Sospese “per ferie” le attività in carcere Corriere del Veneto, 18 agosto 2018 L’Assessora Nalin: “Le iniziative di recupero sono importanti, mi auguro ripartano”. Il mese più lungo. Per i carcerati agosto non finisce mai: attività sospese, poche cose con cui tenersi occupati e molto tempo per pensare. Oltre a un oscuro futuro previsto nella riforma dell’ordinamento penitenziario inserito nel contratto di governo Lega-M5S, che prevede una drastica riduzione delle misure premiali su cui ci sarà da riflettere nei prossimi mesi, i detenuti padovani stanno già facendo i conti con una riduzione delle attività dentro al carcere voluto dalla nuova direzione. Il blocco è arrivato a fine luglio, quando è stata “chiusa” l’esperienza “mai dire mail”, che consentiva ai detenuti di comunicare (sotto controllo) con le famiglie o gli avvocati, e quando è arrivato anche lo stop per l’esperienza che coinvolgeva i ragazzi delle classi quarte che possono incontrare detenuti o ex detenuti per farsi raccontare la loro esperienza. Il blocco “fisiologico” dovuto alle vacanze estive rischia di diventare definitivo perché per il momento non è possibile fare programmazione con le scuole. Proprio qualche giorno fa l’associazione Ristretti Orizzonti, che segue i progetti di rieducazione in carcere, ha presenziato a un incontro cui ha partecipato anche un magistrato di sorveglianza e l’assessora alle Politiche sociali Marta Nalin. Il Comune coordina e finanzia, insieme alla Fondazione Cariparo, i progetti al Due Palazzi. “Ci auguriamo che il percorso iniziato con queste attività continui perché sono di grande utilità sia per i detenuti che per i ragazzi che parlano con loro, generando da un lato prevenzione e dall’altro presa di coscienza del proprio passato - afferma Nalin - il carcere di Padova è all’avanguardia nazionale in tema di rieducazione, mi auguro che si possa proseguire”. Molte le iniziative sostenute dal Comune, oltre alla scuola in carcere c’è un co-housing per chi esce dalla cella e i primi tempi non sa dove andare, c’è l’accompagnamento al lavoro, la mediazione giuridica, biblioteca, giardinaggio e il progetto “Piccoli passi”, che consente gli incontri in un luogo ospitale. A settembre è prevista una riunione in cui discutere del futuro delle attività. “L’ergastolo non serve a nulla: il carcere da medicina diventa malattia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2018 Parla Carmelo Musumeci, che ha ottenuto dal tribunale di sorveglianza di Perugia la liberazione condizionale. “Mi sono sentito l’uomo più felice dell’universo il giorno che mi è arrivata la telefonata dal carcere di Perugia per dirmi che devo essere scarcerato”. È Carmelo Musumeci a spiegare a Il Dubbio quei momenti inaspettati visto che aveva perso ogni speranza per ottenete la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. È riuscito a creare un ponte con l’esterno, ha scritto diversi libri con prefazioni autorevoli della comunità scientifica come Margherita Hack o Umberto Veronesi. Ha intrapreso dialoghi con Agnese, la figlia di Aldo Moro. È entrato con la licenza elementare ed è uscito con tre lauree. Ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Carmelo ha sempre rifiutato quest’ultima opzione. Ma perché? Nel 1990 fu vittima di un agguato teso dal clan rivale. Fu raggiunto da sei colpi di arma da fuoco, riuscì miracolosamente a salvarsi. Dopo essersi rimesso in sesto, assieme ad altri componenti della banda, organizzò la vendetta e la portò a compimento. Viene arrestato nel 1991 e condannato all’ergastolo ostativo. Se solo avesse voluto, ne avrebbe fatti meno di anni. “Ma avrei messo un altro al mio posto e non me lo sarei mai perdonato”, spiega Musumeci. Due anni fa aveva ottenuto la “collaborazione impossibile”: i reati per cui è stato arrestato, infatti, erano finiti in prescrizione. Fare i nomi non sarebbe comunque più servito. Così era riuscito ad ottenere la semilibertà. Oggi, finalmente, è in libertà condizionale grazie alla tenacia del suo avvocato Carlo Fiorio, un professore straordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Perugia che fu anche relatore della tesi di laurea di Musumeci proprio sull’ergastolo ostativo che non a caso era intitolata “la pena di morte viva”. La scarcerazione è stata una notizia inaspettata? Il passo successivo alla semilibertà, ottenuta due anni fa, è l’ottenimento della libertà condizionale. Ho provato a fare l’istanza già due volte, e tutte e due è stata rinviata soprattutto per un ostacolo. Quale? Il risarcimento. È uno dei requisiti per ottenere la liberazione anticipata. Per rimuovere quell’ostacolo ho dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che avevo ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ho subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Sì, lo so, è paradossale che da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ho fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento concreto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che mi spettavano. Ora lei vivrà in libertà, ma per cinque anni a determinate condizioni. Come si vede proiettato nel futuro? Sì, ovviamente in questi cinque anni dovrò firmare un giorno a settimana alla caserma dei carabinieri di Bevagna (comune della provincia di Perugia ndr), non mi posso ovviamente allontanare dalla provincia, posso uscire al mattino alle 6 e rientrare alle 10. Non è una libertà piena, ma finalmente vivo fuori dal carcere e dimoro presso la comunità Papa Giovanni XIII di don Benzi. In questi cinque anni continuerò a fare il volontariato presso la comunità e lo faccio ben volentieri perché è un modo anche per rimediare al male causato facendo del bene. Finiti i cinque anni, l’ergastolo sarà estinto e in quel momento chiederò la riabilitazione per poi - è il mio sogno - aprire uno studio legale che si occupi dell’esecuzione penale. Il mio scopo è quello di continuare ad aiutare - questa volta fuori dalle mura - soprattutto gli ergastolani che sono dentro fin da quando erano giovanissimi. Facciamo un enorme passo indietro. Lei è entrato in carcere nel 1991. Come ha acquisito la coscienza che l’ha portata a intraprendere la battaglia contro l’ergastolo? Deve sapere che ero un delinquente anomalo. Fin da giovane ero un ribelle, simpatizzavo per la sinistra ed ero molto vicino agli ideali anarchici. Ma a causa di certe condizioni ambientali ero finito per fare il delinquente. Dal momento che mi hanno dato l’ergastolo è scattato un meccanismo mentale paradossale. “Finalmente posso essere me stesso perché non ho nulla da perdere visto che la società mi ha condannato ad essere colpevole per sempre”, mi dicevo. Da lì che è cominciata una mia crescita interiore. Ma essere se stessi, in carcere la paghi cara. Perché? Se studi, ti arricchisci, cominci ad acquisire strumenti che ti permettono di riconoscere i propri diritti, ti scontri inevitabilmente con l’istituzione carceraria. Anche per questo motivo, per me, furono anni duri, difficili, venivo spesso punito perché facevo istanze, reclami, chiedevo ai parlamentari di entrare in carcere per fargli comprendere quello che accadeva, soprattutto all’Asinara. Ma mi sono dovuto scontrare anche con i miei compagni. Quindi lei si scontrava anche con i detenuti? Sì. Molti di loro entravano in carcere già “istituzionalizzati”. Non dallo Stato, ma dalla cultura mafiosa che è volta all’ubbidienza e all’ordine. Mi ritrovai a scontrarmi con alcuni boss mafiosi, perché io pretendevo che ci ribellassimo tutti insieme alle torture che subivamo all’Asinara. Loro invece no, rispondevano che avrebbero subito le umiliazioni e torture a testa alta. Io pur essendo stato un delinquente, avevo acquisito una coscienza ribelle durante le sommosse degli anni 70 che avvenivano anche negli istituti penali minorili. Deve sapere che a 15 anni mi sono fatto il primo carcere: il minorile di Marassi per una rapina in un ufficio postale. Noi stavamo al piano terra, i maggiorenni al primo piano. Uscii peggio di prima. A 16 anni rapinai una bisca clandestina con due amici. Poi ne sono diventato socio. E da lì è iniziata la mia carriera criminale. Ritornando al discorso del mio scontro contro tutti all’interno del carcere, erano momenti che mi ritrovai solo: sia contro la ferocia di quel tipo di Stato, sia contro quelli che rappresentavano “l’antistato”. L’atteggiamento dei boss mafiosi, paradossalmente, convenivano alla direzione del carcere. Quando venivano i parlamentari a far visita ispettiva, le uniche denunce arrivavano da me e pochi altri. A proposito di solitudine, quando è nato il primo ponte con l’esterno, soprattutto per rendere visibili le sue battaglie contro l’ergastolo ostativo? I primi furono gli anarchici che dimostravano solidarietà fuori dal carcere di Spoleto o di Nuoro. Attraverso volantini e comunicati pubblicati tramite internet davano voce agli scioperi della fame degli ergastolani che organizzavo. Ero isolato da tutti e da tutto. Quindi gli devo molto. E poi pian piano sono riuscito a crearmi delle relazioni con altre personalità del mondo libero. La svolta è stata il suo contatto con un’associazione cattolica. Sì, la comunità Papa Giovanni XIII di don Oreste Benzi. Parliamo del 2007 e tutto nacque con un incontro. Pensi che io ero - e lo sono tuttora - un ateo convinto e avevo dei pregiudizi nei confronti dei cattolici. Li consideravo dei “buoni” che andavano a messa e prendevano la comunione. Tutto lì. Era il periodo che provocatoriamente avevamo raccolto petizioni per chiedere di tramutare l’ergastolo ostativo in pena di morte. Quel giorno, al carcere di Spoleto, organizzammo un convegno e si presentò don Oreste Benzi. Lo sfidai ad appoggiare lo sciopero della fame promosso da ergastolani mafiosi. Io, che dei preti non mi fidavo, pensavo che avrebbe risposto di no, invece mi spiazzò perché, sorridendo, accettò immediatamente. Assieme a lui c’erano altri membri della comunità come Nadia Bizzotto, e don Benzi disse loro di appoggiarci e seguirci. Fu lì che si realizzò un grande ponte verso la società esterna e nello stesso tempo, per la prima volta, mi sentii davvero un “colpevole”. Questo accade quando una parte della società ti prende in considerazione e vuole aiutarti nonostante il danno che hai causato. Lei dice che l’ergastolo è inutile perché è “pena di morte viva”, però lei alla fine ce l’ha fatta a liberarsi... L’ergastolo non serve a nulla. Se non hai la speranza di uscire prima o poi, ti dimentichi di essere colpevole e ti ritieni una vittima. Il carcere all’inizio dovrebbe essere una medicina ma a lungo andare diventa una malattia. Io sono un caso eccezionale, ma che conferma la regola. Voglio dire agli ergastolani che sono entrati a 19 anni e sono invecchiati dentro quelle mura che devono lottare, non devono delegare, ma combattere in prima persona partendo dall’istruzione, la lettura dei libri, acquisire una coscienza e liberarsi anche da quell’idea che loro si sentono meno colpevoli di tanti altri detenuti che magari hanno commesso altre atrocità. Ci vuole un cambiamento culturale anche tra i detenuti, non solo dall’alto. Durante tutti questi anni di prigione, ha mai pensato al suicidio? È inevitabile pensarci, soprattutto in quei momenti di sconforto, oppure quando sei in isolamento e ti tolgono tutto. Quando non vedi nessuna via di uscita, pensi di farla finita. Questa sofferenza aumenta ancora di più quando acquisisci una coscienza, ti istruisci, ti alimenti di cultura. In quel momento ti senti diverso dagli altri. Farsi la galera dopo aver acquisito una certa sensibilità, non solo soffri per te stesso, ma anche per gli altri. A volte reagivo io per loro e questo mi portava scontri con le direzioni delle carceri. Io ci ho pensato al suicidio e ricordo di averlo fatto capire alla mia compagna. Lei me lo vietò, perché mi fece capire che avrei fatto del male a lei e ai miei figli. Non sarebbe stato giusto. In cella 7 anni dopo il reato: la prescrizione è davvero inutile? di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 agosto 2018 Il caso di uno chef e di un’accusa controversa di violenza sessuale. La certezza della pena: la storia di S. B. dovrebbe far riflettere tutti quelli che la invocano come panacea dei mali che affliggono il sistema giudiziario italiano. S. B è uno chef che ha appena compiuto 50 anni. Nato a Venezia, fin da giovane ha avuto una grande passione per la cucina, e ha lavorato in molti ristoranti in Italia e all’estero. Trasferitosi a Parma agli inizi del 2000, decide di fare il grande passo e di mettersi in proprio aprendo un ristorante di pesce nella patria del prosciutto e del parmigiano. Il successo è immediato. Nonostante il locale sempre pieno, come tutti gli chef, anche S. B. dopo qualche tempo sente il bisogno di rimettersi in gioco e di tentare l’avventura altrove. Nella primavera del 2011 la scelta dunque di vendere il locale di Parma per aprirne uno alle Cinque Terre. La trattativa si rivela alquanto complicata. L’acquirente, una donna della città emiliana, tergiversa, tratta sul prezzo, allunga i tempi. S. B ha invece fretta, avendo già versato un importante acconto per il nuovo ristorante in Liguria. Quei soldi sono quindi indispensabili. Una sera di giugno di quell’anno, quando sembra che finalmente tutto si è sistemato, la donna ci ripensa e si presenta nel ristorante per comunicarglielo. La discussione è molto accesa. Volano parole grosse. S.B. alza anche le mani. La donna esce dal locale e corre subito dai carabinieri. “S.B. l’ha violentata”, scrivono i militari, allegando il referto del pronto soccorso che parla di “abrasione ad un braccio”. Passano solo pochi giorni e S.B. si ritrova nel carcere di massima sicurezza di Parma. “Tentata violenza sessuale”, l’accusa riportata sull’ordine di custodia cautelare. Inutili i tentativi di difendersi. La parola della donna contro quella di S.B. E poi quel referto medico. Dopo alcuni mesi trascorsi in carcere, i domiciliari. Poi l’obbligo di dimora. Finché agli inizi del 2012 S. B. è completamente libero. Il progetto di trasferirsi alle Cinque Terre è rimasto nella testa di S. B. ed è difficile rimanere a Parma dopo quanto successo. Il sogno di avere un locale nel frattempo è sfumato e i soldi dell’anticipo definitivamente persi. Arriva l’estate e S. B. riparte dalla cucina di un ristorante vicino al porto di La Spezia come aiuto cuoco con un contratto a chiamata. Le indagini si chiudono nel 2014. Il processo inizia l’anno dopo. Arriva la condanna in primo ed in secondo grado: 4 anni e mezzo. Nel frattempo S. B. si è sposato, ha comprato casa con un mutuo, ed è tornato a fare lo chef in un importante ristorante delle Cinque Terre. Ma agli inizi di quest’estate la Cassazione conferma la sentenza di condanna. Nonostante il “presofferto”, S.B. deve andare in carcere: i reati di violenza sessuale non ammettono la sospensione dell’ordine di esecuzione. I carabinieri lo vengono a prendere all’alba della scorsa settimana. Secondo la legge deve effettuare un percorso di rieducazione, dietro le sbarre. Anche se S. B. il percorso di rieducazione in questi anni l’ha già fatto da solo: si è sposato, ha rifatto la gavetta fino a guadagnarsi un lavoro a tempo indeterminato (un miraggio di questi tempi), ha comprato casa. Ieri S.B. è stato licenziato: la moglie, a carico, sta cercando urgentemente lavoro. La richiesta alla banca di sospensione del mutuo verrà presentata oggi. Ultima nota. Il ristorante in cui S.B. lavorava è rimasto senza chef proprio nel periodo clou della stagione. Delitti e sbarchi sono un problema ma non sono più un’emergenza di Piero Sansonetti Il Dubbio, 18 agosto 2018 Il ministero dell’Interno, cioè il ministero di Matteo Salvini, ci informa che le principali emergenze delle quali si è parlato anche lui, Salvini, ogni tanto ne ha parlato… in questi ultimi mesi (in questi ultimi anni) sono risolte. Omicidi, criminalità, sbarchi. Restano molti problemi, ma certo non possono essere considerati emergenze. Sbarchi: in un anno crollati del 76 per cento. Delitti, in un anno scesi del 9,5 per cento. Omicidi, giù del 14 per cento. Furti, 8,7 per cento in meno. Rapine, meno 11. Delitti mafiosi, meno 33 per cento. Latitanti mafiosi, meno 99 per cento. Possiamo anche parlare di bollettino della vittoria. Vittoria da accreditare a chi? Di questo ragioniamo alla fine di questo articolo, adesso cerchiamo di trarre qualche insegnamento da questi dati. Ovviamente nessuno al mondo avrebbe l’ardire di sostenere che 319 omicidi, e cioè quasi uno al giorno, non siano un problema molto serio per una società moderna. Né che un milione di furti all’anno, circa 3000 al giorno, siano un fenomeno privo di interesse sociale. E anche 40 mila sbarchi all’anno di migranti irregolari sono un numero considerevole, sebbene certo non devastante per la struttura sociale ed economica di un paese, ricco, con più di 60 milioni di abitanti. È chiaro che le cifre che ci ha fornito il ministro dell’Interno richiedono una strategia politica robusta, che serva a ridurle ancora nell’anno venturo. Sarebbe assurdo dire: beh, c’è un solo omicidio al giorno, sospendiamo ogni azione di vigilanza e di contrasto alla criminalità. Il problema tecnico, che riguarda gli esperti, la polizia e l’autorità politica che guida la sicurezza pubblica, è sul tappeto e va affrontato con serietà. Il problema politico è diverso. E consiste in questo: a chiunque è evidente che non si può più parlare di emergenza quando si parla di delitti o di sbarchi. L’emergenza - sia nel dizionario della lingua italiana sia nel dizionario politico - è una situazione straordinaria di crescita veloce e massiccia delle dimensioni di un problema. Se lo spread vola sopra i 300 punti c’è una emergenza spread. Se la povertà (che riguarda italiani e immigrati) anziché decrescere (come era sempre avvenuto nel dopoguerra) torna a crescere, è emergenza. Se le cifre della disoccupazione dicono che è in aumento quella giovanile, è emergenza. Viceversa, se il ministero ci informa che gli sbarchi sono calati del 76 per cento, non esiste neppure l’ombra di un’emergenza sbarchi. Così come se in un anno sono stati catturati 54 dei 55 mafiosi definiti pericolosi dagli esperti, e ne resta libero uno solo - seppure dal nome altisonante come quello di Matteo Messina Denaro - è chiaro che non si può parlare di emergenza mafia. Allora la mafia non esiste? Esiste, ma è molto più debole e pericolosa dell’anno scorso, e tanto più è debolissima rispetto a una ventina di anni fa, quando fu concepita e realizzata la legislazione emergenziale antimafia. Allora la mafia uccideva circa 1000 persone ogni anno, e tra queste 1000 molte erano persone che non avevano nulla a che fare con la mafia o che erano impegnati a combatterla: giudici, giornalisti, politici. Quest’anno la mafia ha ucciso trenta persone (circa 30 volte di meno) e tutte in regolamenti di conti. Chiaro che sono cambiate le dimensioni di un problema drammatico. Il problema scomparirà solo quando il numero degli omicidi sarà pari a zero. La differenza tra un problema e un’emergenza, in politica, è decisiva. Se i politici capiscono quali sono le emergenze, e le priorità, e vi si dedicano, possono ottenere ottimi risultati. Se prendono lucciole per lanterne, e magari - grazie alla stampa e alla Tv e al web - convincono anche grande parte del popolo che le lucciole sono lanterne e le lanterne lucciole, gli errori politici si ingrandiscono e si moltiplicano. Per questo è importante prendere atto di questi dati che il ministro dell’Interno ci ha fornito, seppure senza molte fanfare. Per cercare di rimettere le cose in ordine. Capire che i problemi più urgenti, in Italia, non sono la lotta alla criminalità (che pure va fatta) né agli sbarchi, è molto importante per capire quali sono i problemi veri. Credo che siano essenzialmente quattro, i problemi più urgenti, ma forse mi sbaglio (e allora discutiamone, però discutiamone dati alla mano): la giustizia sociale (che da anni è sempre più squilibrata), la difesa del diritto e dello Stato di diritto (abbandonata da anni dal ceto politico), l’aumento della produzione e della produttività, il ritorno alle opere pubbliche e agli investimenti, che non si vedono più, in quantità ragionevole, dai tempi del primo centrosinistra (diciamo da Tangentopoli in avanti). Non so se sono riuscito a spiegarmi. Non voglio fare una discussione etico- ideologica. Semplicemente propongo di prendere atto dei dati e di trovare il modo - anche attraverso un impegno onesto o almeno non truffaldino della stampa - di renderli pubblici, di farli conoscere, di spiegarli, di mettere l’opinione pubblica in grado di giudicare. Il vecchio Pannella diceva: “Diritto alla conoscenza”. E già: mai diritto fu più calpestato e vilipeso!. P. S. Ultima osservazione. A me, personalmente, i ministri un po’ polizieschi non sono mai piaciuti. E nonostante un vecchio sentimento di amicizia che mi lega a lui, non mi è mai piaciuto troppo neppure Marco Minniti, mi è parso sempre un po’ “sbirro”. Però francamente non capisco come quel pezzo di mondo politico e di opinione pubblica che ama l’ordine, la repressione, l’arresto, il respingimento del migrante, possa non sentirsi in dovere di costruire un monumento equestre all’ex ministro. Ehi, ragazzi, questo signore ha catturato tutti i latitanti pericolosi tranne uno. Dico: uno! Ha praticamente cancellato il fenomeno degli sbarchi clandestini. Ha ridotto furti, rapine, truffe, ha messo la mafia spalle al muro... Un tipo come Salvini dovrebbe trasformarlo in icona. Magari levando dagli stemmi della Lega Alberto da Giussano e sostituendolo con una immaginetta del mitico Marco. Allarme delitti e sbarchi? Finito. Parola di Salvini di Simona Musco Il Dubbio, 18 agosto 2018 I dati clamorosi del ministero dell’Interno. Omicidi -14%, rapine -11%, sbarchi -76%. L’emergenza criminalità? Un ricordo del passato. Così come quella dell’immigrazione, verità raccontate dal report del ministero dell’Interno, il primo dell’era Salvini, pubblicato, come ogni anno, a cavallo di Ferragosto. Il documento raccoglie i dati che vanno dal primo agosto 2017 a quello 2018, raccontando una storia scritta per buona parte prima del 4 marzo. I numeri ufficiali sulla sicurezza in Italia parlano chiaro: i delitti sono diminuiti del 9,5 per cento, gli omicidi del 14 per cento, furti e rapine, rispettivamente, sono scesi di 8,7 e 11 punti. Per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata, in circolazione rimane un solo latitante di massima pericolosità: Matteo Messina Denaro. Gli sbarchi? Ovviamente dimezzati. E tra gli atti di indirizzo rivendicati c’è anche l’avvio della procedura di modifica della carta d’identità elettronica, con “la relativa ricevuta l’indicazione di “padre” e “madre” in luogo di “genitori”. La lotta alla criminalità organizzata. Il dossier sicurezza parte proprio da qui, dal numero di mafiosi arrestati nell’ultimo anno. Se fino a ferragosto 2017 a finire in cella sono stati 1.627 affiliati, nell’anno successivo sono stati 1.662, tra i quali 53 latitanti, otto in più rispetto al periodo precedente. Il lavoro delle forze dell’ordine ha consentito di portare in cella tutti i boss meritevoli di rientrare nell’elenco dei super ricercati del Viminale: l’ultimo ad essere incastrato è stato Rocco Morabito, boss di ‘ndrangheta, ricercato dal 1994 e arrestato il 4 settembre 2017 a Montevideo, in Uruguay. Messina Denaro rimane dunque l’ultimo degli eterni fuggitivi, nascosto nel buio dal 1993 e con una sentenza di condanna al carcere a vita pendente sulla sua testa. Sono diminuite, invece, le operazioni di polizia giudiziaria: il numero è sceso da 175 a 154. Amministrazioni sciolte per mafia - Sono aumentati gli accessi ispettivi antimafia nei Comuni: da 24 a 26, dei quali dieci attualmente in corso. A ciò si aggiungono i drammatici numeri relativi agli scioglimenti delle amministrazioni comunali: da 26 si è passati a 34, di cui 24 nuovi e dieci proroghe, con la Calabria che si conferma primatista degli scioglimenti, con la metà dei Comuni interessati. Numeri alti quelli relativi a sequestri e confische: nell’ultimo anno sono stati 22.650 i beni congelati, dei quali 1068 aziende, per un totale di 4.592 milioni di euro. Numeri che, però, in alcuni casi non hanno superato la prova definitiva: le confische sono infatti 9.620, per un totale di 477 aziende e un valore di 3.227 milioni di euro. Attualmente, l’agenzia nazionale dei beni confiscati ha in gestione 21.265 beni, dei quali 3.018 sono aziende. Il terrorismo internazionale - Cambiano di poco i numeri relativi alle espulsioni per motivi di sicurezza: 96 fino al 31 luglio 2017, 108 fino al 2018, dei quali due imam. Raddoppiato, invece, il numero degli estremisti arrestati: sono 43 quelli dell’ultimo anno, contro i 24 del periodo precedente, mentre i foreign fighters monitorati sono stati 135, dieci in più in un anno, dei quali 48 deceduti e 26 rientrati in Europa. Cresce a dismisura il numero delle persone controllate: 510.492 contro le 272.557 dell’anno precedente. Delitti diminuiti del 9,5 per cento - I numeri parlano di un sensibile calo dei delitti, che sono scesi da 2.453.872 a 2.240.210. Diminuiscono gli omicidi (passati da 371 a 319, dei quali 30 attribuibili alle mafie), le rapine (passate da 31.904 a 28.390) e i furti (scesi da da 1.302.636 a 1.189.499), ma anche le operazioni contro l’abusivismo commerciale e la contraffazione, passate da 50.390 a 45.994, con quasi 120 milioni di articoli sequestrati per un totale di 1,159 miliardi di euro (circa 300milioni in meno). Preoccupano ancora, invece, i numeri della violenza sulle donne, con una diminuzione del 26,3 per cento delle denunce per stalking e un aumento del 20 per cento gli ammonimenti del Questore, dei quali in 429 casi - poco meno della metà per violenza domestica. Gli omicidi volontari riguardano ancora in un terzo dei casi le donne e ben 134 avvengono in ambito familiare, il più delle volte commessi dal partner (48 casi) o da un altro familiare (70 casi). Sbarchi più che dimezzati - C’è da giurarci che il tema che interessa maggiormente il ministro dell’Interno Matteo Salvini è quello dell’immigrazione. E nel report del suo dicastero i dati sono per lui confortanti, sebbene relativi ancora quasi tutti al governo precedente: 42.700 immigrati arrivati in Italia contro i 182.877 dell’anno precedente, quando gli scafisti arrestati erano stati 536, contro i 209 dell’ultimo anno. La percentuale è altissima: meno 76,6 per cento. Tra gli arrivi si contano anche 6mila minori non quattro volte in meno rispetto ai dati contenuti nel report dello scorso anno. Diminuite le domande d’asilo (82.782 contro 144.099), ma sono aumentate le domande di protezione internazionale esaminate, delle quali solo il 39 per cento ha ottenuto il riconoscimento di una forma di protezione. Aumentano dunque i dinieghi (53,8 per cento) e di conseguenza i rimpatri, anche se di poco: da 6.378 si è passati a 6.833, dei quali 1.201 volontari assistiti. La geografia della migrazione è dunque cambiata, ma il numero di stranieri regolarmente soggiornanti rimane quasi invariato: sono 4.116.721, ovvero centomila in più. Ma tra i risultati amministrativi il report annovera anche la riduzione dei tempi per l’esame delle istanze d’asilo, con indicazioni ai Prefetti “per la razionalizzazione e il contenimento delle spese dei servizi di accoglienza per i richiedenti asilo”, come testimoniato dal caso Riace, quello che ha fatto più scalpore. Le scelte cancellate nel Paese che fa e disfa di Sabino Cassese Corriere della Sera, 18 agosto 2018 Tav, Tap, Ilva, Gronda di Genova: il compito della politica è costruire il futuro o distruggere il passato? L’Italia del fare e disfare. Dell’Alta Velocità tra Torino e Lione (Tav) si discute dal 1994 e i lavori preparatori sono iniziati nel 2011; ora è stata avviata una analisi costi benefici per una sua “revisione integrale”. Del Gasdotto transadriatico (Tap) si discute dal 2003 e l’opera è iniziata nel 2016; ora il governo esprime dubbi e vuol riaprire la valutazione d’impatto ambientale. Le inchieste sull’impianto Ilva di Taranto sono del 2012, del 2015 il commissariamento, del giugno 2017 l’aggiudicazione alla ArcelorMittal; ora si scoprono “criticità” e si prende in considerazione un annullamento dell’aggiudicazione. Le competenze sul turismo erano state affidate al Ministero dei beni culturali nel 2013. Ora sono state trasferite al Ministero delle politiche agricole e forestali. L’Italia era nota come Paese incapace di decidere: della Gronda di Genova si discute dal 1984; se si fosse fatta, forse non vi sarebbe stato il crollo del viadotto del Polcevera. Ora cerchiamo di conquistare un altro primato: quello di Paese che ritorna sulle sue decisioni, che va avanti e indietro. Questo “va e vieni” di decisioni pone molti interrogativi. In primo luogo, compito della politica è costruire il futuro o distruggere il passato? Quando si vogliono cambiare indirizzi politici, dove ci si deve fermare nella “pars destruens”? Si può riscrivere la storia italiana, o si deve assicurare una certa continuità di orientamenti, specialmente nelle grandi scelte strategiche? Una seconda domanda riguarda l’origine di questa furia demolitrice. È solo frutto del governare per strappi, delle troppe voci, delle forti oscillazioni, dell’assenza di un centro del governo, anche dell’inesperienza, oppure è uno schermo per riempire un vuoto programmatico, come le troppe promesse elettorali che non è possibile mantenere? Occorrerebbe rendersi conto che ogni governo governa per la maggior parte con leggi e istituzioni dei governi precedenti. Una stima fatta poco tempo fa da una importante istituzione americana ha calcolato che, negli otto anni di durata massima del suo mandato, un presidente americano non può modificare più del 9 per cento delle politiche pubbliche. Per questo si parla di continuità dello Stato, pur nella modificazione dei governi. I governi, poi, sono vincolati da accordi internazionali, che debbono rispettare e che non possono modificare unilateralmente. Essi sono anche interessati a stipulare altri accordi, che comportano l’assunzione di ulteriori vincoli. Un esempio recente è quello dei nostri rapporti con la Cina: se vogliamo che il Tesoro cinese compri titoli del debito pubblico italiano, dobbiamo tener conto che il governo cinese è interessato a progetti infrastrutturali lungo le rotte commerciali globali cinesi, che toccano alcuni porti italiani. Dunque, dovremo accettare di costruire importanti opere pubbliche portuali. Molte opere godono di finanziamenti sovranazionali (per lo più europei) o sono state vagliate da organismi europei. Se ci tirassimo indietro sulla Tav, che potremmo dire alle istituzioni europee che hanno contribuito al suo finanziamento (e alla Francia, che ha fatto la sua parte)? La gara per l’aggiudicazione dell’Ilva era fondata su atti vagliati dall’Antitrust europea: possiamo ora avanzare dubbi sul rispetto delle regole di concorrenza? Infine, opere e investimenti sono spesso frutto di interventi di imprese straniere, interventi che sono ben graditi perché portano risorse al nostro Paese. Ma se le autorità italiane rimettono continuamente in discussione le decisioni prese, quale affidamento viene dato agli investitori e imprenditori stranieri? Quanto efficace sarà il nostro tentativo di attirare altri investimenti in un Paese che si rivela così poco affidabile? Ci sono limiti, dunque, a quella che Alberto Asor Rosa ha chiamato — criticandola — la “cancellazione di tutta la storia italiana precedente”. Di questo dovrebbe tener conto il presidente del Consiglio dei ministri, che ha dichiarato ieri di voler “dare un segnale di svolta” per “tutte le nostre infrastrutture” (la maggior parte delle quali, sono, però, in gestione pubblica diretta, dello Stato, di Comuni e delle ex Province, e richiedono, quindi, di rifare innanzitutto i conti in casa propria). L’istantanea che spiega la disfatta di Norma Rangeri Il Manifesto, 18 agosto 2018 Un ponte descritto con orgoglio, come una vera e propria opera d’arte, come il simbolo di un paese in marcia verso il progresso. Ma è sufficiente abbassare lo sguardo su quelle povere palazzine di edilizia popolare, costruite prima dell’avveniristico gioiello, per capire all’istante che, senza curarsene affatto, il ponte aveva già le sue vittime da violentare e imprigionare. Le finestre guardano il muro del pilone, aprirle non serve per respirare, soffocate come sono dal cemento che in alcuni punti è letteralmente poggiato sul cornicione. Quando le telecamere di Skytg24 lo inquadrano in primo piano si vede chiaramente il cornicione del palazzo tagliato per ospitare l’immenso lastrone. Più efficace dei fiumi di inchiostro, basta l’impietosa fotografia per capire chi sta sopra e chi sta sotto, chi sceglie e decide e chi è obbligato a piegare la testa. Rapporti di forza nudi e crudi. Gli inquilini di quelle case, lavoratori con il mutuo da pagare, sono cittadini di serie B, e da oggi fanno parte del grande popolo degli sfollati. Naturalmente la politica dovrebbe agire e giustificare se stessa nel cambiare lo stato delle cose e in particolare dovrebbe farlo la sinistra. Come ricordava ieri sul manifesto l’ex sindaco di Genova, Doria, negli anni 60 e 70 del secolo scorso si discuteva di “modello di sviluppo”, sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo. Un passato morto e sepolto perché poi, in tappe successive e coerenti (“patto tra produttori”, “svolta dell’Eur”), si cambiava rotta per scivolare sul piano inclinato degli anni 80 quando i modernizzatori, neofiti del modello blairiano davano inizio alla fine dell’economia politica e di una lunga storia politica e sociale. Fino agli anni recenti, ridotti alla svalutazione progressiva e senza fine del lavoro con il jobs act sul trono della disfatta, preludio del tentativo successivo di cambiare i connotati alla Costituzione e al parlamento. Con quale voce in capitolo questa politica può presentarsi ai cittadini, di quale futuro può farsi avanguardia e interprete quando insieme a quel ponte è crollato un modello marcio di crescita senza sviluppo. Certo il populismo penale fa impressione, l’analfabetismo istituzionale è compagno di strada di scorciatoie giustizialiste che fanno audience, ma non si combattono con i pannicelli caldi del politicamente corretto, perché non servono ad allontanare la verità di un fallimento storico. Della sinistra e di un intera classe dirigente capace di divorare il paese facendosi docile strumento della corruzione e dell’incuria. Una classe dirigente complice del disastro nel migliore dei casi, agente primario dello sfascio morale e delle malversazioni nel peggiore. E quando per costruire il futuro si deve distruggere gran parte del passato, onestamente la sinistra ha qualche difficoltà ad opporsi alle ruspe. Non si può certo dar torto a quei familiari che hanno deciso di celebrare in forma privata i funerali dei loro parenti uccisi dal ponte di Genova. La cattiva coscienza del paese si nutre di troppe stragi impunite. Sapere chi è stato, di chi è la responsabilità del loro doloroso lutto non riporterà in vita nessuno, però farebbe giustizia di un crimine così grave, sarebbe almeno una forma di risarcimento morale. Ma tornare a credere che nel nostro paese queste vittime avranno giustizia purtroppo è un atto di fede. Sardegna: Sdr: “sistema penitenziario più fragile in estate” cagliaripad.it, 18 agosto 2018 “È risaputo che l’estate è il periodo più difficile per chi vive all’interno delle strutture penitenziarie e purtroppo la Casa Circondariale di Cagliari-Uta non fa eccezione. Esprimiamo solidarietà all’agente, che ha subito danni per aver cercato di sedare gli animi delle detenute, e ai colleghi in difficoltà dovendo far fronte a diverse emergenze a partire dall’elevato numero di persone con gravi problematiche di origine psichiatrica”. Lo afferma in una nota Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento all’aggressione subita da una agente nella sezione femminile dopo essere intervenuta per sedare una lite tra due detenute. Secondo l’associazione, “la fragilità del sistema che non è in grado di garantire, specialmente in estate quando anche il volontariato ridimensiona la propria presenza nelle strutture, attività in grado di contenere l’aggressività di chi sta scontando una pena”. “La realtà femminile dentro le carceri - ricorda Caligaris - benché numericamente poco significativa (34 donne - 21 a Cagliari-Uta; 13 a Sassari-Bancali) risulta particolarmente problematica - aggiunge - Le detenute vivono la perdita della libertà come un fardello insostenibile non riuscendo a superare il pensiero della famiglia del cui destino si sentono responsabili. Ciò le porta a una sorta di insofferenza nei confronti delle compagne e a una condizione di astio verso tutti. Ovviamente ci sono le eccezioni ma nel complesso si sviluppa un ipercriticismo e una incapacità di vivere l’esperienza detentiva valorizzando gli aspetti della solidarietà e della comunità. La situazione - conclude - diventa esplosiva quando, come accade nelle Festività o in estate, si diradano quegli incontri e quelle iniziative promosse dai volontari per coltivare la cultura della comunicazione e della condivisione del fare. Napoli: caos sovraffollamento nel carcere dì Poggioreale di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 18 agosto 2018 Sono presemi 2.264 detenuti sunna capienza di 1,659 posti. Ma è una emergenza che riguarda quasi tutti i penitenziari campani. In 15 istituti vi sono 7.410 detenuti su una capienza complessiva di 6.161 posti. Dei quali 7.119 uomini e 376 donne, 4.164 i condannati, oltre 3..100 gli imputati, 13 gli internati. Circa 4.000 i poliziotti penitenziari in servizio, 600 in meno rispetto all’organico previsto. Sono i dati dei penitenziari riferiti alla Campania. rispetto ai quali il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria ha inviato una lettera appello al ministro della Giustizia. La tensione e salita alle stelle: pochi giorni fa ci sono stati tre suicidi, una rissa tra stranieri e un extracomunitario ha incendialo un materasso, mandando in tilt l’intero padiglione. Cosa sta accadendo? Da una settimana i detenuti nel padiglione Milano hanno cominciato lo sciopero della fame, per chiedere di migliorare il settore sanitario. A provare a spiegare ì numeri allarmanti è il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci: "Al di là dei motivi delle recenti proteste dei detenuti, che sarebbero da ultimo causate anche da un cambio dì orario nei colloqui coi familiari, la situazione nel carcere di Poggioreale sta diventando incandescente ed è l’ottimo personale di polizia penitenziaria in servizio nella struttura a pagarne le più dirette conseguenze. Preoccupa il fatto che istituti penitenziari quali quello di Poggioreale, di regola non investiti da particolari eventi critici riguardo l’ordine e la sicurezza interni malgrado l’altissimo sovraffollamento, inizino a manifestare anch’essi quei segnali tipici della disgregazione e della disorganizzazione propri del sistema penitenziario italiano, in concomitanza da un lato, con la crescente presenza dì detenuti affetti da disturbi di natura psichica (che in carcere non avrebbero dovuto esserci vista la legge di chiusura degli Opg) e d’altro canto in ragione di una progressiva carenza negli organici del personale della Penitenziaria, che per errori del passato governo e dell’ancora attuale amministrazione investe ogni settore e servizio nelle carceri del Paese". Gli fa eco il Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello "Questi numeri impediscono interventi che non siano svolti in condizione di costante emergenza. Fatte salve diverse eccezioni, la lentezza istituzionale per interventi, la mancanza di personale di agenti e di figure sociali che contribuirebbero ad alleviare la situazione a volte è imbarazzante. Si possono coniugare dignità e sicurezza, ma il sovraffollamento, decine di detenuti per stanza e con un bagno in precarie condizioni, mi inducono a ritenere che Poggioreale sia una questione nazionale. Meno celle, più spazi di socialità. Più assistenza sanitaria. E meno male che tante iniziative, tanti volontari, tante figure di agenti penitenziari riducono sia il numero dei suicidi che dei gesti autolesionistici. Anche le condizioni di lavoro del personale di Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Poggioreale sono più che critiche. Occorrono percorsi di reinserimento e di alternativa alla inutile centralità del carcere per certi reati. Occorre discutere, senza demagogia delle forme e dei modi della decarcerizzazione necessaria". Il Garante campano delle persone private della libertà personale Ciambriello giovedì mattina ha fatto una visita ispettiva, insieme a due persone del suo staff, nel carcere di Poggioreale. Ha visitato i padiglioni Avellino, Firenze, Genova e Roma. "Visitando il bagno della cella, nel padiglione Avellino, dove recentemente si è tolto la vita uno dei tre detenuti suicidi di Poggioreale ho provato un senso di angoscia e di profonda amarezza, personale prima di tutto ma anche per il ruolo istituzionale che ricopro". Ciambriello accompagnato dalla vicedirettrice Anna Laura De Fusco ha visitato, dopo il padiglione Avellino di Alta Sicurezza, dove sono rinchiusi 212 detenuti, anche il padiglione Firenze (dove sono ristretti quelli che vengono per la prima volta in carcere) in cui ci sono stanze da sci. selle olio persone sono rinchiusi 309 detenuti, il padiglione Roma (dove sono presenti le trans, i tossicodipendenti e i detenuti per reali sessuali, e il nuovo padiglione Genova, dove "colpisce vedere una stanza divisa in zona notte e zona giorno, con due, tre, posti letto soltanto e un bagno dotato di tutti i servizi. Solo qui sono stati fatti dei passi in avanti per superare elementi patologici, ma restano ancora troppi padiglioni invivibili". Lodi: quando Rita Borsellino in carcere volle incontrare i detenuti di Andrea Ferrari Il Cittadino, 18 agosto 2018 Rita Borsellino è stata un punto di riferimento per migliaia di giovani di tutta Italia. Si è spesa con passione e coraggio per trasmettere i valori della legalità come elementi fondamentali della nostra società. Dava ascolto a tutti e rispondeva agli appelli e agli inviti che gli arrivavano da tutta Italia. La sua agenda era sempre fitta di impegni ma trovava sempre spazio per “esserci” dove vedeva che stava per essere piantato un seme di legalità. Rita ha lavorato sempre per costruire una grande rete di persone e non di personalismi e questa è stata la sua più grande vittoria. Ovunque andava riusciva a trasmettere con quella sua voce bassa, discreta e dolce dei profondi messaggi di come sia possibile cambiare i nostri comportamenti a partire dalle azioni quotidiane. Quando parlava non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare, i ragazzi, le persone non fiatavano per poterla ascoltare con attenzione. A Lodi è venuta invitata a numerose iniziative. Mi piace ricordare quella del 2004 quando alla Casa Circondariale della Città incontrò i detenuti. È stato un incontro straordinario ricco di momenti emotivi che hanno lasciato il segno in moltissimi ospiti della “Cagnola” alcuni dei quali, con cui sono ancora in contatto, ricordano ancora quell’incontro. Rita era davvero una persona unica ed io mi onoro di aver fatto con lei un pezzo di strada. Cagliari: Sdr “preoccupazione per le condizioni di salute di un detenuto” cagliaripad.it, 18 agosto 2018 “Destano preoccupazione le condizioni di salute di un cagliaritano di 58 anni, ricoverato nel Centro Clinico della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. L’uomo, che tossisce ripetutamente, è stato sottoposto a diversi esami e ricoveri ospedalieri per verificare la causa del disturbo ma ancora non è stato possibile accertarla con un esito certo”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, facendosi interprete delle ansie dei parenti in seguito a una segnalazione. “A creare allarme - sottolinea l’ex consigliera regionale - è stata in particolare la repentina consistente perdita di peso che ha indotto i medici della struttura penitenziaria a effettuare una serie di analisi pneumologiche per una formazione sospetta di natura da determinare. L’uomo, che ha da poco effettuato una Tac, nei prossimi giorni sarà sottoposto a una ulteriore valutazione diagnostica. L’auspicio è che al più presto si possa fare chiarezza sul disturbo e procedere con le cure più adeguate in Ospedale restituendo piena serenità al detenuto e ai suoi familiari”. Pisa: si è concluso il corso di educazione musicale per i detenuti pisatoday.it, 18 agosto 2018 Si è concluso dopo un anno intenso di attività il corso di educazione musicale per i detenuti organizzato dall’Associazione Il Mosaico. Riccardo Buscemi: "Pronti già a partire con la settima edizione". Chiuse le scuole per le vacanze, chiude per la pausa estiva anche “Musica Dentro”, il corso di educazione musicale per i detenuti del carcere di Pisa attivato da ormai sei anni dall’associazione "Il Mosaico" di Riccardo Buscemi. Il corso, tenuto all’interno del carcere da volontari dell’associazione guidati da Marialuisa Pepi, si articola in almeno 120 ore di lezione, circa 60 incontri da 2 ore ciascuno, 2 volte a settimana. Pur puntando a standard minimi di “qualità” dell’attività musicale prodotta, il corso è un mezzo per favorire il principio di “rieducazione” della pena, fornire un’occasione di socializzazione tra detenuti di entrambi i sessi, sviluppare le capacità di relazione e di autocontrollo, agevolare, per quanto possibile, il reinserimento nella società civile al termine del periodo della pena. Dopo otto mesi di intensa attività, si è concluso il corso con un piccolo saggio finale, quest’anno dedicato alla Riflessione sulle tappe del "viaggio della Vita" grazie ai canti dei partecipanti al Progetto Musica Dentro. Tutto è pronto per lo spettacolo, l’emozione dei partecipanti è grande, anche per il tema trattato, il “viaggio della Vita”, a cui in carcere si pensa ancora di più. Entrano in scena i protagonisti, e immediatamente ci si scorda dove si è, tutti assaliti dalla gioia trasmessa dalla musica e dal canto. Merito sicuramente dei ragazzi e delle ragazze che hanno scelto di partecipare al progetto, ma anche della direttrice artistica del corso, Marialuisa Pepi che con grande impegno, coraggio, passione e pazienza, riesce a coinvolgere i detenuti durante tutto l’anno. “Il Progetto - spiega Riccardo Buscemi - è realizzato grazie alla Fondazione Pisa, che concede un contributo determinante alla sua realizzazione, ma partecipano anche altri importanti soggetti: la Fondazione Intesa San Paolo Onlus e la Società della Salute Pisana. E siamo già pronti a ripartire, subito dopo la pausa estiva, con la VII edizione di Musica Dentro” conclude Buscemi“. Milano: parla Massimo Achini, allenatore della squadra di calcio dell’Ipm Beccaria di Alessandra Bialetti mauroleonardi.it, 18 agosto 2018 Alza la voce, incita, chiede di più e, soprattutto, non fa sconti: se c’è contropiede bisogna correre, se scappa il fallo la prima cosa da fare è chiedere scusa. Che i giocatori in campo siano i detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, a lui non importa. O meglio, importa moltissimo visto che, pur allenandoli da pochi mesi per solo due ore alla settimana, li conosce uno a uno, doti calcistiche e umane comprese. Massimo Achini, 50 anni, è un uomo che ama mettersi in gioco e lo fa con grande umiltà. Dopo 8 anni alla direzione del Centro sportivo italiano, dal 2016 è presidente del Csi Milano nonché allenatore della squadra di calcio dell’Istituto penale per minorenni del capoluogo lombardo. Achini, come è iniziata la sua avventura di mister del Beccaria? “Dopo gli anni dell’impegno a Roma avevo deciso di “ricominciare da capo” e tornare sul campo, con le mani e i piedi nelle società sportive. Qualcuno potrebbe leggere questo passaggio come un declassamento, per me invece è stata una scelta di “valore”: stare nelle piccole squadre è una delle esperienze più belle. Ho guidato formazioni che militavano nei tornei Csi come in quelli della Federazione, allenare è la mia passione: per questo ho dato la disponibilità al Progetto carcere”. Basta questa motivazione per entrare in un Istituto penale tutte le settimane? “Effettivamente non è solo una questione di passione… dal Beccaria mi avevano hanno fatto capire che il mio apporto sarebbe stato importante. Sapevo che non sarebbe stato facile, altri tentativi erano falliti, ma mi sono sentito chiamato, così ho messo assieme passione e competenza e ho raccolto la sfida”. Al Csi lei è approdato 25 anni fa. Ci racconta il suo esordio nel mondo della pastorale dello sport? “Da ragazzo frequentavo la parrocchia di Santa Marcellina e San Giuseppe a Milano. Facevo l’obiettore di coscienza, allenavo e giocavo con la Fom, la Fondazione oratori milanesi. È così che ho iniziato a collaborare con il Csi. Poi a 28 anni sono diventato il presidente della sezione milanese”. Una carriera fulminante… “Credo molto nei valori del Csi e nell’idea che lo sport possa essere uno strumento educativo, una palestra di vita. Vale per i bambini dell’oratorio come per i ragazzi detenuti”. Al Beccaria come sceglie la formazione? “Ho una rosa di 15 giocatori individuati dalla direttrice dell’Istituto fra coloro che, alla presentazione del progetto, si erano detti interessati. Prima di finire in carcere alcuni ragazzi giocavano quasi da professionisti, ma la tecnica non basta, convoco chi si è allenato bene. Devo dire che ho trovato in loro una disponibilità totale: si allenano con cura, ci tengono a essere una squadra. Se uno si comporta male - ad esempio se salta la scuola - riceve un provvedimento disciplinare che gli impedisce di allenarsi. Quando è successo, mi sono arrabbiato. Privare la squadra del proprio apporto è una grave mancanza. Vorrei trasmettere ai ragazzi l’importanza di prendere gli impegni con responsabilità”. Come si svolgono solitamente i vostri allenamenti? “Esattamente come quelli di qualunque altra squadra, con sedute impegnative. La nostra non è un’iniziativa di solidarietà ma una formazione vera. Mi comporto come con giocatori qualsiasi, riconoscendo ai ragazzi quanto di buono stanno facendo. Sostenere il positivo è essenziale: tanti ragazzi arrivano da situazioni familiari e sociali degradate, in cui gli adulti non sono stati in grado di essere riferimento né sostegno. Questi ragazzi, abbandonati a stessi, costruiscono muri e barriere relazionali per difendersi. Sa cosa c’è scritto in una cella? Ho il berretto davanti agli occhi e non me lo levo perché se me lo tolgo rischio di fidarmi di te. Fiducia e austostima, lavoriamo anche su questo”. Lo sport riesce a superare queste distanze? “Sì, a volte basta un pallone per far crollare i muri. Guardarsi negli occhi o dare una pacca sulla spalla sono gesti semplici ma significativi, che in carcere assumono un valore ancora più importante. Quando ci siamo conosciuti abbiamo fatto un patto: siamo qui per allenarci e giocare bene. Come mister punto molto sulla relazione; alcuni si sono aperti e anche gli agenti penitenziari si stupiscono dell’alchimia che si è creata. Il bello dell’allenare è anche questo: si costruiscono relazioni di fiducia in poco tempo”. Che cosa significa, per un minore detenuto, poter far parte della squadra? “È una scommessa, una grande occasione di riscatto”. Che cosa sta imparando da questa esperienza? “Innanzitutto, parafrasando don Claudio Burgio (cappellano del Beccaria e autore del libro Non esistono ragazzi cattivi, edizioni Paoline, ndr), ho capito che non ci sono “persone sbagliate” ma solo giovani provati dalla vita che si riparano sotto una scorza dura. Mi fa sempre piacere notare come siano capaci anche di attenzione reciproca. C’è chi è venuto ad allenarsi anche se non era in forma e chi, in occasione di un allenamento indisciplinato, ha avuto il coraggio di dire a tutti “il mister viene qui per noi, dobbiamo impegnarci di più”. Infine mi ha colpito l’umiltà: i ragazzi non hanno chiesto nulla, né maglie né scarpe, solo di giocare”. Quali sono le regole del calcio che possono essere utili anche nella vita? “Per i miei giocatori non è facilissimo accettare le regole. Io sto provando a spiegarle, a motivare tutte le scelte. Faccio un esempio: il compito di scegliere chi sarà capitano spetta a me in quanto allenatore. Spiego loro che individuo il giocatore a partire da chi si mette più a servizio della squadra, condividendo la decisione con tutta la formazione. Una piccola abitudine che ci siamo dati è poi la valutazione a fine allenamento: terminata la seduta loro stessi verificano l’andamento della preparazione. La squadra è loro, questa regola aiuta a responsabilizzarsi”. Qual è la raccomandazione che fa più spesso ai suoi giocatori? “Nello sport si dice “vinca il migliore”. Io ai ragazzi dico: migliorate e dimostrate a voi stessi che siete vincenti. Sappiamo bene che nessuno punterebbe su ragazzi che hanno già perso la fiducia della società; invece dalle cadute ci si può sempre rialzare”. E le gioie dell’allenatore? “Dopo aver passato metà della vita a servizio dello sport e dell’educazione, mi sento un privilegiato. Dal campetto dell’oratorio ai contesti particolari come il Beccaria, Haiti o altri Paesi del mondo, dove organizziamo campus estivi con i volontari italiani che vanno a condividere la gioia dello sport con ragazzi meno fortunati, per me la sfida è dare forza alle potenzialità educative dello sport. Come mister sono felice di quella che chiamo la “dinamica del marciapiede”: sa cosa succede quando incontri per strada un trentenne che hai allenato da ragazzino? Attraversa la strada e ti viene incontro per abbracciare il mister. Slanci di questo genere ti fanno capire che il tempo passa ma tu allenatore hai lasciato nel cuore dei ragazzi qualcosa di grande”. Tornando all’ambito agonistico, qual è il vostro obiettivo stagionale? “Partecipare al campionato del Csi al via a marzo. Le partite le giocheremo tutte in casa, ospitando gli avversari al Beccaria. Sarà una bella occasione sportiva e di socialità. Una volta al mese inviteremo poi alcuni campioni dello sport a parlare della loro esperienza. Oggi i ragazzi non conoscono il valore della fatica. Incontrare chi vive valori come dedizione, passione e impegno è un grande assist per fare gol”. Teatro in carcere. I labirinti di Punzo di Fabio Francione Il Manifesto, 18 agosto 2018 "Le rovine circolari" di Borges incrociano i trent’anni della Fortezza. La ricognizione dello scorso anno sulle “Parole lievi” di Jorge Luis Borges giunge alla sua definitiva cristallizzazione nell’allestimento di “Beatitudo”, il perno scenico su cui si avviluppano e le questioni cruciali che hanno segnato ed impresso nell’immaginario collettivo la vita artistica dei trent’anni della Compagnia della Fortezza e della sua guida, l’attore e regista Armando Punzo. Tuttavia, non pareva possibile aggiungere un altro capolavoro al filotto di grandi spettacoli quali “Hamlice”, “Mercuzio” e “Santo Genet”, tanto per restare vicini ad un tempo “nostro contemporaneo” e non andare a fare facile retrospettiva, con un passato già pieno di premi e riconoscimenti. Per questo, è come dire piacevole essere stati smentiti anche nella lunga fedeltà che contraddistingue la personale ed esclusiva visione critica della Compagnia nella sua interezza creativa, performativa, organizzativa e nondimeno distributiva. Sebbene il regista napoletano non sia mai stato parco di parole, mai come in questa ricorrenza Punzo ha scritto, detto e conversato con addetti ai lavori (prima del debutto di “Beatitudo” ha raccontato la sua esperienza anche alla Biennale Teatro dedicata all’attore/performer), critici, media e pubblico. Ed è da credere che tali parole siano le medesime che, perlopiù tenute segrete nei libri, nei tanti taccuini e quaderni d’appunti, costituiscono la base esperienziale del suo rapporto con i detenuti-attori della Compagnia fino al loro apparire e scomparire a lettura ultimata negli spettacoli. Ci sono, dunque, molte “pezze” da attaccare alla complessa unicità di un discorso estetico e, soprattutto, disciplinare che, pur condividendo intenti con altre esperienze non poi così dissimili, resta sostanzialmente isolato nel panorama teatrale nazionale. Una di queste la incolla lo stesso Punzo, durante l’inaugurazione di “Luoghi Comuni Reload”, l’installazione urbana restaurata per il trentennale: “Il nostro tentativo è far fiorire veramente altro, laddove non dovrebbe, come accade nella Fortezza o in questa piazza con Luoghi Comuni. Cerchiamo qualcosa che ci porti a percepire un altro livello di noi stessi, normalmente relegato, a cui non diamo spazio. La sensazione che abbiamo è che le mura che ci circondano, in carcere ma anche in questa piazza, si richiudano su di noi, come a dire: “non ce la farete mai, la realtà vincerà”. È una battaglia aperta. Questo è il senso generale del lavoro della Compagnia della Fortezza in quel rettangolo che è il cortile del carcere, uno dei tanti che ho frequentato nella mia vita.”. Questa felice sintesi del Punzo - pensiero, pronunciata a braccio e, visto l’uditorio, in modo sottilmente istituzionale, raccoglie a piene mani molti dei suoi ragionamenti, contaminati da slanci poetici, metafore quotidiane ed esistenziali e ricordi, talvolta aneddotici tanto per restare con i piedi a terra, di vita personale (in tal senso si dovrà prima o poi riflettere sull’esperienza del gruppo d’ispirazione grotowskiana L’avventura, da cui “tutto è nato”). Qui, lo sguardo del regista, che non è stato mai retrospettivo, nemmeno nei suoi libri - bilancio (non lo è in “È ai vinti che va il suo amore” edito nel venticinquennale della Compagnia, né lo sarà per il prossimo, in attesa di pubblicazione), cerca di inquadrare il futuro: suo e della Fortezza. Ecco schiudersi davanti agli occhi il progetto #trentannidifortezza. Dunque, se a prima vista il tripartito allestimento (semi “en plein air” nel cortile della casa di reclusione e al “chiuso” al Teatro Persio Flacco di Volterra, con quest’ultimo preso a prova generale della tournée teatrale autunnale e in ultimo con il site-specific di “Le rovine circolari” nel refrigerante della Centrale Geotermica dell’Enel di Larderello), si presti a servir da ingresso nei labirinti poetico-narrativi dell’opera di Borges (il cui percorso si poggia sulla “memoria prodigiosa, nutrita da molteplici esperienze culturali, occidentali e orientali, vigilata e accompagnata da una provocatoria reattività critica”); solo in un secondo momento, ripreso il giusto orientamento sulla bussola critica che tiene mano nella mano e indirizza lo spettatore più smaliziato, sembra valere l’accorgimento che con questo progetto non si celebra solo il trentennale di un modello di teatro, il cosiddetto “teatro in carcere”, ma ci si accorge come ciò lascia il posto a pratiche teatrali che non hanno nulla da invidiare al far teatro al di fuori di modelli, per l’appunto, precostituiti. Sembra bizzarro, pensando all’itinerario estetico intrapreso da Punzo con i suoi spettacoli, sottolineare come La Compagnia della Fortezza sia diventata a tutti gli effetti una compagnia che fa teatro e che non ha bisogno di altra definizione di genere: esponendo, per l’appunto, il suo far teatro a digressioni, parafrasi, sovraesposizioni strumentali, malinconie ed inquietudini di genere, che si ricompattano nel momento in cui e ciò si verifica di continuo, il modello di “teatro in carcere” si dissolve nella messa in scena (in “Beatitudo” come nelle “Rovine circolari” l’intreccio sinestetico di musica, performance, monologo, canto, si monta e smonta in contigui piani alternati, apparentemente senza soluzione di continuità e ciò, va ribadito, innerva tutto il progetto, sostenuto dai collaboratori di sempre di Punzo a cominciare dal compositore Andrea Salvadori). In questo vi è anche la capacità del suo regista di immaginare come ama dire “l’impossibile”. Cioè l’utopia di creare il primo teatro stabile in carcere. Questo è senza alcun tipo di dubbio e a vista l’orizzonte della Fortezza. Per intanto, una immediata riflessione, spalmata nel lasso di giorni che divide uno spettacolo dall’altro, si affaccia nella giustapposizione dell’allestimento “in carcere” di “Beatitudo” e della versione site-specific “Le rovine circolari”. Per usare un linguaggio cinematografico d’ampio uso, i due allestimenti sono attraversati l’uno da un fermo inquadratura in cui i piani narrativi coincidono con l’entrata in campo dei personaggi, mentre l’altro è dettato dalla collocazione di visione dello spettacolo in formato, vivente, 16:9 “panoramico”, e da un passaggio d’acqua che si allarga da “rettangolo” (i tanti rettangoli esistenziali del regista) a vero e proprio circo acquatico, aumentando così il suo già alto valore simbolico. Tale situazione è agevolata dall’essere in uno dei refrigeratori dismessi della Centrale Geotermica dell’Enel di Larderello (il sito è posto nel cuore della celebre “valle del diavolo” chiamata così per la presenza di soffioni boraciferi già conosciuti ai tempi di Dante che forse vi prese ispirazione per la prima cantica della sua Commedia, ma anche modello di sviluppo urbanistico per Giovanni Michelucci, l’architetto della Chiesa sull’Autostrada, che lì costruì un villaggio operaio che fece scuola). Peraltro ed è cronaca, sempre a Larderello nel 2016 si ebbe la prima della versione teatrale di “Dopo la tempesta”, il tuttoshakespeare realizzato da Armando Punzo - ed oggi è ancor più chiaro l’intendimento del suo autore - in forma aperta nell’ambito del progetto de “La città sospesa” che fu, per come lo si è conosciuto, anche l’estremo capitolo del Volterra Teatro. Si ricorda quest’episodio, richiamato alla memoria in programma dal regista, perché chiarifica la presenza del bambino che gli è ancora una volta accanto. I due non si sono mai lasciati. Il loro camminare insieme stratifica, in un certo senso, sia la distanza emotiva dell’adulto dal bambino, sia la consequenzialità di due opere-mondo come quelle che Shakespeare e Borges hanno lasciato sedimentare sui molteplici terreni dell’invenzione umana. Vieppiù in ciò l’esplicita visione panottica da parte dello spettatore che extra-territorializza l’origine dello spettacolo, universalizzandolo nell’abbraccio finale alla compagnia. Quantunque e al di là del dispositivo scenotecnico messo in atto, richiamato nei referti archeo-industriali del sito, intuiti e fatti realizzare ex-novo da Cinzia De Felice, il messaggio dell’antologia dei personaggi borgesiani agitato da Punzo è chiaro nell’uscita dalla gabbia letteraria auto-costruitasi. Teatro in carcere. Minoia al XII Congresso mondiale del Teatro Universitario teatroaenigma.it, 18 agosto 2018 Con un contributo dedicato al Teatro in Carcere in memoria di Claudio Meldolesi. Dopo la conferenza tenuta a Segovia in Spagna per il 35mo Congresso dell’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco su Etica ed Estetica del Teatro in Carcere (leggi di più) un nuovo appuntamento internazionale attende Vito Minoia, studioso di Teatro Educativo all’Università di Urbino, nonché direttore artistico del Teatro Universitario Aenigma e Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (teatrocarcere.it). Ancora il Teatro in Carcere costituisce il cuore dell’intervento che sarà divulgato in Russia agli studiosi provenienti da oltre 30 Paesi di cinque continenti, riuniti a Mosca per il XII Congresso dell’Associazione Internazionale del Teatro Universitario dal titolo “Teatro e Università nel XXI secolo” (aitucongress.ru/en/). Il Simposio, che vede il nostro esperto anche tra i membri del Comitato scientifico promotore, è organizzato dall’istituzione statale “Moscow Open Student Theatre”, dall’Università nazionale di Scienza e Tecnologia “MISIS” e dalla Fondazione Russa per lo sviluppo del Teatro Studentesco, oltre che dalla stessa associazione internazionale Aitu-Iuta (iuta-aitu.org). Un approfondito confronto teorico e pratico attraverso la presentazione di conferenze, spettacoli teatrali, workshops, proiezioni video fornirà lo spunto per approfondire elementi di riflessione su recenti iniziative e approcci innovativi che caratterizzano il teatro universitario e ne ridefiniscono il ruolo, la natura e l’azione nella contemporaneità. Ripercorrendo il proprio apprendistato attraverso l’insegnamento del Prof. Claudio Meldolesi, scomparso nel 2009, già Presidente del Dams di Bologna e - insieme a Emilio Pozzi e lo stesso Minoia - partecipante alla fondazione nel 1996 all’Università di Urbino della Rivista Europea “Catarsi, Teatri delle diversità”, lo studioso urbinate illustrerà la genesi delle riflessioni che in Meldolesi sottendono la promozione di dialoghi interdisciplinari, gli approfondimenti epistemologici, il confronto intorno alle esperienze della contemporaneità per il Teatro d’Interazione Sociale e per il Teatro in Carcere nell’ambito del Teatro tout court. Fino ad esporre gli elementi di carattere Educativo e Formativo che contraddistinguono l’esperienza del Teatro Universitario Aenigma nel suo essere paradigmatica, in Italia e a livello internazionale, quando consente attraverso l’azione scenica l’incontro tra Scuola e Carcere. Oltre alla consolidata esperienza di gruppi di studenti universitari che dal 1994 partecipano alla creazione di spettacoli teatrali in carcere (si veda anche il progetto biennale 2018/2019 in progress su “Teatro, Rugby e Carcere” per gli studenti di Pedagogia generale - Prof.ssa Persi - del corso di Scienze Motorie e della Salute a Urbino), un lavoro fortemente innovativo è stato più recentemente sperimentato. Si tratta dei laboratori che a Pesaro hanno consentito a preadolescenti (ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 13 anni) di sviluppare un interazione creativa con detenuti e detenute. Esperienze che consentono oggi di riflettere su come il teatro, oltre a determinare un abbattimento della Recidiva in chi lo pratica dietro le sbarre (gli ultimi studi ci riferiscono di una diminuzione dal 65% al 6%) produce prevenzione nei ragazzi che entrando in carcere conoscono persone che non sono l’incarnazione del male ma vivono una dimensione tremenda (la privazione della libertà) che è meglio evitare. Le vivaci intelligenze dei ragazzi ci raccontano di come l’agire espressivo-creativo possa consentire a ciascuno di superare stereotipi e pregiudizi. Agli studiosi riuniti a Mosca sarà mostrato il documentario “Studio sul Pentamerone”, presentato recentemente anche al Festival dei due Mondi di Spoleto, sottotitolato in inglese per l’occasione, sulla recentissima esperienza promossa dal Teatro Universitario Aenigma in collaborazione con il Cpia di Ancona e la Casa Circondariale di Pesaro e la partecipazione, insieme ai detenuti coinvolti, di un gruppo di allievi dell’Istituto Comprensivo Statale Olivieri di Pesaro. Un lavoro, coordinato da Minoia e dai suoi collaboratori all’Ateneo di Urbino, ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile per il Progetto nazionale omonimo a cura del Cesp (Centro Studi per la Scuola Pubblica). La democrazia digitale e i rischi di manipolazione di Stefano Passigli Corriere della Sera, 18 agosto 2018 Alla democrazia rappresentativa ben si possono unire gli istituti della democrazia partecipativa. È’ stato un grave limite della nostra classe politica ignorare tutte le proposte di iniziativa popolare, e spesso abusare del referendum abrogativo. Sono sempre più numerosi quanti in Italia affermano che la democrazia rappresentativa è in crisi. Tale crisi viene equata con la crisi dei partiti tradizionali e considerata come ormai irreversibile. A questa superficiale diagnosi si accompagna sempre più spesso l’indicazione dei meriti della democrazia diretta, ove il credo democratico dell’one man-one vote sarebbe finalmente pienamente realizzato senza l’intervento distorsivo di organizzazioni intermedie e di élite tali non per maggiore competenza ma per effetto di oscure manipolazioni (i “poteri forti”), e che con la loro stessa esistenza contraddirebbero l’eguaglianza assunta a principio unico della democrazia. A fianco di studiosi seri che sottolineano come la democrazia rappresentativa sia oggi insidiata dalla progressiva traslazione delle decisioni dalle sedi tradizionali (parlamenti e governi) a sedi sovranazionali (Onu, Ue, Nato, Opec, etc.) o a grandi strutture burocratiche autolegittimantesi (Fmi, Bce, Wto), e come sia quindi necessario rivitalizzarla integrandola con forme di democrazia partecipativa, si è venuta insomma diffondendo una vulgata che superficialmente afferma la fine della democrazia rappresentativa e l’avvento della vera democrazia ove finalmente “l’uno vale uno” e tutto è rimesso senza mediazione alcuna al volere del “popolo”. Il progresso tecnologico completerà il processo permettendo di consultare in tempo reale i cittadini e di affidare loro ogni decisione. In breve tempo l’inutilità delle assemblee legislative diverrà evidente; nel frattempo si potrà selezionarne i membri per sorteggio. Vengono così dimenticati oltre due millenni di storia e due secoli di teoria democratica. Come ben sa ogni persona di media cultura, la democrazia degli antichi riposava nella polis greca su di una divisione tra i “cittadini” dediti alla partecipazione politica, e i produttori, ivi compresi gli schiavi, responsabili della fornitura dei beni materiali. Il numero dei partecipanti alla vita politica era limitato, così come i compiti dello Stato che non richiedevano competenze. Sarà solo con il superamento dello Stato assoluto e della rappresentanza corporativa, e con l’avvento del costituzionalismo e il progressivo allargarsi del suffragio, che si affermerà la moderna democrazia rappresentativa. In altre parole, il cammino di quanto noi oggi consideriamo “democrazia” coincide con l’affermarsi della rappresentanza. La natura delle decisioni politiche nel corso del Ventesimo secolo diverrà sempre più complessa imponendo il formarsi di burocrazie specializzate, lasciando al popolo il fondamentale ruolo di scegliere a quali tra le varie élite in competizione tra loro, portatrici di programmi diversi, delegare la funzione di governo. La democrazia rappresentativa non è frutto della manipolazione di élite contrapposte al popolo, ma nasce e accompagna il divenire dello Stato nazionale. Di quello Stato così caro agli odierni “sovranisti” di cui la democrazia rappresentativa è un elemento costitutivo. I limiti che essa oggi indubbiamente incontra nascono dai processi che già ricordavamo: globalizzazione e internazionalizzazione delle principali decisioni. È proprio per ovviare ai limiti che tali processi impongono alla volontà popolare che ha trovato rinnovato slancio la richiesta di partecipazione. Ma la democrazia partecipativa (referendum consultivi, proposte di legge di iniziativa popolare, referendum abrogativi) è cosa ben diversa dalla democrazia diretta ove i cittadini possono trovare un reale potere decisionale solo in comunità di piccole dimensioni e su questioni di portata limitata (come nei cantoni svizzeri). Sulle grandi decisioni politiche la democrazia diretta, e ancor più la teorizzata democrazia digitale, affiderebbe al “popolo” solo il potere di dire un Sì o un No a domande non emendabili formulate da minoranze dirigenti (queste sì élite non sottoposte a controllo o competizione). Altro che regno della democrazia! Vivremmo in un regno di manipolazione permanente, ove le domande contano più delle risposte, laddove invece nella democrazia rappresentativa i cittadini possono intervenire nei processi decisionali e attraverso i propri rappresentanti e gli organi formativi della pubblica opinione imporre modifiche alle decisioni. Come già intuirono i nostri padri costituenti, alla democrazia rappresentativa ben si possono unire gli istituti della democrazia partecipativa. È’ stato un grave limite della nostra classe politica ignorare tutte le proposte di iniziativa popolare, e spesso abusare del referendum abrogativo. Ma si tratta di istituti che assieme al referendum consultivo possono essere rivitalizzati dando nuova linfa alla democrazia rappresentativa, evitando di consegnarla agli apprendisti stregoni di una falsa democrazia diretta, troppo spesso manipolata. Come vanno le cose in Uruguay dopo il via libera alla legalizzazione della marijuana? di Magdaiena Martínez La Repubblica, 18 agosto 2018 Bene, i trafficanti perdono sempre più mercato. Per questo però ora si ammazzano tra di loro. In Uruguay da mesi sta crescendo il numero degli omicidi legati a rese dei conti tra i trafficanti di droga. Come mai? La riduzione del mercato illegale generata dalla legalizzazione della marijuana, che nel Paese sudamericano s’implementa a piccoli passi dal 2013, genera tensione attorno al controllo dei punti di spaccio, spiega Marcos Baudean, ricercatore presso l’Università privata Ort (acronimo dal russo Obshchestvo Remeslennogo zemledelcheskogo Truda, e cioè "Società del lavoro agricolo e artigianale", un’Ong fondata nel 1880 nell’Impero russo, ndr). L’ateneo ospita il gruppo di ricerca che monitora l’impatto della legge sulla sicurezza pubblica nel Paese. Si stima che in Uruguay il mercato del consumo di cannabis muova circa 40 milioni di dollari l’anno (circa 34,5 milioni di euro). Di questi, dieci milioni sono già passati al settore legale dell’economia. “Il fatto che così tanti soldi siano passati in così poco tempo al mercato legale deve per forza aver assestato un brutto colpo a qualcuno, e così, parallelamente, assistiamo a un aumento netto delle lotte localizzate in certe aree, in genere nei quartieri periferici poveri di Montevideo, dove i trafficanti di droga mantengono il loro potere. Pensiamo che il cerchio si stia stringendo attorno al mercato illegale”, afferma Baudean. In questo senso, secondo l’esperto, la legge sta realizzando uno dei suoi obiettivi: quello di strappare il mercato della marijuana ai narcotrafficanti. Tuttavia, Baudan è cauto quando si tratta dì trarre delle conclusioni, perché la legalizzazione è stata soltanto parziale fino a12017 (attraverso la vendita di una produzione controllata dallo Stato in 14 farmacie del Paese) quando poi la cannabis è stata legalizzata per "uso ricreativo". In Uruguay sono circa 35mila le persone registrate come autorizzate per ottenere la cannabís da auto-coltivazione, dai club o dalle farmacie. Tuttavia, mentre la portata del mercato legale si estende sempre di più, esiste anche il mercato "grigio" (tra il nero e la legalità, ndr) che si crea quando occasionalmente gli utenti legali la regalano o la rivendono ad altre persone. Il consigliere per la sicurezza del ministero degli Interni dell’Uruguay, Ricardo Fraiman, ha ribadito a fine luglio i risultati di alcune indagini che indicano un mercato illegale sempre più ristretto nel Paese. Durante un evento organizzato dall’Osservatorio latinoamericano per la ricerca sulle politiche anticrimine, Fraiman ha spiegato che l’aumento della violenza e degli omicidi era una conseguenza "prevista" dal processo di legalizzazione. Altri funzionari del governo, a loro volta, segnalano che gli scontri tra bande sono anche conseguenza di operazioni di polizia mirate a chiudere certi punti di spaccio, e dei cambiamenti all’interno del mercato, dove si stanno vendendo meno le sostanze a buon mercato come il "paco" (uno scarto della cocaina spesso mischiato a sostanze tossiche come colla e cherosene, ndr) e si consumano di più droghe sintetiche. Dati non ufficiali per il primo semestre del 2018 indicano un netto aumento degli omicidi: 215 nei primi sei mesi rispetto ai 131 dello stesso periodo dell’anno precedente. Se la tendenza fosse confermata, si tratterebbe di un aumento record, secondo l’osservatorio sulla criminalità Fundapro. Pur non menzionando dei numeri, il ministero dell’Interno riconosce che la violenza è aumentata nel 2018. Nel corso di tutto il 2017 sono state uccise 283 persone, un incremento rispetto ai 268 omicidi dell’anno precedente, in un Paese di 3,4 milioni di abitanti, dicono le statistiche ufficiali. A Montevideo, l’area in cui si sono verificati più episodi di violenza, le autorità ammettono che circa il 45% degli omicidi è legato alla lotta per il controllo del territorio da parte dei trafficanti di droga. Da quando è stata avviata la politica per la legalizzazione della cannabis, l’Uruguay continua a produrre studi che misurano con una certa precisione gli effetti di questa riforma, cosa fattibile in un Paese con "pochi" abitanti, una buona copertura sanitaria e livelli di sicurezza accettabili. A questi studi si aggiungono i dati e altri report di ricercatori di varie università che convergono nell’organizzazione Monitor Cannabis, e ancora diverse collaborazioni da centri stranieri, dove l’esperienza uruguaiana è seguita con grande interesse. L’aumento della violenza viene visto con preoccupazione dalla popolazione. Ciononostante, i recenti sondaggi evidenziano che gli uruguaiani sono sempre più favorevoli alla regolamentazione della marijuana. Senza Stato, ma con 30 mila miliziani. L’Isis resiste e torna a far paura di Giordano Stabile La Stampa, 18 agosto 2018 Un esercito di 30 mila combattenti, metà in Siria e metà in Iraq, meno volontari stranieri, una leadership decimata ma ancora operativa, e una volontà di resistere intatta. È il ritratto dell’Isis a metà 2018, a un anno dalla caduta di Mosul e di Raqqa e da quella che sembrava la fine imminente del Califfato. I numeri sono forniti da un rapporto dell’Onu che avverte: “Nella sua forma ridotta, nascosta, l’Isis può continuare a sopravvivere per molto tempo ancora”. Una striscia nel deserto È soprattutto il numero di trentamila jihadisti a fare impressione. Alla metà del 2015, all’apice della potenza dello Stato islamico, la Cia stimava i suoi combattenti in circa 31 mila. La cifra certo peccava per difetto. I servizi russi e iracheni sostenevano che erano in realtà almeno 150 mila. Ma allora il califfo Abu Bakr al-Baghdadi controllava un territorio grande come l’Italia, con 10 milioni di abitanti, e aveva ricevuto l’apporto di 40-60 mila foreign fifighters. Ora gli restano soltanto lembi di deserto e una stretta striscia lungo l’Eufrate al confine siro-iracheno, dove sfrutta ancora alcuni pozzi di petrolio. Senza più un suo “Stato”, l’Isis è riuscito a sopravvivere ed è tornato a colpire, con sempre maggiore pericolosità. Ha disperso la maggior dei suoi militanti nelle zone remote nel Sud-Est della Siria, lungo il confine con la Giordania, fra le sabbie e dell’Anbar e nelle zone montagnose nelle province di Kirkuk, Diyala e Salahudin in Iraq. E in grado di condurre attacchi devastanti come quello a Sweida, in Siria, di un mese fa: 250 vittime e trenta ostaggi, donne e bambini, portati via. Damasco ha dovuto rivedere la sua strategia e dirottare mezzi e truppe verso il Jabal Druze, la montagna dei drusi vicino a Sweida, una zona impervia, con crateri di antichi vulcani che gli islamisti hanno trasformato in fortezze. La battaglia è ancora in corso, mentre da quasi un anno i curdi cercano di fare sloggiare i jihadisti, senza successo, dalle ultime roccaforti nella provincia di Deir ez-Zour. Il ritorno dell’Isis preoccupa l’Intelligence occidentale, che teme che la Mesopotamia ridiventi un santuario da dove dirigere attacchi in Occidente, ma soprattutto l’Iraq. Ieri gli F-16 di Baghdad hanno colpito in profondità nel territorio siriano, con il consenso di Damasco, e distrutto una "sala operativa" che serviva a progettare "attacchi e attentati in Iraq". I raid, i più massicci finora in questo tipo di operazioni congiunte, servono anche a cementare l’intesa fra Siria e Iraq, con migliaia di miliziani sciiti iracheni che affiancano l’esercito siriano nel controllo della zona di confine. I curdi indeboliti Le tensioni fra Russia, Turchia e Stati Uniti d’America hanno invece reso meno efficace l’azione dei curdi, distratti dalle operazioni turche al confine settentrionale. Questo spiega in parte la resistenza degli islamisti sull’Eufrate, dove resta il grosso dei combattenti stranieri, dai due ai tremila. Il loro annientamento è indispensabile per evitare metastasi. Parte dei foreign fighter sopravvissuti al crollo del Califfato fra il 2016 e i12017 si sono trasferiti nel Sinai, in Libia e soprattutto in Afghanistan, dove ci sono “embrioni” di nuove entità territoriali. Il rischio di un Isis 2.0 è molto alto, avverte l’Onu. Afghanistan. Oltre le violenze, così le donne imparano a dire di no di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 18 agosto 2018 L’Afghanistan, quarant’anni dopo l’invasione sovietica, con le infinite devastazioni e il tradimento delle speranze, non è un bel posto dove vivere; per le donne, ma questo da sempre, è drammaticamente peggio: secondo il più recente studio di Global Rights, solo dodici su cento non sono state vittime di almeno una forma di violenza (fisica, sessuale, psicologica, matrimonio forzato o precoce). Nelle zone rurali più che nelle città. Il dato è addirittura edulcorato: dichiarare la propria condizione è estremamente rischioso e spesso le donne già vittime di vessazioni, una volta diventate madri e soprattutto suocere, sono le prime a rinnovare i soprusi sulle nuore e sulle giovani figlie. Metà delle ragazze afghane sono costrette a sposarsi prima dei 15 anni con uomini molto più grandi di loro e viene loro negato il diritto all’istruzione e al lavoro fuori casa. Spesso non possono lasciare le mura domestiche, né ricevere parenti e amici. In una condizione così drammatica, nell’intero Afghanistan esistono solo quattordici case rifugio per donne e bambine sottratte alla violenza che non possono ospitare più di 20-25 persone. E dire che dal Duemila in poi la situazione è già migliorata, come ammettono tre donne su quattro del campione di mille afghane intervistate da ActionAid, la onlus che negli ultimi anni ha profuso più energie per combattere la violenza di genere in quel Paese. Ma buona parte di loro, ancora oggi, temono più gli abusi sessuali e la violenza nel chiuso delle mura domestiche che di essere vittime di rapine, sequestri o attentati, pur vivendo in una nazione dove la guerra civile è la realtà quotidiana entrata in ogni casa da troppo tempo. Per il futuro, la prospettiva è tutt’altro che incoraggiante: le conquiste (almeno sulla carta) di questi ultimi due decenni sono infatti in pericolo. Su pressione dell’Occidente era stato fissato che un seggio parlamentare su quattro fosse riservato alle donne. Una legge recente lo ha già ridotto a uno su cinque. La richiesta di aiuto - In questo scenario, l’ufficio di Kabul di ActionAid ha chiesto aiuto alla sezione italiana per un progetto pilota che riuscisse a generare almeno una crepa nel muro culturale che continua a opprimere il Paese. Così, grazie al finanziamento della Cooperazione Italiana allo Sviluppo e con l’assistenza tecnica di ActionAid Italia, nel 2012 è stato avviato un progetto triennale destinato a diventare un modello per il futuro: la regione interessata è quella di Herat e ha coinvolto cinquanta villaggi. Il progetto è stato articolato in tre principali azioni di intervento. Nella prima fase sono stati creati cinquanta gruppi di riflessione, uno per villaggio, luoghi protetti di ritrovo per sole donne con “facilitatori” locali addestrati a far emergere le problematiche, convincerle a raccontarsi, discutere liberamente, far loro comprendere che difendersi è possibile, che la violenza non è qualcosa di inevitabile. Sostegno dal basso - “Ci siamo riusciti - racconta Daniele Lodola, responsabile del progetto - anche grazie ai Consigli di sviluppo comunitari, i consigli comunali del villaggio, che hanno dato l’indicazione alle famiglie di consentire alle donne di parteciparvi. Dove non è stato possibile, si sono tentati incontri in famiglia, anche alla presenza del marito”. In totale sono state coinvolte mille donne che, giorno dopo giorno, hanno trovato la forza di raccontare le violenze subite, di rialzare la fronte, di chiedere aiuto a chi le stava accompagnando nel cammino di liberazione. La seconda parte del progetto ha affrontato direttamente i problemi: sono state create figure a metà tra il tutore psicologico e l’avvocato, “para-legali” li hanno definiti, a cui rivolgersi per trovare soluzioni. L’approccio è stato il meno traumatico possibile, si è cercato di trasformare il problema personale in comunitario, coinvolgendo tutto il villaggio. Il primo passo, quindi, è stato quello di chiedere l’intervento dei capi villaggio, perché parlassero con i mariti e facessero cessare le violenze; il secondo, di denunciare chi persisteva in atteggiamenti violenti creando un alveo di protezione per la vittima, prospettandole una possibilità di vita alternativa. In parallelo, sono state avviate azioni per sensibilizzare la politica locale, provinciale, nazionale. Sono stati coinvolti, oltre ai parlamentari, opinion leader locali e chiunque avesse un’autorità di qualche genere. L’obiettivo era di impegnarli a verificare se le regole fissate dal governo a favore delle donne fossero realmente rispettate. Sono state organizzate giornate di studio in Afghanistan e in Italia, dove sono stati invitati parlamentari di Kabul, in particolare donne, ricevute dall’allora ministro degli Esteri Emma Bonino e dalla presidente della Camera Laura Boldrini. Valutare i risultati di un simile progetto non è facile, anche perché si ha sempre la sensazione di dover svuotare un mare con il cucchiaio. I numeri sono certamente piccoli ma incoraggianti: i casi risolti sono 103 e per queste donne è stato creato un fondo di 50 mila euro a cui attingere per avviare attività economiche in proprio. Per ora solo poche di loro ne hanno fatto ricorso: per ragazze costrette fin dalla nascita a un’esistenza da schiave o quantomeno senza alcuna possibilità di autodeterminazione, reinventarsi una vita è estremamente difficile; continua, inoltre, l’attività dei facilitatori e dei para-legali (istruiti da ActionAid) in difesa delle vittime che ne fanno richiesta. La luce in fondo al tunnel - Ci sono però storie che cominciano a infondere loro coraggio, a lasciar intravvedere una luce in fondo al tunnel, come quella di Hasti, 17 anni. Era all’undicesimo anno di scuola, gliene mancava uno per diventare insegnante, e frequentava le riunioni di riflessione di ActionAid. Per difficoltà economiche, la famiglia l’ha promessa in sposa a un giovane di un altro villaggio, che ha subito imposto la sospensione degli studi e la frequentazione del circolo. La coordinatrice di quel corso, Nasima, si è presentata al futuro sposo, decantandogli le doti della futura moglie e cercando di dimostrargli che il lavoro in una scuola a contatto con i bambini non gli avrebbe tolto nulla, anzi gli avrebbe dato modo di vantare le doti della giovane moglie. Non era facile, però bisognava provarci. Oggi Hasti, moglie afghana, insegna ai bambini del suo villaggio ed è diventata una specie di eroina per tutte le altre ragazze. Che sognano di imitarla e le chiedono consigli. Forse anche i loro futuri mariti stanno a guardare, non più intimoriti di perdere la loro “virilità”. Bangladesh, è caccia allo studente di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 agosto 2018 A partire dalla fine di luglio migliaia di studenti hanno preso parte a manifestazioni in larga parte pacifiche a Dacca, la capitale del Bangladesh, per denunciare la mancanza di sicurezza sulle strade dopo che due di loro erano stati falciati da un autobus. Da allora, è scattata una vera e propria caccia all’uomo. Gli studenti arrestati sono già 97 ma la procura ha aperto ben 51 fascicoli d’inchiesta che riguarderebbero almeno 5000 persone accusate di reati incompatibili col diritto internazionale, come la violazione di un arbitrario e vago divieto di “manifestazioni illegali”. Inutile dire che non è stato preso alcun provvedimento nei confronti degli agenti di polizia che hanno fatto uso eccessivo della forza contro i manifestanti o dei membri della Lega studentesca filo-governativa Bangladesh Chhatra, che hanno aggredito manifestanti e giornalisti con machete, sbarre d’acciaio e rami d’albero. Gli studenti si sentono sotto assedio. Sono sottoposti a intensa sorveglianza, sia online che offline, ed evitano sia di pubblicare commenti sui social che di richiedere assistenza medica per le ferite riportate durante la manifestazione. “La polizia visiona le immagini delle telecamere di videosorveglianza e poi va ad arrestare gli studenti che ha riconosciuto. Molti di quelli che sono stati feriti dai proiettili di gomma stanno evitando gli ospedali. Siamo in pieno trauma. Non sappiamo cosa potrà accadere domani o tra poche ore…”, ha dichiarato uno studente di un’università privata di Dacca. A più riprese il governo ha attaccato e screditato gli studenti, definendo la loro protesta come un tentativo delle opposizioni del Partito nazionalista del Bangladesh e della Jamaat-e-Islami di destabilizzare il periodo pre-elettorale. Ma non sono solo gli studenti a subire l’attuale giro di vite. Invocando l’articolo 57 dell’ambigua e generica Legge sull’informazione e sulle comunicazioni, negli ultimi giorni sono stati arrestati l’attrice Quazi Nawshaba Ahmed, il fotografo Shahidul Alam e il proprietario di un bar, Faria Mahjabin. Questa legge, spesso utilizzata per criminalizzare il semplice esercizio della libertà d’espressione e di stampa, prevede pene tra i sette e i 14 anni per chi “intenzionalmente pubblichi o trasmetta (…) ogni genere di materiale falso ed osceno, arrechi danno o crei le condizioni per arrecare danno alla legge e all’ordine, pregiudichi l’immagine dello stato o di singole persone, arrechi danno o crei le condizioni per arrecare danno alla fede religiosa o istighi a compiere azioni contro persone od organizzazioni”.