Minisci (Anm): “Legittima difesa allargata? Rischio di omicidi” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 19 agosto 2018 Il presidente dei giudici: “Resti il rito abbreviato per gravi reati, rischio di boss liberi. No alla vendita delle armi nei supermercati. Intercettazioni, riforma Orlando da accantonare”. Le toppe, o i rattoppi, servono a poco. Chiediamo al governo un piano complessivo sulla giustizia, una visione lungimirante, non micro-interventi settoriali”. Francesco Minisci è presidente dell’Associazione nazionale magistrati, alla quale aderiscono 8.500 delle 9mila toghe italiane. Ponderato per carattere e formazione, non ama le polemiche, ma va dritto al sodo. Insieme a molte proposte, manifesta “perplessità”, e in qualche caso l’esplicita “contrarietà” dell’Anm su diverse ipotesi di riforma al vaglio del Parlamento: “Attenzione”, osserva, potrebbero causare in futuro “danni gravissimi”. A partire dall’allargamento delle maglie della legittima difesa, cavallo di battaglia del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “Il disegno di legge 652, se approvato, rischierebbe addirittura di legittimare reati gravissimi, fino all’omicidio”. Teme che le città italiane si trasformino in un far west? Non si può prescindere dal principio della proporzionalità fra offesa e difesa e dalla valutazione, caso per caso, del giudice: se, da fuori casa, vedo un tizio che si arrampica sul balcone, non posso essere autorizzato a sparargli. Serve una norma per difendersi dai ladri in casa? Nel 2006 è già stata approvata: è il secondo comma dell’art. 52 del codice penale, che presume la legittima difesa in caso di reazione a chi si introduce nella propria abitazione e minaccia il proprietario o il furto dei suoi beni. E ci allarma una eventuale “liberalizzazione” della vendita di armi: siamo contrari alla vendita nei supermercati. Le forti tensioni con la Lega per l’inchiesta di Genova sui fondi del partito si sono sopite? Auspichiamo che siano rientrate. E non saremo noi ad alimentare uno scontro. Ma i magistrati di Genova debbono poter lavorare serenamente. Evocare un intervento del capo dello Stato è stato un tentativo di interferenza fuori dal perimetro costituzionale e abbiamo reagito. E reagiremo ancora, se pressioni analoghe dovessero ripresentarsi. In quei giorni abbiamo sentito parlare di “giustizia a orologeria”. Lo rigettiamo con forza: le lancette della giustizia corrono sempre. E noi non esercitiamo la giurisdizione per fini politici, ma in nome del popolo italiano, attraverso provvedimenti e sentenze che motivano il percorso logico e giuridico dei nostri atti. Punto. M5S ipotizza di contrastare la corruzione anche attraverso la figura dell’agente provocatore o sotto copertura. Sarebbe utile? Intendiamoci: uno dei mali più gravi del Paese è la corruzione. E vanno studiate tutte le misure in grado di rendere penetranti e rapide le indagini. Tuttavia, estendere questa figura alle indagini anticorruzione ci lascia molto perplessi. Esiste già nelle indagini antidroga, ma i pm la usano con parsimonia e comunque si inserisce in un contesto criminale già in corso: un carico di cocaina in viaggio dalla Colombia all’Italia, ad esempio. Per la corruzione, la questione è scivolosa: interverrà solo se c’è già un reato, o rischierà di “favorirne” la commissione finendo per farsi parte di una catena di eventi che porta a un crimine? Questa seconda eventualità ci pare assolutamente da evitare. Al suo predecessore, Pier Camillo Davigo, l’ipotesi piaceva… È vero. Tuttavia le nostre perplessità rimangono. L’annosa durata dei processi, che facilita la prescrizione, è il peggior vulnus del sistema. Le proposte del governo la convincono? A giugno, ci siamo confrontati col Guardasigilli. Per noi non c’è un solo intervento-panacea: proponiamo una serie di norme, quasi tutte a costo zero. Intanto, quando si è celebrato un processo di primo grado, è giusto che la prescrizione si interrompa. Ma ciò non risolve il problema, lo sposta solo in avanti. E non si può tenere un processo aperto “a vita”. Perciò, oltre al tema della prescrizione, occorre un insieme di interventi che riducano i tempi. Noi proponiamo la rimozione del divieto di reformatio in pejus: oggi pure il reo confesso fa ricorso in appello, il tempo passa e quel reato si prescrive. Molte corti d’Appello sono intasate: solo in quella di Roma pendono 60mila processi e il 40% si prescriverà. È un dato allarmante. Rivedendo il divieto di reformatio in pejus, la pena potrebbe anche essere aumentata e dunque le impugnazioni sarebbero più ponderate e di conseguenza diminuirebbero. Inoltre, va riformato il sistema delle notifiche: nell’era di Internet, ancora viaggiano nella borsa di un ufficiale giudiziario, col “camminamento”. Se un imputato non viene reperito, passano mesi e anni, quando basterebbe prevedere l’elezione di domicilio automatica presso il suo avvocato. E ancora: se oggi uno dei giudici che ha avviato il dibattimento va in pensione o viene trasferito, si deve rifare tutto, comprese le deposizioni del testimoni. Se lo si vietasse nei casi di corruzione o in altri reati di allarme sociale, si potrebbe andare avanti semplicemente sostituendo il giudice impedito, come accade già per mafia o pedopornografia. Intercettazioni: la riforma Orlando, da voi criticata, è stata congelata… Il nostro grido d’allarme è stato ascoltato. Il governo l’ha sospesa fino al 31 marzo 2019. Ma quella riforma non andrà bene neppure fra 7 mesi, è dannosa per le indagini e pregiudizievole per il diritto di difesa, deve essere accantonata o ripensata radicalmente. Come valuta l’ipotesi di eliminare il ricorso al rito abbreviato per i reati di criminalità organizzata? Attenzione a lanciare temi che possono generare danni gravissimi. Nei processi ai mafiosi il rito abbreviato ha funzionato bene, consentendo sentenze rapide e - nonostante lo sconto di pena - condanne pesanti, fino a 20 anni. Se si elimina quella possibilità, si rischiano numerose scarcerazioni di mafiosi: perché se un processo dura a lungo, scadono i termini di custodia cautelare. E questo non lo possiamo permettere, sarebbe un favore alle mafie. E le risorse? La giustizia non ne ha bisogno? È chiaro che servono. Anche qui, abbiamo delle proposte: per via del carente turnover, mancano 8mila addetti amministrativi. Nell’ultimo concorso ci sono 1.862 giovani laureati già idonei: perché non partire da loro? Al ministro Bonafede chiediamo di far scorrere quelle graduatorie prima che, trascorso un anno, scadano. Invece, del programma di governo non ci convince affatto la proposta del ritorno ai piccoli tribunali: sarebbe un errore, dispendioso e inefficace. Meglio rafforzare quelli esistenti, anche attraverso una redistribuzione delle piante organiche dei magistrati. Dopo anni di carenze, il numero dei magistrati in servizio è tornato sufficiente? Quando, nel 2014, c’è stato l’abbassamento dell’età pensionabile, da 75 a 70 anni, abbiamo avuto serie difficoltà. Ora il colpo è stato assorbito: sono stati fatti i concorsi, anche due all’anno, e la scopertura è scesa al 10%, quella fisiologica. Lo dico a chi immagina di far salire di nuovo l’età pensionabile a 72 anni: non serve, sarebbe un ritorno al passato di cui la magistratura non ha bisogno. È invece importante continuare a bandire i concorsi. E riportare quello in magistratura a concorso di primo grado, per permettere ai giovani laureati di partecipare da subito, non a 30-35 anni. Il caso del Palagiustizia di Bari è simbolico del degrado degli edifici giudiziari. Non la ferisce? Molto. Abbiamo chiesto al ministro della Giustizia un piano straordinario per la sicurezza degli uffici e per l’edilizia. Non c’è solo Bari. In pochi mesi a Roma ci sono stati tre guasti agli ascensori, che hanno causato infortuni a tre persone, ed è crollato un soffitto. Troppi uffici sono vetusti, vanno messi in sicurezza. Senza contare le aggressioni subite da magistrati. Nel governo, c’è chi attaccale “correnti” delle toghe e propone una riforma dei meccanismi del Csm. Qual è la sua opinione? Le cosiddette correnti all’interno della magistratura non sono partiti, come maligna qualcuno, ma sinonimo di pluralismo culturale e democrazia interna. Chi pensa di vietarle, aspira a un “pensiero unico” o ha confuso il pluralismo culturale con l’imparzialità nell’applicare la legge. Non ammettiamo che si continui a fare questa confusione. E i magistrati che entrano in politica? È una questione diversa e limitata a pochi casi. Non sono cittadini di serie B e ne hanno diritto, ma servono norme chiare sul ritorno in magistratura. Non dovrebbero ricoprire più funzioni giurisdizionali, ma solo amministrative, perché il cittadino non abbia alcun dubbio che il magistrato che lo giudica indossi ancora, sotto la toga, una casacca di partito. Il Guardasigilli annuncia un monitoraggio ispettivo sul lavoro dei magistrati, per stanare “le mele marce”. L’Anm è favorevole? No, siamo decisamente contrari. Anzi, ci preoccupa molto. A quale fine? E con quali modalità? Secondo la Commissione Europea, i magistrati italiani sono fra i più produttivi d’Europa: nel civile, settore in forte sofferenza, ci sono colleghi che emettono fino a 500 sentenze l’anno, sgobbando pure a Ferragosto. E l’operato di ciascuno di noi è sottoposto a valutazioni di professionalità, ogni 4 anni, dagli unici organi deputati a farlo: i consigli giudiziari e il Csm. Per di più, il potere di ispettorato ministeriale è previsto solo in presenza di fatti singoli, specifici e ben circoscritti, generalizzarlo finirebbe per introdurre forme di controllo non previste dal sistema. Il vaglio della professionalità dei magistrati spetta esclusivamente agli organi di autogoverno, non al potere politico. Auspichiamo che il ministro non proceda su questa strada: costituirebbe davvero un “fuor d’opera”. Porto d’armi, i paletti del Consiglio di Stato. La Lega non ci sta Il Manifesto, 19 agosto 2018 Essere un imprenditore e aver subito furti in azienda non basta per ottenere il porto d’armi. Il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza del Tar che aveva accolto il ricorso del titolare di un’impresa di Piancamuno (Brescia) che chiedeva di poter possedere una pistola per difesa personale. Una richiesta che era stata respinta nel 2008 dal prefetto di Brescia e quindi l’imprenditore si era rivolto al Tribunale amministrativo regionale che appunto gli aveva dato ragione. Ma il provvedimento del Tar era stato impugnato dal ministero dell’interno (ovviamente non ancora guidato da Matteo Salvini) di fronte al Consiglio di Stato. Che ha chiarito: “Tranne i casi previsti dalla legge non è ravvisabile l’esigenza che sia rilasciata la licenza di porto di pistola per difesa personale, quando si faccia parte di una categoria che svolga una attività lavorativa” come imprenditori, commercianti di preziosi, avvocati, notai, operatori del settore assicurativo o bancario, investigatori privati. E nemmeno aver presentato denunce in conseguenza di furti “ha uno specifico significato ai fini del rilascio” della licenza. Secondo la sentenza del Consiglio di Stato solo la legge può, eventualmente, stabilire specifiche categorie che possano ottenere il porto d’armi, altrimenti prevalgono le esigenze di sicurezza e ordine pubblico. E qui si inserisce subito la Lega, che pretende ostinatamente una nuova legge sulla “legittima difesa” (i lavori sono partiti nella commissione giustizia del senato, ma la maggioranza pentaleghista al momento non sembra procedere compatta). Tuona il deputato leghista Paolo Grimoldi: “Dal Consiglio di Stato è arrivata una sentenza opposta al buon senso e che dimostra come spesso i giudici siano avulsi dalla realtà quotidiana. Così ad un imprenditore bresciano più volte rapinato viene impedito di munirsi di una pistola per potersi difendere a casa propria da una nuova rapina”. Grimoldi dunque assicura: “Presto modificheremo le norme sulla legittima difesa perché in casa propria ci si deve poter difendere sempre, senza se e senza ma…”. Ergastolano con due lauree: “sarò l’avvocato degli ultimi” di Gianluigi Basilietti Gazzetta del Sud, 19 agosto 2018 L’incredibile storia di Carmelo Musumeci, 63 anni, siciliano di Aci S. Antonio. Da ergastolano al sogno di diventare l’avvocato degli “ultimi”. Quella di Carmelo Musumeci, 63 anni, siciliano di Aci Sant’Antonio, è una storia di andata e ritorno dall’inferno che ora diventa missione verso tutti quei “detenuti che dalla vita meritano un’altra chance”. Musumeci vive e lavora a Bevagna, in una comunità per disabili, dopo che il tribunale di sorveglianza di Perugia gli ha concesso la liberazione condizionale, mentre quello di Venezia aveva già trasformato l’ergastolo ostativo (per il quale non sono previsti benefici) al quale era condannato in quello ordinario. A soli 15 anni Musumeci ha conosciuto il carcere minorile per aver assaltato un ufficio postale, dopo che la sua gioventù era scivolata via facendo a cazzotti in strada e nelle camerate del collegio dove l’avevano rinchiuso. Insomma, uno “nato colpevole”, come recita il titolo di uno dei libri da lui scritti. E crescendo non era certo migliorato. Anzi, ha sparato e ucciso in uno scontro tra bande criminali. Per la giustizia italiana l’aveva fatto nell’ambito di un’organizzazione mafiosa, roba che va punita con il 41 bis. Con fine pena mai e per di più ostativo. Ma lui 11 ore di libera uscita, malgrado quel divieto severo, l’aveva ottenute. “Nel 2011, il giorno che presi la mia prima laurea in Giurisprudenza all’Università di Perugia”, ha raccontato mentre è appoggiato a una delle colonne del chiosco della comunità per disabili Papa Giovanni 23/o di Bevagna. Parla sorridendo, gli occhi a tratti si riempiono di lacrime, racconta la telefonata del 14 agosto, quando il tribunale di sorveglianza di Perugia gli ha comunicato che poteva fare a meno di tornare ogni sera al carcere di Capanne dove era in semilibertà, perché gli è stata concessa la libertà condizionale. Un lavoro esterno concesso dal 2016, anno in cui si era laureato anche in Filosofia, dopo 24 anni vissuti ininterrottamente tra le sbarre. “I miei prossimi cinque anni li trascorrerò ancora qui come volontario assistendo i bambini disabili perché devo terminare la mia pena - ha raccontato - ma poi ho un sogno da realizzare: aprire uno studio legale e diventare l’avvocato di tutti i detenuti, in modo da tirarli fuori dal carcere il prima possibile. Lì dentro non è vero che si migliora, lì si peggiora, solo l’affetto della società e il perdono ti fa capire i tuoi sbagli”. Musumeci, quando ancora si trovava detenuto nel supercarcere di Spoleto, aveva avviato la sua battaglia per cancellare la pena dell’ergastolo. “Battaglia - dice - che venne sostenuta anche da uno dei miei salvatori, don Oreste Benzi e che continuerò con determinazione per dare sempre al detenuto una speranza di diventare un uomo migliore. Un uomo nuovo come lo sono diventato io”. Taranto: detenuto di 38 anni s’impicca alle sbarre della cella Quotidiano di Puglia, 19 agosto 2018 Ha atteso che gli altri detenuti uscissero dalla cella per la cosiddetta “ora d’aria”. Poi si è chiuso in bagno e si è impiccato usando un cappio fabbricato con le lenzuola che ha legato alla grata delle sbarre. E a nulla sono valsi i tentativi di sottrarlo alla morte. Così, ieri pomeriggio nel carcere di Largo Magli, si è tolto la vita un detenuto di 38 anni, Domenico Sangermano, residente a Massafra. Nel penitenziario era tornato da pochi giorni, per evasione dai domiciliari presso una comunità terapeutica di Ginosa Marina. I Carabinieri, appresa la notizia che l’uomo si era allontanato dalla comunità senza l’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, sospettando che potesse raggiungere il centro abitato di Massafra per nascondersi presso alcuni familiari, hanno intrapreso ricerche che hanno consentito effettivamente di rintracciarlo mentre camminava per le strade della città. Un destino che non ha sopportato. Nei giorni scorsi avrebbe dato i primi segnali di insofferenza. Ieri pomeriggio, purtroppo, la drammatica scelta di togliersi la vita. Napoli: il Garante regionale dei detenuti visita l’istituto di Secondigliano Il Mattino, 19 agosto 2018 Il Garante regionale delle persone prive della libertà, Samuele Ciambriello si è recato in visita nell’istituto penitenziario di Secondigliano. Nell’istituto, diretto da Giulia Russo,sono presenti ad oggi 1.290 detenuti su una capienza ufficiale di 1.020 posti. La visita si è svolta nella sezione Adriatico (200 presenti), nell’Articolazione psichiatrica (18 presenti) e al SAI (78 presenti). “Come annunciato, ha dichiarato Samuele Ciambriello in questo mese che è tra i più difficili per chi si trova in carcere come per gli stessi operatori penitenziari, ho potenziato l’attività di vigilanza svolta dal mio ufficio. Devo rilevare subito, tra le note positive rispetto alla condizione di sovraffollamento che si vive in altri istituti, che qui i numeri e la tipologia di struttura consentono che la vita detentiva si possa svolgere in condizioni di rispettosa vivibilità”, ha spiegato Ciambriello. “Registro anche positivamente un regime di socialità a celle aperte che ritengo possa essere potenziato. Inoltre, si stanno attivando corsi universitari per circa 50 detenuti”, ha scritto ancora in una nota il Garante. “Ciò nonostante - ha proseguito - permangono delle situazioni di criticità, come l’assenza di doccia in cella - nonostante siano previste dal 2000, e l’insufficienza delle risorse a disposizioni per garantire la manutenzione in alcune celle. Credo sia anche necessario si recuperino spazi per consentire, in particolare alle persone con sofferenza psichica, condizioni detentive che rendano possibile adeguati percorsi di riabilitazione. È necessario uno sforzo maggiore in termini di risorse umane e di capacità progettuale”. Chiavari (Ge): delegazione di Fi in visita al carcere “un’oasi rispetto alle carceri liguri” di Francesca Vulpani twebnews.it, 19 agosto 2018 “Le carceri italiane sono sovraffollate e con forti deficienze di organico della polizia penitenziaria. Un problema che colpisce anche gli istituti di pena presenti in Liguria, in barba alle disposizioni dell’art.27 della Costituzione”. Così la delegazione di Forza Italia, composta dagli onorevoli Roberto Cassinelli e Roberto Bagnasco, insieme al consigliere regionale Claudio Muzio, a seguito della visita di Ferragosto al carcere di Chiavari. “Nel 2018 abbiamo assistito a un crescendo di aggressioni e suicidi. Ciò documenta ancora una volta le condizioni assurde in cui versa il nostro sistema carcerario, ormai vicino al collasso”, sottolinea il deputato Roberto Cassinelli, componente della Commissione Giustizia alla Camera. “I dati ministeriali ci dicono che nel primo semestre del 2018 ci sono stati, nelle carceri liguri, 190 atti di autolesionismo, 1 decesso per cause naturali, 13 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 154 colluttazioni e 23 ferimenti. Questo fa capire e comprendere in quali gravi condizioni operative e di sicurezza opera in Liguria il personale di Polizia Penitenziaria, come per altro periodicamente denunciano i sindacati del Corpo e in particolare il Sappe. “La struttura di Chiavari è quasi un’oasi rispetto ad altre realtà. Non possiamo dimenticare i numeri fuori controllo nel Ponente, Né i fatti accaduti di recente a Marassi”, ha aggiunto Roberto Bagnasco. “Tra i problemi da risolvere c’è anche la questione del concorso interno per vice ispettore che dura da oltre 10 anni, a cui è collegata anche la retro datazione giuridica del grado e l’assegnazione a fine corso, che potrebbe creare difficoltà al rientro nella sede di provenienza per effetto della sopraggiunta Riforma Madia che ha unilateralmente modificato, in pejus, le piante organiche del Corpo di Polizia Penitenziaria. In parlamento il gruppo di Forza Italia si è attivato per arrivare a una soluzione al più presto”, ha concluso Roberto Cassinelli dopo aver concluso la visita nel carcere di Chiavari. Reggio Calabria: Mandelàs Office, c’è un posto dove vittime e “carnefici” s’incontrano di Riccardo Tripepi Il Dubbio, 19 agosto 2018 La straordinaria esperienza dell’ufficio per la giustizia riparativa. È intitolato a Nelson Mandela l’ufficio per la giustizia riparativa aperto nel cuore di Reggio Calabria, all’interno di un bene confiscato alla criminalità dal valore simbolico assai forte. Sul campanello di quella che è divenuta la sede del Mandelàs Office si legge ancora il nome dell’avvocato Paolo Romeo, al centro del processo Gotha che ha visto finire sotto accusa anche l’ex senatore Antonio Caridi. “Serve cambiare la simbologia di Reggio che deve diventare positiva per l’effetto di una rivoluzione culturale” ha detto il sindaco Giuseppe Falcomatà al momento del taglio del nastro. L’immobile in cui sorge il nuovo ufficio fa parte dell’immenso patrimonio immobiliare confiscato al “re dei videopoker” Gioacchino Campolo. Il garante dei diritti dei delle persone private della libertà del Comune di Reggio Calabria, Agostino Siviglia ha spiegato come l’avvio dell’ ufficio per la giustizia riparativa, attivo fino ad oggi soltanto in una ventina di città italiane, rappresenti una grande opportunità per la città anche in considerazione dell’impegno inter-istituzionale che ha portato alla sua realizzazione sulla quale c’è stata anche la benedizione dell’Agenzia dei beni confiscati e del ministro della Giustizia che ha mandato un messaggio di saluto in occasione della cerimonia di apertura, dando risalto dell’operato svolto in riva allo Stretto anche sul sito del Ministero. “Chi ha commesso rati è giusto che paghi il suo debito con la giustizia, ma anche che abbia l’opportunità di potere cambiare vita e fare una scelta di vita positiva. Le Istituzioni devono contribuire a custodire un diritto alla speranza per chi il reato lo ha subito, ma anche per chi il reato lo ha commesso per consentirgli di cambiare vita”. E del resto proprio nella stessa realizzazione del Mandelàs Office c’è una storia di giustizia riparativa. Gli uffici sono stati ristrutturati e rimessi a nuovo da alcuni detenuti del carcere di Arghillà che hanno chiesto di essere inseriti in programmi di lavoro proprio con l’idea di riparare in qualche modo i torti che hanno fatto alla Comunità. “Il Comune ha fatto partire questo percorso due anni fa - ha spiegato ancora Siviglia - attivando la possibilità prevista all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario e coinvolgendo 14 detenuti che sono stati impegnati nella cura del verde pubblico, nella manutenzione di alcuni siti archeologici e in altre attività di pubblica utilità”. Si tratta di colpevoli di reati comuni, per la gran parte, ma anche in un caso di un soggetto condannato per omicidio che dopo aver scontato dieci anni di reclusione ha iniziato a voler riparare il male fatto in precedenza. I lavori vengono svolti a costo zero per l’Amministrazione comunale che pasa soltanto i contributi Inail e garantisce il trasporta da e per la casa circondariale di Arghillà. Teatro in carcere. Siamo il sogno che vorremmo sognare di Laura Zangarini La Lettura, 19 agosto 2018 Trent’anni fa Armando Punzo, drammaturgo e regista, portava il teatro nel carcere di Volterra. Nasceva la Compagnia della Fortezza. Che celebra il compleanno con uno spettacolo e un evento site-specific ispirato a Borges. Tutto è cominciato trent’anni fa con uno sguardo alla Fortezza Medicea, arroccata sul punto più alto del colle su cui sorge Volterra, che da secoli ospita un carcere. “Venivo dall’esperienza finita con il Gruppo Internazionale L’Avventura - ricorda Armando Punzo, regista e drammaturgo, anima della Compagnia della Fortezza, mi interrogavo sul futuro. Volevo continuare a fare teatro, a lavorare con gli attori: ma fuori dai sistemi di produzione ufficiali. Cercavo un nuovo inizio, il carcere sembrava offrirne uno”. Fece domanda al comune di Volterra, senza grandi aspettative. “La risposta arrivò meno di un mese dopo. Insieme a un piccolo finanziamento della Regione Toscana”. Era il 1988 e, per la prima volta, in un istituto di pena considerato ai tempi di massima sicurezza, faceva il suo ingresso il teatro, non come attività creativa di riabilitazione ma come esperienza d’arte e di cultura. Tre decenni di “teatro in carcere” che Punzo e i suoi detenuti-attori hanno celebrato con una serie di iniziative, tra cui laboratori, incontri, mostre e installazioni, un evento site-specific (Le rovine circolari, ispirato all’opera di Borges e allestito negli spazi post-industriali della centrale geotermica Enel - Nuova di Larderello, in provincia di Pisa) e un nuovo spettacolo, Beatitudo, andato in scena proprio nella “casa” della compagnia, tra le stanze, i corridoi e il grande cortile della Fortezza. Il 6 e 7 ottobre aprirà la stagione del Teatro Verdi di Pisa in prima nazionale, poi la tournée in tutta Italia. Un’opera con cui Punzo ha affrontato la sfida di rappresentare l’irrappresentabile. Spiega: “Al centro del progetto c’è l’immaginario vertiginoso di Borges, lo straordinario compagno di viaggio che è rimasto con noi negli ultimi due anni di lavoro, un autore che costruisce mondi intangibili, sospesi, illuminati dalla luce del sogno e non della realtà, continuamente messa in discussione e riconquistata sotto forma di possibilità altra”. Cuore di Beatitudo “è la “felicità dell’azione” intesa come movi- mento rispetto all’idea di immobilità dell’essere umano, che sembra non voglia mai rischiare nulla. Uno spettacolo sulla possibilità di sognare in un presente sopraffatto dagli incubi. Noi siamo il sogno che vorremmo sognato dagli altri”. Borges rappresenta in qualche modo la sintesi di quelle “architetture dell’impossibile” la cui costruzione, sostiene Punzo, ha non solo reinventato il carcere ma l’idea stessa di teatro come necessità, a prescindere dalle categorizzazioni. “Quando sono entrato per la prima volta in questo luogo di detenzione, ne ho accantonato la stranezza, l’esoticità. Volevo evitare la narrazione del mondo carcerario. Ho detto ai detenuti: non sono né un educatore né uno psicologo, voglio dare vita a una compagnia teatrale. Se vi interessa, sono qui”. Reazioni? “Mi hanno guardato un po’ straniti, incuriositi. I primi iscritti erano tutti napoletani, poi hanno cominciato a venire anche gli altri”. Ricorda qualcuno in modo particolare? “Nella storia della compagnia ci sono attori che ne hanno segnato il cammino, Costantino Petito è stato sicuramente uno di questi”. Il traguardo dei trent’anni ha rappresentato la realizzazione di un’utopia, un percorso di crescita e affermazione che sembrava impossibile. “Eppure in carcere non disponiamo di uno spazio teatrale - lamenta il regista -, lavoriamo da sempre in un’ex cella di tre metri per nove, dove ogni giorno dalle venti alle cinquanta persone leggono, discutono, elaborano, progettano; oppure d’estate nei cortili, quelli che io chiamo “le piazze della città reclusa”“. Nei sei lustri di vita della compagnia sono stati prodotti più di trenta spettacoli, “eppure è evidente che siamo un’anomalia nel teatro italiano. Sarebbe importante che il ministero della Cultura riconoscesse questa anomalia e ci sostenesse con più forza”. Invece. “Quest’anno abbiamo subito un taglio ai finanziamenti di 25 mila euro. Non cerchiamo milioni, vorremmo però contare almeno su quanto ci era già stato riconosciuto. Riusciamo a portare avanti quest’esperienza studiata e sostenuta in tutto il mondo anche grazie a piccoli miracoli, come quello che ha coinvolto Acri, l’associazione di Fondazioni e Casse di risparmio: dopo aver assistito a un nostro spettacolo ha deciso di finanziare il progetto nazionale Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza. Il nuovo, ciò che è fuori dai canoni, è sempre osteggiato. Ma la nostra è un’idea più grande di noi, che chiede di essere realizzata. Non faremo in tempo a vederla concretizzata compiutamente, ma succederà, come immagina Borges in Rovine circolari: “Voleva sognare un uomo, voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”. Addio a Kofi Annan, il diplomatico della pace impossibile di Vittorio Zucconi La Repubblica, 19 agosto 2018 Era nato nella terra degli schiavi, la “Costa D’Oro”, miniera per secoli di metalli preziosi e di oro nero umano per i colonialisti europei. Sarebbe arrivato, primo figlio dell’Africa profonda, al timone di quella meravigliosa, indispensabile illusione chiamata Nazioni Unite. Kofi Annan, scomparso ieri nell’asettica solitudine svizzera di Berna, è stato, più di ogni altro Segretario generale dell’Onu il portatore delle grandi speranze e della spossante impotenza di quel grattacielo a Manhattan. Fu, più di altri segretari generali, l’uomo che perse la pace. Diceva di sé, semi-scherzando, che il suo cognome “Annan” suonava in inglese come “cànnon” e la sua vita di diplomatico, di mediatore, di portatore di pace a mani vuote sarebbe stata costantemente accompagnata dalla colonna sonora di cannonate, guerre e massacri che la sua opera non avrebbe mai fermato. Nel 1993, quando il predecessore Boutrus-Boutrus Ghali lo scelse come responsabile dei Caschi blu, neonata forza di pace sotto le bandiere Onu, grande fu l’attesa per un ruolo muscolare delle Nazioni Unite nei conflitti: e dunque enorme il disincanto di un fallimento consumato dalla Somalia al Ruanda, dai Balcani all’Iraq. Annan, battezzato come tanti figli della sua gente con il nome del giorno della settimana nel quale era nato - Kofi significa venerdì - si era liberato dalla servitù oscena del colonialismo europeo insieme con la Costa d’Oro britannica divenuta Ghana indipendente, ma sarebbe rimasto prigioniero della maligna oppressione degli interessi opposti dei nuovi potentati che da 70 anni paralizza l’Onu. La sua vita di uomo era stata un lungo e costante cammino lungo il lato luminoso della forza. Nato da buona famiglia nella colonia britannica che i bianchi spolpavano di ricchezze, allevato dalla migliore scuola di missionari Metodisti, universitario prima in Africa e poi al Mit di Boston, Annan era un predestinato della nuova generazione di giovani leader africani occidentalizzati. Nello charme sempre elegantissimo e poliglotta della sua piccola figura in completi di taglio italiano, sposato prima con una ricca signora ghanese che gli avrebbe dato due figli e poi con una funzionaria svedese dell’Onu che gli avrebbe portato in dote una terza figlia, era l’incarnazione di un nuovo mondo globalizzato, dove origini, nome, colore sembravano finalmente contare meno del merito e della preparazione: un mondo culminato con l’elezione alla presidenza americana di Barack Obama, fino al prepotente ritorno del razzismo nelle democrazie atlantiche, oggi travestito da sovranismo. Ma quanto più grandi furono le promesse, tanto più piccoli apparvero i risultati. Un pezzo dopo l’altro il castello di ghiaccio sorretto dalla Guerra Fredda in ogni continente cominciò a sciogliersi e frantumarsi, in iceberg e crepacci sempre più sanguinosi. Fallì nel massacro di Mogadiscio la missione Somalia. In Ruanda, dove il comandante canadese dei Caschi Blu aveva disperatamente chiesto al Palazzo di Vetro l’ok per un’azione preventiva senza ottenerlo, partì la strage di un milione di innocenti. Nella Jugoslavia devastata dalle forze centrifughe dell’odio etnico represso a lungo, dovette acconsentire all’intervento della Nato per 78 giorni di bombardamenti che spezzarono l’assedio del Kosovo e il regime di Milosevic, all’insegna di quello che lui stesso avrebbe poi dovuto teorizzare, l’“intervento umanitario” e la violazione della sovranità politica per salvare vite. Nel 2001 gli arrivò la puntuale e micidiale assegnazione del Nobel per la Pace, che non perdona gli insigniti. Subito dopo gli americani, che lo avevano di fatto imposto alla Segreteria Generale ne11997 rovesciando il favorito dei francesi, l’egiziano Ghalí, lo abbandonarono quando cercò invano di opporsi alla follia bushista dell’invasione dell’Iraq come conseguenza dell’attacco alle Torri gemelle. Dopo anni camminati sul lato luminoso della forza, tentò di raggiungere il lato oscuro, arrivando a incontrare Saddam Hussein, il Grande Satana del momento, a fumare sigari con lui, a stringergli la mano, a convincerlo ad accettare quelle ispezioni internazionali che, sperava, avrebbe convinto Bush, Cheney, Rumsfeld e Powell che Bagdad non possedeva più armi di distruzione di massa. Kofi Annan riuscì a non dare a Bush il sigillo dell’Onu per l’invasione, ma non a impedirla. Sarebbero, puntuali, partiti scandali e rivelazioni, la più grave quella contro il figlio coinvolto nel caso “Oil for Food”, il programma dell’Onu che consentiva a Hussein di esportare greggio, ma solo per comprarsi cibo: alla fine l’inchiesta si limitò a censurare la sua mancata supervisione. Seguirono altri sussurri di corruzione e malefatte, incluse denunce per molestie sessuali, mentre attorno al Palazzo di Vetro crescevano lo scetticismo e via via l’indifferenza, oggi l’ostilità, di un’America e di un mondo sempre più spaventati e provinciali, quindi allergici a utopie di governi sovranazionali e autorità globali. Kofi Annan avrebbe trascorso i 12 anni dopo la fine dell’incarico nel 2006, scrivendo e lavorando per ricostruire la propria immagine e il senso della propria missione incompiuta, mentre l’Onu sta ripiombando nella sua marginalità. Come prima di lui aveva fatto il suo predecessore Dag Hammarskjold, aveva creduto nell’Onu e provato a renderla uno strumento efficace di pacificazione: come Hammarskjòld, morto in un misterioso incidente aereo, non poteva che fallire. Dovette vederlo di persona, il crollo della speranza, quella mattina dell’Il settembre 2001. Dagli uffici in cima al grattacielo di Oscar Niemeyer a New York si vedevano con chiarezza le colonne di fumo alzarsi dal World Trade Center. Con 177 migranti a bordo, nave della Guardia costiera italiana ancora senza porto di Ilaria Solaini Avvenire, 19 agosto 2018 La nave militare italiana in attesa di un permesso per attraccare. E intanto spunta un nuovo gommone in difficoltà con 70 a bordo. Resta ancora senza sviluppi la situazione di nave Diciotti, a bordo della quale ci sono 177 migranti salvati nei giorni scorsi. Da quanto si apprende, infatti, non è ancora stato deciso e indicato un porto di sbarco e la nave della Guardia costiera resta ancora al largo di Lampedusa. La vicenda, che si trascina da tre giorni, si intreccia con un nuovo braccio di ferro tra Roma e Malta. I migranti soccorsi erano all’inizio 190, ma 13 di loro, tra cui alcuni bambini e una donna che avrebbe subito violenze in Libia, sono stati trasferiti nel poliambulatorio di Lampedusa perché bisognose di cure. Tra i 177 rimasti a bordo, ci sarebbero 11 donne e alcuni minori. I bambini più piccoli sarebbero invece stati tutti trasferiti. Venerdì sera sulla vicenda è intervenuto anche il Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà, Mauro Palma, che ha chiesto informazioni urgenti sul caso. Intanto due operazioni di soccorso in mare nei confronti di migranti sono in atto in acque libiche e maltesi. Il primo intervento riguarda un barchino in difficoltà, con circa 20 migranti a bordo, in acque di responsabilità SAR libiche, per il quale sta intervenendo una motovedetta della Guardia Costiera Libica. Il secondo è in corso in acque di responsabilità SAR maltesi, sotto il coordinamento delle autorità Maltesi e riguarda un gommone in difficoltà con circa 70 migranti a bordo. “Immagini esclusive di un gommone con 70 immigrati, scafista alla guida e motore potente, in acque maltesi. Qualcuno si degnerà di intervenire o li manderanno ancora una volta in direzione Italia?”. È quanto scrive il ministro dell’Interno Matteo Salvini sul suo profilo Twitter postando la foto aerea di un’imbarcazione carica di migranti. Il braccio di ferro con Malta: nave militare italiana senza porto - Mentre la nave Aquarius con a bordo le 141 persone tratte in salvo venerdì 10 agosto al largo della Libia, dopo cinque giorni di attesa è approdata alla Valletta, con la promessa di ripartizione dei migranti tra vari Paesi europei tra cui l’Italia, si apre un altro braccio di ferro tra Roma e Malta. Questa volta al centro c’è la nave Diciotti della Guardia costiera italiana, che la notte tra mercoledì e giovedì ha soccorso un barcone con 190 migranti a bordo e con il motore in avaria. Il comando italiano si è attivato immediatamente per far sbarcare 13 persone per ragioni sanitarie, lasciandone 177 a bordo. La situazione tra i naufraghi è drammatica. Sette persone necessitavano di soccorso medico urgente e sono state evacuate (nel caso dei minori, assieme ai familiari). Di questi, tre bambini sono affetti da scabbia, una donna ha avuto un aborto spontaneo, un uomo ha la linfedema, un altro ha forti dolori addominali e un altro ancora è in stato di collasso. Il salvataggio, secondo quanto si apprende, è stato coordinato dalle autorità di Malta, che ha fornito al barcone, prima che giungesse la Diciotti, acqua, cibo e giubbotti di salvataggio. La Diciotti, chiede quindi alla Valletta di destinargli un porto sicuro a Malta, visto che si trovano nell’area Sar dell’isola. Il niet da Malta e l’ipotesi di accompagnare lo sbarco della Diciotti in Italia fa precipitare la situazione. “A fronte della disponibilità del nostro governo per accogliere non più di venti immigrati che erano a bordo della Aquarius, in queste ore i partner europei pensano di lasciare sola l’Italia rifilandole un barcone con 170 persone”, fa sapere il Viminale. Già in mattinata il ministro dell’interno, Matteo Salvini aveva posto alcuni paletti: “È mio dovere informarvi che un barcone con 170 immigrati a bordo, ora in acque maltesi e in difficoltà, viene bellamente ignorato, anzi viene accompagnato verso le acque italiane, dalle autorità maltesi - prosegue. Se questa è l’Europa, non è la mia Europa. L’Italia ha già accolto, e speso, abbastanza. Sia chiaro a tutti, a Bruxelles e dintorni. Punto”. “Dopo aver accolto via mare 700mila immigrati in pochi anni, penso che l’Italia abbia già fatto il dovere suo, e anche di altri” taglia corto Salvini. Sul caso è intervenuto anche il Garante dei detenuti e delle persone private della libertà, che ha chiesto informazioni urgenti sullo stato di salute, sulla presenza di donne e bambini, e sollecitando l’individuazione di un porto d’attracco. Sulla vicenda è in atto una nuova prova di forza tra Roma e La Valletta, infatti. Il ministro dell’Interno, Salvini, ha fornito ieri una ricostruzione del salvataggio secondo cui l’intervento di soccorso è stato condotto in prima battuta da Malta in acque maltesi; poi, ha detto Salvini, i maltesi hanno ‘accompagnato’ il barcone verso le acque italiane dove è intervenuta la nave della Guardia costiera italiana: quest’ultima, però - ha specificato il ministro - ha agito senza avvertire il ministero. Malta da parte sua ha risposto con una netta chiusura, affermando che Roma “non ha appigli legali per chiedere” un porto maltese e che “il porto più sicuro è Lampedusa”. In questa situazione di stallo, un passo lo fa Bruxelles. “Seguiamo gli sviluppi” di nave Diciotti “molto da vicino”, ha fatto sapere la portavoce della Commissione per la Migrazione, Tove Ernst. “Per il momento - ha aggiunto - non sono al corrente che vi siano contatti tra la Commissione e gli Stati membri” per un accordo sulla distribuzione dei migranti a bordo, intesa, che come in altri casi precedenti, permetterebbe di trovare un porto sicuro per lo sbarco. “Ma come in passato, siamo pronti, se c’è necessità, a fornire sostegno al coordinamento e prestare tutto il nostro peso diplomatico per soluzioni veloci”. E qualcosa si muove anche a Berlino per un’intesa con l’Italia sui respingimenti al confine. “Siamo andati molto avanti nelle trattative e riteniamo che arriveremo a un accordo”, ha detto la portavoce del ministro dell’Interno tedesco, Eleonore Petermann. La nave Aquarius a La Valletta - Nel tardo pomeriggio del 14 agosto Malta, che come l’Italia, in un primo momento aveva opposto un rifiuto alla nave gestita da Medicins Sans Frontieres (MSF) e SOS Méditerranée, ha cambiato posizione e ha dato all’Aquarius il permesso di entrare nel suo porto, “anche se non ha l’obbligo legale di farlo”, ha spiegato il primo ministro Joseph Muscat, aggiungendo che “tutte le 141 persone a bordo saranno ripartite tra Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo e Spagna”. La notizia dell’accordo a livello Ue per l’accoglienza dei profughi è stata confermata dalla Commissione europea e rilanciata dal primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, che con un tweet ha fatto sapere che la Spagna accoglierà 60 di queste persone. L’accordo - che riguarda i 141 migranti soccorsi dall’Aquarius e altre 114 persone approdate martedì scorso a Malta da un’altra nave di soccorso - è il frutto di un’iniziativa rivendicata da “Malta e Francia”, a cui si sono uniti diversi Stati europei: “Spagna, Portogallo, Germania e Lussemburgo si sono messi d’accordo” per trovare una soluzione e garantire diritti e dignità per queste persone. L’Eliseo, inoltre, ha annunciato che “proporrà nelle prossime settimane un meccanismo strutturale” per “evitare le crisi a ripetizione”. Anche La Valletta ritiene il “meccanismo volontario” che si è innescato “un esempio concreto di leadership e solidarietà europea”. Mentre Berlino, che pure non si è sottratta alle sue responsabilità, ha ribadito che in futuro per i migranti migranti salvati in mare, “c’è bisogno di una veloce soluzione europea e della partecipazione solidale di tutti gli Stati membri”, si legge nella nota del ministero dell’Interno tedesco. E l’Italia in tutto questo? Il ministro Salvini, nella giornata in cui Genova piange i suoi morti (il 14 agosto, ndr), aveva esultato per non aver aperto i porti italiani e per non essere tra i Paesi che hanno deciso di accogliere i migranti della nave Aquarius: “Dopo lo sbarco di oltre 400 migranti a Pozzallo le promesse di Paesi europei di accoglierne una quota sono finite appena si sono spenti i microfoni sulla vicenda. Anche per questo, lo ribadisco, l’Italia è indisponibile a concedere i nostri porti, che resteranno chiusi”. Ma è stata la stessa Malta a smentire le parole di Salvini, affermando che il governo italiano avrebbe aperto le porte a una ventina di migranti. Acnur: 1 persona su 17 muore nel Mediterraneo centrale, il triplo rispetto al 2017 - L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) si è unita all’appello del commissario Filippo Grandi che ha definito “sbagliato, pericoloso e immorale tenere le navi di soccorso a vagare nel Mediterraneo”. Uno dei rischi è che le imbarcazioni che incontrano i barconi non prestino soccorso, per il timore di restare bloccate in mare. Lungo la rotta del Mediterraneo centrale il tasso di mortalità dei migranti che tentano di attraversarlo è triplicato, e ora si attesta a 1 persona che muore ogni 17 che tentano la traversata, rispetto a 1 su 43 durante lo stesso periodo dell’anno scorso, stando ai dati dell’Acnur che in una nota fa anche appello “ai comandanti delle navi affinché continuino i loro sforzi nel sostenere il salvataggio in mare”. “Senza questa essenziale e fondamentale pietra angolare della legge del mare - sottolinea l’Acnur - molte altre vite andranno perse. Sebbene si sia ridotto significativamente il numero di persone che attraversano il Mediterraneo rispetto agli ultimi anni, il numero di quelle che risultano morte o disperse in mare rimane elevato. Già quest’anno più di 1.500 persone sono morte o disperse nel Mediterraneo”. Al di là delle polemiche politiche, fatte a spese delle persone in mare, la situazione a bordo della nave Aquarius nelle ultime ore si era fatta difficile: Medici senza frontiere aveva lanciato l’allarme: “A bordo di Aquarius la maggior parte delle 105 persone provenienti da Eritrea e Somalia soffre di malnutrizione cronica. Stiamo fornendo cibo proteico arricchito con vitamine. Le persone sono ben idratate e il team medico monitora attentamente il loro stato”. Nel mentre lo Stato di Gibilterra aveva deciso di ritirare la sua bandiera dalla Aquarius dopo aver chiesto all’Ong di abbandonare le attività di salvataggio, per le quali non è registrata in territorio britannico, e ritornare all’attività di ricerca. All’annuncio del ritiro della bandiera di Gibilterra, il coordinatore dei soccorsi della nave Aquarius, Nicola Stalla, aveva replicato che “è probabile che chiederemo alle autorità tedesche di battere bandiera della Germania visto che la nave precedentemente era immatricolata e di proprietà tedesca. In ogni caso chiederemo bandiera a un altro Paese e almeno fino al 20 agosto faremo ancora riferimento a Gibilterra”. La nave, di proprietà tedesca, nel 2009 era stata registrata a Gibilterra per fare ricerca, ma dal 2016 era stata noleggiata da Sos Mediterranee e Médecins sans Frontières per attività di salvataggio. Secondo il diario di bordo la nave Aquarius si trova ora a metà strada tra Italia e Malta. Le offerte da Catalogna e Corsica - Nella giornata di martedì erano arrivate anche le offerte da parte di Corsica e Catalogna per l’utilizzo dei porti. Il presidente catalano Quim Torra ha messo ha disposizione della nave i porti di Palamos (Girona), Villanova (Barcellona) e Rapita (Tarragona). Anche il presidente del consiglio esecutivo della Corsica, Gilles Simeoni, ha detto: “I nostri porti restano disponibili per un aiuto umanitario d’urgenza” per la nave Aquarius, che da venerdì scorso è rimasta senza uno porto sicuro in cui attraccare dopo i no di Italia e Spagna. Medici Senza Frontiere: i 141 profughi sono tutti vulnerabili - Le 141 persone soccorse nell’ultima operazione della nave Aquarius “sono tutte vulnerabili, per il trattamento subito in Libia, dove alcuni sono stati detenuti per oltre tre anni, o per le esperienze fatte nei Paesi di origine prima della partenza”. Lo ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, responsabile affari umanitari di Medici senza Frontiere-Paesi Bassi, durante la conferenza stampa organizzata a Parigi. In particolare, “38 ragazzi tra i 12 e i 15 anni sono particolarmente vulnerabili” ha aggiunto Sahraoui, esprimendo preoccupazione per la loro situazione sanitaria: “molti sono malnutriti e disidratati”. Delle 141 persone attualmente a bordo di Aquarius, 67 sono minori non accompagnati, un terzo sono donne, 50 sono cittadini eritrei e 55 sono somali. Iran. Rischio di esecuzione imminente per un prigioniero curdo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 agosto 2018 Ramin Hossein Panahi, 22 anni, curdo-iraniano, rischia di essere messo a morte in tempi brevi. Della sua vicenda, in occasione di una precedente annunciata esecuzione poi sospesa, avevamo parlato qui a giugno. Panahi è stato condannato a morte nel gennaio 2018 dopo essere stato giudicato colpevole di appartenenza al gruppo Komala e di “insurrezione armata contro lo stato”, accuse che ha sempre negato. Nei giorni scorsi, Panahi è stato trasferito da Sanandaj - il capoluogo della provincia del Kurdistan iraniano - alla prigione Rajaee Shahr nella città di Karaj, a ovest della capitale Teheran e a centinaia di chilometri di distanza dai suoi familiari. Potrebbe essere il prologo dell’esecuzione. Fonti giudiziarie hanno dichiarato ai familiari di Panahi che il trasferimento a Karaj si è reso necessario per fornire al detenuto le cure mediche necessarie a risolvere dei problemi renali. Una spiegazione strana, hanno ribattuto gli avvocati del detenuto, dato che a Sanandaj gli ospedali sono assai meglio attrezzati. Le Nazioni Unite, le organizzazioni iraniane per i diritti umani e Amnesty International hanno sollecitato le autorità di Teheran a non procedere all’esecuzione, sottolineando l’irregolarità del processo - svoltosi in assenza di un avvocato di fiducia - e i maltrattamenti e le torture subiti da Panahi dopo l’arresto. Brasile. Lula candidato fa paura anche dalla prigione di Claudia Fanti Il Manifesto, 19 agosto 2018 Non era mai accaduto nella storia del Brasile che decine di migliaia di militanti accompagnassero la registrazione di un candidato alla presidenza del Paese. E così l’iscrizione formale della candidatura di Lula presso il Tribunale Supremo elettorale - la foto del certificato è stata postata sulle reti sociali alle 17.21 del 15 agosto - si è trasformata in un grande atto di sovranità popolare, con la partecipazione di un gran numero di leader sociali, artisti, giuristi ed esponenti politici. “Un atto di obbedienza alla volontà del popolo e alla Costituzione federale”, secondo le parole del portavoce Fernando Haddad, il quale ha effettuato la registrazione insieme alla presidente del Pt Gleisi Hoffmann, all’ex-presidente Dilma Rousseff e alla deputata del Partido comunista do Brasil Manuela D’Avila (che assumerà la candidatura alla vicepresidenza una volta definita la posizione di Lula). La campagna elettorale ha quindi avuto ufficialmente inizio ma è assai improbabile che per Lula possa concludersi felicemente. Quanto il suo cammino verso la presidenza si riveli proibitivo, lo dimostra bene l’estrema rapidità con cui, lo stesso 15 agosto, la sua candidatura è stata impugnata dalla procuratrice generale della Repubblica Raquel Dodge, da sempre in prima fila nella persecuzione giudiziaria contro l’ex presidente. Una rapidità su cui Glesi Hoffmann non ha mancato di ironizzare: “Se per fermare Lula avesse dovuto correre i 100 metri, Raquel Dodge avrebbe frantumato il record di Usain Bolt”. E un altro pessimo segnale è dato dal fatto che l’incarico di analizzare il caso della candidatura di Lula sia stato assegnato - in uno di quei sorteggi da cui salta fuori sempre un nome ostile all’ex presidente - al ministro Luis Roberto Barroso. Il quale non solo è noto come sostenitore entusiasta della legge Ficha Limpa (che proibisce ai condannati in secondo grado di presentarsi alle elezioni) ma è anche considerato dal Pt il giudice più vicino alla Rede Globo. Ed è proprio il timore che Barroso acceleri i tempi del giudizio ad aver indotto il Partito dei lavoratori a contestare l’assegnazione, chiedendo che ad occuparsi del caso sia il ministro Admar Gonzaga, già incaricato di esaminare le richieste di impugnazione presentate contro Lula da Kim Kataguiri, leader del gruppo di estrema destra Movimento Brasil libre, e dall’attore Alexandre Frota, del Partido social liberal. Le difficoltà, tuttavia, non sembrano scoraggiare l’ex presidente, il quale si è detto determinato a portare avanti la propria candidatura fino alle fine, precisando di non chiedere favori, ma solo di rivendicare “i diritti riconosciuti da anni dai tribunali a centinaia di altri candidati”. E cioè il diritto di ottenere la sospensione dell’ineleggibilità finché non siano esauriti tutti i ricorsi presso le istanze superiori e di poter godere nel frattempo di tutte le prerogative garantite agli altri candidati presidenziali, a cominciare dalla possibilità di prendere parte ai dibattitti televisi. “Finché resterò in prigione - ha dichiarato - ciascuno di voi sarà le mie gambe e la mia voce. Rilanceremo la speranza, la sovranità e l’allegria di questo nostro grande Paese”. Anche nel caso in cui Lula non potesse candidarsi, le destre non avrebbero comunque motivo di esultare: secondo il sociologo Marcos Coimbra dell’istituto di sondaggi Vox populi, basterebbero non più di sei ore per garantire il trasferimento delle intenzioni di voto dall’ex presidente al suo portavoce Fernando Haddad. Il quale non avrebbe così alcun problema ad arrivare al ballottaggio.