Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti è a rischio di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2018 Gentili lettori, gentili amici di Ristretti Orizzonti, vi dobbiamo prima di tutto delle scuse per il ritardo con cui state ricevendo la nostra rivista (e comunque vi garantiamo che riceverete tutti i sette numeri previsti dall’abbonamento). Non era mai successo, in vent’anni di vita di Ristretti, un simile ritardo, e forse è il caso che ve ne spieghiamo le ragioni. A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni, a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto. Con l’obiettivo di togliere a Ristretti quella fondamentale funzione di “pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, che non è una nostra definizione, sono le parole di Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Per prima cosa purtroppo dobbiamo spiegare che questo “ridimensionamento” di attività, che ci hanno meritato la stima e l’apprezzamento di tanti in questi anni, per noi significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi in progetti importanti come quello di confronto tra le scuole e il carcere, Avvocato di strada, la preziosa Rassegna Stampa quotidiana che voi tutti conoscete, lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, un servizio che mettiamo a disposizione di tutte le persone detenute, aiutando così il lavoro degli operatori dell’Amministrazione, ma il rischio è anche maggiore, è quello di non farcela a sopravvivere e di dover chiudere l’esperienza di Ristretti, e non perché non funziona più, tutt’altro, ma perché qualcuno ha deciso che non gli piace e che va drasticamente ridimensionata. Qualche esempio di “ridimensionamento”? * La Casa di reclusione di Padova è diventata in questi ultimi quindici anni un luogo da cui si fa davvero prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio. Protagonisti di questi percorsi sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione. E poi c’è il Comune di Padova, che crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. E c’era la Direzione della Casa di reclusione, che credeva all’efficacia di un progetto con al centro le storie di vita dei detenuti, e metteva al primo posto non la “visibilità” del carcere, ma il futuro dei ragazzi e quello che è più utile per fare con loro prevenzione. Ma oggi c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Insegnanti e dirigenti scolastici, invitati dal Direttore della Casa di reclusione il 28 giugno a esprimere la loro opinione, hanno affermato con convinzione che il senso di questa esperienza di conoscenza del carcere, che fanno i giovani studenti, sta soprattutto nei racconti di vita delle persone detenute, nel loro mettere a disposizione di questo progetto le loro storie perché i ragazzi capiscano dove nascono le scelte sbagliate, lo scivolamento in comportamenti pericolosamente trasgressivi, la voglia di imporsi con metodi violenti, che a volte inizia proprio negli anni della scuola. Un progetto definito dalla magistrata di Sorveglianza presente all’incontro, Lara Fortuna, “eccellente e innovativo a livello nazionale”. La speranza è che non ci sia nessun ridimensionamento, e che il carcere faccia uno sforzo, importante e significativo, per accogliere anche quest’anno migliaia di studenti, e per consentire di promuovere una autentica azione di prevenzione. E di restituzione alla società, da parte dei detenuti, di un po’ di bene, dopo tanto male. - Sette mesi ci abbiamo messo per ottenere di far venire qualche detenuto nuovo in redazione, eravamo rimasti in otto (grazie a Dio, qualcuno esce, in semilibertà, in affidamento, a fine pena, e qualcuno viene trasferito), c’erano moltissime richieste ed è stato lungo e faticoso il percorso per ricostruire Ristretti Orizzonti, ma quello che è più faticoso è far riconoscere il valore di quella minima autonomia della redazione nell’organizzare il proprio lavoro, scegliendo i temi da trattare, gli ospiti da invitare, le iniziative da organizzare. Quello che vorremmo è semplicemente avere ospite in redazione anche il nuovo direttore, e poterci confrontare su una idea di carcere, in cui le persone detenute abbiano spazi significativi di libertà e di decisione, e non vivano più la condizione per cui se qualcosa gli viene dato, si tratta sempre di una “concessione”, di un beneficio, di un “regalo”. - La rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate, di recente anche a Sollicciano, era stata approvata dal precedente direttore, su proposta di Ristretti, anche per Padova, c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge (ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?). E subito dopo la nuova Direzione ha dato vita a una “rappresentanza per estrazione” (che neppure dovrebbe essere chiamata rappresentanza) di 20 detenuti, che non si capisce dove trovi la sua legittimazione nella legge (che allora, a voler essere precisi, prevede solo l’estrazione di rappresentanti in diverse commissioni, e non di rappresentanti di sezione). Uno strumento di autentica democrazia è stato bocciato, come se invece di un serio lavoro per preparare le persone detenute a occuparsi degli interessi di tutti, si trattasse di fare le elezioni del Presidente degli Stati Uniti e mettere in piedi una gigantesca macchina elettorale. - E ancora, ci è stato comunicato con un brevissimo messaggio della Direzione che il progetto Mai dire mail, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori, tutor universitari, e per il quale attendiamo da mesi una risposta sul rinnovo della convenzione che abbiamo sottoscritto con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, dopo aver ottenuto l’autorizzazione del Provveditorato, veniva sospeso dall’1 agosto, proprio per una serie di obiezioni sollevate dal Provveditore stesso, a cui abbiamo puntualmente risposto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per confrontarci e cercare di evitare questa sospensione, dannosa per le persone detenute, per le loro famiglie e anche per l’Amministrazione stessa, ma si è preferita la strada di bloccare il servizio. Quello che chiediamo è che Mai dire mail possa continuare, visto che niente è cambiato dall’autorizzazione che ha dato l’Amministrazione, soprattutto in un periodo delicato come questo, in cui il clima pesante che si respira nelle carceri rende ancora più importante il supporto esterno di famigliari e amici. Allora, in un momento così difficile per noi, ma anche per tutto il mondo che gravita intorno alle carceri, con il sovraffollamento sempre più a livelli di guardia, e la perdita di tante speranze, legate alla mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e i suicidi che in questi giorni riempiono le cronache, vi chiediamo di sostenerci, di appoggiare le nostre battaglie, di CREDERE NEL NOSTRO GIORNALE E ABBONARVI, nonostante i ritardi, nonostante la stanchezza che riempie tutti noi, che abbiamo creduto nel cambiamento e ci ritroviamo invece a fare pesanti passi indietro e a dover difendere con le unghie e con i denti anche le poche conquiste di questi anni. *Redazione di Ristretti Orizzonti Il giudice: “un carcere meno duro conviene a tutti, non è buonismo” di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 20 agosto 2018 Intervista a Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia. Le misure alternative alla detenzione garantiscono risultati incoraggianti. E sono più convenienti per la sicurezza. “Le statistiche del Dipartimento affari penitenziari parlano chiaro: solo il 19 per cento dei detenuti che ha usufruito di benefici di vario tipo torna a delinquere; la percentuale sale al 79 per cento nel caso di coloro i quali non usufruiscono di alcun beneficio penitenziario”. Inizia dai numeri Giovanni Maria Pavarin, da quasi otto anni presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, l’organismo della magistratura che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena, ovvero di stabilire come debba essere scontata non appena diventa definitiva. Da quei semplici dati, frutto di una statistica del ministero della Giustizia, emerge con chiarezza che le cosiddette pene alternative al carcere (ma anche i permessi premio, la possibilità di lavorare) non sono un atto di buonismo fine a se stesso: prevederle conviene allo Stato, e dunque a ciascuno di noi, perché sono tese a restituire alla società persone che non commettano più reati. E dunque sono norme finalizzate ad elevare il livello di sicurezza, parola che va molto di moda in questi anni, oltre a garantire il rispetto di quanto prevede l’articolo 27 della Costituzione, ovvero che Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ogni anno i giudici di sorveglianza del Veneto (con sedi a Venezia, Padova e Verona) emettono circa 4 mila giudizi, a conclusione di una procedura che prevede, oltre allo studio della sentenza e dei precedenti penali, di acquisire anche una relazione delle forze dell’ordine e dei servizi sociali sulla personalità del reo. “Oltre alle carte deve essere sempre considerato l’elemento umano, altrimenti il giudice potrebbe essere sostituito da una macchina”, spiega Pavarin, 63 anni, in Sorveglianza dal 97, dopo aver fatto il pretore a Rovigo e Lendinara. Per il presidente della Sorveglianza il lato umano è essenziale: “Il nostro giudizio si fonda su una prognosi: sulla base degli elementi in mio possesso devo prevedere se in futuro quel condannato si comporterà bene, e dunque se posso concedergli la detenzione domiciliare, oppure l’affidamento in prova. Una scommessa difficilissima: e allora io voglio guardarlo prima negli occhi, discutere con lui, farmi raccontare la sua storia, capire se si è veramente ravveduto. Il fatto reato non è quasi mai isolato e deve essere inserito nel contesto della vita di una persona, per capire cosa è successo ed evitare che si ripeta. Nella maggior parte dei casi funziona, si capisce se uno mente per ottenere un beneficio”. L’approccio umano della giustizia di sorveglianza teorizzato da Pavarin ha anche un’altra finalità: “Gran parte delle persone reagiscono positivamente se trovano qualcuno disposto ad ascoltarli e a metterli al centro dell’attenzione, offrendo loro una possibilità di riprendersi la vita”. Anche se qualche volta ci si sbaglia… “Succede ed è sempre un grande dispiacere. Ma accade anche di incontrare a distanza di anni chi ti ringrazia. Alcuni ex detenuti li rivedo e, scherzano, mi dicono di non far loro la predica”. Allora è vero che le contestano di fare più il parroco di provincia che il giudice? “Non mi riconosco proprio in quel ruolo. Il mio è un lavoro laico, anche se condivido il discorso che il Papa ha fatto tre anni fa ai penalisti: la pena non deve essere vendetta, ma una strada di ricostruzione. È ovvio che non per tutti è possibile, ma le statistiche dimostrano che è quella la strada. Nel corso degli anni, ho convinto anche i miei colleghi dell’utilità di ascoltare i condannati, di dare loro la possibilità di raccontarsi. La rieducazione funziona se viene offerto uno spunto credibile di nuova vita, se non ci si pone su uno scranno, guardando il reo dall’alto al basso”. La gestione degli stranieri pone problemi diversi e maggiori difficoltà rispetto ai detenuti italiani? “Tutto è più impegnativo, perché ci troviamo di fronte a mentalità e valori differenti, in base ai quali chi commette un reato non sempre è in grado di comprendere il disvalore di ciò che sta facendo. Ma quando si riesce a trattare i detenuti da uomini, è più facile avviarli in un cammino di ricostruzione”. La politica sembra intenzionata a tornare indietro rispetto alle esperienze fatto finora, a limitare al massimo le pene alternative al carcere. Cosa ne pensa? “Molte scelte politiche sono alimentate dall’emotività e con l’argomento della sicurezza si acquisiscono facili consensi. Prima di prendere qualsiasi decisione, inviterei i politici a visitare i penitenziari: tutti quelli che in passato lo hanno fatto, ne sono usciti cambiando idea. Più confischi la libertà, più peggiori le cose. Ad esempio sarebbe disastroso abolire la sorveglianza dinamica, quella che consente ai detenuti di trascorrere il tempo al di fuori delle celle, nelle quali rientrano solo per dormire. E poi bisognerebbe smetterla con i racconti non veri di celle con aria condizionata e ogni comfort. In Brasile stanno sperimentando una struttura aperta, senza sorveglianza, dove i detenuti si autogestiscono e nessuno scappa”. Cosa ne pensa delle giustizia riparativa? “Fino a pochi anni fa si riteneva che il detenuto fosse chiamato a pagare un debito con lo Stato, ma ci sono anche le vittime da tenere in considerazione e da risarcire. La giustizia riparativa sta ottenendo risultati incoraggianti, grazie a percorsi che mettono in contatto le vittime con coloro i quali hanno fatto loro del male. Esperienze di questo genere sono state sperimentate con le vittime delle stragi, molti dei quali hanno scoperto che si può dare un senso al dolore. Probabilmente non si smette di odiare, né si riesce a perdonare, ma tutto è attenuato dopo aver toccato con mano il male”. Lo slogan che va per la maggiore negli ultimi tempi è certezza e severità della pena: cosa ne pensa? “L’unica pena effettiva e certa è quella che riesce a rieducare il reo. Il carcere esaspera soltanto gli animi: più lunga e dura è la pena, più alimenta odio contro la società. La pena come castigo, come vendetta sociale non paga. La paura, peraltro, non ha alcun effetto dissuasivo: è necessario aderire, condividere una norma per non violarla”. Nell’ambiente giudiziario veneto lei ha l’immagine di giudice severo e inflessibile… “A livello nazionale, tra i circa 200 giudici di Sorveglianza, vengo invece considerato tra i più aperti”. È vero che ha una posizione critica anche nei confronti dell’eccessivo garantismo? “Che senso ha la presunzione di innocenza per chi ha confessato? Siamo l’unico Paese che consente tre gradi di giudizio, e questa è una delle ragioni della lunghezza dei processi. L’eccessivo garantismo va nella direzione opposta alla rieducazione”. Negli ultimi anni si tende a delegare la soluzione di tutte le questioni alla giustizia penale: è una scelta che condivide? “Il diritto penale non può gestire tutti i problemi: una parte delle soluzioni devono essere fornite a livello sociale, di scelte politica. Il fenomeno dell’immigrazione è tra questi. Poi bisognerebbe riflettere su ciò che crea allarme sociale: oggi si è preoccupati di più da chi ruba una bicicletta, rispetto a bancarottieri che distraggono milioni di euro e spesso non finiscono in carcere”. Il politico corrotto ora dovrà tenere lezioni agli studenti di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 20 agosto 2018 Per ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali dovrà rendersi disponibile a girare per le scuole della regione raccontando agli studenti il grande errore che ha fatto quando, diventato amministratore pubblico, si mise improvvisamente a pretendere mazzette. Vicenda per la quale è stato condannato a cinque anni di reclusione. È una delle prescrizioni che il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha imposto ad un noto rappresentante politico, finito in carcere nel 2014 con l’accusa di corruzione. Una parte della pena, infatti, è già stata scontata in carcere e ora il residuo mancante è inferiore ai tre anni, limite che consente ai giudici di disporre una pena alternativa, dopo aver accertato il positivo percorso di riabilitazione. Il reo si è già dichiarato disponibile a tenere le singolari lezioni, per cercare di far capire ai giovani cosa sia scattato nella mente di un professionista fino a quel momento onesto, dopo aver acquisito un incarico pubblico. Il percorso di affidamento in prova ai servizi sociali prevede anche altre prescrizioni, tra cui non frequentare pregiudicati e non uscire di casa in orari notturni. A vigilare sul rispetto dell’impegno preso sarà l’Uepe, l’Ufficio esecuzione penale esterna. “Si tratta di un modo con cui l’ex politico, raccontando il suo esempio negativo, ma anche il percorso di recupero avviato, potrà rendersi utile per indurre gli studenti a non commettere in futuro sbagli dello stesso tipo”, spiega Giovanni Maria Pavarin, presidente dell’organismo giudiziario che si occupa dell’esecuzione delle pene. Il Tribunale di Sorveglianza agisce sia come giudice di primo grado sia come giudice di secondo grado. In primo grado delibera sulla concessione o la revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare, della semilibertà, della liberazione condizionale; sul rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione delle pene detentive; sulle richieste di riabilitazione. In secondo grado, come giudice di appello, decide sulle impugnazioni presentate contro le sentenze di proscioglimento con contestuale applicazione di misure di sicurezza emesse dai tribunali penali ordinari e contro le ordinanze risultate da udienze dei magistrati di sorveglianza. Decide inoltre in sede di reclamo nei confronti dei provvedimenti adottati dai magistrati di sorveglianza in tema di permessi, liberazione anticipata, espulsione dallo Stato, e nei confronti di alcuni provvedimenti emessi dall’Amministrazione Penitenziaria. Contro le ordinanze del Tribunale di Sorveglianza può essere proposto ricorso per Cassazione. La politica nell’epoca delle false promesse di Federico Fubini Corriere della Sera, 20 agosto 2018 Il programma di 5Stelle e Lega costa tra 108 e 125 miliardi di euro. Si tratta ora di scegliere: perdere la faccia o destabilizzare finanziariamente il Paese. Spararla grossa, più grossa che si può, è ormai una tradizione della politica italiana. Quest’ultima generazione di governanti non ne ha certo il monopolio. Prima di loro hanno esercitato quest’arte Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, dal “milione di posti di lavoro” del 1994 al “meno tasse per tutti” del 2008, alle slide con il pesce rosso del 2014 nelle quali un giovane premier venuto da Firenze prometteva di pagare tutti gli arretrati dello Stato in un batter d’occhio (sono ancora insoluti per decine di miliardi). Dunque niente di nuovo, quando un esponente di governo si arma di faccia tosta e la spara. Qui però si sta passando da forme più o meno artigianali, a una vera e propria industria della sparata come modello per stare sul mercato della politica. Le frasi in libertà di Matteo Salvini contro la Ue per il crollo del ponte di Genova (“colpa dell’austerità”) o di Luigi Di Maio sulla presunta elusione fiscale di Atlantia in Lussemburgo sono solo gli ultimi esempi di affermazioni del tutto disancorate dalla realtà, ma abituali da parte dei politici. Bisognerebbe istituire un registro della sparata suddiviso per autore e argomento. Sarebbe un’enorme banca dati e il motivo è evidente: millantare funziona. Questo modello presenta alti rendimenti per chi lo applica, spesso grazie anche a un vasto (quanto opaco) sostegno organizzato sui social network. L’industria della sparata implica tuttavia un problema: presenta costi per i cittadini, quantificabili in almeno quattro miliardi di tasse in più o spesa sociale in meno nel 2019 solo per effetto dell’aumento degli interessi sul debito che le fanfaronate hanno già provocato. Del resto per un politico oggi la tentazione è forte. È ormai dimostrato che cercare di smontare analiticamente le sparate fa il gioco di chi le lancia, perché mantiene l’attenzione sul quel tema e di solito tutto finisce in un polverone nel quale il pubblico (specie se segue attraverso brandelli di frasi sui social network) fatica a distinguere il vero dal falso. Un esempio classico è stato la campagna per la Brexit quando la campagna del Leave - i favorevoli al divorzio dall’Unione europea - dissero che se avessero vinto loro ci sarebbero stati 350 milioni di sterline in più per il sistema sanitario di Londra. Infondato. Ma chi cercò di confutare non fece che conferire altra eco a una promessa poi dimostratasi determinante per l’esito del referendum. Altro esempio: l’idea di Donald Trump di costruire un muro con il Messico e farlo pagare ai messicani. Anche lì, cercare di ribattere non fece che regalare altra pubblicità a Trump stesso. Il “muro messicano” e l’”assegno da 350 milioni” di Di Maio e Salvini - le loro sparate decisive - naturalmente riguardano i conti pubblici. Entrambi sanno che smontare una smargiassata costa più tempo e energia che lanciarla nell’etere, e raggiunge meno lettori e ascoltatori. Di Maio e Salvini hanno assorbito la legge della politica al tempo di Facebook: una frase che parli alla pancia delle persone e non al cervello (“un assegno di cittadinanza per tutti”, “aliquote al 15% per tutti”, “fuori mezzo milione di clandestini”) diventa molto più virale. Milioni di elettori sono raggiunti in poche ore a costo zero. Il problema è che i politici hanno chiesto il voto su un programma che costa fra 108 e 125 miliardi di euro, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, e ora non sanno come mantenere. Rischiano di dover scegliere tra perdere la faccia e destabilizzare finanziariamente il Paese. Le frasi in libertà loro e dei loro alleati hanno già portato un aumento dello spread che nel 2019 costerà appunto quattro miliardi agli italiani, oltre a un’incertezza che frena consumi e investimenti. I maggiori oneri da interessi e la minore crescita attesa (di cui solo in parte ha colpa la politica italiana) hanno già spostato la rotta a cui tende il deficit pubblico per l’anno prossimo dall’1,6% al 2,4% del Pil. Prima ancora di fare i conti con le promesse elettorali. La via di fuga abituale in questi casi è quella che vediamo già: dare la colpa al “nemico esterno”, una congiura congiunta fra Europa e mercati finanziari. Persino una voce raziocinante come quella del leghista Giancarlo Giorgetti vi dà spago. Ma si tratta di un’altra fantasia ed è facile capire perché. Oggi chi investe centomila euro in Btp a dieci anni incasserebbe entro il 2028 12.800 euro in più che se investisse in analoghi titoli di Lisbona, 16.700 euro in più che se investisse in titoli di Madrid, 28.100 euro in più che se investisse in Bund tedeschi. Se i risparmiatori o i gestori professionali rinunciano a queste opportunità non è per un’autolesionistica “congiura”, ma perché non giudicano credibili i piani dell’Italia dunque non si fidano. Ci sono però altre lezioni dai casi di Brexit e Trump. Coloro che diffusero la balla dei 350 milioni di sterline - Boris Johnson, David Davis, Michael Gove, Nigel Farage - si sono ritirati non sapendo come gestirne le conseguenze. Trump invece nel primo anno è stato circondato da elementi dell’establishment (Rex Tillerson, Gary Cohn, Reince Priebus) messi lì per limitare l’impatto delle sue sparate. Qualcosa di simile è successo in Italia con ministri come Giovanni Tria, Enzo Moavero o Elisabetta Trenta. Nel caso di Trump, gli elementi dell’establishment sono stati fatti fuori nel secondo anno e Trump ha virato verso il radicalismo. Nel caso di Brexit, l’intero progetto sembra ormai una nave alla deriva. Cosa bisogna dedurne per l’Italia? Che siamo più fragili degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, dunque il governo non può permettersi di “licenziare” i moderati al proprio interno. Ma il fatto che Brexit resti popolare fra gli elettori anche dopo la caduta delle false promesse indica una rotta possibile per Di Maio e Salvini. Potrebbero entrambi ritirare la parte incredibile delle loro promesse senza perdere consensi. Se invece scegliessero di continuare a spararle grosse, il costo per gli italiani salirebbe sempre di più. E alla fine anche per loro due. Quel senso di Stato da recuperare nella faida di Alessandro Campi Il Messaggero, 20 agosto 2018 Si è sentito e visto davvero di tutto nelle convulse giornate che hanno seguito la tragedia di Genova. L’ansia di giustizia dei cittadini trasformata in spirito di vendetta popolare, con la ricerca di facili capri espiatori più che di colpevoli effettivi. La celebrazione religiosa delle vittime, che avrebbe richiesto un doloroso silenzio, ridotta ad un’occasione di strumentale polemica tra partiti. La certezza del diritto sacrificata sull’altare della propaganda populista per bocca dello stesso presidente del Consiglio (peraltro un giurista). Accuse incrociate e insensate tra le diverse forze politiche sulle responsabilità del crollo. E poi le legioni di maniaci della tastiera trasformatisi in esperti di scienze delle costruzioni e di diritto amministrativo, capaci di discettare di cedimenti strutturali e revoche di concessioni con la stessa facilità con cui, appena una settimana fa, pontificavano sui pericoli e i vantaggi delle vaccinazioni. Per non dire del ritorno di fiamma statalista e nazionalizzatrice in un Paese dove sino all’altro ieri lo Stato veniva accusato d’essere corrotto, sprecone e inefficiente dagli stessi che oggi vorrebbero riaffidargli la proprietà e la gestione della rete autostradale. Mettiamoci infine la conduzione dilettantesca della crisi da parte dei protagonisti: atteggiamenti che hanno contributo ad accrescere il malumore dei cittadini. E che hanno anche contribuito a diffondere il sospetto, del quale il populismo si nutre, che questi ultimi siano vittime innocenti di un sistema di potere gestito da oligarchie avide di potere e soldi. Il risultato è il contraddittorio caos politico nel quale ci troviamo. Con il presidente della Camera Roberto Fico che chiede scusa a nome dello Stato, con Salvini che sostiene perentorio che lo Stato non accetterà elemosine da privati, laddove sono in molti a sostenere che in Italia semplicemente uno Stato non esiste più. Ma se così è che farsene del cordoglio o dell’orgoglio di un’istituzione il cui ultimo presidio credibile, nello sfascio generale, sembrano essere rimasti i Vigili del Fuoco che per definizione intervengono a catastrofe avvenuta? Ma dal momento che la speranza è proverbialmente sempre l’ultima a morire, chissà che questa tragica contingenza non serva, appena si sarà placata l’onda della retorica partigiana e del sentimentalismo travestiti da intransigenza morale, a produrre se non un salto di qualità nel modo di pensare e operare dell’attuale classe politica (di governo ma senza trascurare l’opposizione) almeno un minimo cambio di marcia da parte di quest’ultima. Intervistato dal Messaggero lo scorso sabato, Massimo Cacciari ha ricordato che lo Stato - in questi giorni maledetto da alcuni per la sua strutturale inefficienza e invocato da altri come l’unico protettore dei cittadini inermi (ma bisogna decidersi: o l’una o l’altra cosa) - è innanzitutto una macchina tecnico-burocratica, politicamente neutrale, che nel caso dell’Italia si è inceppata (non da oggi) e deve perciò essere rimessa in funzione nelle sue diverse articolazioni istituzionali e territoriali. Cosa che semmai dovesse avvenire renderebbe persino inutili le attuali discussioni sulle imprese e i servizi da riportare sotto proprietà pubblica: uno Stato serio ed efficiente può infatti limitarsi a controllare nell’interesse collettivo, ponendo regole e condizioni economiche stringenti, ciò che i privati gestiscono in una logica di legittimo profitto. Ma rimettere il funzione un’anchilosata struttura statale, dove spesso operano funzionari demotivati e privi d’un chiaro indirizzo politico, richiede capacità tecniche e uno spirito pragmatico che nella scena politica italiana, dominata dalla litigiosità e dalla ricerca di un facile consenso basato sulla bulimia da comunicazione, sembrano latitare. Ieri il sotto-segretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, nel colloquio ospitato su queste colonne, ha dato prova di concretezza dicendo che dalla tragedia di Genova si deve partire per mettere mano a un vasto programma di messa in sicurezza infrastrutturale del Paese: dalle strade alla scuole. Il tutto preludio di una politica di sviluppo e modernizzazione senza la quale l’Italia, con la sua rete di strutture sempre più obsolete sul lato tecnologico, rischia di diventare il fanalino di coda del mondo industrializzato. Un obiettivo certamente lodevole e lungimirante che se da un lato pone il problema delle risorse finanziarie necessarie a realizzarlo (davvero si convincerà l’Europa a concederci maggiore flessibilità di bilancio?) dall’altro chiama in causa il modo di porsi sulla scena pubblica dei due vice-premier del governo di cui Giorgetti fa parte. Di Maio e Salvini, in tandem perfetto al di là della diversità di vedute su molti temi, hanno sinora preferito aizzare l’animosità degli italiani contro il vecchio ceto politico, imputandogli ogni nefandezza. Lo hanno fatto ricorrendo ad una strategia mediatici, un misto di promesse a buon mercato e di denunce mosse da un’indignazione spesso legittima (come appunto nel caso della vicenda genovese), che li ha resi certamente “vicini al popolo” ma che ha anche comportato un aumento esponenziale delle attese e, aspetto da non trascurare, una crescente delegittimazione dello Stato di cui pure essi sono tra i massimi rappresentanti istituzionali. In termini di consensi (potenziali e immediati) ciò sta pagando, ma quanto può durare una simile strategia senza che si risolva in un boomerang quando dalle promesse bisognerà pur passare alle realizzazioni concrete e senza che questo stillicidio quotidiano di annunci, proclami e accuse contro gli avversari (reali e concreti ma spesso immaginari e di comodo) produca il crollo definitivo di un sistema istituzionale fragile come è ormai da anni quello italiano? Il vero volto (brutto) dei guaglioni di camorra di Viola Scotto di Santolo La Repubblica, 20 agosto 2018 Secondo voi, come sono fatti i camorristi? Come sono i mafiosi? Sono belli? Sono affascinanti? Citano Stadio e Marquez e amano la lirica e il Vetiver di Guerlain? Mi spiace deludervi. No. Non sono affatto così. Forse avrete letto qualche romanzo in cui i mafiosi erano degli splendidi quarantenni romantici ma, ahimè, quelle descrizioni erano fallaci. Non esistono delinquenti così. E vi dirò di più. Non per questo bisogna smettere di leggere libri sulla Camorra e sulle mafie. Ora vi spiego perché. Anzitutto. Quando la letteratura ha cominciato a interessarsi alla criminalità organizzata? La risposta è: nell’Ottocento. Quando, cioè, si sviluppò un filone letterario atto a indagare i bassifondi delle grandi città. A Napoli in questi bassifondi c’era la malavita. Gli scrittori ottocenteschi, però, che per primi catturarono nei loro racconti questi oscuri soggetti, intravedevano dietro i delinquenti gli emarginati: il povero, l’escluso, l’oppresso. E perciò ci hanno consegnato il ritratto di personaggi sinistri ma carichi di affascinante umanità. Degli smargiassi irresistibili fautori d’una Camorra pietosa. Errore. La Camorra, bisogna tenerlo a mente, non è l’espressione della ribellione dell’uomo contro la miseria, bensì il mezzo violento per uscirne opprimendo la miseria altrui. I camorristi erano quelli che “spremevano il sangue dai pidocchi”. Bisogna aspettare gli anni Ottanta del Novecento affinché si accenda la luce sulla bestialità camorristica. Che cos’è la Camorra? La Camorra è un’organizzazione anarchica, senza una cupola e senza un comando centralizzato, che usa la violenza non come capitale ma come fattore gestionale. Per dirla meglio, la Camorra è una monarchia il cui sovrano è stato eletto per nulla e da nessuno. I camorristi (o perlomeno, i camorristi di città) sono i membri del sottoproletariato urbano, dei plebei disoccupati senza arte né parte, dei popolani violenti più o meno furbi, ma mai laureati, né dotti, né laureati, né letterati. Uomini indolenti che hanno scelto un “lavoro criminale” aspettandosi un reddito superiore a quello ricavabile da un impiego legale. Così, gli scrittori (Veraldi, Ferrandino, De Silva, Longo, Lanzetta) iniziano a raccontare di questi “vermi sociali” che sparano per abitudine, uccidono per fanatismo, conducono esistenze indegne in nome di non si sa bene che cosa, fanno il loro “mestiere” senza sentirsi più l’anima. Scampia, per esempio, come ci racconta Gaetano Di Vaio, è piena di affiliati di terza e quarta fascia che fanno una vita miserabilissima. Prigionieri, carcerati, morti ammazzati. Non campano, in media, oltre i trent’anni. Eccoli i camorristi. E allora perché spesso i narratori ci mettono davanti uomini attraenti e colti che leggono Petrarca e Machiavelli, e collezionano Sinatra, ascoltano la Turandot e frequentano i clacchisti del Teatro San Carlo? Beh, perché i protagonisti dei romanzi devono sedurre, irretire. E i camorristi non affascinano per niente. È molto più intrigante, per un narratore, mettere a capo dei clan gente istruita, avvocati e commercialisti. Ed è molto più intrigante, per noi, crederci. Chaplin lo chiamava il “risarcimento simbolico dei deboli”, una pratica attraverso cui i deboli e gli oppressi si rivelavano essere, a un tratto, oltre le loro debolezze, unici ed eroici. Lo pretendiamo anche noi questo risarcimento. Se i camorristi ci vessano che almeno siano belli. No? Ma la Camorra non risarcisce mai niente di quello che ci ha tolto. E non è un caso se, negli ultimi anni, i romanzi più fortunati sono quelli che i camorristi li sfottono spietatamente. Primi fra tutti i libri di Pino Imperatore. I camorristi non sono rubacuori carismatici, uomini coraggiosi e di gran classe, astuti e inafferrabili. Sono guaglioni che mentre vendono hashish guardano programmi demenziali alla tv, e mentre fanno scippi, rapine e barbarie corrono a depilarsi nel bagno di casa, mentre si sporcano le mani col sangue dei morti ammazzati vanno a fare incetta di abiti griffati. Sono tamarri, pasticcioni, sfigati che senza pistola diventano innocui. Sono attori di un film che hanno scelto di interpretare e lo interpretano male scimmiottando le vecchie glorie, in una sorta di mimetismo batesiano in cui animali inoffensivi si camuffano da specie aggressive per non essere predati. Eppure. Non bisogna cessare di leggere libri e romanzi sulle mafie. Non bisogna ascoltare quelli che dicono che “pare brutto”. Pare brutto parlare male di Napoli e della Sicilia o della Calabria. Pare brutto, come contestò ironicamente il saggista De Stefano nel suo discorso “Per un’informazione non contro ma sulla Camorra”, che invece di lavarci i panni sporchi in casa nostra li appendiamo in libreria. Non li ascoltate i parebruttisti. Si accontentano di poco loro. Che nelle altre città dilaghi ugualmente l’illegalità o l’efferatezza, per esempio. Che magra consolazione, non trovate? Il silenzio ha gonfiato la Camorra come un cancro. L’ha pasciuta. Ha fatto diventare la Campania una gruviera da cui gocciola il veleno. Non vi arrendete al silenzio. Niente pecore all’ex bandito Matteo Boe: l’idea dei pastori sardi bloccata dalle polemiche di Nicola Pinna La Stampa, 20 agosto 2018 Le accuse su Facebook fermano l’antico rito di “sa paradura”: ogni allevatore avrebbe donato un agnello per aiutare l’ex latitante a formare un nuovo gregge e ricominciare a lavorare. Quando c’è una vita da ricostruire la solidarietà vale per tutti. Per chi ha perso l’azienda dopo un’alluvione o per chi fa i conti con i danni provocati da un incendio. E anche per chi è pronto a ricominciare dopo un passato complicato e molti anni di carcere. Quando c’è qualcuno da aiutare, i pastori sardi non stanno certo a spulciare il suo curriculum. E raccogliere quella mano tesa che arriva puntualmente dalle campagne questa volta sarebbe stato un uomo che per molti anni ha dovuto interrompere il suo lavoro negli ovili. Si chiama Matteo Boe e nel suo paese è rientrato dopo anni di fuga e latitanza, alla fine di 5 lustri vissuti nelle patrie galere. Con l’aiuto dei colleghi, che per lui avevano deciso di ripetere il vecchio rito di “sa paradura”, sarebbe potuto tornare nei pascoli con un gregge tutto suo. Ma quell’antica catena di solidarietà, che in Barbagia si ripete ancora allo stesso modo, questa volta si interrompe: spezzata delle polemiche moderne, quelle che corrono veloci e spietate sui social. L’idea era semplice, quella di portare avanti una tradizione dei nonni e che qui è ancora un’abitudine sacra: ogni volta che un pastore si ritrovava senza i suoi animali ognuno dei colleghi dona un agnello. E così il gregge si riforma in un attimo. Ma Matteo Boe dovrà fare tutto con le sue forze, perché lo spietato popolo urlante dei social ha sommerso di critiche gli ideatori dell’iniziativa, al punto da costringerli alla resa: “Rinunciamo - dicono i pastori - per non consentire ai leoni da tastiera di denigrare un uomo che ha già pagato per i suoi errori”. Nel romanzo criminale della Sardegna, le avventure di Matteo Boe riempiono molte pagine, tutte di primo piano. Di certo quelle sui sequestri di persona. Perché l’ex bandito di Lula ha alle spalle la condanna per uno dei rapimenti più drammatici, quello di Farouk Kassam. Un bambino che nel 1992 aveva solo 7 anni e che a casa torno dopo molti mesi vissuti in un grotta del Supramonte e con un orecchio mutilato. Per quella storia, Boe ha scontato interamente la pena e infatti dal giugno del 2017 è tornato in paese. In silenzio, senza mai raccontare nulla di quel passato da primula rossa, né dei tanti misteri che ancora avvolgono le sue avventure. Da un anno fa vita ritirata e non ha mai ceduto alla tentazione di parlare del dramma familiare che in 15 anni non ha trovato una spiegazione. Perché è vero che in paese qualcuno ha la sua idea ma la giustizia non è mai riuscita a individuare i responsabili della morte della figlia di Boe. Si chiamava Luisa e a soli 14 anni venne raggiunta da una fucilata in pieno volto mentre si affacciava al balcone di casa. Fatti vecchi, di certo non dimenticati, ma che c’entrano poco con l’iniziativa di solidarietà dei pastori sardi. Almeno secondo l’idea del cantante-pastore Gigi Sanna, che lo scorso anno aveva organizzato una grande mobilitazione anche per i colleghi dell’Umbria colpiti dal terremoto. “Con questa nuova iniziativa volevamo offrire una seconda possibilità a chi ha commesso errori”. Ma sui social fanno vigere la regola della condanna a morte. Vittima di stupro, risarcisce lo Stato di Franco Vanni La Repubblica, 20 agosto 2018 L’episodio risale a 12 anni fa, il responsabile non è mai stato trovato: il presidente del Consiglio verserà 5mila euro. Nell’agosto del 2006 fu violentata a Milano da uno sconosciuto che l’aveva raggiunta per strada, mentre tornava a casa dal lavoro. Il responsabile dello stupro non è mai stato individuato. Dodici anni dopo, il tribunale di Roma ha condannato il presidente del Consiglio dei ministri a risarcirla del danno subito, come previsto dalla direttiva 80 del 2004 dell’Unione Europea, che impone agli Stati membri di “garantire adeguato ed equo ristoro alle vittime di reati violenti e intenzionali impossibilitate a ottenere il risarcimento dai loro offensori”. La donna, italiana, ha però avuto una brutta sorpresa: il presidente del Consiglio dovrà versarle appena 4.800 euro. Un decimo rispetto a quanto corrisposto negli anni scorsi alle (pochissime) donne che hanno chiesto allo Stato di risarcirle per violenze subite da uomini rimasti ignoti. “Sono contenta che dopo tanti armi la mia assistita sia stata risarcita per quello che ha subito - dice Carmen Di Salvo, avvocato della donna - però l’importo è davvero troppo basso. In casi analoghi, per violenze sessuali commesse a Torino e a Firenze, i risarcimenti riconosciuti sono stati nell’ordine dei 50mila euro. Purtroppo, negli ultimi anni governo e parlamento hanno di molto ridotto gli importi dovuti alle vittime di reati violenti di autore ignoto”. La possibilità di farsi risarcire dallo Stato nel caso in cui il colpevole non venga individuato è poco nota in Italia. E in mancanza di giurisprudenza, gli stessi tribunali gestiscono con fatica le, cause che vengono promosse dalle vittime. In alcuni casi, si è ritenuto che il giudice naturale cui spetta la decisione sul risarcimento sia quello del luogo in cui è avvenuta la violenza. In altri, come quello della donna stuprata a Milano, si è ritenuto che il tribunale competente sia quello di Roma, perché lì ha sede la presidenza del Consiglio. La sentenza della Seconda sezione civile del tribunale romano, firmata dal giudice Corrado Cartoni, oltre a riconoscere alla donna i 4.800 euro, impegna il presidente del Consiglio anche a pagare 1.100 euro per le spese processuali. “È inadempiente lo Stato italiano - scrive Cartoni - perché... non ha provveduto a prestare adempimento all’obbligo comunitario di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi nel suo territorio”. L’avvocato Di Salvo commenta: “Nonostante l’esiguità degli importi, è giusto che i cittadini vittime di reato pretendano quanto Io Stato deve loro, se il sistema della giustizia non ha saputo individuare i colpevoli”. Lazio: carceri polveriera tra liti, rivolte e sovraffollamento da record di Flaminia Savelli La Repubblica, 20 agosto 2018 È allarme sicurezza nelle carceri del Lazio per il sovraffollamento. Una bomba a orologeria pronta a esplodere. E prima dei numeri che raccontano una situazione drammatica, ci sono i gravi episodi - con tre agenti feriti e una fuga sventata - che ad agosto hanno fatto scattare l’allerta. L’ultimo è di sabato mattina quando a Mammagialla, penitenziario di Viterbo, durante i controlli gli agenti hanno trovato nascosti in una cella due cellulari con tanto di scheda sim e carica batterie. La notte prima, a Cassino, due poliziotti penitenziari sono finiti intossicati al pronto soccorso con 5 giorni di prognosi perché un detenuto aveva dato fuoco a una cella. Ancora: il 16 agosto un altro detenuto a Rieti ha tentato di evadere dall’ospedale San Camillo De Lellis dove era stato ricoverato dopo essersi procurato delle lesioni mentre era in carcere. A fermare la fuga sono stati i poliziotti che lo piantonavano insieme all’aiuto dei vigilantes. Infine a Roma, a Casal del Marmo, il giorno di Ferragosto è scoppiata una rissa tra due stranieri, un ragazzo di origini arabe e un giovane di etnia rom. Una delle guardie intervenuta per separarli è stato spinto a terra e si è lussato una spalla. Dopo la lite, i disordini si sono trascinati all’interno delle celle dove sono stati appiccati degli incendi. Gli agenti penitenziari, con gli estintori d’emergenza, hanno provveduto a spegnere le fiamme e a riportare la calma. Ma le carceri sono una polveriera con una situazione arrivata ormai al limite della sicurezza, denuncia la Fns Cisl Lazio che conta - solo nel mese di agosto - un sovraffollamento di 1.044 detenuti nelle prigioni regionali. Risultano infatti 6.314 detenuti reclusi nei 14 istituti del Lazio rispetto a una capienza regolamentare prevista di 5.270. Nello specifico: a Regina Coeli, ce ne sono registrati 337 in più. A Rebibbia addirittura 380. La situazione non migliora a Velletri che conta un sovraffollamento di 144 unità. Neanche a Viterbo dove nell’ultimo mese, i detenuti in più sono 117 rispetto alla capienza regolare. “Il numero crescente del sovraffollamento comporta gli innumerevoli eventi critici nei confronti del personale - spiega Massimo Costantino, segretario regionale aggiunto Cisl - Nelle ultime due settimane, abbiamo registrato risse e diversi episodi violenti. É paradossale - sottolinea - che lo stato che deve garantire la sicurezza non riesca ad assicurarla neanche ai poliziotti nelle carceri. Occorrono più organici, più formazione, una diversa organizzazione del lavoro ed un sistema rieducativo che preveda benefici e anche sanzioni”. Un primato regionale negativo che già ad aprile era stato segnalato. Questa volta dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Stefano Anastasia: “Il Lazio ha un tasso di sovraffollamento pari al 121% che è superiore a quello nazionale pari al 115%”, aveva sottolineato presentando la propria relazione. Un problema, quello del sovraffollamento, che riguarda però l’intero Paese: dopo la condanna del 2013 della Corte di Strasburgo, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa a marzo dello scorso anno, annotava che “le carceri italiane sono ancora troppo affollate”. Le autorità italiane avevano subito ribattuto che stavano prendendo le adeguate contromisure. Come permettere ai detenuti stranieri di scontare la pena nei loro paesi e di ricorrere con maggiore frequenza alle misure alternative alla detenzione. Un percorso a ostacoli che incontra continui stop e che mantiene ben oltre il limite tollerabile il numero di brande occupate nelle carceri. Taranto: detenuto suicida, il Consigliere Borraccino “altra sconfitta della società” Corriere di Taranto, 20 agosto 2018 “La notizia dell’ennesimo suicidio nel carcere di Taranto scuote tutta la nostra indignazione per una tragedia che non doveva consumarsi, per una vita che doveva essere salvata. Da tempo denunciamo lo stato emergenziale in cui versa l’Istituto Penitenziario di Taranto, una struttura organizzata e gestita con professionalità ma che da tempo lamenta forti criticità legate al sovraffollamento”. Commenta così il consigliere regionale Mino Borraccino la notizia del suicidio di un detenuto all’interno della casa circondariale di Taranto. “Il carcere di Taranto infatti con i suoi 567 detenuti a fronte di una capienza di 306 posti registra un tasso di sovraffollamento del 185% rispetto alla media nazionale che si attesta al 111% - prosegue Borraccino. Questa situazione è alquanto allarmante, poiché mette a rischio gravemente la sicurezza di quanti vivono ogni giorno quella realtà, dunque i detenuti in primis oltre a tutto il personale operante nella struttura. Questo sovraffollamento, come appare evidente, ha anche ricadute pesantissime sulla condizione di salute e di equilibrio psichico sia dei detenuti (per i quali, purtroppo, sono molteplici i tentativi di suicidio dovuti a condizioni invivibili) ma anche del personale penitenziario, costretto a lavorare in una situazione al limite della sostenibilità”. “Ciò che è accaduto al giovane detenuto tarantino, in attesa di giudizio, è drammatico e doveva essere evitato semplicemente implementando il personale di vigilanza - argomenta il consigliere regionale - come spesso denunciato non solo da noi di SI-LeU, che abbiamo avuto modo di constatare di persona durante una recente visita all’istituto, ma dal Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, dott. Rossi, oltre ai sindacati del personale operante nelle strutture. Urge riconoscere lo stato di emergenza carceraria, poiché le condizioni in cui si opera sono al limite della sostenibilità, per la grossa mole di reparti da vigilare sovraffollati da detenuti. È inaccettabile assistere ancora a questi drammi - aggiunge - che sono sintomo di una società in sofferenza che non solo spesso fallisce perché non riesce a innescare i buoni propositi nei nostri giovani ma non garantisce neanche un minimo di recupero di queste persone che andrebbero innanzitutto accolte in strutture sicure nelle quali riavviare un percorso rieducativo. Occorrono più strutture Rems in Puglia, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza che hanno consentito il superamento delle Ospedali Psichiatrici Giudiziari, come chiesto recentemente anche al Consiglio regionale della Puglia con una mia interrogazione, per garantire una connotazione utile per i pazienti che debba essere quanto più possibile di natura transitoria. Bisogna implementare il personale ed assicurare un ricambio generazionale, per garantire la sicurezza che non può sempre improvvisarsi con interventi fortuiti che questa volta purtroppo non sono bastati.”, conclude Borraccino Taranto: suicidio in carcere, i Radicali “il sistema carcero-centrico è medioevale” tarantobuonasera.it, 20 agosto 2018 Il cordoglio dell’associazione Marco Pannella dopo l’ennesimo episodio a Taranto. “Neanche un mese fa eravamo stati in visita ispettiva presso il carcere di Taranto per verificare la condizione nella quale si era tolto la vita Michele La Neve, un ragazzo rinchiuso in galera in custodia cautelare solo poche ore prima. A dire il vero, Dopo essere stato in Carcere con esponenti di Pd e Forza Italia, avevamo chiesto ai parlamentari 5 stelle di accompagnarci a Ferragosto ma non abbiamo ricevuto risposta. E mentre nulla ancora é venuto alla luce di quella tragica è ingiusta vicenda veniamo a sapere che proprio dopo ferragosto un altro ragazzo si è suicidato in cella a Taranto. Non sappiamo né il suo nome né le ragioni ne la situazione in cui ha vissuto in galera, cosa di cui cercheremo di informarci con una visita immediatamente. L’unica cosa che però sappiamo è che anche lui era in carcere per arresti preventivi, scontava cioè una pena che ancora non gli era stata data”. È quanto si legge nella nota diffusa dall’associazione Marco Pannella. “Le condizioni delle carceri - prosegue la nota - sono tragiche e continueremo come sempre costantemente a verificarle, segnalarle e denunciarle, ma mai la soluzione ad esse sarà come paventa il nuovo Governo “più galera”. Il sovraffollamento del carcere di Taranto è un’emergenza, ma ad essa non si può rispondere come ha proposto il Garante regionale pugliese dei detenuti con il loro trasferimento in altro istituto (anche perché sono sovraffollati tutti). Il problema riguarda la Concezione della pene, e la diversificazione, personalizzazione e utilità delle pene. E complessivamente tutta la giustizia. Come la riforma penitenziaria Orlando tentava di fare e che invece il nuovo governo ha affossato per un più medioevale ed inutile sistema carcero-centrico. Il fatto che ancora oggi, nonostante tutti i mini decreti cosiddetti svuota carceri, che nulla hanno svuotato, quasi la metà della popolazione penitenziaria è in galera preventivamente in attesa di giudizio e che di questi oltre la metà a fine processo verrà dichiarata innocente, dimostra che la custodia cautelare è solo un modo per pubblicizzare sicurezza a discapito delle garanzie, usato per garantire una pena che anche per colpa della lentezza della giustizia non trova luce nel processo, e a volte, come in questo caso, neanche nel corso della vita. Esprimiamo come sempre la nostra solidarietà a tutti gli operatori che con i detenuti soffrono le pene di una comunità penitenziaria vittima tutta di questo sistema di mala giustizia, continueremo a lottare insieme per il diritto di chiunque, e quindi degli ultimi, e quindi di tutti”. Napoli: vittoria dei detenuti a Poggioreale, lo sciopero della fame è sospeso di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 20 agosto 2018 I reclusi hanno ottenuto delle concessioni dalla direzione dell’istituto dopo le proteste. Ora d’aria con abiti leggeri e colloqui su appuntamenti senza attese. I detenuti nel padiglione Milano del carcere dì Poggioreale hanno sospeso lo sciopero della fame: dopo il reportage di Cronache di Napoli che ha raccontato la loro protesta, hanno ottenuto delle concessioni ed è migliorala in parte la vivibilità nelle celle. Una prima vittoria, dopo gli appelli lanciati attraverso il giornale. La direzione dell’istituto in via nuova Poggioreale ha concesso dì poter scendere ai passeggi in pantaloncini e ciabatte (e non più con pantaloni lunghi e scarpe). Inoltre da settembre ci saranno colloqui personalizzati e prenotati via telefono con appuntamento, senza dover fare file. Migliorano anche i “prezzari”, con un abbattimento dei costi dei prodotti venduti ai reclusi. “Piccole cose, ma per i detenuti significa davvero tanto. Soffrono molte privazioni e ottenere delle attenzioni per loro conta molto - racconta il presidente dell’associazione degli ex detenuti organizzati napoletani, Pietro loia - chi è all’esterno di un penitenziario, difficilmente può comprendere le esigenze di un detenuto. Noi riceviamo decine di lettere, per tantissime esigenze. A volte sono le più semplici e banali. Cose impensabili per una persona non privata della libertà”. Dopo le proteste il garante dei detenuti. Samuele Ciambriello. ha passato in rassegna le celle a Secondigliano e a Poggioreale. Qui il 14 agosto c’è stata una sorta di sommossa”. A 24 ore dalla protesta di due detenuti per il caos sanità, l’intero padiglione Milano ha cominciato lo sciopero della fame e la “battitura” (il rumore delle posale e altri oggetti metallici sulle grate delle celle). Una protesta per chiedere dì migliorare le condizioni di vivibilità nell’istituto in via nuova Poggioreale. In una lettera alla direzione della Casa circondariale i reclusi nel padiglione Milano dicono “basta alle lunghe attese per i colloqui, soprattutto in questi mesi caldi. I familiari che attendono con il caldo rovente. Chiediamo rispetto e dignità. Siamo esseri umani”. E ancora: “Sia rivisto il prezziario (la merce venduta nel carcere), siano cambiali cuscini e materassi, più visite mediche e più rapide, che sia tolta la terza branda dalle stanze. E chiediamo che sia migliorato anche il vitto. In caso di risposte negative, procederemo con la protesta della battitura”. Era la lettera con la quale i reclusi avevano comincialo lo sciopero della fame. Ma tutto era iniziato dal “caos sanità”: decine di detenuti sul piede di guerra. Molte le missive, che arrivano alle associazioni. Benito scrive una lettera-appello per chiedere aiuto alle istituzioni: “Soffro di insufficienza venosa e nello stesso tempo sono un soggetto allergico ai medicinali, dunque non posso prendere nemmeno una pillola per il mal di testa. La mia vita è appesa a un filo. Non chiedo la libertà, cerco solo di essere curalo adeguatamente”. Mario ha 47 anni e abita nel quartiere di San Giovanni a Teduccio. È detenuto a Poggioreale da sei mesi. La figlia è preoccupata per lo stato di salute del padre e chiede di intervenire con urgenza, per curarlo. Saluzzo (Cn): lettera aperta dei detenuti “non fatevi mai giustizia da soli” targatocn.it, 20 agosto 2018 Siamo un gruppo di detenuti del carcere Rodolfo Morandi di Saluzzo, che ha deciso di prendersi l’impegno di inviare ogni anno ai giornali, a ridosso dell’8 settembre, una lettera aperta alla cittadinanza. Così com’è difficile mantenere la propria parola fuori dal carcere, doppiamente difficile lo è per noi, poiché nel corso di un anno molte sono le cose che possono accadere: qualcuno di noi potrebbe essere stato trasferito in un altro carcere o agli arresti domiciliari; qualcuno potrebbe nel frattempo essere morto di cancro; altri, finito di scontare la propria pena, potrebbero già essere tornati in libertà. ù Ma faremo di tutto per essere fedeli a questo impegno; e sarà sufficiente che almeno due testate giornalistiche pubblichino la nostra lettera per poter dimostrare di aver mantenuto la promessa. Possiamo contare su Cascina Macondo, l’associazione di Promozione Sociale che da anni ci tiene impegnati con interessanti progetti e laboratori, e sarà sufficiente che un’altra sola testata, una rivista, un telegiornale, una fanzine, un blog, una pagina facebook, una sola, dia spazio a queste nostre parole. Ringraziamo sinceramente coloro che avranno voluto accoglierci. Ci teniamo a precisare che non parliamo a nome di tutti i detenuti del carcere di Saluzzo, e nemmeno a nome di tutti i detenuti delle carceri italiane. Così come è vero che fuori dalle mura, tra voi uomini liberi, ci sono mille teste e mille opinioni, altrettanto vero lo è per noi. Quindi parliamo a nostro nome, anche se supponiamo che molti potrebbero condividere i contenuti di questa lettera e le nostre intenzioni. Potevamo scegliere, come periodo simbolico, i giorni a ridosso del Primo Maggio, festa dei lavoratori, in quanto ci piace pensare che, pur se ristretti, vorremo vestire il ruolo di “lavoratori per la riconciliazione”. Abbiamo invece scelto l’8 settembre, ricorrenza della nascita della Beata Vergine Maria, ma soprattutto giorno dell’armistizio e inizio della Resistenza. Simbolicamente ci è sembrato più appropriato, in quanto siamo detenuti che pacificamente vogliono conquistarsi nuovi strumenti: la parola, la filosofia, il diritto, la cultura, il dovere, l’istruzione. Ma fin qui è solo premessa. Perché scrivere una lettera aperta alla cittadinanza? Semplicemente per esprimere a tutti voi che vivete al di là delle mura, donne e uomini liberi, un pensiero che abbiamo fatto nostro in questi anni di detenzione, di silenzio, di riflessioni. Un pensiero che vuole essere un consiglio soprattutto rivolto ai giovani, il seguente: “non fatevi mai giustizia da soli”. Ecco, ci tenevamo a dirlo che occorre resistere con ogni mezzo alla tentazione di farsi giustizia da soli. È l’errore che molti di noi hanno commesso. Ci teniamo ad affermare questo principio di cui ora siamo davvero consapevoli. Malgrado a volte lo Stato e le Istituzioni siano assenti, spesso latitanti, a volte ottuse e impietose, a volte arroganti e prepotenti quanto lo siamo stati noi in passato, malgrado questo, profondamente sentiamo di poter affermare: “non fatevi mai giustizia da soli, perché potreste scoprire un giorno che quella non era giustizia”. Noi abbiamo sbagliato e stiamo scontando la nostra pena. A coloro che ancora non hanno sbagliato, a coloro che sono giunti al confine con l’errore, a coloro che pensano che non sbaglieranno mai, auguriamo di prendere in considerazione l’idea che noi e la nostra esperienza possiamo essere una risorsa e non un rifiuto. E che anche noi siamo uno spicchio di quella stessa cittadinanza di cui tutti facciamo parte. E che un mondo migliore non solo lo desiderano coloro che vivono liberi, ma anche coloro che vivono rinchiusi tra le mura di un carcere. Con la speranza di essere di nuovo accolti qui l’anno prossimo ringraziamo per lo spazio che ci è stato concesso. Sottoscrivono: Ally Mhando, Angelo Rucco, Emilio Toscani, Gian Luca Landonio, Giuseppe Pelaia, Matteo Mazzei, Pasquale Austero Appello da Lampedusa per accogliere i migranti, crescono le adesioni La Repubblica, 20 agosto 2018 “Lampedusa porto aperto” è la scritta che campeggia su un lenzuolo circondato da una cornice di lumini accesi. Lo striscione è iniziativa del Forum Lampedusa solidale, che riunisce diverse associazioni sull’isola, per chiedere il trasferimento sulla più grande delle Pelagie dei 177 migranti, tra cui 28 minori non accompagnati, 12 donne, 137 uomini, da cinque giorni a bordo della nave Diciotti bloccata a poche miglia dall’isola. Intanto compaiono i tweet che lanciano la stessa preghiera: “fateli scendere”. L’appello è al presidente Mattarella: “Le chiediamo di intervenire, e di pretendere che la guardia costiera possa attraccare a Lampedusa - si legge - non solo per sentimento di umana solidarietà ma per evitare che un eventuale respingimento in Libia pesi come un’onta irrimediabile non solo su chi l’ha autorizzata ma sull’intero paese. Rigettare 177 esseri umani nell’orrore delle carceri libiche sarebbe un dramma non meno grave (di quello di Genova, ndr) - frutto di una scelta politica alla quale le chiediamo di opporre la sua fermezza, le sue prerogative e il suo rifiuto”. Lo striscione è stato sistemato ieri sera in piazza Castello. Già nei giorni scorsi erano stati collocati altri manifesti con le scritte: “Lasciarli in mare...quanto voti vale?” e “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Intanto sono già centinaia le firme in calce alla lettera-appello indirizzata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha tra i primi firmatari il parlamentare regionale dei Cento passi e presidente della commissione regionale Antimafia, Claudio Fava, l’ex sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, il medico protagonista di Fuocoammare, Pietro Bartolo, e il giornalista Francesco Viviano. Nave “Diciotti” ancora in stand-by, Salvini: intervenga Ue o migranti in Libia di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2018 Lo stallo continua per le sorti della nave della Guardia costiera italiana “Ubaldo Diciotti”, al centro dell’ennesimo braccio di ferro politico diplomatico tra Italia e Malta. L’ultimo a intervenire sulla vicenda del pattugliatore d’altura della nostra Guardia costiera con 177 migranti a bordo ferma al largo di Lampedusa in attesa di un luogo di attracco è il ministro dell’Interno Matteo Salvini. “O l’Europa decide seriamente di aiutare l’Italia in concreto, a partire ad esempio dai 180 immigrati a bordo della nave Diciotti, oppure saremo costretti a fare quello che stroncherà definitivamente il business degli scafisti. E cioè riaccompagnare in un porto libico le persone recuperate in mare”, attacca il vicepremier. “Gli 80mila sbarchi in meno dall’inizio dell’anno e 32mila in meno in quasi due mesi e mezzo da ministro sono risultati ottimi ma non mi accontento”, aggiunge poi, confermando la linea dura del Governo giallo verde. E in serata è arrivata la richiesta della Farnesina di un intervento formale di Bruxelles sulla vicenda. Il ministero degli Esteri “ha ufficialmente e formalmente investito della questione la Commissione europea” si legge in una nota del dicastero “affinché provveda a individuare una soluzione in linea con i principi di condivisione tra gli Stati membri dell’Unione Europea”. Il governo italiano, prosegue il testo “ritiene indispensabile che la Commissione assuma direttamente l’iniziativa, vocata a individuare i Paesi Ue disponibili ad accogliere le persone salvate in mare”. Il ministro Moavero Milanesi: “Serve azione decisa dell’Europa” - “Un’azione decisa da parte delle istituzioni europee, che l’Italia naturalmente sostiene appieno - ha sottolineato il ministro Enzo Moavero Milanesi - può consentire di superare in modo ordinato e sistemico le difficoltà e rendere strutturale l’approccio di condivisione degli oneri, peraltro già applicato più volte, negli ultimi due mesi, sulla base di intese ad hoc fra gli stessi Stati”. Toninelli: “Comportamento Malta inqualificabile” - La presa di posizione del ministro è destinata ad accrescere la tensione nei rapporti con le autorità di Malta, già messe a dura prova dal duro scambio via twitter di questa mattina tra il ministro delle Infrastrutture M5S Danilo Toninelli e il ministro dell’Interno maltese. “#Diciotti dimostra che l’Italia non si tira mai indietro quando si tratta di salvare vite umane. Il comportamento di Malta è ancora una volta inqualificabile e meritevole di sanzioni. L’Ue si faccia avanti e apra i propri porti alla solidarietà, altrimenti non ha motivo di esistere”, ha scritto Toninelli, rilanciando il rimpallo delle responsabilità sull’accoglienza. La Valletta: unica soluzione è sbarco a Lampedusa - La replica del ministro degli Interni maltese Michael Farrugia non si è fatta attendere. Per i migranti raccolti dalla Diciotti, scrive Farrugia in un tweet indirizzato a Salvini e Toninelli, “l’unica soluzione finale è di sbarcarli a Lampedusa o in un porto italiano. Se l’Italia vuole ancora trattare questo caso come un #salvataggio, Lampedusa rimane il luogo più vicino di sicurezza secondo le convenzioni applicabili”. La Guardia costiera italiana, conclude il tweet del ministro, “ha intercettato i #migranti all’interno del Sar maltese soltanto per impedirgli di entrare nelle acque italiane”. Salvataggio in mare a Ferragosto - Il pattugliatore d’altura “Diciotti”, fermo da quattro giorni al largo di Lampedusa con 177 migranti a bordo, attende indicazioni da parte del Viminale sul “porto sicuro” dove attraccare. Il ministero dell’Interno a sua volta chiede l’intervento del governo di Malta, ma La Valletta continua a negare ogni collaborazione. Inizialmente i migranti, soccorsi a Ferragosto mentre si trovavano su un barcone in avaria, erano 190 ma 13 di loro, tra cui alcuni bambini e una donna che avrebbe subito violenze in Libia, sono stati trasferiti nel poliambulatorio di Lampedusa perché bisognosi di cure. Il monitoraggio di Bruxelles e la ricerca di una soluzione europea - Da venerdì 17 agosto la vicenda è monitorata “molto da vicino” dalla Commissione Ue che ha avviato contatti con gli Stati membri per definire un accordo sulla distribuzione dei migranti a bordo, intesa, che come in altri casi precedenti, permetterebbe di trovare un porto sicuro per lo sbarco. Anche il ministro degli Esteri italiano, Enzo Moavero Milanesi ha avviato contatti per sollecitare l’aiuto degli altri paesi europei. Droghe, gli italiani ai primi posti in Europa. Ecco chi consuma cosa di Cristina Da Rold Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2018 Quanto a consumo di droghe il nostro paese è fra i peggiori in Europa, con il 22% degli adulti fra i 15 e i 64 anni che nel 2017 ha fatto uso di una qualche sostanza. La stessa percentuale dell’Olanda. Se consideriamo la percentuale di persone dai 15 ai 64 anni che nell’ultimo anno ha assunto una qualsiasi droga, l’Italia si colloca in terza posizione dopo Repubblica Ceca e Francia. Per quanto riguarda il consumo di cannabis siamo addirittura in seconda posizione a pochissima distanza dalla Francia, e in quarta per assunzioni di cocaina. Non siamo invece fra i principali consumatori in Europa di Ecstasy e Amfetamine. Numericamente, come consumi è la cannabis a risultare predominante, mentre la cocaina è la principale sostanza confiscata nel nostro paese e l’eroina (un oppiaceo) la prima causa di morte per overdose. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal bollettino annuale Emcdda (Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze) a farla da padrona è la cannabis, sia in Italia che in Europa, consumata da 23,5 milioni di persone (il 7% della popolazione), di cui 17,1 milioni di giovani under 34 (il 13,9% di loro). L’87% degli europei ha dichiarato di aver consumato cannabis almeno una volta nella vita. Sono tuttavia i giovani a consumarla di più: il 21% dei 15-24enni, il 16% dei 25-34enni, il 7% dei 35-44enni, il 3,6% dei 45-54enni e solo l’1% degli over 55. La Cocaina è stata assunta da 3,5 milioni di individui (l’1% del totale) di cui 2,3 milioni di giovani con meno di 34 anni (l’1,9%), l’Ecstasy (Mdma) da 2,7 milioni (lo 0,8% della popolazione), per la maggior parte giovani (2,3 milioni, cioè l’1,8% del totale); infine, le amfetamine sono state assunte negli ultimi 12 mesi da 1,8 milioni di persone (lo 0,5% della popolazione) di cui 1,3 milioni di under 34 (l’1,1% della popolazione). E gli oppiacei, come metadone, buprenorfina, morfina e ossicodone? Si stimano in Europa ben 1,3 persone a rischio di complicanze dal punto di vista sanitario, dal momento che l’81% delle overdosi del 2017 hanno registrato la presenza di uno più oppiacei. Solo nei 30 giorni precedenti all’intervista il 4% dei 15-64enni italiani ha dichiarato di aver fatto uso di cannabis, dato che ci colloca in sesta posizione rispetto al resto d’Europa. Per fare un paragone, in Olanda la percentuale è del 5,3%, in Francia del 6% e in Spagna del 7%. Le cose vanno abbastanza similmente come trend per la cocaina, che però pare non interessare i più giovani, mentre continua a essere utilizzata dai 25-34enni: il 2,6% di loro ha dichiarato di averne fatto uso nei 12 mesi precedenti all’intervista, a cui si aggiunge l’1,5% dei 35-44 enni. I dati mostrano che siamo fra i paesi in Europa con il più alto consumo di cocaina, con un 1,1% in media fra i 15 e i 64 anni. Peggio di noi solo Spagna e Regno Unito. Fra i più giovani però va forte l’ecstasy: l’1,2% dei ragazzi con meno di 24 anni l’ha provata almeno una volta nell’ultimo anno. L’1,3% ha assunto amfetamine, il 2,3% MDMA e il 17% cannabis. Ancora più pericolosa la diffusione di nuove sostanze psicoattive fra gli adolescenti. Secondo il rapporto, 3 15-16enni su 100, cioè un ragazzi per classe, avrebbe fatto uso di qualche nuova sostanza. Nel 2016 è stata immessa sul mercato circa una nuova sostanza psicoattiva alla settimana, anche se il trend pare in calo rispetto agli anni precedenti per due possibili ragioni. Primo, poiché alcuni paesi europei hanno introdotto legislazioni più stringenti in materia di farmaci generici e indirizzati ai produttori e distributori di nuove sostanze psicoattive. Secondo, perché gran parte di queste nuove sostanze arriva in Europa dalla Cina ed è possibile che i nuovi controlli introdotti in tale paese abbiano avuto un qualche impatto sulla disponibilità di queste sostanze all’interno dell’Unione europea. Inoltre, se è vero che sono di più gli adolescenti europei che nell’ultimo hanno abusato di alcol o hanno fumato abitualmente tabacco (rispettivamente il 37,5% e il 23% dei 15-16enni), contro il 7,5% di loro che ha fatto uso di cannabis, per i primi due cioè alcol e fumo le cose sono andate migliorando negli ultimi 10 anni, mentre la percentuale di chi assume cannabis è rimasta invariata. Una buona notizia, specie per l’Italia, è comunque che di overdose si muore sempre meno. Nel 1995 l’Italia ha registrato oltre 1.200 morti in un solo anno, lo stesso numero della Germania, mentre la Francia 400 e l’Olanda 100. Vent’anni dopo registriamo appena 200 morti, e per questo siamo il paese che ha maggiormente abbattuto il numero di morti per overdose rispetto a quelli considerati. Nel 2015 la Germania continuava a registrare 1.100 decessi per overdose, esattamente come 20 anni fa. La Francia addirittura ha visto aumentare seppure di poco il numero di morti dal 1995, così come l’Olanda. Ma il paese dove le cose vanno decisamente peggio è il Regno Unito. Lì le morti per overdose non sono solo tantissime, ma addirittura di molto aumentate, toccando quota 2.655 nel 2015. L’estate dello sballo violento: droga e risse, chiusi 80 locali di Francesco Rigatelli La Stampa, 20 agosto 2018 Nella Riviera Romagnola e a Roma gli ultimi provvedimenti. I gestori: “Troppa severità”. Oltre al caso di Niccolò Bettarini, accoltellato otto volte il 2 luglio fuori dall’Old fashion di Milano, sono innumerevoli gli episodi di violenza in discoteca. Ieri a Roma la polizia ha eseguito il decreto di sospensione della licenza emesso dal questore per un locale da ballo a Ponte Milvio, atto seguito a 14 segnalazioni di liti, ferimenti e furti in serie. E ieri l’altro il questore di Milano ha fatto lo stesso per la discoteca Fellini, a Pogliano, dove il 3 marzo i carabinieri sono intervenuti perché i buttafuori avevano preso a pugni un cliente. All’episodio sono seguiti una molestia a una ragazza, con fuga dell’aggressore protetto dal branco, una lite tra due giovani e una rissa con due feriti nel parcheggio. “C’è un’escalation di violenza dovuta all’insoddisfazione dei ragazzi che si sfoga di notte - spiega Maurizio Pasca, presidente della Silb, l’associazione che raccoglie 2500 locali da ballo per un giro d’affari di 1 miliardo all’anno. L’aggressività non riguarda solo le discoteche, ma tutta la società, e noi esercenti abbiamo il patema ogni giorno, perché qualsiasi cosa avvenga dentro e nei dintorni può dare adito alla chiusura. Solo in questa stagione estiva ci sono stati 80 provvedimenti, ma noi siamo vittime. Ho proposto a Salvini di avere la polizia in discoteca anche a spese nostre”. I casi di violenza non riguardano solo le grandi città, ma anche molte località estive. A Ferragosto a Ischia i gestori della New Valentino hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine per una rissa tra una ventina di persone iniziata all’interno del locale e proseguita fuori. Alla Bussola di Marina di Pietrasanta (Lucca) sabato 11 agosto quattro ragazzi hanno pestato un ventiduenne che aveva avvicinato la ragazza di uno di loro durante la serata. E non sono state botte leggere per provocare trauma cranico e facciale, con frattura del pavimento dell’orbita oculare sinistra, e rischio di perdita di un occhio. Lo stesso giorno la Procura di Salerno è venuta a capo di un tentato omicidio aggravato e continuato, avvenuto nella notte del 5 maggio, quando due napoletani hanno investito con la macchina la fila di giovani all’ingresso della discoteca Sea garden, che non li aveva fatti entrare ritenendoli molesti. Sempre lo scorso weekend il parcheggio davanti al Lido sulla spiaggia del Poetto di Cagliari è stato trasformato in un ring da due gruppi di ventenni: bottigliate e cinghiate hanno lasciato sul campo tre feriti, uno con frattura della mandibola, gli altri con lesioni. “I genitori dovrebbero chiedersi cosa fanno i figli fino a tardi - rivela Pasca. Noi apriamo alle 11, ma a quell’ora non arriva nessuno”. A volte anche il caos tipico dei locali notturni non aiuta la gestione della sicurezza. A fine luglio i carabinieri hanno chiesto e ottenuto dalla questura di Messina un’ordinanza di chiusura per la discoteca Capo dei greci a Sant’Alessio. I controlli sono nati da un’aggressione a un giovane all’interno del locale con tanto di rottura del setto nasale e, una volta nel locale, i militari hanno riscontrato la violazione delle regole sul numero dei clienti. Due giorni fa a Cortefranca (Brescia) è stata sospesa la licenza del Number One per eccesso di persone e stessa sorte per analoghi motivi è capitata a un altro locale bresciano, il Social club. Altre sospensioni ci sono state a giugno allo Shed di Busto Arsizio (Varese) e all’Upset di Seriate (Bergamo) e a luglio al Golden beach di Albisola Superiore (Savona), al Covo di Finale Ligure, al Marano di Riccione, al Night festival di Lazise (Verona) e alla Riva vicino Napoli. Spesso a fomentare le risse contribuiscono le droghe. Due notti fa la polizia di Rimini ha perquisito una ventina di ragazzi tra i 17 e i 20 anni dopo la discoteca. Risultato: 70 dosi di ketamina, 35 di mdma, ecstasy e hascisc. L’erba di Wall Street. Tra business e rischio bolla di Maria Teresa Cometto Corriere della Sera, 20 agosto 2018 La marijuana è l’ultimo affare americano. Negozi sulla Quinta Strada, fondi Etf legati alle numerose società canadesi, produttori come Tilray che debuttano al Nasdaq. E corre anche l’indotto. Cheryl Shuman: presto vaporizzatori di lusso made in Italy. Se è vero che l’economia Usa sta crescendo a un ritmo sostenuto, c’è un settore che va meglio di altri. E non è l’alta tecnologia, ma l’industria della marijuana. 11 business legale della cannabis impiega oggi oltre 23o mila lavoratori, +445% nel 2017 sull’anno prima. Un record dovuto all’aumento del numero di Stati Usa che hanno legalizzato la cannabis per uso medicale: ora sono 30, dal Montana alla Florida; e fra loro ben nove e il distretto DC della capitale consentono anche l’uso puramente ricreativo della marijuana. L’ultima ad approvare la completa liberalizzazione è stata la California, dopo Alaska, Colorado, Maine, Massachusetts, Nevada, Oregon, Vermont e Washington. Un boom che sta alimentando la corsa a investire nel settore. Lo scorso 19 luglio al Nasdaq c’è stata la prima Ipo di un produttore di marijuana: l’azienda canadese Tilray, le cui quotazioni sono quasi raddoppiate dai 17 dollari iniziali. Dalla fine del 2017 a Wall Street è quotato il primo Etf specializzato in aziende che fanno affari con la cannabis: si chiama Effing alternative harvest (MJ) e l’ha fondato Sam Masucci, ex trader di Bear Stearnes diventato gestore di Etf. La scorsa settimana, Constellation Brands, il produttore delle birre messicane Modelo e Corona, del vino californiano Mondavi e della vodka Svedka, ha investito 4 miliardi di dollari nel coltivatore canadese di marijuana Canopy growth, spiegando che per il suo business è “naturale” diversificare nella cannabis. E non lontano da Wall Street, al numero 433 della prestigiosa Quinta avenue, da aprile è aperto il primo dispensario di cannabis medicale a New York, a cura della californiana MedMen: una sorta di “Apple store” per l’”erba”, l’ha definito Cnbc. Fra l’altro un fondo legato a Med- Men è il maggior finanziatore (con Zoo mila dollari) della campagna per rieleggere quest’autunno Andrew Cuomo, il governatore dello Stato di New York, contro il quale si è candidata l’attrice Cynthia Nixon (la Miranda di Sex and the City), sostenitrice della completa legalizzazione della marijuana (nello Stato di New York è ammesso solo l’uso medico). L’Etf MJ segue l’andamento di 39 società quotate prevalentemente in Canada, dove la cannabis è legale. Negli Usa invece la situazione è complicata dalla contraddizione fra la legge federale, che proibisce il consumo di questa droga, e quelle dei singoli Stati, che lo consentono. Ma un recente sondaggio del Pew research center ha rivelato che i161% degli americani è a favore della legalizzazione, quasi il doppio rispetto al 31% del 2000. Se il parlamento Usa approvasse la svolta, il business legale della marijuana potrebbe generare un fatturato di 75 miliardi entro il 2030, ha calcolato Vivien Azer, analista specializzata in questa industria per la banca d’affari Cowen. Diventerebbe cioè un settore più importante di quello delle bevande gasate come la Coca-Cola, che l’anno scorso è sceso al minimo di 76,4 miliardi. Oltretutto la vendita legale della cannabis fa fiorire tutto un indotto di altri prodotti, dai cibi contenenti cannabis come i biscotti ai prodotti per la cura della persona come gli shampoo, dalle Tshirt con disegni ispirati a questa pianta ai portacenere e vaporizzatori. E c’è chi sta pensando di realizzare alcuni di questi accessori anche in Italia. “Sto lavorando con alcuni designer per creare dei vaporizzatori di lusso made in Italy”, rivela la 57enne Cheryl Shuman, la “regina della cannabis di Beverly Hills” come l’ha soprannominata il New York Times e una delle cinque donne più potenti nel settore secondo Fortune. Quella della cannabis in effetti è l’unica industria americana in cui a dominare sono le imprenditrici, perché a battersi per la sua legalizzazione sono state per prime le Moms for marijuana (Mamme per la marijuana), che ne sostengono l’uso terapeutico anche per i bambini. La stessa Shuman aveva iniziato 12 anni fa a usare olio di marijuana, dopo aver scoperto di avere un tumore alle ovaie. “In tre mesi sono riuscita a tornare alla mia vita normale - racconta Shuman. Mi sono resa conto di avere l’obbligo di spiegare che la marijuana è un farmaco efficace per molte malattie”. E può avere effetti benefici grazie al cannabidiolo (Cbd) anche sulla sindrome di Dravet, l’autismo e l’epilessia. Invece il Thc o tetraidrocannabinolo è il principio attivo che provoca lo “sballo”. Ma non è detto che l’entusiasmo per questo nuovo settore si traduca in buone occasioni di investimento per i risparmiatori. Le imprese quotate e comprese in un Etf come l’Etfmg alternative harvest sono infatti startup con alto potenziale di crescita ma anche di fallimento. C’è chi produce e vende la cannabis per uso medico, società farmaceutiche che la trasformano in prodotti, altre che hanno licenze per aprire dispensari negli Usa. Green organic dutchman holdings, per esempio, che pesa per il 7% su quell’Etf, è un produttore canadese “ecologico” di cannabis medicale: le sue quotazioni sul terzo mercato americano (Otc) sono raddoppiate da 3 dollari in maggio a 6 in giugno per crollare agli attuali 4. E così anche le quotazioni dello stesso Etf gestito da Masucci sono calate del 22% da inizio 2018, contro un rialzo di quasi il 5% dell’indice azionario S&P500. Pure il Marijuana index è crollato del 35% dai massimi dello scorso 23 gennaio. È insomma un tipo d’investimento molto speculativo, che riporta alla memoria l’euforia e i rischi della bolla delle dot.com Anni Novanta. Il capitale può finire in fumo. Tailandia. Denis Cavatassi condannato a morte. Fico: “Siamo fiduciosi in un esito diverso” La Presse, 20 agosto 2018 Denis Cavatassi condannato a morte in Tailandia in secondo grado, Roberto Fico dedica un pensiero all’imprenditore italiano ritenuto colpevole di essere il mandante dell’omicidio del suo socio Luciano Butti. La questione è decisamente delicata e il presidente della Camera, nonché esponente di spicco del Movimento 5 Stelle, ha voluto dedicare uno spunto di riflessione su un tema scottante come quello dei diritti civili e la pena di morte. Il cinquantenne italiano è rinchiuso nelle carceri della Tailandia per il fatto risalente al marzo del 2011, con Cavatassi che aveva un’attività di ristorazione insieme a Butti. Si è sempre dichiarato innocente per la vicenda e sta lottando strenuamente per ottenere la libertà. In secondo grado è però arrivata la condanna alla pena di morte e molto dipenderà dalla sentenza della Corte Suprema. E a tal proposito ha espresso il suo pensiero Roberto Fico. Il messaggio di Roberto Fico - Tramite la sua pagina Facebook, il presidente della Camera Roberto Fico ha scritto: “Voglio rivolgere un pensiero a Denis Cavatassi, cittadino italiano, condannato in Tailandia in secondo grado alla pena di morte. La storia giudiziaria e detentiva di Cavatassi colpisce profondamente e chiama in causa la nostra coscienza civile e democratica”. Continua la terza carica dello Stato: Il nostro Paese rifiuta incondizionatamente la pena di morte e si batte da anni per la sua abolizione in ogni parte del mondo. Si tratta di un passo fondamentale ma non ancora sufficiente per parlare di civiltà e di umanità delle pene, e quindi di pieno rispetto delle garanzie e dei diritti fondamentali della persona”. E sottolinea Fico: “Sappiamo bene quanto sia difficile il percorso che conduce al riconoscimento e alla tutela effettiva di questi diritti, ma sappiamo anche che nessuna conquista è mai data, integralmente, una volta per tutte. La cultura dei diritti si evolve e va costantemente alimentata”. Infine, l’augurio: “Nelle prossime settimane è attesa la pronuncia definitiva della Corte suprema sul caso di Cavatassi. Siamo fiduciosi in un esito diverso. A Denis e ai suoi cari va in questo momento il nostro pensiero e tutta la nostra umana solidarietà”. Afghanistan. I talebani annunciano rilascio di centinaia di detenuti Ansa, 20 agosto 2018 I talebani hanno annunciato la liberazione di centinaia di detenuti “governativi” dalle loro carceri, alcune ore dopo l’offerta del presidente afghano Ashraf Ghani di una tregua consensuale a partire da domani, alla quale i ribelli non hanno tuttavia ancora risposto. “Centinaia di prigionieri sono stati identificati dalla Commissione per i detenuti per essere liberati e la preparazione del loro rilascio è in corso. I prigionieri liberati saranno riconsegnati domani ai loro cari, così che potranno essere riuniti alle loro famiglie per l’Eid el Adha (festa islamica che comincia martedì prossimo)”, si legge in un comunicato dei talebani. Fonti del governo di Kabul riferiscono all’Ansa che l’annuncio del rilascio dei prigionieri sarebbe una sorta di luce verde dei ribelli al nuovo cessate il fuoco, anche se non c’è ancora un annuncio ufficiale. Lo scorso giugno, in occasione di un’altra festa islamica, i talebani accettarono una tregua, la prima dopo 15 anni, finita con il rifiuto dei ribelli di estenderla per altri tre giorni. Subito dopo cominciarono violenti combattimenti.