Carceri, i numeri dicono che non c’è un’emergenza criminalità legata agli immigrati di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2018 Sono 117 le carceri che abbiamo visitato negli ultimi 18 mesi, 30 negli ultimi 6. È stato presentato ieri a Roma il rapporto di metà anno sulle carceri italiane dell’associazione Antigone, alla presenza dei vertici dell’amministrazione penitenziaria. Se si vuole fare una seria ecologia della comunicazione bisogna partire da qui: dai dati di fatto, dalla realtà, da quanto si conosce perché lo si è visto con i propri occhi, lo si è studiato, si sono analizzati i dati, i numeri, le storie. Le scelte politiche, legislative, amministrative vanno fatte sulla base di quanto accade, non di quanto una generica e male informata opinione pubblica percepisce - scorrettamente - che accada. E cosa accade? Accade ad esempio che il tasso di detenzione degli stranieri, vale a dire il numero dei detenuti stranieri sul numero degli stranieri residenti in Italia, sia in calo. Se dieci anni fa era dello 0,71% oggi è invece dello 0,33%. Non c’è dunque un’emergenza criminalità legata agli immigrati. E accade che il patto di inclusione sociale paga in termini di correttezza e rispetto delle norme. Se si dà fiducia a qualcuno, questo qualcuno tende a ripagare la fiducia accordata. Regolarizzare la posizione degli stranieri e integrarli nella società riduce di fatto i tassi di criminalità. E lo fa in maniera drastica. Basti guardare alla comunità rumena, la cui presenza in carcere è diminuita di oltre mille unità in soli cinque anni, mentre la sua presenza in Italia andava invece aumentando. Un’altra cosa che accade è che non è affatto vero che “tanto chi va in galera ne esce subito” e “esiste la certezza della pena”. Innanzitutto la pena non è solo quella carceraria, come i nostri costituenti ben avevano indicato parlando, all’articolo 27, di pene al plurale, le quali non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma comunque anche la stessa pena carceraria è certissima e spesso implacabile. Tanti detenuti non vanno mai in misura alternativa. Dei 38.700 che hanno una condanna definitiva, oltre 10.000 sono condannati a una pena tra 5 e 10 anni, oltre 6.500 a una pena tra 10 e 20 anni, 2.300 a oltre 20 anni e 1.700 all’ergastolo. Posto che per essere affidati ai servizi sociali fuori dal carcere non bisogna avere più di quattro anni di pena ancora da scontare, ben si comprende come tante persone vivano in carcere per lunghi anni. Sono inoltre circa 24.000 i detenuti che hanno a oggi davanti meno di quattro anni di pena residua. Alcuni di essi ne hanno meno di tre, altri meno di due, altri ancora meno di uno. Potrebbero essere fuori. Se i magistrati fossero di manica larga nella concessione delle misure alternative, così come si sente spesso dire, e se fosse scontato che nessuno finisce la propria pena in carcere sarebbero già usciti. Invece sono ancora lì. Qualcuno esce, è vero. Ma se andiamo a vedere per bene come stanno le cose, e non come sono percepite da chi non conosce i dati di fatto, vediamo che le misure alternative hanno una durata media di poco superiore ai nove mesi. Quindi anche per chi a un certo punto varca il cancello del carcere la gran parte della pena è stata scontata dentro. E in quei mesi che esce cosa succede? Che smette di scontare la pena? Niente affatto. Succede che la sconta diversamente. Succede che vivrà sotto il rigido controllo dei servizi sociali e del magistrato di sorveglianza, seguendo un rigido programma che altri hanno stabilito per lui. Un altro modo di scontare la pena. Ma ancora pena. Un modo più utile alla nostra sicurezza (le misure alternative abbassano di molto il tasso di recidiva) e assai meno costoso per le nostre tasche. Già, perché il carcere costa. Anche questo accade, come Antigone ha ben raccontato ieri. Ciascun detenuto costa a tutti noi 136 euro al giorno. Le misure alternative sono enormemente più economiche. Chi vorrebbe invocare la costruzione di nuove carceri, si faccia due conti prima di farlo. Costruire un carcere da 200 posti - dunque un carcere piuttosto piccolino - costa 25 milioni di euro. Davvero vogliamo spenderli per puro senso di vendetta, per comminare pene meno utili di altre che potremmo avere a disposizione? Costruire carceri ci costa 125.000 euro a posto letto. Ecco perché in passato nessuno c’è riuscito tra tutti coloro che avevano promesso sbarre su sbarre. Non c’è riuscito Silvio Berlusconi, con un sontuoso piano di edilizia carceraria annunciato in pompa magna e finito nel niente. Prima di lui non c’era riuscito l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli, che creò allo scopo la società Dike Aedifica s.p.a. la quale si rivelò in seguito una società fantasma e servì solo a sprecare circa 1.400.000 euro e a farsi tirare le orecchie dalla Corte dei Conti. Torniamo ai dati di fatto. Abbandoniamo i luoghi comuni. Questo è il lavoro che Antigone tenta di portare avanti da quasi trent’anni. I luoghi comuni fanno comodo. Ma non certo a noi. *Coordinatrice associazione Antigone Ordinamento penitenziario, una riforma giusta da salvare di Luigi Iuorio* altalex.com, 1 agosto 2018 Riforma dell’ordinamento penitenziario. Il termine di scadenza per esercitare la delega da parte dall’attuale Governo resta il 3 agosto 2018 e sul tema non vi è nessuna certezza. Manca quindi una settimana per salvare una riforma giusta. Il lavoro svolto nel 2017 dal Governo Gentiloni su delega in materia penitenziaria conferita con la legge 103/2017 del Parlamento risulta la modifica più strutturale dalla legge sull’ordinamento penitenziario dal 1975. La riforma intende porre le premesse per introdurre nel nostro ordinamento forme di giustizia riparativa, aggiornare il non più sostenibile sistema delle misure di sicurezza per rendere la vita penitenziaria più dignitosa e più idonea all’osservazione della loro evoluzione comportamentale promuovendo inoltre il lavoro intra ed extra murario. È evidente che il diniego alla riforma sia frutto di meri calcoli elettoralistici ma soprattutto di un approccio ideologico carcero-centrico nei confronti dei detenuti che ricorda posizioni settecentesche. E in questo scenario la Lega, quale forza di Governo securitaria, continua ad avere la meglio, continuando ad affermare che la riforma in oggetto è semplicemente un ennesimo provvedimento “svuota carceri”. Cosa però non vera, anzi. La riforma in discussione abroga l’unica normativa “svuota carceri” presente nel nostro ordinamento (la legge n. 199 del 2010, che prevede l’espiazione presso il domicilio delle pene sino a 18 mesi) votata dall’allora Governo Berlusconi-Lega Nord. Non si può continuare a sventolare questo volgare neologismo chiamato “svuota-carceri” senza tener conto di quello che il dettato Costituzionale chiama “funzione rieducativa” (art 27, comma 3). Il nostro Paese ha bisogno di una nuova riforma del diritto penitenziario atta al recupero sociale del condannato, per migliorarne la qualità della vita, preparandolo al reinserimento nella società. Perché un detenuto lasciato all’incuria della detenzione, tornerà a essere un pessimo cittadino del futuro. La riforma è fondamentale anche in chiave emergenza carceraria. La situazione nelle carceri italiane sta peggiorando in quanto il tasso di crescita della popolazione detenuta non accenna a diminuire: se al 31 gennaio 2012, alla vigilia della condanna dell’Italia in sede europea i detenuti erano secondo i dati ufficiali del Dap - 65.701, al 31 gennaio di quest’anno il loro numero era pari a 58.087 e, al 31 maggio, toccava i 58.569. Così se entro la fine dell’anno il trend non dovesse invertirsi, sfioreranno le 59.000 presenze. Non c’è molto tempo per scongiurare il peggio. Ci troveremmo nuovamente in una situazione di emergenza. Una nuova “Torreggiani”. Come si possa sostenere che un simile disegno legislativo miri sostanzialmente solo a risultati di deflazione carceraria non è facile comprendere. Inoltre, se con la linea dura della cosiddetta certezza della pena si intende mantenere immutabile la pena qualunque sia l’atteggiamento del condannato durante la sua esecuzione, allora va detto che questo ragionamento si scontra anche con la Corte europea dei diritti dell’uomo (principi comunitari) che, tra l’altro, ha statuito l’obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena. La delega scadrà come già sopraccitato il 3 agosto e ormai, per essere realisti, le possibilità di approvazione della riforma sono remotissime. Una cosa si potrebbe fare: tentare di salvare tanto lavoro svolto in questi mesi. È auspicabile, infatti, che molte delle proposte che hanno trovato provvisoria codificazione nello schema di decreto attuativo possano essere riproposte in futuro con la promulgazione di una nuova legge delega che contenga una visione dell’attuale esecutivo. Proposte di modifica come: le disposizioni in materia di vita detentiva, di semplificazione delle procedure, di trattamento penitenziario dei soggetti psichiatrici possono essere varate in tempi brevissimi e alcune disposizioni in materia di misure alternative (ad esempio, in tema di risarcimento alle vittime e quelle che assegnano più pregnante ruolo esterno alla Polizia penitenziaria) potrebbero essere valutate con favore anche dall’attuale maggioranza politica. Anche la proposta sulla riforma del lavoro penitenziario può essere realizzata in tempi ragionevolmente rapidi. Più problematica appare la sintesi sulla scottante materia dei benefici penitenziari e sull’area di applicazione della sospensione dell’ordine di carcerazione. I prossimi mesi saranno fondamentali per ridare dignità alla popolazione penitenziaria. Restiamo in attesa. *Avvocato Salute mentale in carcere, crescono i detenuti che hanno bisogno di cure Redattore Sociale, 1 agosto 2018 I disagi psichici, nelle varie accezioni, sono le più diffuse tra le patologie presenti nelle carceri italiane, ma il numero medio di ore di presenza di psichiatri ogni 100 detenuti è circa 10 volte più basso degli altri medici. Antigone: “La riforma avrebbe consentito di trattare la malattia psichica al pari di quella fisica”. Crescono le persone detenute che necessitano delle cure dei Servizi di salute mentale. È quanto rivela il rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone presentato ieri a Roma. Secondo l’associazione, il disagio psichico (nelle sue varie accezioni) è la patologia più diffusa nelle carceri italiane, ma l’assenza di una riforma dell’Ordinamento penitenziario, su cui l’attuale governo ha imposto lo stop, ha peggiorato le cose. Per Antigone, infatti, la riforma “avrebbe consentito di trattare normativamente la malattia psichica al pari di quella fisica”, si legge nel dossier di metà anno. Un vuoto che si fa sentire, quindi. “In mancanza della riforma - continua il testo - la presenza di persone detenute che necessitano le cure dei Servizi di salute mentale è crescente”. Ad oggi, infatti, ci sono 47 sezioni specializzate (“articolazioni per la salute mentale”) che ospitano 251 persone (21 donne e 230 uomini), spiega il rapporto. Due, invece, i “reparti psichiatrici” (entrambi maschili), negli istituti penitenziari di Torino e Milano San Vittore, che ospitano 31 persone. Sebbene il disagio psichico sia la sfera patologica più diffusa nelle carceri italiane, dalle attività di monitoraggio dell’associazione Antigone emerge che negli istituti di pena visitati dai volontari, il numero medio di ore di presenza di medici ogni 100 detenuti è pari a 84,2, mentre quello degli psichiatri scende a 8,9 ore per 100 detenuti. Un quadro che richiede un intervento delle istituzioni. Tra le venti proposte lanciate da Antigone nel report, infatti, c’è anche il tema della salute psichica in carcere. “Il sistema penitenziario è governato da una legge del 1975, epoca in cui tutto era molto diverso da oggi - spiega il report -: le professioni, la tipologia di detenuti e di reati, le opportunità offerte dalla tecnologia, l’informazione. Per questo è necessaria una trasformazione della vita penitenziaria al fine di rendere il carcere un periodo utile per il detenuto”. Tra le proposte di Antigone, quindi, anche quella per cui “La grave patologia fisica e la grave patologia psichiatrica dovrebbero essere equiparate sul piano normativo e delle conseguenze sul percorso sanzionatorio”. Un capitolo a parte va dedicato alle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Nate in seguito alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), attualmente se ne contano 30 attive in tutta Italia. Nelle diverse strutture sono ospitate 625 persone (il 10 per cento donne), di cui 236 in misura di sicurezza provvisoria (pari al 37,7 per cento). La più grande Rems è quella di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia: da sola ospita 155 persone, nonostante la legge 81/2014 fissi la capienza massima a 20 pazienti. A preoccupare, tuttavia, è la fila di persone in attesa di un posto in una Rems. Sebbene siano appena nate, in tutta Italia ci sono già 440 in attesa. A guidare la classifica delle regioni con la lista d’attesa più lunga è la Sicilia, con 96 persone. “Molte di queste attendono in carcere - sottolinea il rapporto -, in violazione del loro diritto alla salute e con un titolo di detenzione non chiaro” Il tema salute e carcere, tuttavia, non si esaurisce con il disagio psichico e con la chiusura degli Opg. Tra le criticità denunciate ancora una volta dall’associazione Antigone c’è anche il tema delle cartelle cliniche. Ad oggi, secondo l’associazione, nel 75 per cento delle carceri la cartella clinica è scritta a mano e non digitalizzata. “In questo modo i dati del paziente sono difficilmente recuperabili - spiega il report - dopo la fine della carcerazione o in caso di trasferimento in altro carcere, facendo perdere opportunità di cura e occasioni di prevenzione importanti. Inoltre, ciò rende impossibile lo scambio di informazioni con le Regioni e con Paesi esteri dove il detenuto può trovarsi a fare rientro”. Dalle visite condotte dall’associazione nei penitenziari italiani, inoltre, è emerso che in più di 6 istituti di pena su dieci mancano spazi dedicati ai detenuti disabili. Garante infanzia: “approvare norme per un’esecuzione penale a misura di minorenne” agensir.it, 1 agosto 2018 “L’Italia ha l’opportunità di colmare un vuoto che dura da più di 40 anni: adottare norme per l’esecuzione della pena nei confronti di condannati minorenni che tengano conto della loro giovane età e della loro personalità in formazione”. A sostenerlo è l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano. “Va approvato lo schema di decreto legislativo ora all’esame delle commissioni Giustizia e Bilancio di Camera e Senato - prosegue la Garante - tenendo conto dei principi dettati dalla legge delega”. “Si dovrebbero pertanto rimuovere dal testo in discussione le norme che ostacolano l’accesso dei minorenni autori di reato alle misure esterne”, spiega, rilevano che “ogni ragazzo è infatti una storia a sé che va valutata caso per caso. L’accesso a misure di comunità, ai permessi premio e al lavoro esterno deve poter prescindere dalla tipologia di reato e dall’entità della condanna. Se il giudice può dare una possibilità in più ai ragazzi, perché essi possano cambiare, è nostro dovere renderlo possibile”. Tra le richieste della Garante ai presidenti e ai componenti delle commissioni e ai relatori anche quella di inserire nella riforma dell’ordinamento penitenziario minorile la facoltà di accesso da parte dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza negli istituti penali per minorenni, nelle comunità e nei centri diurni senza preventiva autorizzazione. Auspicato anche il via libera definitivo al decreto che introduce nell’ordinamento italiano la giustizia riparativa e la mediazione penale tra reo e vittima. “È tra i compiti istituzionali dell’Autorità favorire lo sviluppo della cultura della mediazione”, sottolinea Albano. Sei detenuti suicidi nell’ultimo mese, sono trenta dall’inizio dell’anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 agosto 2018 Da gennaio sono 74 i detenuti deceduti, considerando anche quelli morti per cause naturali. Nel giro di un mese si sono suicidati sei detenuti. Gli ultimi due nel giro di poche ore e riguardano due detenuti morti in ospedale dopo aver tentato di impiccarsi. Ieri è deceduto nel reparto di rianimazione dell’ospedale di La Spezia un tunisino di 33 anni che una settimana fa si era impiccato e fu “salvato” in extremis. L’altro riguarda un ventunenne egiziano morto nell’ospedale viterbese Belcolle, dopo sette giorni di coma dopo aver tentato di impiccarsi nel carcere di Viterbo: si era impiccato con un laccio rudimentale fermato alle grate della finestra il 23 luglio, poco dopo essere stato assegnato al reparto di isolamento per scontare una sanzione disciplinare risalente a un fatto di marzo. Nello stesso reparto del carcere di Viterbo si trovava anche l’italiano che si è tolto la vita il 22 scorso, dopo sette giorni in isolamento. Sempre qualche giorno fa, a distanza di tre giorni l’uno dall’altro, si sono suicidati due detenuti nello stesso carcere di Poggioreale, a Napoli. La conta macabra dei suicidi in carcere continua. Ad oggi, siamo a quota 30 dall’inizio dell’anno. Aggiungendo le morti per cause naturali o ancora da accertare, abbiamo raggiunto un totale di 74 morti. Il tema dei suicidi in carcere rimane di estrema attualità. Secondo un vecchio studio del Consiglio d’Europa (riferito agli anni tra il 1993 e il 2010) in Italia il rischio di suicidio in carcere era risultato fra i più elevati. Non solo, mentre fra la popolazione libera negli ultimi 20 anni i tassi di suicidio diminuiscono progressivamente, ciò non accade in carcere. La forbice tra il carcere e il mondo esterno è quindi aumentata. Diversi sono i fattori e in diverse Regioni le direzioni del carcere e le Asl hanno aderito a un protocollo di intesa per prevenire i suicidi e gli atti di autolesionismo. Come ha relazionato nel suo ultimo rapporto il Garante nazionale delle persone private della libertà, molte sono le situazioni che a buon titolo possono essere comprese nel concetto di vulnerabilità: lo stesso numero dei suicidi viene considerato per certi aspetti un indicatore, così come lo sono i tantissimi casi di autolesionismo registrati. Non solo, ma secondo il Garante nazionale Mauro Palma, il disagio psichico è un fenomeno in crescita all’interno degli Istituti di pena. “Persone borderline o con disagio grave si legge nel Rapporto - rappresentano una delle maggiori criticità segnalate dal personale, che si trova spesso a gestire situazioni senza alcuna formazione specifica e con grande responsabilità nel loro agire”. A ciò si aggiunge la carenza di reparti che si possano prendere in carico queste persone. Il Garante nazionale ha rilevato, nel corso delle visite, come non solo i reparti di “Articolazione per la tutela della salute mentale” siano insufficienti, ma anche come molti di essi siano tali solo di nome: sono in parte meri reparti per l’osservazione psichiatrica ex articolo 112 del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, sezioni in concreto mai aperte per mancanza di un protocollo con la Azienda sanitaria territoriale o per carenza di personale. Ricordiamo che a fronte del numero dei suicidi in carcere registrata nel corso dello scorso anno, il Garante nazionale, pur considerando la difficoltà di ricondurre eventi del genere a un’unica matrice, ha ritenuto necessario dare il proprio apporto per perfezionare il sistema di prevenzione elaborato dal ministero della Giustizia con la Direttiva del 3 maggio 2016. A tale scopo, in quanto titolare della tutela dei diritti delle persone detenute e, conseguentemente, di persona danneggiata dalle violazioni dei diritti protetti, ha deciso di intervenire come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dal 2017, per fornire il proprio eventuale contributo di conoscenza e per seguire gli accertamenti che saranno condotti: in ogni caso di suicidio in carcere il Garante invia una richiesta di informazioni sullo stato del procedimento alla competente Procura della Repubblica. Il nuovo Csm “targato” Davigo alla prova nomine di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 agosto 2018 I consiglieri decideranno se confermare gli incarichi. “Beppe, sceglieresti l’idraulico per sorteggio?”, era stata la risposta di Sabino Cassese a Grillo che aveva teorizzato, in una intervista ad un settimanale americano, la “fine della democrazia” e “l’elezione a sorte dei parlamentari”. “Ci farebbe piacere che il chirurgo che ci deve operare, o il pilota dell’ aereo sul quale ci imbarchiamo, venissero sorteggiati, invece di aver superato rigorosi esami?”, aveva poi aggiunto il giudice emerito della Corte Costituzionale nel suo editoriale sul Corriere la scorsa settimana con cui bocciava senza appello la proposta del capo del M5s. Secondo Cassese, inoltre, “l’estrazione a sorte dà certamente a ciascuno dei sorteggiabili eguali “chance”, ma quali garanzie assicura alla collettività sulla bontà delle persone così individuate e sulla loro capacità di interessarsi delle sorti collettive?”. Il tema del sorteggio è tornato di grande attualità in questi giorni anche per la scelta dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Il suo recente rinnovo è stato infatti accompagnato da vivaci polemiche. In particolare per la scarsa presenza femminile che diventa nulla nella componente eletta dal Parlamento. Nel programma originale dei pentastellati, poi modificato in corso d’opera, era previsto che i membri del Csm si dovessero scegliere con il sistema del sorteggio fra una rosa di nominativi. In questi termini, però, la proposta non era stata inserita nel contratto del governo giallo-verde. L’idea del sorteggio ha avuto anche un certo seguito fra alcuni magistrati che vi hanno visto la chiave di volta per eliminare in radice il potere delle correnti. Il sorteggio, mutuando il pensiero di Cassese, se offre eguali “chance” fra tutti i magistrati, è però garanzia effettiva di un corretto funzionamento dell’Organo di autogoverno delle toghe? Anche ammesso che si possa superare l’ostacolo del dettato costituzionale che inequivocabilmente parla di componenti eletti e non sorteggiati, qualsiasi magistrato sarebbe in grado di esercitare le attribuzioni organizzative e di alta amministrazione proprie del Csm, in particolar modo per quanto concerne la scelta dei capi degli uffici? La soluzione di affidarsi alla dea bendata fa il paio con un’altra proposta che è tornata in auge in questi anni, quella relativa alla rotazione degli incarichi. Cioè a turno, in una sezione di Tribunale, tutti i magistrati svolgerebbero la funzione di capo per un periodo circoscritto e predeterminato. La proposta ha sollevato più di un dubbio in quanto presuppone che tutti i magistrati italiani siano dotati di competenze, oltre che ovviamente giuridiche, anche manageriali ed organizzative. Un sistema che l’ex consigliere laico del Csm Pierantonio Zanettin (Fi) bollò a suo tempo come “maioista”. Il prossimo Csm avrà quindi un compito importantissimo: valutare se confermare o meno nell’incarico le oltre mille nomine per i direttivi e semi-direttivi effettuate nel quadriennio appena concluso. Se queste toghe verranno confermate in blocco, vorrà dire che le polemiche che hanno contraddistinto la consiliatura uscente, accusata di aver privilegiato rispetto al criterio meritocratico quello spartitorio nella scelta dei capi, erano pretestuose. L’argomento è estremamente serio. Soprattutto per quanto concerne le Procure, dove il sistema gerarchizzato ha aumentato il potere del capo anche nella scelta delle priorità di politica giudiziaria. Il tema delle conferme sarà sicuramente il banco di prova per l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo, eletto in modo plebiscitario a Palazzo dei Marescialli proprio per aver sparato in questi anni ad alzo zero sul Csm. Autonomia& indipendenza, la sua corrente, come si ricorderà uscì dalla Giunta unitaria dell’Associazione nazionale magistrati in disaccordo sulle modalità di nomina dei posti direttivi. Perché l’attuale legge non aiuta le vittime di molestie e violenze di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 agosto 2018 La denuncia si può presentare al più tardi sei mesi dopo il fatto. Ma sono troppo pochi. Ci sono donne che non denunciano subito la violenza. Alcune hanno paura, altre si vergognano, altre ancora hanno bisogno di tempo per elaborare quanto accaduto. Ma c’è anche chi teme di non riuscire a dimostrare di essere stata molestata e quindi rinuncia, salvo poi decidere di uscire allo scoperto solo quando ha la certezza di essere creduta. La legge però parla chiaro: il tempo massimo per rivolgersi alla magistratura è di sei mesi dal fatto, se si va oltre non si può procedere. È accaduto anche nel caso di Fausto Brizzi, il regista accusato pubblicamente da dieci donne di averle molestate o costrette a rapporti sessuali dopo averle invitate nel suo appartamento per svolgere un provino. Tre di loro avevano poi deciso di presentare un esposto alla procura di Roma: in un caso il racconto non è stato ritenuto fondato, per gli altri due le denunce sono state ritenute tardive perché si riferivano a episodi accaduti uno o due anni prima. La legge consente di procedere d’ufficio soltanto “se la vittima ha meno di 14 anni; se l’aggressore è il genitore, anche adottivo, o il convivente, il tutore; se l’aggressore è un pubblico ufficiale; se il fatto è commesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”. Sarebbe opportuno rivedere le norme per ampliare questa “rosa” o comunque per allungare i termini. Si tratterebbe di una misura di protezione necessaria proprio per convincere le donne a parlare, per rassicurarle. Soprattutto per evitare che siano i molestatori a sentirsi rassicurati dal fatto che basteranno appena sei mesi per uscire indenni da ogni rischio penale. Armi online, nessun divieto alla vendita. la Lega fa un favore alla lobby di Giovanna Casadio La Repubblica, 1 agosto 2018 Nessun divieto alla vendita online delle armi: la Lega non ci ripensa e oggi riproporrà la sua linea. Gianluca Vinci, il vice presidente leghista, l’ha detto in commissione Affari costituzionali ieri mattina e lo conferma: no alle restrizioni e ai paletti che ci hanno lasciato in eredità il passato governo di centrosinistra. Lega e lobby delle armi hanno un feeling che si ripropone ancora una volta, sancito del resto dall’impegno pubblico preso da Matteo Salvini in campagna elettorale. L’occasione ora è la direttiva Ue del 2017 sul controllo, l’acquisizione e la detenzione di armi. Un decreto legislativo deve recepire la direttiva. Ma il governo di centrosinistra con il ministro dell’Interno Marco Minniti aveva deciso di inserire alcune precauzioni per contrastare gli usi impropri e i rischi anche quando le armi sono apparentemente meno pericolose, perché ad aria compressa ad esempio. Non era stato il solo paletto. C’era anche quello di avvertire i conviventi del possesso di armi legalmente detenute. Via tutto. Non ce n’è bisogno. “Una direttiva europea non va circoscritta ulteriormente - ribadisce Vinci, disposto solo a fare proprie alcune osservazioni dei 5Stelle - il Pd in commissione ha fatto un gran caos”. Lo scontro con i Dem monta e deflagra in commissione dopo le audizioni con varie associazioni delle armi, anche sportive e per la caccia. Fino all’epilogo con le contestazioni di Gennaro Migliore e di Andrea Giorgis. “Ma come pensate di fare passare questa direttiva senza precauzioni, con la facilità che c’è e che abbiamo visto in questo momento di usare fucili a gas e ad aria compressa che possono ferire in maniera letale?”, attacca Giorgis. E Migliore: “Noi chiediamo restino il divieto di vendita delle armi per corrispondenza, l’obbligo di informare i familiari del possesso di un’arma regolarmente detenuta (in vista di quelli che possono essere i temi della violenza di genere) e la limitazione per il numero massimo di proiettili da poter acquistare”. Il ferimento della bimba di origine rom a Roma e del lavoratore capoverdiano nel vicentino sono solo due esempi che il Pd consegna a Salvini e alla Lega. In Italia il mercato della vendita delle armi online appare in crescita. È arrivato anche il sito di Brownells filiale italiana del più grande rivenditore statunitense di armi e ricambi. Tra l’altro il sito è sponsor del comitato contro la direttiva europea che ha firmato il famoso patto con Salvini. Brownells offre armi d’ogni tipo, con relativi i saldi. Un esempio sono fucili d’assalto Ar15. Ma consegna a domicilio solo a chi presenta un’autorizzazione del prefetto. Attualmente l’ARI5, versione sportiva dell’arma usata per le stragi negli Usa, è in saldo: invece di 1800 euro, lo puoi avere a 1450. Siti invece come Mondoarmi sono una sorta di ebay, dove privati e armerie offrono armi. Anche i privati dovrebbero vendere l’arma solo a chi ha i documenti in regola, anche perché la vendita deve essere denunciata alla questura. Omicidio stradale, la revoca della patente non è incompatibile con la sospensione di Guido Camera e Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2018 Corte di cassazione, sentenza 31 luglio 2018, n. 36759. In caso di omicidio o lesioni personali stradali, scatta la revoca della patente e non la “semplice” sospensione. Se il Codice della strada continua a prevedere quest’ultima sanzione, è solo per gli incidenti causati prima dell’entrata in vigore dell’attuale legge sull’omicidio stradale e per i reati diversi (come la partecipazione a gare clandestine) commessi anche oggi che causino danni a persone. La Cassazione scioglie così, nella sentenza n. 36759depositata ieri, un nodo di coordinamento tra la revoca introdotta proprio dalla legge 41/2016 e la sospensione precedentemente prevista dall’articolo 222 del Codice della strada. La legge che ha introdotto nel Codice penale i reati di omicidio e lesioni stradali ha modificato anche l’articolo 222 del Codice della strada, prevedendo però (nel comma 2) sia la sospensione sia la revoca, senza distinguere chiaramente i casi si cui si applica la prima e quelli in cui scatta la seconda. La difesa dell’imputato aveva prospettato tre soluzioni che escludono la “convivenza” delle due sanzioni. Due delle interpretazioni sono palesemente incongrue. Di qui la richiesta di applicare la terza, la più favorevole al reo: limitarsi alla sospensione della patente, disattendendo l’articolo 222. La Cassazione richiama invece la propria sentenza 36079/2017 secondo cui l’articolo 222 va applicato in pieno. E trova il modo per affermare che non è una norma contraddittoria, pur ammettendo che contiene un “chiaro errore”. Dunque, la sospensione resterebbe come la sanzione prevista per i reati commessi fino al 24 marzo 2016, quando è entrata in vigore la legge 41. Aldilà di questo regime transitorio, secondo la Corte c’è spazio per la sospensione anche per reati commessi in seguito e diversi da omicidio e lesioni stradali. Per questo, i giudici citano la gara di velocità non autorizzata da cui consegua la morte di una persona (articolo 9-ter del Codice della strada). Va però osservato che la stessa Cassazione ha ritenuto che questo reato possa concorrere con quello di omicidio stradale, punito invece con la revoca. Inoltre, con la sentenza di ieri la Cassazione ha di fatto prodotto una nuova norma, di fonte giurisprudenziale e non legale. Quindi ha violato il principio secondo cui l’imputato già prima del reato deve poter avere contezza della sanzione cui va incontro. Alla Consulta l’automatismo della revoca della patente per chi ha avuto misure di sicurezza Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2018 Tar Marche - Sezione I - Sentenza 24 luglio 2018 n. 519. È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 120, comma 2, del Dlgs 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), per contrasto con gli articolo 3, 4, 16 e 35 della Costituzione, nella parte in cui dispone che il Prefetto “provvede” - invece che “può provvedere” - alla revoca della patente nei confronti di coloro che sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali. È quanto ha stabilito il Tar Marche con la sentenza 24 luglio 2018 n. 519. Il tar ha chiarito che il prevalente orientamento della giurisprudenza, sia amministrativa che civile, ritiene che il provvedimento prefettizio di revoca della patente di guida in dipendenza di misure di sicurezza personali sia espressione di discrezionalità amministrativa, cioè di potere idoneo a degradare la posizione di diritto soggettivo della persona abilitata alla guida, ma costituisca un atto dovuto, nel concorso delle condizioni all’uopo stabilite dalla norma (Cass. civ., S.U., 14 maggio 2014, n. 10406; Tar Lazio, I ter, 17 gennaio 2018, n. 548). Ad avviso del Tar tale orientamento potrebbe essere rivisitato per effetto della recente pronuncia della Corte costituzionale 9 febbraio 2018, n. 22, che ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 120, comma 2, del Dlgs n. 285 del 1992 nella parte in cui dispone che il Prefetto “provvede” - invece che “può provvedere” - alla revoca della patente. La citata declaratoria di incostituzionalità veniva pronunciata “con riguardo all’ipotesi di condanna per reati di cui agli artt. 73 e 74, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza)”, mentre, in questa sede, il presupposto della decisione amministrativa riguarda l’applicazione di misure di sicurezza personali. Ad avviso del Tar tale conclusione potrebbe estendersi anche quando il relativo presupposto riguardi la sottoposizione dell’interessato a misure di sicurezza personali. L’automatismo delineato dall’articolo 120, comma 2, del Codice della strada risulterebbe infatti irragionevole di fronte alla molteplicità di situazioni (pericolosità del soggetto più o meno grave) e di misure di sicurezza che potrebbero essere applicate (più o meno rigorose e più o meno protratte nel tempo). Colpa medica, prevale la legge Balduzzi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 31 luglio 2018 n. 36723. Per i fatti di colpa medica commessi tra il 14 settembre 2012 e il 1° aprile 2017 - cioè tra l’entrata in vigore del decreto Balduzzi e la successiva legge Gelli/Bianco - si applica la disposizione più risalente in quanto più favorevole. La Quarta penale della Cassazione (sentenza 36723/18, depositata ieri) risolve nel pieno solco delle Sezioni Unite (8770/18) la questione della successione della legge penale per i fatti inquadrabili nella colpa sanitaria, ribadendo che la Balduzzi prevale sulla Gelli/Bianco in quanto vera e propria abolitio criminis, invece della mera causa di non punibilità prevista dalla normativa del 2017. La vicenda chiusa definitivamente dai giudici della Quarta sezione - con la condanna di due chirurghi dell’ospedale di San Benedetto del Tronto - riguardava due distinti momenti del trattamento di un paziente: un intervento operatorio terminato con il clippaggio del dotto epatico comune (errore tecnico determinato da “grave imperizia”), oltre a una altrettanto rilevante colpa omissiva per non aver disposto esami diagnostici di primo livello per individuare la causa dei gravi sintomi post operatori del paziente, che morì un mese dopo l’intervento per crisi convulsive da insufficienza multi-organica. La Corte nella lunga motivazione ripercorre tutta la complessa vicenda clinica, soffermandosi poi sui profili di applicabilità della norma penale. Nel ribadire il “maggior favore” della Balduzzi - che di fatto riconduce la colpa lieve all’alveo civilistico - sulla Gelli/Bianco (che si limita a individuare la non punibilità se c’è stato il rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle “buone pratiche clinico-assistenziali”) la Quarte sezione penale ha però confermato, nel caso concreto, la condanna dei due medici marchigiani. Questo perché la colpa a loro ascrivibile va ben oltre la “lievità” scriminata della Balduzzi, sia nella fase commissiva (l’aver clippato, cioè bloccato, il dotto epatico principale del paziente) sia nella fase omissiva, per aver proceduto direttamente con un’invasiva indagine Ercp in luogo degli accertamenti di primo livello. Colpe che, peraltro, sarebbero state inemendabili anche applicando la Gelli/Bianco. Lombardia: anche ai detenuti il fascicolo sanitario elettronico milanotoday.it, 1 agosto 2018 Ridurrà gli errori e “accompagnerà” il detenuto da un carcere all’altro e fuori, a fine pena. L’ordine del giorno. Il fascicolo sanitario elettronico entrerà negli ambulatori delle carceri lombarde. Lo ha deciso il consiglio regionale, approvando un ordine del giorno presentato da Michele Usuelli di +Europa. Il provvedimento è stato “avallato” sia dal presidente della commissione carceri, il dem Gian Antonio Girelli, sia dall’assessore al welfare Giulio Gallera di Forza Italia. “Lo chiedono i medici che lavorano in carcere”, commenta Usuelli: “Serve a ridurre gli errori, accompagna il detenuto nel trasferimento da un carcere all’altro, lo accompagna in libertà alla fine della pena. Ora lavoreremo perché dalla carta si passi alla realtà”. Oggi, come ha spiegato il 27 giugno un dirigente del settore Welfare della Regione in una seduta di commissione carceri, ogni detenuto ha un suo fascicolo cartaceo che contiene tutti gli eventi clinici ma anche esami del sangue e altre informazioni del genere. “Se il detenuto si trasferisce da un carcere all’altro, tutte le volte bisogna che si ricostruisca il diario clinico, altrimenti si fanno le fotocopie di questo volume cartaceo. Spesso non è così facile farle, perché i trasferimenti dei detenuti avvengono dalla sera alla mattina e a volte non viene avvisato il livello sanitario”, ha dichiarato. La Regione aveva già “assorbito”, secondo quanto lo stesso dirigente ha riferito, la cartella clinica informatizzata realizzata dalla Regione Emilia Romagna e l’aveva attivata in tre penitenziari lombardi in via sperimentale. Viterbo: 21 anni, suicida in carcere a un passo dalla libertà di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 1 agosto 2018 Hassan è morto ieri nell’ospedale di Belcolle, a Viterbo. Vi era arrivato una settimana fa, in coma, dopo che si era impiccato in una cella della sezione di isolamento del carcere cittadino. Hassan è il terzo detenuto che perde la vita nel carcere viterbese dall’inizio dell’anno, il secondo a seguito di un tentativo di suicidio compiuto in isolamento. Hassan aveva 21 anni e sarebbe uscito dal carcere per fine pena il 9 settembre prossimo. Lunedì scorso è stato condotto nella sezione di isolamento per scontare una sanzione disciplinare per un fatto risalente al marzo scorso. Appena arrivato in sezione, tempo due ore e Hassan si è impiccato. Ne ho avuto notizia immediatamente dopo, quando il dirigente della medicina penitenziaria viterbese mi ha telefonato dall’ospedale, informandomi del fatto, anche perché il direttore del carcere ricordava che di Hassan il mio ufficio si era occupato e certamente volevo saperne. In effetti, il 21 marzo scorso, una delegazione del mio ufficio aveva incontrato Hassan, all’indomani del fatto per cui solo quattro mesi dopo sarebbe stato sottoposto alla sanzione disciplinare dell’isolamento. In quell’occasione, Hassan avrebbe riferito di essere stato picchiato il giorno precedente da alcuni agenti di polizia che gli avrebbero provocato lesioni in tutto il corpo e probabilmente gli avrebbero provocato anche la lesione del timpano dell’orecchio sinistro, da cui sentiva il rumore “come di un fischio”. Mentre raccontava la sua versione dei fatti, Hassan velocemente si spogliava, così da mostrare i segni sul corpo e la delegazione effettivamente poteva vedere molti segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto. Alla fine dell’incontro, Hassan chiedeva aiuto, dicendo di avere paura di morire. Informato dell’incontro, avvisavo immediatamente la Provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria, chiedendole di verificare se non fosse il caso di trasferire Hassan e il suo compagno di detenzione in un altro istituto della regione, per rassicurarlo sulle sue condizioni di detenzione. Qualche giorno dopo la Provveditrice mi informava che Hassan era rimasto a Viterbo, che la colluttazione con i poliziotti sarebbe avvenuta a seguito della resistenza opposta da Hassan e dal suo compagno di stanza a una perquisizione della loro camera da cui avrebbero svolto un traffico di psicofarmaci verso il piano di sotto. Nelle settimane e nei mesi seguenti, Hassan e il suo compagno di stanza ci avevano in altre occasioni informato di stare bene e che non avevano più subito aggressioni. Al contrario, altri detenuti lamentavano di essere stati vittime di abusi, in specie nella sezione di isolamento, e tra questi uno confermava di essere stato testimone dell’aggressione denunciata da Hassan. Raccolte queste informazioni, dopo essere stato personalmente in istituto il 29 maggio e dopo aver avuto occasione di incontrare alcuni detenuti della sezione di isolamento e lo stesso direttore del carcere, il 5 giugno scorso ne ho scritto alla Procura della Repubblica di Viterbo, perché accertasse lo svolgimento dei fatti e le eventuali responsabilità. Poi, improvvisamente, il 23 luglio, quella telefonata dall’ospedale. Di fronte a un caso di suicidio, evito sempre di cadere nella tentazione di attribuire responsabilità su chi non avrebbe previsto o su chi non avrebbe vigilato. Il suicidio è innanzitutto una tragica scelta personale, imprevedibile quante altre mai. Resta l’amaro in bocca di un ragazzo di ventun anni che in carcere aveva paura di morire e che ha deciso di impiccarsi dopo essere stato portato in isolamento, nonostante gli mancasse poco più di un mese alla libertà. Alla Procura della Repubblica spetterà accertare le eventuali responsabilità del caso, dei precedenti e delle denunce che lo stesso Hassan, insieme ad altri, ci aveva consegnato. Intanto, alla direzione del carcere e alla dirigenza sanitaria spetta la responsabilità di definire quanto prima il piano locale di prevenzione del rischio suicidario e all’Amministrazione penitenziaria tutta quella di liberare l’istituto di Viterbo dalla sua cattiva fama di “carcere punitivo”, cui destinare detenuti trasferiti per motivi di “ordine e sicurezza”. *Coordinatore dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Napoli: ecco tutti i numeri dell’inferno, “Poggioreale va chiuso subito” di Bruno Pavone Il Roma, 1 agosto 2018 Sono quasi mille i detenuti in più detenuti nelle carceri napoletani di Poggioreale e Secondigliano, che ancora una volta sono al primo posto per numero di reclusi. Dati sconcertanti se si sommano a quelli relativi ai suicidi e alle aggressioni: ben 500 dall’inizio dell’anno. La situazione dei 15 istituti penitenziari della Campania è pesante perché oltre al sovraffollamento si somma anche la carcere di agenti di polizia penitenziaria, addetti alla sicurezza dei detenuti: circa il 25 per cento in meno sulla pianta organica. Questa mattina le associazioni di ex detenuti hanno tenuto una manifestazione fuori alle porte di Poggioreale per chiedere maggiori azioni di controllo a tutela dei detenuti reclusioni in quello che chiamano “il mostro di cemento”. “L’ennesimo suicidio di un detenuto e il recente crollo del solaio su una parente che si era recata in visita nel carcere la dicono tutta sullo stato di fatiscenza e di abbandono del carcere - ha sottolineato Pietro loia, presidente di un’associazione di ex detenuti - per questo chiediamo al nuovo ministro della Giustizia, di fare presto a chiudere Poggioreale e ad aprire nuove strutture carcerarie a Napoli e nelle altre città, ricordando che la pena deve essere rieducativa e non punitiva ai limiti della privazione della dignità”. Già da questa mattina è partita poi una raccolta firma indirizzata al Presidente della Repubblica “per la delocalizzazione del carcere di Poggioreale perché non vogliamo aspettare altri morti e altri crolli affinché le istituzioni assumano questa decisione”. “Sono trascorsi due anni da quando l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, annunciò di voler alienare San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale affinché scontare la pena non sia, come invece, molto spesso, è attualmente, una punizione aggiuntiva per via del sovraffollamento e delle strutture irrimediabilmente antiche. Una tortura più che una rieducazione, soprattutto quando fa troppo caldo o fa troppo freddo e una piccola cella deve ospitare più detenuti di quanti ce ne potrebbero stare. Da allora, su queste strutture carcerarie - sulle quali, da tempo, abbiamo lanciato il nostro grido di allarme, e, particolarmente, su Poggioreale, è calato di nuovo il silenzio ed il buio, sfociati, di recente, nell’ennesimo suicido nell’istituto penitenziario di Napoli che somiglia, sempre più, ad un mostro che uccide. Va ancora riconosciuto il ruolo importante della Polizia Penitenziaria perche se e vero che in questo primo semestre ci sono stati ben 24 suicidi nelle carceri italiane, e altrettanto vero che ne sono stati sventati oltre 500 a dimostrazione dell’ottimo lavoro svolto dagli operatori delle carceri”. E quanto ha affermato il Segretario Federale di “Sud Protagonista”, Salvatore Ronghi. “Il carcere di Poggioreale ha gravi ed incolmabili deficit innanzitutto sul piano strutturale ed è per questo che esso è un totale fallimento dal punto di vista della rieducazione della pena e del reinserimento sociale dei detenuti e, quindi, è un “mostro” da abbattere”, ha sottolineato Ronghi. “Come movimento politico, ne proponiamo la delocalizzazione in un’area periferica e la sostituzione con un edificio moderno, con spazi adeguati per i detenuti e per svolgere tutte quelle attività necessarie al reinserimento nella vita sociale. La delocalizzazione del carcere sarebbe utile, inoltre, per la riqualificazione del quartiere di Poggioreale, con grandi benefici economici e sociali per il territorio della municipalità, un progetto alternativo che presenteremo alle autorità territoriali a settembre prossimo”. Cuneo: sportello di orientamento legale nelle tre carceri della Granda La Stampa, 1 agosto 2018 Cuneo, Fossano e Saluzzo, consente ai detenuti di ottenere consulenze personalizzate su qualunque tematica giuridica da parte di un avvocato professionista. Ha preso il via ieri, martedì 31 luglio, nelle tre carceri del distretto del Tribunale di Cuneo lo Sportello di orientamento legale. L’iniziativa, che interessa le case circondariali di Cuneo, Fossano e Saluzzo, consente ai detenuti di ottenere consulenze personalizzate su qualunque tematica giuridica da parte di un avvocato professionista. L’iniziativa - seconda in Italia dopo quella realizzata da alcuni anni dall’Ordine degli avvocati di Milano - è curata dalla segreteria dell’Ordine degli avvocati di Cuneo e prevede, per ora, il coinvolgimento di diciannove avvocati professionisti che si sono resi disponibili su base volontaria e che non potranno assumere incarichi di legale di fiducia dai detenuti che incontreranno. Una regola, questa, che consente loro di non contravvenire al codice deontologico dell’Ordine e di evitare confusione fra i ruoli e conflitti d’interesse. “Una tappa importante - ha dichiarato il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano - che costituisce l’approdo di un lavoro durato tre anni e nato da un’intuizione della garante dei detenuti di Fossano. L’avvio di questo servizio dedicato alla popolazione detenuta rispecchia appieno le previsioni della legge di riforma dell’attività forense e realizza un obiettivo di azione delle figure dei garanti. In un momento particolarmente significativo come quello attuale, che ha visto l’attesa vana di una riforma dell’ordinamento penitenziario, appare quanto mai importante la condivisione di percorsi comuni fra istituzioni diverse per garantire i diritti delle persone detenute”. Lo Sportello è frutto del protocollo sottoscritto il 20 marzo nella sede dell’Ordine degli avvocati di Cuneo per rendere effettiva anche per il detenuto la previsione dello Sportello del cittadino contenuta nella legge di riforma dell’attività forense. Il progetto, fortemente voluto dall’Ordine dell’Avvocatura di Cuneo, è stato realizzato in collaborazione con la sezione di Cuneo della Camera penale Vittorio Chiusano e con il coordinamento dei garanti delle persone detenute del Piemonte, dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria e dalle tre direzioni di carcere coinvolte. Reggio Calabria: un rifugio per donne e minori che riescono a scappare dalla violenza di Andrea Lastella Redattore Sociale, 1 agosto 2018 Si chiama “Thouret”, è un servizio gratuito promosso dall’associazione di volontariato Alaga ed è stato appena inaugurato a Gioia Tauro (Reggio Calabria): prevede uno sportello e una residenza temporanea per vittime spesso affidate dalle forze dell’ordine. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) è stato inaugurato pochi giorni fa uno sportello antiviolenza e una casa rifugio temporanea per donne vittime di violenza e minori. È denominato “Thouret” ed è un servizio completamente gratuito che si aggiunge ai numerosi già offerti dall’associazione Alaga onlus di Gioia Tauro, impegnata da 10 anni nel sostegno dei più poveri. Con una sede situata in un bene confiscato alla mafia, l’associazione si occupa di distribuzione di alimenti, scarpe e vestiti, gestisce giornalmente una mensa, il dopo scuola per i ragazzi e a turno si avvale di medici volontari che offrono i loro servizi in ambulatorio. L’idea di “Thouret” è maturata durante gli affidi da parte delle forze dell’ordine che, trovandosi nell’esigenza di dare protezione ad alcune donne, hanno scelto l’associazione. Così, dopo un progetto pilota di due anni e mezzo, Alaga ha dato avvio al nuovo servizio, che è garantito 24 ore su 24: è sufficiente contattare gli operatori al numero 3533895795. Le attività del progetto sono quattro: ascolto, supporto, orientamento e protezione. L’ascolto può avvenire per mezzo telefonico o presso lo sportello. Durante questa fase la vittima trova uno spazio per raccontare la violenza. Nella fase di supporto l’associazione cerca di instaurare un rapporto di fiducia con la vittima, cercando di percepirne lo stato, riconoscendo il suo disagio e le sue paure. Durante lo step successivo, quello di orientamento, Alaga cerca di fornire alla donna informazioni che le consentano di scegliere se intraprendere o meno un percorso di uscita da una situazione di violenza. Nei casi più gravi l’associazione offre la protezione: prende in carico la vittima allontanandola dal pericolo, facendola alloggiare presso la casa rifugio in assoluta segretezza e protezione in concerto con gli enti preposti. Ad oggi la casa rifugio può ospitare un massimo di 7 donne. Ogni attività del percorso è resa possibile grazie agli esperti del centro (assistente sociale, psicologa, avvocato) e grazie alla collaborazione fondamentale con le forze dell’ordine e i servizi sociali. Spesso tra i compiti principali degli operatori c’è quello di far comprendere alla donna la reale violenza subita. Nella maggior parte dei casi infatti la donna non ha consapevolezza della violenza. Questo succede soprattutto con le donne del luogo (non emancipate e nei soggetti non scolarizzati) e per ciò che riguarda la violenza domestica, dove non mancano casi in cui le vittime sono bambine e giovani ragazze. Ad essere aiutate sono in molti casi anche le donne straniere vittime di tratta. Abusate dai propri aguzzini e costrette successivamente a prostituirsi dalla criminalità organizzata. Qui lo sforzo degli operatori è reso più complesso dalla necessità di immergersi nella cultura e nel background culturale della vittima. Il servizio è sostenuto in varie forme da organizzazioni del territorio, tra cui il Centro di servizio per il volontariato “Due mari” di Reggio Calabria. Bari: in Macedonia rischia trattamento disumano, no dei giudici all’estradizione telebari.it, 1 agosto 2018 Rischierebbe di essere “sottoposto a un trattamento crudele, disumano e degradante” in carcere e “ad atti persecutori e discriminatori” per via della sua “etnia albanese”. Per questi motivi la Corte di Appello di Bari ha rigettato la richiesta di estradizione, avanzata dalle autorità macedoni, di un 58enne albanese sospettato dalla magistratura di Skopje di far parte di una organizzazione di trafficanti di esseri umani e minori. L’uomo è stato arrestato a Bari dalla polizia di frontiera il 15 gennaio del 2018, in quanto destinatario di una richiesta di arresto a fini estradizionali. Dopo una serie di rinvii necessari a svolgere accertamenti e approfondimenti sulla vicenda, i giudici baresi hanno ritenuto di non concedere l’estradizione e disporre l’immediata liberazione del 58enne. Nelle motivazioni della decisione, la Corte di Appello di Bari evidenzia che nei confronti dell’indagato ci sono “solo ipotesi investigative”, e analizza i pericoli che l’uomo correrebbe se estradato, a causa della guerra etnica tra macedoni e minoranze albanesi. I giudici ricostruiscono poi le presunte “condizioni di detenzione inumane e degradanti” delle carceri macedoni, sulla base di relazioni fatte dal “Comitato europeo per la prevenzione della tortura”. Da tali documenti emergerebbero “condizioni di vita insalubri in ambienti sovraffollati, non sicuri e poco igienici”, fino a cinque persone in celle di otto metri quadri, con “docce non funzionanti e nessuna fornitura di acqua calda”, detenuti soggetti a “punture di insetti e infezioni come la scabbia”, “senza acqua potabile”. Un “regime offerto ai detenuti” definito “reliquia del passato repressivo”, “affronto alla dignità umana”. I giudici riferiscono di istituti penitenziari nei quali “ogni aspetto della detenzione è in vendita, dall’ottenimento di un posto in cella decente, al congedo a casa, alle medicine, ai cellulari, ai farmaci”, dove la “violenza è integralmente collegata alla corruzione endemica che ha pervaso l’intera prigione e coinvolge gli ufficiali della prigione”. Ravenna: “Dis-Ordine a Port’Aurea”, terminato il corso di mosaico rivolto ai detenuti ravennanotizie.it, 1 agosto 2018 Ieri, martedì 31 luglio, alle 14.30, nel Giardino del Labirinto, in via Port’Aurea, a Ravenna, si sono incontrati i maestri del Dis-Ordine per l’ultimo appuntamento del corso di mosaico rivolto ai detenuti della Casa Circondariale, iniziato in febbraio 2018 con la presentazione del progetto ai detenuti ritenuti idonei dalla Direzione del carcere. L’esperienza, condotta con la partecipazione volontaria di 10 detenuti si è rivelata estremamente positiva fin dalle prime lezioni in cui, alla presenza della Direttrice del carcere dott.ssa Carmela De Lorenzo e dell’educatrice dott.ssa Daniela Bevilacqua, i maestri dell’Associazione Culturale Dis-Ordine, assieme al progettista Paolo Gueltrini, hanno illustrato l’intero progetto, materiali e strumenti dell’arte del mosaico bizantino ravennate. Coinvolto anche il prof. Giovanni Gardini esperto di iconologia del mosaico ravennate per illustrare ai detenuti immagini di alcuni particolari dei mosaici ravennati raffiguranti gli elementi della natura. Il corso si è svolto seguendo la metodologia didattica tradizionale con la progettazione individuale di un modello pittorico, ispirato ai temi proposti, da utilizzare come cartone per l’esecuzione del mosaico. Ogni partecipante, in base ai materiali a disposizione, ha progettato un’opera pittorica prediligendo elementi legati al paese di provenienza con inserimento di simboli, stemmi o particolari in richiamo alla natura, preparato il proprio supporto, selezionato i materiali, stabilito la dimensione delle tessere e tagliato con martellina e tagliolo la quantità necessaria per realizzare l’opera secondo la tecnica bizantina ravennate a partire dai contorni del soggetto per poi procedere nel riempimento delle campiture con andamenti e interstizio regolari. Driss, Feliz, Frank, Hatem, Aymen, Younes, Moussa, Marcello, Aziz, Salahddene, diverse le loro storie e la loro provenienza, in questa occasione hanno potuto misurarsi con un progetto comune mettendo in campo abilità e saper fare, impegno, autocontrollo e serietà. Le loro opere entreranno a pieno titolo nella collezione del progetto Dis-Ordine a Port’Aurea. Parallelamente alle attività svolte in carcere, lo staff operativo del Dis-Ordine ha amplificato i contatti con gli ex-allievi delle Scuole d’Arte di Ravenna e Provincia in Italia e all’Estero, artisti e mosaicisti più noti e meno noti, seguito laboratori di mosaico nelle scuole e in collaborazione con privati, Enti e Fondazioni. A tutt’oggi oltre centotrenta le opere realizzate per il labirinto pavimentale per il giardino di fronte al carcere di Ravenna. Tra i molti il contatto, al momento, più interessante nasce dal coinvolgimento dell’Associazione Les 3R di Chartres grazie alla quale, con accordi intercorsi tramite Paolo Racagni, il progetto Dis-Ordine a Port’Aurea parteciperà con l’intera collezione al 12° Rencontres Internationales de Mosaïque à Chartres. Sviluppi inaspettati quindi per questo progetto, nato per gioco nell’ottobre 2016, grande coinvolgimento anche per gli ex-allievi di nuova generazione impegnati nelle attività legate al Dis-Ordine a Port’Aurea ai quali oggi saranno consegnati riconoscimenti e attestati di partecipazione: Giorgia Baroncelli, Clarissa Nuzzi, Gabriela Rigoni, Chiara Sansoni, Serena Saporetti, Francesca Vitali, Chiara Piovan, Sebastiano Bardella, Vittoria Gasponi, Steven Bortolussi, Riccardo Mariotti. Bari: “Sana Alimentazione” alla Casa Circondariale, AssoVegan entra nel carcere di Tiziana Annicchiarico promiseland.it, 1 agosto 2018 Si è tenuto in data 26 luglio la conferenza “Sana Alimentazione” presso la Casa Circondariale di Bari: un evento organizzato da Tiziana Annichiarico con la collaborazione del dott. Favata, pensato per i detenuti ma anche per tutti quelli che ci lavorano a contatto, come agenti, operatori, volontari. Un pomeriggio dedicato alla salute attraverso l’alimentazione dentro il carcere, ma anche e soprattutto nella vita, libera e consapevole, che verrà. Il 26 luglio 2018 molti detenuti della Casa Circondariale di Bari hanno partecipato al corso di “Sana Alimentazione” ideato e realizzato dalla Dott.ssa Tiziana Annicchiarico, educatore professionale nel campo del disagio minorile, devianza e marginalità, pedagogista, membro del Comitato etico, Ambasciatore della regione Puglia, coordinatore della rete nazionale degli Ambasciatori dell’Associazione Vegani Italiani Onlus. L’evento è stato realizzato grazie alla collaborazione con il Dott. Roberto Favata, membro del comitato scientifico di Assovegan, biagromo alimentare, specializzato in biochimica degli alimenti, sicurezza alimentare, processi produttivi ecocompatibili, sistemi qualità certificati. Formatore e divulgatore scientifico. È socio fondatore e collaboratore del Centro Omega Stargate di Palermo. Co-fondatore del C.O.C.E.A. Centro per l’Orientamento, la Coerenza e l’Educazione Alimentare di Palermo, e autore del progetto formativo divulgativo “Coerenza Alimentare”. La Dott.ssa Tiziana Annicchiarico ci racconta: “Ben cinquantasette detenuti della Casa Circondariale di Bari hanno partecipato all’evento sulla Sana Alimentazione con molto interesse, curiosità, hanno posto molte domande al Dott. Favata, il quale con molta attenzione e disponibilità, ha risposto ad ognuno di loro. La Casa Circondariale di Bari propone diverse attività educative, ricreative e formative rivolte ai detenuti, è un carcere che apre le porte al mondo esterno, è molto importante creare un ponte tra carcere e società. Il carcere non deve essere più considerato un’istituzione totale, non è più un contenitore che al suo interno deve contenere lo scarto della società. È giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore. Essendo un educatore nel campo della devianza e marginalità per me è molto importante realizzare soprattutto all’interno di un carcere dei percorsi educativi che permettono di restituire alla società persone migliori. L’importanza della formazione, perché nelle persone detenute esiste la speranza del cambiamento. Ritengo sia molto importante parlare di Sana Alimentazione anche all’interno di un’istituzione penitenziaria, perché anche i detenuti hanno il diritto come tutti noi, di poter accedere ad una corretta formazione. Grazie all’insegnamento del Dott. Favata non solo i detenuti, ma anche gli operatori dell’area pedagogica, gli agenti penitenziari, hanno imparato cosa mangiare, come scegliere e combinare gli alimenti, rispettando la stagionalità e i prodotti locali, come distribuire i pasti durante l’arco della giornata, i metodi di cottura per mantenere il più possibile le proprietà nutritive del cibo. La nostra attenzione si è focalizzata soprattutto sugli alimenti di origine vegetale, perché l’alimentazione vegetale è un vero toccasana per la nostra salute e quindi anche per la nostra vita. I detenuti hanno messo subito in pratica i consigli del Dott. Favata, effettuando delle modifiche costruttive nella loro alimentazione. Il carcere è un luogo dove oltre al dramma, alla sofferenza umana, esiste un mondo fatto anche di realtà positive, progetti che vanno avanti grazie all’impegno dei detenuti, dei volontari e da parte di chi dentro ad un carcere ci lavora ogni giorno”. Il Dott. Roberto Favata ci racconta: “L’evento sulla Sana Alimentazione mi ha dato modo di poter parlare con i detenuti della Casa Circondariale di Bari di alimentazione sana, corretta, a prevalenza vegetale. Sono particolarmente contento che la Dott. Annicchiarico abbia creato questa iniziativa, sicuramente unica nel suo genere, perché siamo riusciti a dare un’ informazione a queste persone molto utile per la loro salute, per un nuovo approccio alimentare che potranno attuare sia all’interno della struttura, sia anche quando poi terminata la loro pena usciranno dal carcere e la loro vita avrà un’impronta più libera e potranno fare delle scelte più consapevoli e importanti per la loro vita”. La Dott.ssa Tiziana Annicchiarico ringrazia con il cuore il Dott. Favata per il suo prezioso supporto, la Direttrice della Casa Circondariale di Bari Valeria Pirè, il resp.le Area Sicurezza Comm. Francesca De Musso, il resp.le Area Pedagogica Pasquale Fracalvieri, gli Educatori e tutto il personale di Polizia Penitenziaria. Inoltre un ringraziamento ed un augurio per una vita migliore è rivolto soprattutto ai detenuti che hanno partecipato a questo importante evento. Modena: (palla)volo oltre le sbarre, grazie al Centro Sportivo Italiano di Francesca Blesio Corriere della Sera, 1 agosto 2018 Mamme ex atlete e detenute giocano a volley nella sezione femminile del Sant’Anna di Modena. L’esperienza nella casa circondariale supportata dal Centro Sportivo Italiano. Una volontaria: “Lo sport azzera le differenze e aiuta a vivere meglio. Loro ma anche noi”. Al campo si vede giusto uno scampolo di cielo. Quel che resta della libertà è un gioco di nuvole e sole sopra la propria testa. E un muro di mani, che ribatte colpo su colpo, ben più basso rispetto a quello di cemento armato della casa circondariale Sant’Anna. Grazie al Centro Sportivo Italiano e al Comitato di Modena, la pallavolo regala qualche ora di socialità alle donne che stanno scontando in questo carcere nella periferia nord della città la propria pena. L’appuntamento con lo sport, previsto nella campagna “Il mio campo libero” del Csi all’interno degli istituti di pena italiani (13 regioni coinvolte) e organizzato nella sezione femminile del Sant’Anna, quest’anno era il sabato mattina. “L’obiettivo - spiega Emanuela Carta, responsabile dell’intervento - era ed è sempre quello di diminuire la recidiva, offrendo con lo sport un percorso di risocializzazione”. Le condizioni non sono certo semplici: “L’ostacolo più grosso è fare partecipare le detenute: rompere la monotonia è difficile”. Superato quell’ostacolo, però, i risultati si vedono. Almeno sul campo da gioco. Di recente una squadra di mamme, ex giocatrici, con la maglia delle Seven Fighters (la squadra del cartone animato Mila e Shiro) si è sfidata con le ragazze del carcere e ne è uscita sconfitta. Erano tutto meno che dispiaciute, le pallavoliste della Pgs Smile di Formigine. Tanto che a settembre contano di tornare in quel rettangolo di cemento per la rivincita. “La prima cosa che noti entrando - rileva Chiara Casali, capitano della squadra - è che il carcere è un postaccio. E la prima che realizzi, confrontandoti con donne simili per età e spesso anche per provenienza, è che sei molto fortunata a essere nata e cresciuta in un ambiente che ti ha permesso di vivere una vita diversa”. Gli spazi angusti, la mancanza di privacy, la distanza dagli affetti si sono impresse sulle retine di Chiara e delle sue compagne. Assieme alle privazioni, hanno anche scoperto la gioia delle piccole cose (“Erano felicissime di poter riassaporare i cibi di casa, nelle torte che abbiamo portato fatte da noi e dalle nostre mamme”). Perché dopo la partita c’è stato il più dolce dei terzi tempi, quello della merenda condita di chiacchiere. “Lo sport azzera le differenze”, ricorda Chiara. E così, questa squadra di mamme ha passato una mattinata confrontandosi prima sul campo poi sulla vita con le donne rinchiuse in questo carcere nella campagna modenese. Paola Roncaglia frequenta la casa circondariale come volontaria del Csi Modena da tre anni. “Come fuori, anche dentro al carcere lo sport fa da collante”, attacca. E poi insegna a vivere meglio: “All’inizio le ragazze miravano a vincere, quindi appena arrivava loro la palla la ributtavano subito di là dalla rete per ottenere il punto, ora tendono a fare i tre passaggi canonici. E questa apertura verso le altre ha un effetto anche fuori dal campo: prima difendevano il pacchetto di cracker, ora cominciano a condividerlo, così può succedere con i biscotti o con le sigarette. Sembra scontato per noi, ma dentro al carcere non lo è per niente”. Gli spazi, per uno sport che fa bene al futuro delle detenute ma anche al mondo che dovrà riaccoglierle una volta uscite, nella sezione femminile del Sant’Anna sono risicatissimi. C’è solo quel rettangolo di cemento per tutte e tutto, ora d’aria compresa. E se le condizioni meteo sono avverse lo sport si fa in biblioteca. La rete sbilenca nel campo di pallavolo è giusto un dettaglio. Una volta fuori, sarà certamente più tesa. E i muri saranno solo di mani. Nave italiana riporta migranti in Libia. “È respingimento” di Leo Lancari Il Manifesto, 1 agosto 2018 L’Asso 28 soccorre 101 persone. Fratoianni (Leu): “Intervento coordinato da Roma”. Salvini: “No, dalla Guardia costiera libica”. Se si tratta di un respingimento collettivo vietato dal diritto internazionale lo si capirà meglio nei prossimi giorni, una volta che saranno stati accertati i fatti. Di sicuro per ora ci sono solo due cose: per la prima volta una nave italiana ha riportato in Libia un gruppo di migranti tratto in salvo in acque internazionali, anche se riconosciute come zona Sar libica e - soprattutto - quanto accaduto rischia di essere il nuovo tassello della politica anti migranti del governo giallo verde. Un passaggio che preoccupa sia l’Unione europea che l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che ieri hanno ricordato all’Italia come la Libia non possa essere considerato un Paese sicuro per le continue violazioni ai diritti umani dei migranti. I fatti. Lunedì il rimorchiatore Asso 28 dell’armatore napoletano Augusta Offshore è in servizio di assistenza alla piattaforma petrolifera “Sabratah”, che l’Eni gestisce insieme alla società libica Noc a 57 miglia da Tripoli. Alle 14,30, secondo la ricostruzione fatta dallo stesso armatore, riceve la segnalazione di un gommone con 101 persone a bordo in difficoltà a 1,5 miglia di distanza. E qui c’è un punto decisivo da chiarire. Da chi è partita la segnalazione di soccorso? Per il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, che in questi giorni si trova imbarcato sulla nave Open Arms dell’ong spagnola Proactiva, l’allarme sarebbe arrivato da Mrcc di Roma, il centro di coordinamento dei soccorsi della Guardia costiera italiana. “Sul sistema Navetx - spiega il deputato facendo riferimento al sistema utilizzato dalle navi per inviare le richieste di soccorso - abbiamo ricevuto un messaggio rilanciato da Imrcc Malta ma proveniente da Imrcc Roma in cui si segnalava un gommone blu in difficoltà in area libica. Poco dopo il Colibrì, un aereo da ricerca francese, dà comunicazione a tutti, dunque all’Italia, a Malta e ai libici di altri due gommoni bianchi in difficoltà a nord di Sabratah, nei pressi di una piattaforma petrolifera”. Una versione smentita dal ministro degli Interni Salvini, secondo il quale a coordinare l’intervento sarebbe stata la Guardia costiera di Tripoli. “Le ong protestano e gli scafisti perdono affari? Bene, noi andiamo avanti così”, scrive su Facebook con i soliti toni sprezzanti. Versione, quella del titolare del Viminale, confermata in seguito anche dall’armatore e dal ministro dei Trasporti Toninelli, secondo il quale la Guardia costiera italiana non sarebbe stata coinvolta nelle operazioni di salvataggio. Fatta sta che una volta raggiunto il gommone l’Asso 28 prende i migranti a bordo dove si trovano anche rappresentanti non meglio identificati delle autorità libiche. E scortato da una motovedetta libica sopraggiunta nel frattempo fa rotta verso Tripoli dove arriva lunedì sera e dove il gruppo, del quale fanno parte anche cinque bambini e altrettante donne incinta- viene fatto sbarcare. Sulla vicenda adesso l’Unhcr ha aperto un’indagine: “Stiamo raccogliendo tutte le informazioni necessarie - spiega su Twitter -. La Libia non è un porto sicuro e questo fatto potrebbe comportare una violazione del diritto internazionale”. Ma la preoccupazione per quanto accaduto e per le possibili conseguenze è pressoché unanime. Intervengono Magistratura democratica, l’Arci, Amnesty International e l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, mentre il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma sottolinea come, se le notizie riportate dalle agenzie verranno confermate, “si tratterebbe di un episodio che si potrebbe configurare come respingimento collettivo”. Un parere condiviso anche da Marina Castellaneta, ordinario di diritto internazionale a Bari: “In base a tutte le convenzioni internazionali lo Stato deve fare in modo che chiunque faccia richiesta di asilo venga tutelato e seguito in questa richiesta - spiega la docente -. E dunque ha l’obbligo che le sue navi, quelle che battono la sua bandiera, non effettuino dei respingimenti”. Migranti. Le regole in mare e la condanna per il caso Hirsi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 agosto 2018 Ma il respingimento in subappalto vale? Rimarcare - come fa il ministro dell’Interno Salvini - che la Guardia costiera italiana non abbia partecipato alle manovre con cui la nave commerciale italiana “Asso 28” ha salvato ioi persone in mare, e che siano stati invece i libici a coordinare l’intervento durante il quale la nave commerciale italiana le ha poi riportate e trasbordate in Libia, potrebbe non bastare a evitare l’onta di un’altra sentenza “Hirsi contro Italia”: il verdetto con cui nel 2012 la “Corte europea dei diritti dell’uomo” di Strasburgo condannò l’Italia per violazione nel z009 del divieto di respingere migranti verso Paesi dove possano essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti. Quel caso non era perfettamente sovrapponibile perché il 6 maggio 2009 i 24 somali ed eritrei erano stati presi a bordo e poi riportati in Libia da navi della Marina militare italiana: cambia qualcosa se la nave italiana non è militare, e se - a guidare il trasbordo sono i libici con i quali la nave ha ricevuto dalla centrale operativa italiana l’ordine di coordinarsi? Strasburgo nel 2009, una volta ribadito che in acque internazionali chi mette piede su una nave mette piede sul territorio (ed è sottoposto alla giurisdizione) del Paese di cui la nave batte bandiera, ravvisò poi la violazione non solo dell’articolo 3 della Cedu per aver riportato i migranti in Libia, che non è “porto sicuro” (neanche ha mai firmato la Convenzione di Ginevra) e dove anzi erano (e sono) esposti al concreto rischio di tortura; ma anche degli articoli 4 e 1,3 che vietano i respingimenti collettivi, cioè senza valutazione di ogni singola richiesta di asilo e senza possibilità di ricorso effettivo. Gli Stati “devono astenersi dal rinviare una persona (direttamente o indirettamente) là dove essa potrebbe correre il rischio reale di essere sottoposta a trattamenti inumani o degradanti”: avverbio - anche “indirettamente” - che non pare conciliarsi con i respingimenti italiani in subappalto libico. Migranti. “Libia porto sicuro”, la strategia di Salvini per fermare gli sbarchi di Cristiana Mangani Il Messaggero, 1 agosto 2018 Più di 1.400 movimenti nelle ultime settimane: dopo mesi passati in porto senza soldi per il carburante, le motovedette della Guardia costiera libica sembrano aver trovato una particolare voglia di intervenire nei soccorsi in mare. E la ragione, probabilmente, è nell’impegno che l’Italia, ma anche l’intera Unione europea, sembra aver preso con il presidente Fayez al Serraj. Settembre sarà un mese importante per la Libia, perché la nuova campagna che il ministro dell’Interno Matteo Salvini vuole portare a Bruxelles, è quella di far dichiarare Tripoli e altri porti del Nord Africa, “porti sicuri”. Ovvero luoghi dover poter approdare avendo la possibilità di chiedere l’asilo politico o un permesso di soggiorno. Una sfida non da poco, e che sembra molto difficile da vincere, soprattutto per via delle tante leggi internazionali che pongono precise regole a chi accoglie i migranti. Il responsabile del Viminale, però, è orientato a insistere per aprire questo fronte nel dibattito, cercando di coinvolgere anche la Tunisia, l’Algeria, e tutti quei posti che sono considerati a rischio diritti umani. Il primo obiettivo è stato raggiunto con la creazione di un’area Sar di intervento da parte della Libia, nei confronti della quale l’Europa sembra aver mostrato un’apertura reale soprattutto di recente. E infatti, con il supporto della Ue, Tripoli ha preso possesso della parte di mare davanti alle proprie coste per le operazioni di ricerca e salvataggio (Sar è l’acronimo inglese di “search and rescue”). Il governo libico ha nuovamente inviato richiesta di certificazione all’Imo, la Authority marittima dell’Onu, dopo il ritiro della pratica avanzata un anno fa. E questa volta lo ha ottenuto. Finora, pur avendo ratificato la convenzione di Amburgo, Tripoli non aveva dichiarato quale fosse la sua specifica area di responsabilità e la competenza per il salvataggio dei migranti in mare, di fatto, spettava all’Italia. Ora, le navi impegnate in quelle acque fanno regolarmente ritorno sulla costa dalla quale sono salpate. Ma ciò, naturalmente, non può bastare a garantirgli il riconoscimento di “porto sicuro”, ed è per questo che il Viminale intende affrontare la questione in Europa. “Del resto - spiegano - già durante il precedente governo i migranti venivano riportati in Libia. È ipocrita fare accordi con le tribù locali, e poi dire che non puoi respingere”. Inoltre, per i paesi africani che affacciano sul Mediterraneo saranno più opportunità, più affari, più interessi, e probabilmente anche più denaro da parte dell’Unione europea. Come Tripoli anche nei confronti di Tunisi è aperto il dibattito riguardo alla possibilità che vengano riconosciuti come “piace of safety”. E la questione si è posta nuovamente di recente, nel caso della nave “Sarshot 5”, da giorni bloccata in acque tunisine, senza riuscire ad approdare. È facile immaginare che il governo in carica a Tripoli abbia ottenuto di recente aiuti economici di una certa importanza, e abbia quindi risposto con un impegno maggiore negli interventi in mare. Le partenze si sono drasticamente ridotte, la diplomazia è in grande fermento, e c’è molta attesa per la Conferenza sull’immigrazione e la sicurezza che il governo libico sta organizzando per settembre. Un appuntamento al quale ha aderito anche il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, che proprio qualche giorno fa ha incontrato i vertici dell’Eni. La sua presenza a un incontro organizzato dal governo in carica, viene giudicata molto importante, visto che da sempre Il Cairo è stato schierato al fianco del generale Khalifa Haftar, acerrimo nemico e avversario di al Serraj. Tratta, “minaccia concreta per milioni di bambini nel mondo” Redattore Sociale, 1 agosto 2018 Bambini e ragazzi sono il 28% delle vittime, ma in Africa e America Latina questa percentuale supera il 60. Rifugiati, migranti e sfollati i più vulnerabili. “Numero reale ancora maggiore rispetto ai dati ufficiali”. La denuncia (e le proposte) di Unicef e Icat. Circa il 28% delle vittime di tratta identificate a livello mondiale sono bambini. E in regioni come l’Africa Subsahariana o l’America Latina, la percentuale tocca rispettivamente il 64% e il 62%. È la denuncia di Uniicef e Gruppo di Coordinamento Inter-Agenzie contro la Tratta di esseri umani (Icat), secondo cui “il numero reale dei minorenni vittime di tratta sia ancora maggiore rispetto ai dati ufficiali”. “Questo avviene perché i bambini vengono raramente identificati quali vittime del traffico di esseri umani: - si legge - pochi di loro si fanno avanti, per paura dei trafficanti, per mancanza di informazioni sulle opzioni disponibili, per diffidenza nei confronti delle autorità o per paura di rimanere vittime di stigmatizzazione sociale o di essere rimpatriati senza tutela e assistenza materiale. I bambini rifugiati, migranti e sfollati sono categorie particolarmente vulnerabili alla tratta. Che stiano fuggendo da guerre o persecuzioni, o che siano alla ricerca di migliori opportunità di formazione o sostentamento, un numero esiguo di minorenni ha la possibilità di accedere a percorsi regolari e sicuri per spostarsi insieme alla propria famiglia”. Una circostanza che “aumenta le probabilità che i bambini e i membri delle loro famiglie utilizzino percorsi irregolari e più pericolosi, oppure che decidano di intraprendere il viaggio in solitudine, il che li rende ancora più vulnerabili a violenze, abusi e sfruttamento da parte dei trafficanti”. “La tratta è una minaccia estremamente concreta per milioni di bambini nel mondo, soprattutto per quelli che sono stati costretti a lasciare le loro case e comunità senza una protezione adeguata” afferma il Direttore dell’Unief, Henrietta Fore.”Questi bambini hanno urgentemente bisogno che i governi intensifichino e mettano in atto misure per tenerli al sicuro”. In molti contesti mancano soluzioni sostenibili per i bambini vittime di tratta, come un’assistenza a lungo termine, il recupero sociale e la protezione umanitaria. In molti paesi i sistemi di tutela dell’infanzia e dell’adolescenza non dispongono di risorse sufficienti, c’è estrema carenza di tutori legali e di meccanismi di tutela alternativa. Spesso questi bambini e ragazzi vengono collocati in sistemazioni inadeguate, dove rischiano ulteriori traumi e violenze. I ragazzi vittime di tratta possono incontrare ulteriori ostacoli a causa degli stereotipi di genere che impediscono ai ragazzi maschi di ottenere o di chiedere l’aiuto di cui hanno bisogno, mentre le ragazze sono più vulnerabili al rischio di sfruttamento o abuso sessuale, di discriminazione e di maggiore povertà. Le proposte di Unicef e Icat - Aumentare percorsi sicuri e legali che consentano alle famiglie con bambini di spostarsi, accelerando la determinazione dello status di rifugiato e affrontando quegli ostacoli normativi e pratici che impediscono il ricongiungimento dei minorenni alle loro famiglie. Rafforzare i sistemi di protezione sociale e di tutela dell’infanzia al fine di prevenire, identificare, gestire e assistere i casi di tratta, violenza, abusi e sfruttamento dei bambini, e rispondere ai loro specifici bisogni con attenzione all’età e al genere. Assicurare che le decisioni in merito siano guidate da una valutazione caso per caso, nella quale sia determinato correttamente il “superiore interesse del minore”, qualunque sia lo status legale della persona in questione, e che egli/ella possa partecipare a questa decisione nella misura più appropriata in base alla sua età e al suo grado di maturità. Migliorare la cooperazione transfrontaliera e lo scambio di informazioni tra Stati confinanti, l’applicazione delle norme sulla protezione dell’infanzia e dell’adolescenza, le procedure di ricerca e di ricongiungimento familiare e i meccanismi di tutela alternativa per i minorenni non accompagnati da familiari. Evitare misure che potrebbero spingere i minorenni a scegliere rotte più rischiose e di spostarsi da soli per evitare di essere scoperti dai controlli di polizia. Droghe, un nuovo Forum europeo alla prova di Susanna Ronconi Il Manifesto, 1 agosto 2018 I venti che spirano in una parte dell’Unione europea, a Est soprattutto, ma anche a Sud, come sappiamo bene, non depongono a favore di politiche sociali aperte e innovative. Anche sulle droghe, come sulle migrazioni o sulle povertà, potrebbero pesare populismi e nazionalismi, avvezzi alle risposte muscolari ben più che alle strategie di respiro, basate sulle evidenze e sul rispetto dei diritti umani: Vienna 2019, il Meeting di Alto livello Onu sulle droghe, sarà un banco di prova politicamente importante. Di contro, la nuova composizione e la nuova direzione del Forum europeo della società civile sulle droghe (Csfd) - il gruppo di associazioni attive nelle politiche sulle droghe che si affianca in qualità di gruppo di esperti alla Commissione Europea ed è interlocutore del Gruppo orizzontale droghe (Hgd), che rappresenta i governi - va nella direzione delle politiche riformiste, orientate al contenimento dell’approccio penale e alla riduzione del danno. Ai primi di luglio, sono state confermate o accolte per la prima volta 45 associazioni e reti europee, che pur continuando a rappresentare tutti i diversi orientamenti (per l’Italia Forum Droghe, Parsec Consortium e San Patrignano), per il nuovo triennio 2018-2020 sono prevalentemente espressione di quanto nella società civile (Sc) sia progredito l’approccio critico verso le politiche globali e come si stiano concretamente percorrendo altre strade. Gli obiettivi del nuovo Csfd prevedono innanzitutto il presidio e la promozione dell’attuale Piano europeo sulle droghe, che lo scorso anno è stato varato con l’apporto significativo del Forum stesso, raggiungendo una formulazione tra le più avanzate, considerando pluralità e mediazioni, per esempio su riduzione del danno, partecipazione, promozione di forme alternative al carcere, monitoraggio delle politiche innovative sulla cannabis (vedi rubrica su il manifesto del 23 agosto 2017). Il Forum ha verificato attraverso le sue antenne nazionali come molti governi non abbiano adottato il Piano e ne siano fortemente lontani. Una campagna di advocacy finalizzata al rispetto delle linee guida del Piano comunitario in tutti i paesi membri sarà avviata entro l’anno, con materiali informativi e campagne di comunicazione in tutte le lingue: una opportunità per chi, come noi in Italia, ha un Piano nazionale obsoleto e iperproibizionista. Azioni specifiche saranno indirizzate al contesto internazionale, soprattutto al mantenimento e allo sviluppo della posizione riformista già espressa dalla Commissione europea in sede Onu in sede Ungass 2016: banco di prova anche a livello nazionale, per noi, memori del ruolo di rottura del fronte europeo che giocò l’Italia di Berlusconi e Giovanardi nel 2009, rendendo il ruolo comunitario più debole nel contesto globale, a favore dei proibizionismi di Usa e Russia. Campagne e lavoro di advocacy anche per il ruolo delle associazioni nelle politiche nazionali sulle droghe: sarà lanciata in ogni stato membro una call aperta alle associazioni, mirata sia a documentare buone prassi nel dialogo politico che a sostenere micro-piani d’azione locale per aumentare il peso della società civile nei processi decisionali locali o nazionali (ai primi di agosto la pubblicazione del bando su www.fuoriluogo.it). Infine, il futuro prossimo: l’impegno del Csfd è proiettato verso il 2020, quando sarà varata una nuova Strategia europea sulle droghe. Prioritario sarà l’impegno verso la Commissione e verso i governi nazionali a progredire in un approccio riformista, contro ogni tentazione nazional-muscolare. Cannabis terapeutica. Ministra Grillo: “partnership pubblico-privata per aumentare produzione” La Repubblica, 1 agosto 2018 La titolare del dicastero della Salute ha visitato l’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze, dove la cannabis viene prodotta. “Verrà bandita una sorta di manifestazione di interesse per una partnership pubblico-privata, per aumentare la produzione della cannabis terapeutica”. Così la ministra della Salute, Giulia Grillo, al termine della sua visita questa mattina, martedì 31 luglio, all’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze, dove attualmente la cannabis terapeutica viene prodotta. Il via alle manifestazioni d’interesse, ha spiegato la ministra “sicuramente non sarà molto distante nel tempo”. Ci vorrà “tempo ovviamente di organizzare, ma essendo un’attività di grande interesse tanto per la Difesa, quanto per la Salute, saranno fatti tutti gli sforzi per farla nel più breve tempo possibile”. Attualmente, ha detto Grillo, “non è sufficiente la quantità” che viene prodotta dall’Istituto, dunque incrementare la produzione è “molto importante” perché “possiamo anche noi soddisfare altre esigenze, non solo interne ma pure estere”. “Farò ogni sforzo affinché in tutte le farmacie torni disponibile la cannabis ad uso medico per garantire la continuità terapeutica alla quale avete diritto”, ha poi confermato la ministra con un post sul suo profilo Facebook annunciando di aver “incontrato il Comitato pazienti cannabis terapeutica, con cui ho avuto un fruttuoso colloquio”. “Ho ascoltato le loro istanze e mi sono attivata per verificare le condizioni di un aumento di produzione di cannabis terapeutica”. Ho appena terminato la visita allo stabilimento Chimico Farmaceutico Militare, dove ho incontrato il Comitato Pazienti Cannabis Terapeutica, e con i quali ho avuto un fruttuoso colloquio. Ho ascoltato le loro istanze e mi sono attivata per verificare le condizioni di un aumento di produzione di cannabis terapeutica. Farò ogni sforzo affinché in tutte le farmacie torni disponibile la cannabis ad uso medico in modo da garantire la continuità terapeutica alla quale avete diritto. Francia. Presto una riorganizzazione del sistema penitenziario Nova, 1 agosto 2018 Il ministro della Giustizia francese, Nicole Belloubet, ha annunciato una riorganizzazione dell’amministrazione penitenziaria dopo l’evasione di Redoine Faid, il detenuto scappato da carcere di Reau, nella Seine-et-Marne grazie all’aiuto di un commando. Lo riferisce “Le Figaro”, spiegando che ieri il guardasigilli ha presentato le conclusioni di un rapporto preparato dall’Ispezione generale della Giustizia. Belloubet ha sottolineato che attualmente si attua un approccio “più giuridico che operativo” nel sistema penitenziario, a causa di una frattura tra le squadre che agiscono sul terreno e l’amministrazione centrale. Il ministro ha inoltre riconosciuto la mancanza di efficacia nella prevenzione della radicalizzazione dei detenuti nelle prigioni. Stati Uniti. Armi realizzate con stampante 3D: giudice blocca il via libera Corriere della Sera, 1 agosto 2018 Le istruzioni dovevano essere pubblicate online dal primo agosto da Defense Distributed. Anche Trump si era espresso contro la decisione: “Non ha senso”. Un giudice federale negli Usa ha bloccato temporaneamente la pubblicazione online delle istruzioni per fabbricare la pistola con la stampante 3D. L’ingiunzione è arrivata a poche ore dalla diffusione - prevista per il primo agosto - da parte dell’azienda texana Defense Distributed, il cui proprietario (Cody Wilson) è un noto sostenitore del possesso di armi da fuoco. Otto Stati americani si erano appellati contro il via libera della pubblicazione e anche il presidente americano Trump con un tweet aveva definito la pubblicazione “senza senso”. La causa - Il governo statunitense aveva ordinato a Defense Distributed di rimuovere le istruzioni pubblicate online nel 2013, e la società aveva fatto causa rivendicando la violazione dei diritti previsti nel Primo e nel Secondo Emendamento. Dall’azione legale si è arrivati al patteggiamento di giugno che le associazioni contro le armi criticano duramente perché non vedono il motivo di un ripensamento. Wilson, fondatore e proprietario della Defense Distribuite, pubblicò online i progetti e gli schemi per stampare in 3D una pistola funzionante, “The Liberator”. Soprannominate “Ghost Guns”, queste armi “fai da te” non sono rintracciabili perché mancano di numeri seriali. Armi “fai da te” - Wilson ha definito “The Liberator” come “Wiki Weapon”, la pistola che può essere creata velocemente. Il Dipartimento di Stato Usa aveva imposto l’eliminazione delle istruzioni dal sito nel 2013 perché questa violava il Traffic in Arms Regulations, la normativa che disciplina l’accesso alle armi e ai loro dettagli tecnici. “The Liberator” può essere realizzata con 15 pezzi stampati in 3D e con l’aggiunta di un chiodo comune che fa da percussore.