tutto ciò, nonostante la ghigliottina del 31 agosto (sgombero da via Nazariantz) e del 30 settembre (termine della sospensione dei processi) si avvicini irreparabilmente. Orbene, la revoca della scelta del palazzo di via Oberdan è stata salutata con favore dagli addetti ai lavori, anche se con grande dissenso per i tempi con cui la stessa è intervenuta, posto che sin dal primo giorno era stata segnalata la totale inadeguatezza di quell’immobile per le finalità previste. È stata quindi una vittoria della nostra Comunità che ha dimostrato, con l’unità di intenti praticata nell’occasione, di esser riuscita ad “imporre” con la forza della ragione una inversione di marcia rispetto ad una scelta annunciata con toni trionfalistici, rectius “con orgoglio e dopo averci messo la faccia”. Ora però la nostra Comunità è chiamata ad un altro sforzo (per non cadere nella trappola della comunicazione “ferragostana” evidentemente finalizzata a cercare di farla passare in sordina), ovvero quello di “imporre”, anche questa volta con la forza della ragione, la rapidità della scelta, per evitare che trascorrano altri due mesi, magari azzerando nuovamente il tutto. Mi rivolgo soprattutto alle nostre istituzioni, ovvero al prefetto, al governatore, al sindaco, ai deputati del territorio, ai consiglieri comunali tutti che, pur non avendo competenze dirette, hanno però l’obbligo di avviare una moral suasion affinché la nostra città torni ad avere quanto prima un Tribunale penale e sia quindi ripristinato uno dei tre poteri dello Stato, oggi assente nella nostra città. Insieme a noi addetti ai lavori, dovrà esser loro compito quello di spendersi con tutto il loro peso istituzionale affinché vengano bruciati i tempi, sostenendo le nostre ragioni che sono poi quelle dell’intera città. Riavviare la giustizia penale in un capoluogo di regione sede del Gip distrettuale, con i problemi di criminalità organizzata e comune che ci affliggono, dev’essere una priorità irrinunciabile da affrontare con impegno anche superiore a quello apprezzabilmente speso dal sindaco per la squadra della nostra città. Tutti insieme abbiamo scongiurato la scelta sconsiderata del palazzo di via Oberdan e tutti insieme dovremo farci carico di marcare strette le istituzioni romane affinché la procedura di scelta si concluda tempestivamente. Del resto se, come a suo tempo annunciato, gli immobili idonei erano solo due (ex Inpdap e torre Telecom), il compito sarà decisamente circoscritto, perché ne resta in gioco solo un altro e dovremo quindi fare in modo che le verifiche ex post (sic!) siano svolte immediatamente e non in oltre due mesi. Il tempo scorre irreparabilmente e non possiamo permetterci che passino altri mesi senza che si avvii il trasferimento che, si badi, richiederà comunque un periodo di adeguamento dell’immobile alle nuove esigenze. Ragione per cui, prefetto, governatore, sindaco, deputati del territorio ed Assise comunale, facciano in modo che la voce della nostra città giunga forte e chiara a Roma e che la scelta avvenga nel più breve tempo possibile. Siena: laurea in cella, così la pena rieduca. L’esperienza decennale dell’Ateneo di Fabio Mugnaini* Corriere della Sera, 21 agosto 2018 Una commissione di professori universitari ha varcato il cancello del carcere di Ranza, una casa di reclusione che ospita oltre 300 detenuti, perlopiù di alta sicurezza, persa nella campagna verde di San Gimignano. La commissione ha proceduto all’esame di laurea di un detenuto iscritto a Scienze Politiche: presentazione, discussione, proclamazione, in una sala altrimenti dedicata ai colloqui con gli avvocati, e poi un rinfresco, preparato dagli altri studenti detenuti o dagli amici più esperti nell’arte di preparare manicaretti, pur con le scarsissime attrezzature disponibili nelle celle. La laurea, ovunque un rito che celebra un traguardo personale, assume in carcere una valenza simbolica ancora più esplicita: in pochissimi, forse, riusciranno a tradurre in concreta opportunità professionale la competenza acquisita e certificata dal titolo di studio, ma conseguirlo è un obiettivo in sé, significa aver investito in un valore socialmente riconosciuto il tempo di vita sottratto dalla pena alla libera scelta. Significa aver imboccato un’altra strada, aver conseguito il controllo di una lingua, di una scrittura, di un campo del sapere: significa, per molti, aver scoperto che esisteva un altro mondo, rispetto a quello da cui la giustizia li aveva strappati. Una laurea in carcere è, però, qualcosa di più dell’evento rilevante sul piano personale. È un segnale concreto di quanto le istituzioni pubbliche possano cooperare per dare concretezza alla presenza dello Stato, della giustizia e del principio rieducativo sui cui si regge la detenzione. Da dicembre si sono laureati in tre; in nove si sono immatricolati per l’anno accademico prossimo; 31 gli iscritti in totale: da ormai oltre venticinque anni, infatti, l’Università di Siena entra regolarmente nelle carceri della sua provincia, seguendo dapprima vicende individuali e, poi, passando dalla risposta occasionale alla proposta, affidando a una rodata squadra di lavoro il compito di garantire l’incontro in cui diventa concreto l’ideale della finalità rieducativa della pena, e quindi del carcere stesso, secondo i principi costituzionali e secondo l’ordinamento penitenziario che vi si è ispirato. Da dieci anni, infine, l’Università di Siena partecipa ad un accordo di ambito regionale, rinnovato un anno fa, che include oggi le altre tre Università toscane (Pisa, Firenze e l’Università per Stranieri di Siena), ispirato e sostenuto dalla Regione Toscana e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Un buon esempio di sinergia istituzionale, ben collocato in un panorama nazionale che vede oltre quaranta atenei pubblici, raccolti e riconosciuti in una specifica commissione della Conferenza dei Rettori (Crui). Se ne può avere notizia dal sito www.crui.it. *Delegato del Rettore per la Didattica Penitenziaria - Università di Siena Napoli: il caffè (sospeso) dei detenuti e l’aroma di libertà di Nadia Toppino* Corriere della Sera, 21 agosto 2018 Caffè sospeso. È un’antica tradizione che consiste nel donare una tazzina di caffè a beneficio di uno sconosciuto, un bisognoso. Si lascia appunto un caffè pagato, sospeso. Proprio a Napoli questa definizione è stata usata per dare vita, un paio di anni fa, ad un progetto di reintegrazione sociale per i minori dell’area penale. Li ho incontrati nel mio viaggio di “Cibo dietro le sbarre”, un progetto nato per caso dalla mia passione per il cibo e per il volontariato. Scrivo di cibo, racconto storie di persone che lavorano con il cibo, e organizzo eventi imprenditoriali legati a questo mondo. Sono anche una neo mamma di un bimbo, una “mamma” di due pelosoni e una volontaria a vita. Proprio in un contatto da volontaria col mondo carcerario di Bollate ho scoperto anni fa le attività di cibo all’interno del carcere, e questo mi ha portata a volerne sapere di più: è iniziato così il mio “peregrinare” nelle case di reclusione italiane dove si fanno progetti di reintegrazione legati al cibo e alla produzione di vino. E tra questi eccomi appunto a Napoli! “Un caffè sospeso... come le nostre vite”. Claudio 19 anni, sorride, abbassa lo sguardo e serve il caffè ad un magistrato, forse proprio quello che ha firmato la sua condanna, chissà. Siamo all’interno del Tribunale per i minorenni, ai Colli Aminei, dove la buvette è stata ristrutturata e attrezzata grazie ad alcuni sponsor, ed è stata presa in carico dall’Associazione Scugnizzi che segue il reinserimento lavorativo dei giovani a rischio dell’area penale campana. “Caffè sospeso” prevede un tirocinio di tre mesi, con uno stipendio di 500 euro al mese. Una scuola di barman sul campo, un campo non neutro, ma questa è proprio la sfida: avvicinare i due mondi, far sì che i ragazzi che arrivano dal mondo dell’illegalità imparino un lavoro nel tempio della legalità. I ragazzi si trovano a servire caffè e colazioni a magistrati, giudici, avvocati, a carabinieri e agenti penitenziari, tutte figure che li hanno visti sul tavolo degli imputati, gli stessi che li hanno dovuti punire per i reati commessi. Un mondo per loro lontano, anche nemico, si trasforma in un posto di lavoro, una fonte di guadagno, una scuola di vita, un luogo familiare. Sono qui al caffè con Antonio Franco, presidente dell’Associazione Scugnizzi. Mi precisa che si tratta di un laboratorio “di una scuola di lavoro e di vita” e che “l’obiettivo è insegnare a questi ragazzi un lavoro e inserirli poi nel mercato vero. E dopo poco più di due anni dall’apertura sono orgoglioso di annunciare che una delle nostre corsiste è stata assunta da una delle più prestigiose caffetterie di Napoli”. Al bancone si alternano ciclicamente due ragazzi (o ragazze) in semi libertà, in casa famiglia o con una condanna da estinguere. A guidare i futuri barman è il maestro Mario Alberino, che ormai ne ha visti passare parecchi dietro il bancone. Uno dei clienti fissi per il caffè della mattina è il presidente del Tribunale per i minorenni, Maurizio Barruffo. “Dare uno stipendio anche se minimo a questi ragazzi - mi racconta Antonio Franco - significa dimostrare loro che esiste davvero un modo onesto di portare i soldi alle loro famiglie”. Claudio e Gennaro, i due barman arruolati in questo periodo, questo concetto del lavoro lo hanno ben inteso, e mentre mi preparano il caffè me lo confidano: “Abbiamo sbagliato e pagato. Ora cerchiamo una nuova vita e il lavoro è il primo passo”. I due “Scugnizzi” hanno la sveglia ogni giorno alle 6,3o per essere alle otto puntuali dietro al bancone, in divisa. Avere delle regole, un orario, degli obblighi è di sicuro un nuovo stimolo, così come una giornata di lavoro di 8 ore. “Questo non ci spaventa - dice Gennaro - siamo pronti. E fare il caffè mi piace, così come sentire i complimenti di chi lo beve, quando mi dicono: il caffè è ottimo, anche se un po’ forte!”. E in effetti è forte davvero, ma forse è più forte la sensazione di buono che mi lascia. Storie di vite sospese “ma con la certezza di un giorno buono che verrà, senza più sogni inutili ma con una solida realtà”, come si legge nella targa appesa nel bar. *Volontaria Vallo Della Lucania (Sa): arte e teatro, parte il bando per due laboratori nel carcere lacittadisalerno.it, 21 agosto 2018 Il carcere di Vallo della Lucania attiverà due laboratori, uno artistico e l’altro teatrale, destinato ai detenuti. Pubblicati due diversi avvisi pubblici per la selezione di cooperative/associazioni di promozione sociale per la realizzazione dei progetti che dovranno essere realizzati presso la struttura penitenziaria di Vallo della Lucania. Per il laboratorio artistico, “attraverso l’utilizzo di materiali diversi, il progetto mira a favorire lo sviluppo di competenze personali e relazionali, incentivando nel singolo lo sviluppo delle proprie capacità di produrre e realizzare oggetti artistici (esposti in occasione della Fiera Mercato pre-natalizia organizzata dal Prap di Napoli)”. Il laboratorio sarà destinato a 10/15 detenuti e il budget omnicomprensivo assegnato per l’organizzazione del corso è di 1.000 euro. Stesso budget anche per il laboratorio teatrale. “Il progetto mira a favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso lo sviluppo delle proprie capacità di comprensione e comunicazione”. Anche in questo caso i destinatari saranno 10/15 detenuti. Ammesse a partecipare le associazioni, le Cooperative Onlus iscritte nel registro regionale della promozione sociale, e/o nella short list già esistente e pubblicata nel Burc della Regione Campania. Genova: scacchi in carcere, non solo un gioco di A.B. Corriere Nazionale, 21 agosto 2018 Domani a Genova Pontedecimo Martha Fierro, console dell’Ecuador e campionessa internazionale, sfida la squadra di detenuti nella giornata conclusiva del corso di scacchi. Richiedono poco spazio e molto tempo libero: gli scacchi sono un gioco (o uno sport) ideale per il carcere e non certo solo per tali “qualità” ma per caratteristiche che li distinguono anche da altre competizioni da tavolo. Giocare in maniera costante allena a controllare l’impulsività, a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni ed insegna a raggiungere gli obiettivi rispettando le regole, senza prevaricazioni o scorciatoie. Di questo positivo effetto sul piano pedagogico ne è convinta Martha Lorena Fierro Baquero console dell’Ecuador a Genova, ma nota al popolo internazionale degli scacchisti (oltre un miliardo nel mondo) come medaglia d’oro ai Giochi della Mente di Pechino 2008, vicepresidente della FIDE (Fédération Internationale des Échecs) e componente dell’Accademia internazionale degli scacchi. In collaborazione con le direzioni degli istituti di Genova Marassi e di Genova Pontedecimo, la diplomatica ha organizzato corsi destinati ai detenuti delle sezioni maschili e femminile, tenuti da un gruppo di giovani maestri. Nella giornata conclusiva, in programma domani nell’istituto di Pontedecimo, sarà la stessa Martha Fierro a sfidare in simultanea i corsisti. “L’esperienza è stata di grande beneficio- ha dichiarato la console sia per il Consolato che per i detenuti che vi hanno preso parte. Essendo denominati “lo sport-scienza”, gli scacchi aiutano a migliorare l’autocontrollo, a pensare sempre quale sia la migliore mossa, quali siano benefici e svantaggi di ogni decisione e ad agire quando abbiamo la sicurezza di avere dei buoni risultati. Questo calcolo della miglior decisione, lo possiamo replicare anche nella nostra vita quotidiana. Il rispetto delle norme nello scacchi è fondamentale, tant’è che la prima regola nello scacchi è stringersi la mano sia all’inizio che alla fine della partita, quindi, il rispetto, il pensare, la strategia, analizzare, cercare obbiettivi, sono valori che si possono rafforzare con gli scacchi e che crediamo siano stati rafforzati nelle persone detenute attraverso questo corso”. Già come componente dell’Accademia internazionale degli scacchi Martha Fierro è stata sponsor di un’iniziativa analoga nel carcere di Spoleto, dove ha organizzato un incontro tra una squadra di detenuti, adeguatamente formata, e la campionessa italiana in carica. Il progetto realizzato a Genova ha assunto però una ulteriore valenza educativa. Infatti il Consolato ha formato una squadra di dodici insegnanti, riconosciuti dalla FIDE, costituita da studenti universitari ecuadoregni. Oltre che in scuole e caserme si è voluto far entrare i neo maestri anche in penitenziari per impartire lezioni ai reclusi, proprio per la funzione educativa che si è ritenuto possa avere per i giovani vedere quali sono le conseguenze di comportamenti contro la legge. “I corsi di scacchi in carcere si tengono già in altri paesi come Ecuador, Stati Uniti e Spagna, e si sono svolte delle attività simili in altre case circondariali e di reclusione italiane, sono iniziative che possono essere viste come forma di reinserimento sociale” conclude Martha Fierro che, nell’esprimere soddisfazione per gli esiti del progetto, comunica, anche a nome della Fide e dell’Accademia Internazionale di Scacchi, l’interesse ad avviare analoghe iniziative anche in altri istituti penitenziari italiani. Pisa: con “Musica dentro” l’arte entra in carcere Il Tirreno, 21 agosto 2018 Pronto a ripartire, per la sua settima edizione, il progetto di educazione musicale in carcere intitolato “Musica Dentro”. Un corso attivato dall’associazione “Il Mosaico” di Riccardo Buscemi. Il corso, tenuto all’interno del carcere da volontari dell’associazione guidati da Marialuisa Pepi, si articola in almeno 120 ore di lezione, circa 60 incontri da 2 ore ciascuno, 2 volte a settimana. Pur puntando a standard minimi di “qualità” dell’attività musicale prodotta, il corso è un mezzo per favorire il principio di “rieducazione” della pena, fornire un’occasione di socializzazione tra detenuti di entrambi i sessi, sviluppare le capacità di relazione e di autocontrollo, agevolare, per quanto possibile, il reinserimento nella società civile al termine del periodo della pena. Al termine del corso, anche quest’anno, è stato organizzato un piccolo saggio finale dedicato alla “Riflessione sulle tappe del viaggio della Vita” grazie ai canti dei partecipanti al Progetto Musica Dentro. Una occasione che suscita sempre grande emozione. Merito sicuramente dei ragazzi e delle ragazze che hanno scelto di partecipare al progetto, ma anche della direttrice artistica del corso, Marialuisa Pepi. “Il Progetto spiega Buscemi è realizzato grazie alla Fondazione Pisa, che concede un contributo determinante alla sua realizzazione, ma partecipano anche altri importanti soggetti: la Fondazione Intesa San Paolo Onlus e la Società della Salute Pisana. E siamo già pronti a ripartire, subito dopo la pausa estiva, con la VII edizione di Musica Dentro”. Migranti. Diciotti, i ministri divisi sulla nave. Il Viminale nega lo sbarco a Catania di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 21 agosto 2018 Il pattugliatore diretto nella notte nel porto della città siciliana su indicazione del ministro dei Trasporti Toninelli. Salvini ribadisce: “Il limite è stato superato, l’Europa deve iniziare a fare sul serio”. E intanto la Procura di Agrigento apre un’inchiesta. In serata si apre uno spiraglio. Solo un’ipotesi: quella che la Francia (e forse la Spagna) possa prendersi carico di alcuni dei 177 migranti ancora a bordo della nave Diciotti della Guardia costiera italiana, in navigazione fino a tarda notte verso il porto di Catania. La trattativa del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi con la Commissione Ue potrebbe aver incassato un primo risultato positivo, e cioè la ridistribuzione dei migranti fra i Paesi Ue, ma di riflesso anche lo sbarco delle persone che da sei giorni si trovano sull’unità militare che ieri ha lasciato la costa di Lampedusa per dirigersi verso la città etnea. I francesi però potrebbero accogliere solo i migranti con determinati requisiti per ottenere asilo nel Paese transalpino. Una soluzione, se confermata, che basterebbe per consentire alla Diciotti di far sbarcare i 177 (fra loro sei donne e 34 minorenni) che altrimenti per ordine del Viminale resteranno ancora a bordo perché per loro non sono previste al momento le operazioni di identificazione in banchina. Se da un lato infatti il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha annunciato che la nave della Guardia costiera avrebbe attraccato a Catania, il suo collega dell’Interno Matteo Salvini ha subito chiarito che senza una risposta dell’Europa sulla redistribuzione dei migranti, nessuno - tranne l’equipaggio - sarà autorizzato a scendere dal pattugliatore. Una situazione simile a quella del 13 luglio scorso quando per sbloccare l’empasse intervenne il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma anche un episodio che ripropone la divisione tra i due ministri, uno grillino e l’altro leghista. “In questi anni l’Italia ha accolto 700 mila migranti arrivati dal Mediterraneo, 160 mila dei quali ancora ospiti a nostre spese - dice Salvini -. Basta, il limite del possibile è stato superato. O l’Europa comincia a fare sul serio - ribadisce il ministro dell’Interno -, oppure cominceremo a riportare nei porti di partenza tutti i nuovi arrivati”. Il Mit invece smorza i toni: “Non c’è alcuno scontro fra ministri, che anzi condividono l’approccio sull’emergenza immigrazione”. C’è tuttavia un altro aspetto da chiarire: il comportamento di Malta prima dell’intervento di soccorso della Diciotti. La Procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta - anche per individuare gli scafisti - e ha ascoltato otto migranti trasferiti in ospedale nei giorni scorsi. È emerso che la notte di Ferragosto un’imbarcazione “di notevoli dimensioni” e due gommoni hanno avvicinato il loro barcone, scortandolo per 24 ore prima di lasciarli sulla rotta per l’Italia dopo averli riforniti di cibo, bevande e giubbotti di salvataggio. “Gli uomini a bordo si sono presentati come maltesi, ci hanno abbandonato - avrebbero riferito gli otto alla polizia -, ci hanno detto che avevamo sbagliato rotta, che non ci avrebbero portato a Malta, ma verso l’Italia”. Due ore più tardi, la notte del 16, l’intervento della Diciotti con il natante dei migranti che imbarcava acqua. Particolare che però Malta smentisce. Il contatto con la Guardia costiera italiana è avvenuto a 17 miglia nautiche da Lampedusa, in acque maltesi. “Se i migranti dicono la verità, è l’ennesima prova che in Europa ci sono troppi Paesi che fanno i furbi con l’Italia”, il commento di Salvini. A Tokio la conferenza degli stati parte del Trattato Onu sul commercio di armi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 agosto 2018 Al suo quarto appuntamento, la conferenza annuale degli stati che hanno aderito al Trattato delle Nazioni Unite sul commercio delle armi che si apre oggi a Tokio deve fare i conti con uno scenario desolante. Approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nell’aprile 2013 dopo anni di campagne promosse da numerose organizzazioni non governative, il Trattato è entrato in vigore alla fine del 2014. Ratificato da 84 stati e firmato da altri 41, vieta i trasferimenti da stato a stato di armi, munizioni ed equipaggiamento militare che potrebbero essere usati per compiere crimini di guerra o in presenza del forte rischio che potrebbero contribuire a gravi violazioni dei diritti umani. Molti governi purtroppo stanno ancora alimentando conflitti attraverso trasferimenti di armi in contrasto con le norme del Trattato. Quest’anno, grazie a generose forniture di armi provenienti, oltre che dagli Usa, anche da stati parte del Trattati (Germania, Francia, Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca e Corea del Sud), Israele ha ucciso almeno 140 manifestanti palestinesi a Gaza, ferendone un numero assai maggiore. L’Arabia Saudita, beneficiaria di enormi trasferimenti di armi da parte di Gran Bretagna, Francia, Usa e anche Italia, continua a compiere crimini di guerra contro la popolazione civile dello Yemen. Il rifiuto dei paesi che ho appena citato di sospendere le forniture di armi all’Arabia Saudita è diventato emblematico dell’irresponsabile commercio di armi che, nonostante l’adozione del Trattato, prosegue senza sosta. Altre forniture contrarie al Trattato chiamano in causa la Serbia (che ha inviato all’esercito del Camerun fucili usati per compiere esecuzioni extragiudiziali) ma anche Brasile e Messico per la vendita di armi leggere alla polizia del Nicaragua, che le ha impiegate nell’attuale repressione delle proteste. Elemento costante dell’attuazione del Trattato è stato la mancanza di trasparenza. Alla scadenza del 31 maggio di quest’anno, meno della metà degli Stati parte aveva trasmesso il previsto rapporto sull’import / export di armi del 2017. Addirittura, due stati parte hanno dichiarato “riservate” tali informazioni e altri hanno omesso dettagli importanti adducendo motivi di sicurezza nazionale o ragioni commerciali. Gran Bretagna. Le prigioni “private” sono dei lager, il governo cancella le concessioni di Claudio Risé La Verità, 21 agosto 2018 Ci sono anche governi che interrompono fruttuose concessioni dalla sera alla mattina, senza tutti i distinguo che hanno occupato il dibattito italiano dopo la tragedia di Genova. Non accade in qualche Paese “barbaro”, ma nella patria della democrazia moderna, l’Inghilterra. Dove il governo di Theresa May si è ripreso velocemente la gestione diretta della prigione di Birmingham dalla G4S, gigante mondiale del business della sicurezza, cui era stata data in concessione fino al 2026. Peter Clarke, capo dell’ispezione governativa condotta nei giorni scorsi al carcere di Birmingham, ha dichiarato alla radio della Bbc: “È la peggior prigione che abbia mai visto. Qui qualcuno deve essersi addormentato alla guida”. La guida era appunto affidata a G4S, in forza di un contratto stipulato nel 2011. Il ministero della Giustizia si è ripreso subito la gestione, “senza alcun onere per il contribuente”, precisano le dichiarazioni e i documenti sia del governo che dell’azienda. Insomma di penali per l’interruzione della concessione neppure si parla; semplicemente G4S non viene più pagata. L’accaduto dimostra quanto sia delicata la concessione a privati di servizi pubblici, e come siano necessari controlli frequenti, funzionari integri e veloci decisioni governative. Dall’ispezione di Peter Clarke (già capo dell’antiterrorismo a Scotland Yard), esce infatti un quadro agghiacciante della prigione di Birmingham, che già nel 2016 si era distinta per una rivolta durata più di un giorno, per domare la quale il governo aveva dovuto impiegare la temuta Tornado squad. Si tratta di un gruppo di ufficiali di élite specializzato nell’attacco delle rivolte nelle prigioni, dotato di difese e armi particolari, che comunque ci aveva messo 12 ore per riportare l’ordine. Questa volta gli ispettori di Clarke hanno trovato il carcere in una situazione ripugnante. Le zone comuni, pullulanti di ratti e scarafaggi, erano imbrattate di sangue e vomito. I prigionieri “tranquilli” non uscivano dalle loro celle, e le guardie dai loro uffici. L’edificio era in mano ai più violenti, sostanzialmente liberi di fare ciò che volevano; secondo gli ispettori: impuniti. Ad alimentare questi comportamenti verso le guardie e gli altri prigionieri erano soprattutto l’alcol e le varie droghe e sostanze psicoattive, comprese le micidiali cannabis sintetiche Spice e Black mamba (dal nome del serpente killer sudamericano) di cui era ampiamente rifornita. Roba che al terzo tiro non sai più chi sei, né chi è l’altro che aggredisci. L’uso di queste sostanze è ormai la prima fonte di disordini nei carceri inglesi, tanto da spingere il ministro delle Prigioni, Rory Stewart, a impegnarsi pubblicamente alle dimissioni se non otterrà entro un anno risultati significativi nella riduzione delle droghe e nelle violenze da esse provocate. Alterazione da sostanze e assalti violenti procedono infatti nei penitenziari di pari passo. A Birmingham l’ispezione di Peter Clarke ha messo in luce “l’inerzia che ha paralizzato sia chi monitorava il contratto che chi doveva eseguirlo”, ponendo la questione del controllo delle concessioni a privati nelle gestioni dei carceri, qui svolta in libera concorrenza, per evitare posizioni dominanti. Dalle verifiche sembra che le altre tre concessionarie abbiano fatto un buon lavoro. G4S aveva già perso una concessione su un centro per minori tre anni fa. Ma dopo Birmingham i controlli saranno per tutti più puntuali. Stati Uniti. L’agghiacciante situazione del carcere femminile più grande della Florida di Roberta Fioretti buongiornomiami.com, 21 agosto 2018 Chi viola la legge deve essere “corretto”. Ma se chi deve “correggere” viola la legge? Domenica scorsa, per la prima volta ad Ocala, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha tenuto un’importante riunione con le ex detenute e le loro famiglie per dare voce alle violazioni dei diritti civili nel carcere di Lowell. Una t-shirt indossata da alcuni dei partecipanti con la scritta “I survived Lowell” per chi all’interno dell’Istituto sopravvive nonostante gli orrori. Dietro le mura di una delle prigioni più famose della Florida, infatti, un copione che purtroppo si ripete: abusi, degrado, stupri, contrabbando e corruzione. Una routine denunciata a gran voce dai presenti, anche a nome di chi invece la voce l’ha persa per la paura di subire ancora e ancora. Gli investigatori hanno aperto un’inchiesta federale e accogliendo le denunce si dicono pronti a fare la loro parte per cambiare le cose. Le storie di violenza brutale, inaccettabili a priori, sono ancora più ripugnanti in un luogo in cui il marcio della società dovrebbe ormai essere lontano per concedere una nuova possibilità. E invece quello che vivono le donne e le adolescenti di Lowell non solo non si allontana dal peggio ma a volte lo supera. Tra i partecipanti alla giornata erano presenti Bernie Brewer e sua moglie Nancy, i genitori di una ragazza che sta scontando nove anni perché risultata positiva ad alcol test durante un fatale incidente automobilistico. Portavoce della figlia, hanno descritto l’orrore delle punizioni, sia verbali che fisiche, subite da parte degli agenti. Un carcere che ancora punisce, spaventa, abusa, violenta come può dare una nuova possibilità? Il Miami Herald ha documentato queste atroci storie in Beyond Punishment, una raccolta dove si descrivono le pratiche degli abusi, le minacce e le cure scadenti a cui sono sottoposte le ragazze. Una guardia che costringe una donna a fare sesso in cambio di un sapone, è un esempio abbastanza forte per capire quanto si tocca il fondo nelle nostre istituzioni? Un’ illegalità crudele e, a quanto descritto anche da Rachel Kalfin ex detenuta, ignorata e respinta nonostante le ripetute denunce. Durante la riunione, un avvocato del Dipartimento di Giustizia ha sottolineato che però l’inchiesta non è un’indagine penale e che servirà ad identificare le pratiche incostituzionali per correggerle. Le denunce sono tante, la sicurezza è poca e la voglia di giustizia cresce ogni giorno di più. Come, purtroppo, anche la paura di chi resta dietro le mura del carcere in cerca di un riscatto. Dovremmo iniziare a guardare oltre la finestra di casa e fare un passo verso quelle realtà che ci sembrano così lontane ed estranee ma che sono solo uno specchio della realtà che viviamo tutti e di cui tutti siamo responsabili. Non lasciamo che tocchino con violenza le nostre donne, ma lasciamoci toccare violentemente il cuore da quanto accade per non restarne indifferenti. Le donne, fuori e dentro il carcere, non devono più solo sopravvivere ma vivere, e a testa alta. “In Romania prigioni-lager”. E il detenuto resta a Torino di Giovanni Falconieri Corriere della Sera, 21 agosto 2018 La Cassazione nega l’estradizione di un 36enne condannato: a Bucarest c’è il “rischio di trattamenti inumani. La Corte d’Appello di Torino avrebbe dovuto verificare”. “Le condizioni carcerarie della Romania” sono caratterizzate da “gravi carenze sistemiche”. E per i detenuti è “concreto” il rischio di un “trattamento inumano e degradante”. Ecco perché, secondo la Cassazione, la Corte d’Appello di Torino non avrebbe dovuto “disporre la custodia di un cittadino romeno all’autorità giudiziaria di Bucarest” senza aver prima chiesto e ottenuto informazioni sulla situazione delle prigioni di quel Paese. A rivolgersi ai giudici di Roma, proponendo ricorso contro una sentenza pronunciata a Torino il 22 maggio scorso, è stato un 36enne romeno detenuto alle Vallette e destinatario di un mandato di arresto europeo in seguito a una condanna a un anno di reclusione, subita in patria, per percosse, lesioni personali e violazione di domicilio. Ma il 36enne a Bucarest non vuol tornare. E la Cassazione gli ha dato ragione. I giudici piemontesi non avrebbero infatti “adeguatamente verificato le condizioni carcerarie alle quali l’uomo sarebbe stato sottoposto” nel proprio Paese. “La Corte d’Appello di Torino - scrivono gli “ermellini” - non ha fatto corretta applicazione dei principi non avendo richiesto informazioni” specifiche, ma essendosi limitata a fare riferimento alle notizie “fornite dall’amministrazione penitenziaria romena per altri procedimenti riguardanti altri soggetti”. Le risposte giunte da Bucarest, in effetti, non chiariscono quale sia il numero di detenuti all’interno della struttura “ospitante”, quali le condizioni igieniche di bagni e docce, nulla dicono sulla presenza di acqua calda e riscaldamento e sulle dimensioni e la pulizia delle celle. E neppure un accenno viene fatto alle modalità di somministrazione dei pasti. Non è un mistero, infatti, che in alcune prigioni romene ci siano celle di 30 metri quadrati che ospitano fino a 20 detenuti, che per tutti loro ci sia solo un lavandino a disposizione, che agli ospiti della struttura siano concesse appena tre docce a settimane e per non più di cinque minuti. Insomma, un autentico inferno. E così, ai giudici torinesi spetterà adesso il compito di “assumere le informazioni sulle condizioni di detenzione” e poi “formulare un nuovo giudizio” relativamente alla richiesta giunta da Bucarest. Nel frattempo, del 36enne romeno si prenderà cura la nostra amministrazione penitenziaria. “La Russia liberi il regista ucraino Oleg Sentsov” Il Dubbio, 21 agosto 2018 Appello internazionale rilanciato da “Articolo 21” Un appello internazionale per chiedere la liberazione di Oleg Sentsov, regista ucraino da 1560 giorni in carcere, e in sciopero della fame da 100, è stato rilanciato in queste ore da Articolo 21 che con Amnesty Italia segue la vicenda del film-maker detenuto in una prigione - colonia in Siberia e sempre più debilitato. “Le foto del volto emaciato di Oleg Sentsov, che ha perso 30 chili nei 4 anni che ha già trascorso in carcere dei 20 ai quali è stato condannato da un tribunale russo, hanno mostrato al mondo quanto drammatiche siano le sue condizioni” si legge nell’editoriale dí Antonella Napoli che racconta la storia di Oleg e della sua protesta per sé e per tutti gli altri detenuti politici ucraini. “La situazione si è aggravata nelle ultime settimane - scrive Napoli. L’impatto di quelle immagini nelle quali si riconosce a stento l’autore di “Gamer”, lungometraggio che racconta il dramma di un adolescente ossessionato dai videogiochi, opera che ha ricevuto molti premi a livello internazionale, è stato talmente forte da spingere la Corte di Strasburgo a ‘condannarè la Russia per le mancate cure garantite al detenuto e le Nazioni Unite a chiederne l’immediato rilascio”. “È evidente a tutti che la salute di Sentsov, in veloce deterioramento, lo metta a rischio ogni giorno di un collasso. Ed è per questo che sosteniamo e rilanciamo l’appello di Onu, organizzazioni per i diritti umani e esponenti del mondo della cultura e del cinema alla Russia affinché garantisca la giusta assistenza e scarceri al più presto Sentsov” conclude l’editoriale di Articolo 21. Stati Uniti. L’istituto Benedetto XVI insegna il canto gregoriano ai detenuti di San Quentin interris.it, 21 agosto 2018 La scuola fondata da mons. Cordileone sta raccogliendo adesioni nel carcere di San Quentin. L’istituto Benedetto XVI di San Francisco, nato per la promozione della musica sacra, ha tenuto il suo primo concerto nel carcere dello Stato di San Quentin. La scuola, fondata dall’arcivescovo Salvatore Cordileone, ha creato un laboratorio di musica gregoriana all’interno della struttura penitenziaria. Sono venticinque i detenuti che hanno deciso di iscriversi ai corsi organizzati dall’istituto dopo aver vissuto l’esperienza del concerto dal vivo. Gli iscritti andranno a far parte del coro che si esibirà durante la messa celebrata nella forma tridentina e che ha luogo regolarmente una volta al mese nel carcere. Il direttore musicale del coro, Rebekah Wu ha riferito alcune delle impressioni delle persone che hanno aderito all’iniziativa: “Un giovane mi ha detto che sentiva lo Spirito Santo vibrare nella sua anima mentre si univa al coro in alcuni canti durante il concerto. È stato particolarmente felice vedere che così tanti uomini vogliono imparare il canto gregoriano e la musica sacra classica corale, e aiuta a portare la messa in latino a San Quentin”. Prossimo appuntamento - Il coro coi detenuti volontari avrà la prima occasione di cimentarsi con il canto il prossimo 25 agosto quando nel penitenziario di San Quentin verrà celebrata la messa in rito romano secondo la forma tridentina. L’arcivescovo di San Francisco, monsignor Salvatore Cordileone, è il grande animatore di quest’iniziativa: pastore che ama visitare i detenuti della sua diocesi, il presule si è dimostrato particolarmente orgoglioso che la prima esibizione pubblica dell’istituto Benedetto XVI, da lui fortemente voluto, sia andata in scena proprio a San Quentin: “Questo è il nostro coro di insegnamento nuovo di zecca - ha detto Cordileone ai presenti - e voi siete i protagonisti del nostro primo concerto!”. L’istituto - L’istituto Benedetto XVI nasce nel 2014 per iniziativa dell’arcivescovo Salvatore Cordileone e si propone, come viene scritto sul sito ufficiale, “di aprire la porta della bellezza a Dio a quanti scelgono di avvicinarsi a Lui da quella porta”. La scuola mira alla promozione della musica gregoriana applicando le direttive del Concilio Vaticano II che riconosce ad essa il primo posto nelle celebrazioni liturgiche. L’istituto, dedicato a Benedetto XVI grande amante e sostenitore del valore della musica sacra, ha svolto in questi anni un’intensa attività pastorale: le principali finalità fino ad ora sono state quelle di formare i cori delle parrocchie della diocesi alla conoscenza del gregoriano. In questi anni sono poi stati organizzati corsi per giovani molto frequentati e che stanno contribuendo a diffondere nella popolazione di San Francisco l’amore per la musica sacra e per la messa celebrata in rito romano secondo la forma tridentina.