Il Garante dei detenuti: “Il carcere? Non sia luogo di buio isolamento” di Giulia Pozzi La Voce, 17 agosto 2018 Dopo il picco di suicidi dietro le sbarre, abbiamo intervistato Mauro Palma su pene alternative, diritti dei detenuti, retorica e indirizzi del nuovo Governo. 7 suicidi nelle carceri italiane nelle ultime settimane, 34 dall’inizio dell’anno. Sono solo numeri, freddi dati che fanno notizia ciclicamente, per poi finire nel dimenticatoio non appena i riflettori intercettano un’altra “emergenza”. Eppure, dietro a quei numeri, ci sono storie, nomi. Come quello di Hassan, 21 anni, morto qualche giorno fa nell’ospedale di Belcolle, provincia di Viterbo, dopo essersi impiccato in una cella della sezione di isolamento del carcere cittadino, da dove sarebbe uscito il prossimo 9 settembre. Vicende che dovrebbero stimolare una riflessione seria sul delicato argomento della detenzione, tema, in Italia, di perenne attualità ma ciclicamente accantonato nel dibattito pubblico. Era il 2004, quando il compianto Alessandro Margara, già capo dell’amministrazione penitenziaria e magistrato di sorveglianza, constatava come il carcere fosse divenuto una “discarica sociale”, ricettacolo di disperazione e marginalità. E per far sì che la detenzione sia luogo di riabilitazione e recupero sociale, e non abbia soltanto una funzione meramente custodiale, si adopera ogni giorno Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Si è speso, in questo senso, nel corso di tutta la sua carriera, che lo ha visto, tra le altre cose, fondatore e primo presidente dell’Associazione Antigone, componente prima e presidente dopo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, nonché al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Con lui abbiamo parlato dei recenti casi di suicidio, ma anche di pene alternative, nonché degli indirizzi del nuovo Governo sul tema della detenzione e dell’immigrazione. Palma, stiamo vivendo un’estate drammatica per i suicidi nelle carceri italiane. Quali sono le sue considerazioni in proposito? “Più volte mi è capitato di sottolineare che il suicidio di una persona è sempre dovuto a una molteplicità di fattori e che proprio per rispettare la decisione estrema presa occorra astenersi da facili interpretazioni. Con questa premessa occorre però notare che sempre più i suicidi in carcere riguardano persone socialmente e forse individualmente fragili, che non hanno trovato ascolto nel sociale, che hanno realizzato una serie di successive esclusioni e che compiono questo gesto finale all’interno del punto di arrivo di tale percorso di esclusioni. Gli ultimi casi hanno riguardato persone con condanne lievi, talvolta prossime all’uscita. Comunque persone che neppure in carcere hanno trovato un momento di ascolto, di connessione con le loro difficoltà. Piuttosto che interrogarsi - seppure doverosamente - sull’effettiva sorveglianza realizzata durante la loro permanenza in carcere, facendo così ricadere la responsabilità su chi aveva il compito di controllarle, occorrerebbe chiedersi se a tali persone sono state offerte possibilità di contatto umano, di osservazione dei bisogni psicologici, di effettiva sensazione di non abbandono”. Lei ha fatto appello alla società civile e alle istituzioni perché ci si interroghi “su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate giovani vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere”. Quali provvedimenti andrebbero presi per ovviare a questa situazione, a suo avviso? “Innanzitutto occorre ricostruire “luoghi” sociali di non emarginazione e capacità delle amministrazioni locali di intercettare i bisogni delle persone che non possono autonomamente contare su solide reti di protezione, familiari, amicali, lavorative. Questi presìdi sociali sono stati smantellati negli ultimi anni. E le vite disperate nelle strade, abbandonate alla sola azione caritatevole di organizzazioni spesso religiose, confluiscono spesso nella continuità con l’ambiente dei reati di strada e finiscono inesorabilmente in carcere, anche perché non possono contare su solide difese legali. In secondo luogo bisogna riequilibrare i rapporti tra le diverse professioni che operano in carcere: da quella relativa alla sicurezza a quella relativa al supporto psicologico, alla mediazione culturale, al recupero sociale. Questa ultime professioni hanno ormai numeri esigui: si sono perse a totale vantaggio della sola funzione custodiale. In terzo luogo va accentuata la trasparenza del carcere: non deve essere luogo di buio isolamento - spesso proprio nelle sezioni di isolamento avvengono i suicidi - ma luogo di totale apertura a contributi esterni, al mantenimento dei rapporti con lo scorrere del mondo oltre le mura, ovviamente senza diminuire la sicurezza”. Nel dibattito sulle alternative al carcere, spesso si impone una certa retorica securitaria, molto di moda in ampi settori della politica, che invoca superficialmente e genericamente la “certezza della pena”. Ci aiuta a fare un po’ di chiarezza in proposito? “La confusione che il dibattito attuale, fatto con toni volutamente alti, quasi gridati, è tra la “certezza” della pena e la sua “fissità” nel tempo. Ogni sistema penale democratico richiede che le pene siano proporzionate alla gravità del reato commesso e alla rilevanza del bene giuridico aggredito con la sua commissione; che corrispondano a leggi, che quest’ultime ne definiscano tassativamente le condizioni per la loro applicazione e le modalità per la loro esecuzione. Quindi principi di legalità, tassatività e proporzionalità costituiscono la “certezza” della pena: nulla lasciato all’arbitrio. Ma, accanto a questo le pene devono avere una finalità e, così come afferma la Costituzione italiana, la finalità è il ritorno positivo al contesto sociale, in sintesi la rieducazione. Ovviamente non di rieducazione “etica” si tratta: se questa si realizzerà, sarà un bene ma non è compito dello Stato avere funzioni etiche. Si tratta invece di rieducazione “sociale”, cioè di un reinserimento che eviti la nuova commissione di reati. Quindi, occorre che l’esecuzione della pena sviluppi un percorso positivo che tenda a restituire alla società un soggetto in grado di interagire positivamente con essa, così riannodando quel filo che la commissione del reato ha reciso. Perché ciò avvenga l’esecuzione deve essere a “tappe”, modulata, non può essere fissa: da qui le progressive misure alternative che nella loro progressione sono tappe verso il ritorno alla società. Sono misure da dare sempre seguendo parametri fissati dalla legge e non arbitrariamente e secondo la decisione del magistrato che si avvale della valutazione di chi segue il percorso della persona detenuta all’interno del carcere. Quindi, per riassumere, pena “certa”, ma non “fissa”“. L’indirizzo dell’attuale Esecutivo sembra incentrato sull’approccio prettamente detentivo, ma qualche settimana fa Beppe Grillo invitava a privilegiare le misure alternative. A giudicare da quello che ha visto fino ad ora (compreso il recente Decreto in materia penitenziaria), che cosa si aspetta da questo Governo? La proposta di Grillo sarebbe auspicabile e realizzabile a suo parere, e in che termini? “Partiamo dall’approccio abolizionista di Grillo: è bene misurarsi sempre con tale ipotesi che, nell’ambito giuridico, ha una scuola minoritaria ma importante di sostenitori: anni fa un movimento di discussione sul carcere si volle chiamare “Liberarsi dalla necessità del carcere”. Questa denominazione indicava il doppio aspetto della linea utopica, tendenziale e della necessità attuale. Se non possiamo abolirlo, possiamo però ridurlo. Per gli autori di molti reati minori la detenzione è un’inutile sottrazione di tempo che certamente non aiuta a quel loro reinserimento di cui si accennava precedentemente: meglio sarebbero pene alternative diverse dal carcere di tipo risarcitorio, interdittivo o di lavoro sociale. Accanto a questa discussione, restano però le incongruenze di un linguaggio politico che predica soltanto chiusura, inflessibilità, con affermazioni che determinano anche sconcerto all’interno degli Istituti di detenzione e, contemporaneamente, provvedimenti in corso di approvazione che recuperano parti della discussione sviluppata negli anni recenti - i cosiddetti Stati generali dell’esecuzione penale - ma che non riescono a cogliere il senso complessivo di quella discussione. In sintesi, provvedimenti parziali, anche condivisibili, ma assenza di un’idea complessiva sulla detenzione. Naturalmente il compito del Garante nazionale non è entrare nel dibattito sulle politiche che il Governo intende perseguire, in questo come in altri campi, ma valutare gli effetti che esse determinano sul piano della tutela dei diritti delle persone ristrette. In fondo, valutare anche il clima che ne consegue. Attualmente il clima è di un’attesa delusa”. In merito della vicenda della Asso 28, che potrebbe configurare, secondo alcuni organi di stampa, un caso di respingimento collettivo, lei, in base al proprio mandato, ha chiesto informazioni alle Autorità competenti. Cosa pensa di questo episodio? Chi nega la tesi del respingimento collettivo si aggrappa anche alla recente controversa definizione di una zona SAR libica... “Come è noto le zone SAR vengono notificate dallo Stato interessato agli Organi di controllo internazionale: e la Libia ha indicato quell’area come area di proprio intervento SAR. Da questo punto di vista le autorità italiane non hanno impartito - stando a quanto comunicato al mio Ufficio - alcun ordine di comando all’equipaggio della nave “Asso 28” e l’operazione è stata tutta di responsabilità libica. Restano però, a mio parere e su un piano più generale, alcuni interrogativi. Il primo riguarda la qualificazione del porto di Tripoli che, stando a un factsheet dell’Unione europea del 28 giugno 2018 (Migration: Regional Disembarkation Arrangements) non può essere considerato “porto sicuro” verso cui far convergere le persone soccorse. Il secondo, riguarda il fatto che le persone soccorse sono state a bordo di una nave italiana e che in quella loro posizione avrebbero dovuto godere di tutti i diritti che il nostro Paese assicura nel proprio territorio. Il terzo riguarda l’effettività del diritto di asilo per tali persone: sulla nave, appena recuperati e in un contesto non attrezzato a ciò, non hanno certamente potuto porre richiesta di asilo, né lo hanno potuto fare approdati a Tripoli perché la Libia,non è certo luogo ove tali presidi siano agibili in concreto. Infine, data la conoscenza del rischio a cui sono esposte le persone migranti irregolari in Libia - la realtà dei centri di detenzione libici, soprattutto quelli che sfuggono a ogni controllo centrale è nota - si pone una questione di violazione in sé del principio di non refoulement”. La ricetta del ministro dell’Interno in merito alla gestione dell’immigrazione - oltre alla chiusura dei porti alle navi delle Ong battenti bandiera straniera - comprende anche un aumento delle espulsioni e dei centri per i rimpatri. Entrambi questi contesti sono soggetti al monitoraggio da parte del Garante Nazionale. Qual è lo stato dell’arte e quale evoluzione si aspetta di vedere? Nota delle criticità nell’approccio alla questione migratoria prefigurato dal capo del Viminale? “Al di là degli annunci, più o meno impressionistici, il piano relativo ai CPR (Centri per il rimpatrio), prosegue secondo quanto previsto dal decreto-legge del febbraio 2017 (convertito in legge 46/2017). È stato riaperto il Centro di Bari - sulle cui condizioni il Garante nazionale ha espresso molte riserve - e un centro vicino Potenza (Palazzo San Gervasio). Sono iniziati i lavori per il Centro di Macomer (riadattando un ex carcere mandamentale) e sono stati annunciati lavori per riadattare/risistemare vecchi Centri. Vedremo: certamente i parametri che la legge definiva (massima capienza di cento persone, layout ben diverso da un carcere, possibilità effettiva di godimento dei diritti che l’ordinamento prevede) dovranno essere rispettati e il Garante nazionale eserciterà il proprio potere di controllo, con visite non annunciate, raccomandazioni sugli elementi non corrispondenti alla tutela della dignità delle persone e verifica della realizzazione dei cambiamenti che tali raccomandazioni indicheranno. Credo - ed è mio dovere essere attento, ma anche ottimista - che, al di là di una comunicazione “a effetto” la situazione non stia peggiorando rispetto al passato. Questo, appunto, al di là delle dichiarazioni e dei post sui social: rimarcando però che tali dichiarazioni e tali post hanno una valenza culturale grave, soprattutto se provengono da chi ha ruoli istituzionali”. Fratelli d’Italia ha di recente presentato una proposta di legge per abolire il reato di tortura, che, a suo avviso, avrebbe “mortificato gli agenti”. Che ne pensa? “Ogni tanto qualcuno azzarda qualche ritorno al medioevo. Lasciamo che parlino. Piuttosto facciamo in modo che le Procure - qualora sciaguratamente ce ne fosse bisogno - rendano effettiva tale previsione di reato che per molto, moltissimo, tempo è stata discussa nel nostro Paese”. Le tragedie italiane e lo Stato che ci manca di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 17 agosto 2018 In un’atmosfera sociale marcia, che ci rende unici in Europa, interi pezzi di questo Paese sono sfuggiti a ogni controllo e vanno per conto loro. C’è un elemento decisivo che lega insieme e in parte spiega le sciagure dell’estate italiana: dal crollo del ponte a Genova al rovinoso tamponamento del Tir sull’Autosole, alla strage dei braccianti immigrati sulle strade della Puglia. Un dato che va ben al di là di questi episodi pur di per sé gravissimi, e del quale portano una pesante responsabilità le forze che hanno governato il Paese negli ultimi vent’anni (dunque anche la Lega, oggi forse impegnata a cambiare il suo stesso passato e a farlo dimenticare). Si tratta dell’indebolimento - fino alla sua virtuale scomparsa - della presenza dello Stato, e quindi del venir meno di una sua funzione essenziale: quella del controllo e della sanzione. “Autostrade per l’Italia” ad esempio può fare da anni ciò che le piace - guadagnare a dismisura senza reinvestire - perché nessuno si è mai presa la briga di controllarla. Così come da anni le forze sempre più esigue della Polizia stradale non ce la fanno a monitorare adeguatamente il settore dei Tir in furiosa espansione, a controllare il rispetto dell’orario di lavoro degli autisti, a controllare l’adozione da parte degli automezzi degli appositi dispositivi di sicurezza. Egualmente, da anni gli Ispettorati del Lavoro e le forze dell’ordine del Mezzogiorno, in particolare della Puglia e della Calabria, sembrano avere in pratica alzato bandiera bianca. Essersi arresi di fronte ai proprietari agricoli sfruttatori e alle organizzazione di “caporalato”, gli uni e le altre lasciati libere di fare i loro comodi. È noto che quanto a rispetto delle leggi gli italiani hanno sempre lasciato a desiderare. Ma ormai l’abitudine a questa assenza diffusa di controlli e di sanzioni, a questa crescente impunità, stanno diventando anima e sangue di un’antropologia nazionale che diventerà presto irrecuperabile. Stanno originando un’atmosfera sociale marcia che rischia di fare dell’Italia un Paese assolutamente anomalo nell’ ambito dell’ Europa occidentale. Di fatto sono interi pezzi di questo Paese che sfuggiti a ogni controllo ormai vanno per conto loro. Se qualcuno chiede di entrare nei dettagli c’è solo l’imbarazzo della scelta, dal piccolo al grande. È altissimo, ad esempio, il numero delle automobili circolanti senza assicurazione e di automobilisti senza patente, degli appalti pubblici truccati, degli artigiani che non rilasciano la ricevuta fiscale, dei Bed & Breakfast e delle case vacanze non registrate e illegali, delle contravvenzioni non pagate, di coloro che specie a Roma e nel Sud evadono la tassa sui rifiuti e viaggiano sui mezzi pubblici a sbafo, di coloro che assumono in nero e non pagano i contributi assicurativi, che ricevono pensioni per invalidità inesistenti, di coloro che se si tratta di pagare il ticket sanitario o di iscriversi all’università risultano nullatenenti o quasi perché evadono le tasse, che violano le norme edilizie e sulla tutela del paesaggio. Mi fermo qui per non annoiare chi legge, che comunque ognuna di queste cose le sa benissimo da sé. Intendiamoci, i fenomeni appena detti sono sempre esistiti, anche se un tempo avevano dimensioni assai meno imponenti. Appaiono oggi cresciuti a dismisura per la semplice ragione che sono molti anni che in Italia lo Stato e le amministrazioni pubbliche non ritengono più un loro compito essenziale far osservare la legge, e si sono quindi abituati a esercitare una sorveglianza sempre più casuale e svogliata. A questa dimissione dello Stato dalla sua funzione di guardiano delle leggi e delle regole ha contribuito in misura decisiva la rottura, avvenuta per effetto della crisi del ‘92-’94, del delicato equilibrio tra Politica e Società che storicamente aveva fino ad allora caratterizzato l’Italia. Dove la Politica - guidata da ristrette élite nazionali colte e selezionate, e padrone dello Stato sebbene in posizione di oggettiva debolezza - soprintendeva a una Società percorsa da “animal spirits” impetuosi ma voraci, nel suo complesso rozza e ineducata, sede di potenti organizzazioni malavitose, perlopiù localistica, animata da forti istinti appropriativi. In questa situazione la legalità e il rispetto delle leggi hanno obbedito molto a lungo a una sorta di mediazione più o meno esplicitamente contrattata tra Politica e Società. Tanto più quando con l’avvento della democrazia la ricerca del consenso elettorale provvide negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso a spostare sempre più a favore della seconda i rapporti di forza. La crisi di “mani pulite” li rovesciò bruscamente e definitivamente, assegnando finalmente il primato alla Società. Con il concorso di altri fattori: soprattutto grazie alla contemporanea affermazione in tutto il mondo occidentale di un’ ideologia antistatalista e alla delegittimazione radicale della politica, dei suoi strumenti e apparati, che anche per questa via ne seguì. Il successo elettorale di Berlusconi segnò il clamoroso rovesciamento di posizioni che duravano da un secolo: fu l’ingresso massiccio della Società nella Politica, anzi il suo prevalere su di essa. Molti (in parte anche chi scrive) s’illusero che quella vittoria potesse portare un necessario soffio di rinnovamento all’insegna del liberalismo. Invece essa volle dire l’inizio della subordinazione dello Stato e delle sue regole alle necessità tutte privatistiche della Società italiana, incarnata dal suo rappresentante forse simbolicamente più significativo. E da allora in un modo o nell’altro le cose non sono più cambiate. Complice da un certo punto in poi anche la carenza delle risorse pubbliche, la Politica, lo Stato e il controllo sul rispetto sulle regole hanno compiuto una progressiva ritirata. Una ritirata che paradossalmente ma non troppo ha il suo aspetto più evidente nella condizione della giustizia italiana. Amministrata da una magistratura priva di vero prestigio pubblico (non ingannino i salamelecchi di facciata), divisa in sette ideologico- politiche organizzate per distribuirsi gli incarichi di maggior pregio, afflitta da personalismi ed esibizionismi, oberata da una mole di leggi inutili e sbagliate fatte perlopiù con il tacito consenso dei magistrati, è una giustizia che non riesce a mandare e far restare in prigione che i poveracci, è una giustizia che lascia alla lunga praticamente sempre impuniti chi ha commesso i reati che commettono i ricchi e i potenti. Vorrei sbagliarmi, ma se sedessi ai vertici di “Autostrade per l’Italia” credo proprio che continuerei a dormire sonni tranquilli. Impiccalo più in alto di Salvatore Merlo Il Foglio, 17 agosto 2018 Dall’aggressione a Mattarella fino a Genova. Il governo ha un metodo. Trovano la loro misura nella dismisura, e allora evocano una giustizia sommaria, perché quello che conta è la rappresentazione, la parola definitiva, la reazione a torso nudo, come quando chiesero la messa in stato d’accusa del presidente Sergio Mattarella, seguendo un istinto che li spinge a mantenere un metabolismo sempre accelerato. Quindi adesso, su Facebook e nelle conferenze stampa, gettano un titolo quotato in Borsa alla mercé della speculazione, provocano il crollo di Atlantia a Piazza Affari, sfiorando addirittura l’aggiotaggio: “Quelli pagano le tasse in Lussemburgo”, ha detto infatti Di Maio, diffondendo informazioni false. “Non possiamo attendere i tempi della giustizia quindi revocheremo la concessione ad Autostrade”, ha detto invece Giuseppe Conte, in piedi in mezzo ai suoi datori di lavoro, cioè il ministro dello Sviluppo e il ministro dell’Interno, Di Maio e Salvini, i vicepremier del taglione. E sempre individuano i colpevoli da impiccare al ramo più alto, o in questo caso al pilone, tra quelli che non sono crollati nella tragedia del ponte Morandi, come se non gli interessasse la risoluzione dei problemi e la comprensione dei fenomeni, ma solo un principio tutto lirico e teatrale, una reattività che simula l’efficienza, la trasformazione di uno stato di diritto - che ha tempi, regole, codici, responsabilità - in uno stato della percezione emotiva e della decisione muscolare. Tutte cose che per loro natura non hanno bisogno di alcun controllo, di alcuna indagine, di alcun pensiero complesso, perché ciò che conta è l’annuncio, che sia rapido come un tweet, delle punizioni, delle frustate contro soggetti evanescenti e quasi senza volto, in questo caso i ben poco simpatici rentier del pedaggio autostradale, le cui responsabilità saranno per fortuna valutate dai magistrati, o come i ricchissimi Benetton, che sembrano quegli oligarchi che ogni tanto Putin sbatte in galera per soddisfare la rabbia e l’odio sociale dei suoi sudditi in Russia. “Ecco dove finiscono i nostri pedaggi”, l’ha imitato Di Maio, rivolto al popolo, affinché faccia vendetta. Il ponte è crollato, e senza una riflessione sulle ragioni per le quali l’Italia è un paese la cui modernità è ferma agli anni Sessanta. Spostando il piano dell’attenzione lontano dalle loro stesse lotte medievali contro la Tav, contro i ponti, contro quella bretella autostradale che a Genova poteva sostituire ponte Morandi, i truculenti al governo hanno invece evocato improbabili atti draconiani che hanno avuto l’unico effetto di turbare la Borsa costringendo inoltre gli italiani a dividersi in un tifo da stadio intorno a un disastro che sembra un tragico apologo sull’Italia del 2018. Posizioni dalle quali ieri sono ovviamente dovuti arretrare, così come si rimangiarono quella messa in stato d’accusa per Mattarella che, oggi come allora, era il tentativo disperato di buttare un fumogeno. Se revochi una concessione di beni demaniali, senza imputare un inadempimento, devi pagare un indennizzo. Ma se vuoi imputare un inadempimento, allora devi affrontare un giudizio. Delle due l’una. E per questo, ieri, dall’imperioso “avvieremo la revoca delle concessioni”, il governo è passato all’involuto “avvio della procedura per valutare se si possa arrivare alla revoca della concessione”. Si sa che sempre, nel contorsionismo semantico, si nasconde l’inghippo, e qui si mostra chiaramente dove portano l’indignazione e l’invettiva, e quanto abbassi il tasso di buon senso questo trasloco della ragione dalla testa allo stomaco, dal cervello alle viscere. Di Maio è arrivato alla volgarità assolutista del “chi non sta con me è corrotto e servo”, ovvero: “Gli italiani devono sapere la verità e in questo non li aiuteranno i giornali visto che tra gli azionisti c’è Benetton”. Non è vero. Ma non conta. Impiccalo più in alto. Una giustizia da Far west per tacitare il pubblico di Marco Bertoncini Italia Oggi, 17 agosto 2018 Si direbbe che non ci sia stata difformità nelle reazioni del presidente del Consiglio, dei due vice e del responsabile delle Infrastrutture: hanno tutti agito come avrebbe voluto il cittadino medio. In una parola, emotivamente. Il responsabile è stato subito identificato, la sanzione proclamata. Importante è l’effetto annuncio: la procedura per la revoca della concessione è avviata. Che poi ci si riesca ad arrivare, è altra faccenda. Quali costi ci sarebbero (se mai ci si pervenga), è altra faccenda ancora. Poco importa: l’impressione immediata è che la punizione sia già inflitta. È lo stile di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio, oltre che di Danilo Toninelli, un po’ meno di Giuseppe Conte, se non altro più prudente caratterialmente e non avvezzo alla comunicazione politica. Si guarda all’immagine. Quindi, si ricorre alle minacce, nella sicurezza che esse verranno interpretate dai cittadini come se già realizzate con effetto ottenuto. I grillini sono avvezzi a considerare gli indagati (non appartenenti al proprio partito) come presunti colpevoli, finché non si tramutino in imputati: allora, sono ritenuti colpevoli definitivamente. In minor misura, un simile atteggiamento giustizialista fa presa pure in casa leghista. E una presunzione di colpevolezza, poco costituzionale, ma molto popolare. Senza dubbio attendere l’esito del procedimento penale non consente di offrire a tutti coloro che hanno patito la tragedia, e più in generale alla pubblica opinione, appagamenti immediati. Però individuare spicciativamente un colpevole risponde a criteri di giustizia piazzaiola (con l’apporto di uno, sbrigativo procuratore). E un forcaiolismo da cui dovrebbe rifuggire un ordinario di diritto quale il presidente Conte. Se crollano anche le garanzie di Carlo Nordio Il Messaggero, 17 agosto 2018 Di fronte a tragedie come quella di Genova, la prima reazione è naturalmente soffocata dal dolore, ispirata dalla solidarietà e confortata dalla preghiera; poi interviene lo sgomento e una sorta di incredulità; infine, subentra la rabbia e la ricerca dei responsabili. Quest’ultimo riflesso emotivo è ormai consueto anche davanti alle calamità naturali. Persino la devastazione dello tsunami fu attribuita, da alcune anime candide, all’inavvedutezza di chi aveva costruito lungo i litorali. Davanti alle catastrofi, è quasi rassicurante pensare che esista una colpa altrui, perché essa ci illude di essere meno esposti agli imprevisti della Natura. Se però questa attitudine, che Manzoni ha spiegato assai bene, è comprensibile tra la gente comune, lo è assai meno tra gli intelletti riflessivi, e non lo è affatto tra chi è investito di cariche pubbliche e istituzionali. Mentre ora purtroppo, sta accadendo proprio questo. Cominciamo dalla Giustizia penale. Il procuratore di Genova ha detto che nessuno può parlare di fatalità, perché si tratta di errore umano. È un’affermazione plausibile ma affrettata, perché nessuno conosce, per ora, le cause del crollo. Peraltro, il magistrato ha doverosamente chiarito che ad oggi nessuno è indagato, e íl fascicolo è aperto contro ignoti. E questo è ovvio. La responsabilità penale è personale, e non può essere attribuita a società, ad aziende, o a individui genericamente indicati per categorie. Possiamo concludere che sarà un’impresa lunga e difficile, perché eventuali vizi di progettazione e di esecuzione risalirebbero ai decenni passati, e in teoria avrebbero anche potuto essere occulti, cioè non rilevabili. I processi analoghi, dal Vajont in poi, dimostrano che dopo varie consulenze, perizie e dibattimenti non sempre emerge una verità soddisfacente e conclusiva. Poi c’è la responsabilità civile. I danni - immensi - non saranno tutti coperti da assicurazione, e la società concessionaria sarà certamente chiamata a risponderne, anche se bisognerà dimostrarne la colpa. Forse è questo pericolo, più che la minaccia di revoca delle concessioni, ad aver agitato i mercati e determinato le flessioni dei titoli quotati. Ma anche qui, sarà necessario attendere il responso della magistratura. Infine c’è questo proclama di revoca. Ed è questo il punto dove l’atteggiamento del governo è sembrato incauto ai limiti dell’avventura. Non perché sia errato il principio che, se vi è stata negligenza o imperizia i responsabili non debbano pagare fino in fondo. È quasi banale dire che questi accertamenti vanno fatti, e con la massima celerità. Ma perché le concessioni, e le revoche, sono disciplinate da accordi e procedure rigorose, dove un passo sbagliato può provocare richieste di penalità e risarcimenti che potrebbero costar cari alla collettività, e comunque provocherebbero contenziosi lunghi e complessi. Non solo: potrebbero paralizzare quelle stesse attività di manutenzione e ricostruzione che sono più che mai necessarie ed urgenti. Ed è singolare che un governo, presieduto da un illustre giurista di diritto civile, che conosce questa materia meglio di chiunque altro, si sia esposto così frettolosamente con dichiarazioni che avrebbero richiesto una ben maggiore cautela. Da ultima, un’osservazione complessiva. Eventi così drammatici sono fortunatamente rari, ma non accadono solo da noi. Deragliamenti e scontri di treni, collassi di strutture e altri disastri si verificano anche nei paesi più avanzati: negli Stati Uniti quasi cinquantamila ponti presentano carenze strutturali, e i crolli sono, statisticamente, più numerosi che in Italia. Eppure soltanto qui, ad ogni disgrazia, si diffonde l’allarme che l’intero Paese è a rischio, che le strutture sono obsolete e che tutte queste tragedie erano, come si dice, annunciate. È un biglietto da visita, anche per gli stranieri, non solo fasullo e taroccato, ma pericolosamente funesto per la nostra immagine e per la nostra economia. Una compiaciuta autoflagellazione espiatoria opposta, ma simmetrica e significativa, rispetto alla spietata caccia all’untore di cui parlavamo all’inizio. A caccia del capro espiatorio, il governo emette la sentenza di Michele Prospero Il Manifesto, 17 agosto 2018 Populismo Penale. La revoca immediata della convenzione ad Autostrade - che faceva affari con la vecchia politica - è per soddisfare il genuino desiderio di vendetta sprigionato dalla gente. Dinanzi alla tragedia di Genova il governo approfitta dei cadaveri e delle macerie ancora calde per sperimentare gli effetti del populismo penale per colpire il pubblico e scatenare le emozioni più regressive. Un tempo si distingueva tra la comunicazione istituzionale e la comunicazione politica. Le istituzioni, in conformità alla logica funzionale propria di autorità pubbliche chiamate a svolgere compiti di governo con ricadute dai risvolti generali, avrebbero dovuto parlare il linguaggio della sobrietà, fornire un’informazione rigorosa per lasciare invece alla politica il momento della contesa, da affrontare con il tempo della amplificazione retorica. Questa demarcazione è crollata perché il populismo di governo semplifica, manipola, spaccia illusioni e non concepisce neppure l’idea di una autonoma funzione affidata alla copertura del ruolo istituzionale. Non esiste alcun codice specifico delle istituzioni per chi riduce il governo a pura comunicazione, infondata è poi ogni pretesa di autonomia dei saperi, delle competenze. Tutto ciò che resta delle differenziazioni funzionali tipiche di una società complessa, deve chinarsi dinanzi al codice della politica, che è poi in sostanza il chiacchiericcio dell’antipolitica che predica il verbo insulso per cui uno vale uno. Dai vaccini alle questioni della tecnica delle costruzioni, dai numeri delle statistiche alle tragedie pubbliche, il governo ricorre alla neolingua populista della banalizzazione ad oltranza, della caccia al capro espiatorio, della guerra al nemico occulto che ostacola l’ansia di giustizia. Il quartetto al potere che a Genova si è presentato dinanzi ai media, composto dal presidente del consiglio, con a fianco i suoi due vice e il ministro dei trasporti, intende affrontare l’emergenza con la simulazione di una veloce volontà di punire. La tragedia reale si tramuta in commedia, con il governo che recita secondo lo spartito dopato del populismo per risultare accattivante anche in un contesto così macabro. L’avvocato degli italiani accantona ogni separazione dei poteri. Giocando al tempo stesso il ruolo di accusatore implacabile e la parte di giudice inflessibile, annuncia che il colpevole è stato già scovato. Il governo del cambiamento, senza alcun bisogno di attendere accertamenti, risultanze di inchieste, perizie tecniche, ha avviato le procedure per la revoca sommaria delle concessioni alla società che gestisce le autostrade in combutta con la vecchia politica. Il professore di diritto privato che guida l’esecutivo dimentica le nozioni più elementari vigenti in materia contrattuale e trascende i cavilli nascosti nelle pieghe dei regimi delle concessioni. Lo fa per poter vendere al pubblico distratto la sensazione di una energica battaglia in corso contro il tempo e le forme per soddisfare il genuino desiderio di vendetta sprigionato dalla gente. Il ministro Salvini è l’espressione più eclatante della degenerazione della comunicazione istituzionale in alluvionale e ossessiva propaganda permanente alla ricerca di un nemico da smascherare. Con i grigi rapporti formali del Viminale sostituiti da tweet coltivati ad arte quali postmoderni surrogati dei manganelli, egli ha aggiunto alle venature di populismo penale dei suoi colleghi anche un tocco di gretto materialismo padano rivendicando per un giorno l’esonero dal pagamento dei pedaggi sulle autostrade. Le speculazioni più sfrenate, studiate come momenti di un marketing del macabro utile per trarre qualche consenso anche nel momento del dolore, e il vile denaro sottratto ai caselli evocato come risarcimento in contanti del nano-capitalista nordico sempre oppresso dallo Stato fiscale, rivelano l’assoluta nullità della classe (anti) politica al potere. Un nulla pericoloso, però. Che trasferisce il codice dissolutivo del populismo in ogni cosa complessa e quindi determina una deriva nichilistica. Invece di una critica radicale dell’ideologia quasi trentennale delle privatizzazioni, e della cieca distruzione di ogni governo pubblico dell’economia, il populismo celebra gli effetti miracolosi della flat tax ovvero dell’ulteriore riduzione delle risorse dello Stato già minimo. Rita Borsellino. L’intransigenza e la gentilezza contro la mafia di Attilio Bolzoni La Repubblica, 17 agosto 2018 Così dolce e così intransigente, all’apparenza - solo all’apparenza -fragile, sempre con un filo di voce, sensibile, delicata. Eppure questa donna è riuscita a non far salire nella sua casa un presidente del Consiglio che voleva entrarci, che voleva proprio da lei “suggerimenti” su come sconfiggere le mafie in Italia. Era l’autunno del 1994, due anni dopo le stragi, due anni dopo l’uccisione di suo fratello Paolo, due anni dall’inizio della sua nuova vita. Quel premier, al tempo amatissimo dalla stragrande maggioranza degli italiani, era Silvio Berlusconi ed era andato sotto la sua abitazione - a Palermo, in via Mariano D’Amelio, la stessa strada dove i mafiosi e i loro complici fecero saltare in aria il procuratore - suonando il campanello e confidando in una calorosa accoglienza. Ma Rita Borsellino, che era costretta all’immobilità per una frattura a un piede, lo respinse con cortesia ed educazione. Donna di principi, donna di coraggio, lontana dai compromessi e schietta a qualunque costo. La sua seconda esistenza è iniziata in una domenica d’estate di tanto tempo fa. “Sono rinata il 19 luglio del 1992”, ripeteva. Prima farmacista (l’attività ereditata dai genitori), poi simbolo di un’antimafia assai distante da quella ambigua che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni. Nell’arena siciliana si è ritrovata all’improvviso, quando il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Luciano Violante, il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, e don Luigi Ciotti la vollero nella direzione di Libera. Fu una svolta per lei. Sempre in giro per l’Italia, sempre incontri ravvicinati con gli studenti. E al suo fianco, un’altra grande donna: Saveria Antiochia, la madre di Roberto, il poliziotto ucciso nell’agosto del 1985 con il commissario Ninni Cassarà. Sono state loro due, più di chiunque altro, le migliori interpreti degli insegnamenti lasciati dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto con le “lezioni” nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Un quarto di secolo, anno dopo anno, a portare un messaggio di speranza e la voglia di cambiamento in giro per il Paese e poi per l’Europa, ricordando ogni volta il nome di suo fratello Paolo e ricordando ogni volta il mistero della sua morte. A Rita non piacevano le parate, le celebrazioni. Diceva sempre che c’è molta distanza fra commemorazione e memoria, fra retorica e impegno. Era fatta così lei. Con tutto il peso che aveva sulle spalle e quel dolore nel cuore, la strage del 19 luglio del 1992, mandanti occulti e depistaggi di Stato, una verità nascosta e ricercata ostinatamente con i nipoti Manfredi, Lucia e Fiammetta e con il fratello Salvatore. L’antimafia e la politica, la politica per fronteggiare la mafia e le sue contiguità. Quelle che in Sicilia hanno avuto il volto dì Totò Cuffaro, quando lei ha deciso che era il momento di dare un contributo, di candidarsi alle elezioni regionali. Perse. Qualche anno dopo, alle europee fu la più votata nell’isola. La sua voce a Bruxelles. Sempre con quel suo stile, l’eleganza, la gentilezza anche quando interveniva per dire ciò che gli altri non avevano la forza di manifestare. Rita Borsellino se n’è andata senza avere avuto giustizia sino in fondo. Della strage di via D’Amelio sapeva tutto e niente. Non voleva conoscere chi aveva ucciso suo fratello Paolo. Voleva sapere perché. L’eredità che lascia la ‘ndrangheta di Marta Quagliuolo La Repubblica, 17 agosto 2018 Dal 2012 il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha iniziato a emettere provvedimenti di limitazione o decadenza della responsabilità genitoriale decretando l’allontanamento di minori appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata il cui sviluppo psico-fisico risulti pregiudicato. È possibile individuare tre direttrici applicative: la prima riconosce un reale pregiudizio del minore in termini di assuefazione a modelli culturali e comportamentali mafiosi o di coinvolgimento in attività illecite; nel secondo caso la tutela del minore si affianca alla protezione di una persona esposta a un concreto rischio; la terza linea considera l’ipotesi in cui il comportamento criminale del genitore, anche se non direttamente pregiudizievole per il figlio, si traduce in un danno allo sviluppo del minore (prolungata latitanza). I minori sono quindi allontanati dalla Calabria e inseriti in comunità, case-famiglia o famiglie, dove si avvia un progetto personalizzato stilato da assistenti sociali, educatori, psicologi e volontari qualificati. Il periodo di allontanamento, che si conclude al raggiungimento della maggiore età, vuole rappresentare un’occasione per sperimentare esperienze alternative in grado di far scaturire una riflessione sui propri bisogni e desideri. I ragazzi sono inoltre sensibilizzati al tema della legalità e della convivenza civile. Nel momento in cui iniziano a partecipare con serietà alle attività proposte, i minori hanno comunque la possibilità di tornare a casa per brevi periodi: occasione in cui dimostrare l’autonomia acquisita. Le famiglie, quando le circostanze lo permettono, sono informate e coinvolte nelle decisioni prese in merito al percorso educativo dei figli. Il provvedimento ha dunque diversi obiettivi: tenta di spezzare la catena di trasmissione culturale mafiosa e intende costruire dei “buoni cittadini”. Si tratta, al momento, di un esperimento giudiziario fondato sulla valutazione dei singoli casi. Nella mia tesi ho tentato di indagare i primi esiti di questo provvedimento attraverso una ricerca etnografica. Sono stata a Reggio Calabria e a Messina, dove è collocata la Comunità Alloggio “Antoniana” che per prima ha accolto i minori di ‘ndrangheta. Ho raccolto le voci degli “addetti ai lavori” che prendono parte alle decisioni e alla messa in pratica dei percorsi, in ambito giudiziario e in quello dei servizi. Il lavoro non ha voluto fornire un giudizio sui decreti, ma analizzare il funzionamento di una specifica politica dell’infanzia, a partire dal materiale etnografico e dalla sua rielaborazione attraverso la lente antropologica, integrata con riferimenti alla sociologia e alla storia. Lo studio dell’antimafia istituzionale permette di cogliere come e cosa le istituzioni considerino del fenomeno mafioso: mafia e antimafia prendono forma e si influenzano reciprocamente ed è sempre imprescindibile studiarle parallelamente. Parte del mio lavoro si è concentrata sulla lettura critica dei decreti, che ha suscitato una serie di interrogativi sulle scelte lessicali e sui significati di alcune espressioni utilizzate in modo ricorrente, come a esempio: “contesto familiare, territoriale, sociale gravemente pregiudizievole”, “sistema valoriale”, “educazione mafiosa”, “cultura mafiosa” o “subcultura mafiosa”. La cultura e la famiglia di ‘ndrangheta sono diventati i due fili rossi che hanno stimolato e dato coesione alla ricerca. La fenomenologia mafiosa ha delle componenti culturali, mutevoli nel tempo e nello spazio, che sono una forma di strumentalizzazione dei codici culturali delle società tradizionali. Poiché non si nasce mafiosi, è necessaria la trasmissione pedagogica di valori, codici, credenze che costituiscono e danno “senso” all’universo mafioso. È tuttavia importante ricordare che i mafiosi e il resto della società vivono a stretto contatto: gli stimoli, gli incontri, gli interessi e altre variabili dominano la realtà e le scelte dei minori. Ciò significa che il legame di sangue è una condizione sufficiente ma non necessaria per entrare nel mondo della criminalità. La valutazione dei singoli casi è quindi imprescindibile per applicare il provvedimento esaminato. Tutti gli interlocutori hanno espresso la speranza di essere fautori di un cambiamento reale, alimentata dall’ampliamento del fenomeno di collaborazione e denuncia, portato avanti soprattutto dalle donne, le quali desiderano un futuro alternativo per sé e per i propri figli. Il limite riconosciuto nel corso della mia ricerca era la carenza di risorse. Gli sviluppi degli ultimi mesi sembrano aver tuttavia dato ulteriore slancio all’iniziativa. Il 2 febbraio è stato firmato un Protocollo d’Intesa tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Tribunale e la Procura per i Minorenni, la Procura distrettuale di Reggio Calabria e l’Associazione Libera, per creare una solida rete di intervento. Si tratta di un tema attuale e discusso, i cui sviluppi lo rendono materia di continuo interesse. Scarcerato dall’ergastolo ostativo: è libero Musumeci, voce degli “uomini ombra” di Giorgia Pacino La Repubblica, 17 agosto 2018 Provvedimento storico del Tribunale di Sorveglianza di Perugia. Carmelo Musumeci, in carcere dal 1991 per reati di criminalità organizzata, ha ottenuto la liberazione condizionale. Era uno di quei reclusi per i quali il fine pena è fissato al 31 dicembre 9.999. Ergastolo ostativo, si chiama tecnicamente: il termine della detenzione coincide con la durata della vita, essendo negato l’accesso a benefici e misure alternative al carcere. Invece, Carmelo Musumeci, in carcere dall’ottobre del 1991 per reati di criminalità organizzata e da anni voce degli “uomini ombra”, è stato scarcerato. La storica decisione è stata adottata dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia, che ha concesso all’ergastolano la liberazione condizionale. “L’altro ieri ho ricevuto una di quelle telefonate che ti cambiano la vita”, scrive Musumeci sul suo profilo Facebook. “Il numero era quello del carcere di Perugia. Mi avvisano di rientrare in carcere perché devo essere scarcerato”. Musumeci, già da quasi due anni in regime di semilibertà, non dovrà far rientro dietro le sbarre. L’ex boss della Versilia, 63 anni, entrato in carcere con la licenza elementare ne esce con due lauree, una in Giurisprudenza e una in Sociologia. “Non mi risultano altre casi di liberazione condizionale concessi a ergastolani ostativi”, spiega Maria Brucale, avvocato ed esponente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. “Musumeci godeva già della semilibertà da due anni, dopo che i giudici avevano riconosciuto l’inesigibilità della collaborazione. È una notizia meravigliosa, un grido di speranza nel buio”. La legge italiana prevede che chi è condannato all’ergastolo possa avere accesso a una serie di benefici, come il regime di semilibertà e la libertà condizionale, godere di permessi e, una volta trascorsi 26 anni di detenzione, essere ammesso alla liberazione condizionale. Non così di regola per l’ergastolano ostativo, che non ha diritto a benefici penitenziari in assenza di una “condotta collaborante” con la giustizia, tranne nei rari casi in cui venga riconosciuta la cosiddetta “inesigibilità della collaborazione”. La Corte costituzionale ha stabilito infatti che i benefici non possono essere negati se risulta impossibile un’ulteriore collaborazione con la giustizia o se è stato raggiunto un sufficiente grado di rieducazione. Musumeci, autore di L’urlo di un uomo ombra e di altri libri sul tema del fine pena, nel periodo di semilibertà lavorava di giorno in una casa famiglia di don Oreste Benzi. Nei giorni scorsi aveva pubblicato sul suo blog una lettera rivolta al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Il carcere ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore, l’anima e gli affetti che fuori ti sono rimasti. E quelli che riescono a sopravvivere, una volta fuori, saranno peggio di quando sono entrati”, scriveva Musumeci. “Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni senza dirle quando finirà la sua pena. Lasciandola in questa situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e dopo un simile trattamento anche il peggior assassino si sentirà innocente”. Femminicidi: il magistrato non sia un burocrate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2018 Il magistrato titolare del procedimento sulle violenze subìte da una donna non deve essere un burocrate. Ma deve attivarsi, coinvolgendo anche i colleghi, per evitare che la situazione si aggravi. La Corte di cassazione (sentenza 20355) ha respinto il ricorso di un sostituto procuratore, sanzionato, dalla commissione disciplinare del Csm, con il “taglio” di due mesi di anzianità per non aver fatto in modo che il responsabile di ben tre aggressioni, in quattro mesi, ai danni della compagna, finisse in carcere invece di restare agli arresti domiciliari. La donna era stata uccisa dal suo convivente malgrado lo avesse più volte denunciato per maltrattamenti. Il magistrato si era limitato, ricevute le informative, ad avvisare l’indagato della chiusura delle indagini preliminari a suo carico per il reato di lesioni aggravate. Troppo poco per l’organo di autogoverno dei giudici, secondo i quali la toga con il suo comportamento aveva creato un danno ingiusto alla vittima e leso il prestigio della magistratura. Di fronte ad un quadro allarmante la toga avrebbe potuto e dovuto evitare l’escalation violenta, facendo in modo che per l’aggressore si aprissero le porte del carcere. Il passo in più da fare, oltre i semplici adempimenti di routine, era quello di informare il procuratore aggiunto e il collega assegnatario del fascicolo per sollecitare l’adozione della misura cautelare più grave. Azioni che si imponevano nell’ambito di una procura nella quale era stato costituito un pool dedicato alle violenze in famiglia, che presupponeva uno scambio di informazioni all’interno del gruppo. Anche se alla toga finita nel mirino del Csm, non competeva direttamente il compito di assumere iniziative cautelari, avrebbe dovuto fare di più, calibrando le sue azioni sulla gravità del caso. E che la violenza sulle donne sia un problema drammatico è dimostrato dai numeri resi noti ieri dal Viminale. A fronte di un trend in calo dei reati in Italia, come conferma il ministero dell’Interno, c’è il dato inquietante che riguarda il femminicidio. Nel periodo dal 1 agosto 2017 al 31 luglio 2018, se gli omicidi diminuiscono (da 371 a 319, il 16,3% in meno), le donne sono state vittime del 37,6% degli 319 omicidi volontari e, in particolare, del 68,7% dei 134 omicidi maturati in ambito familiare/affettivo. Ad “armarsi” nell’89,6% dei casi é il partner, l’ex partner (l’85,7%) o un altro familiare (58,6%). E troppo spesso il grido di aiuto delle vittime resta inascoltato e finisce con un grande silenzio. Niente truffa per il debitore che rassicura il creditore e poi non paga di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2018 Corte d’Appello di Lecce - Sezione penale - Sentenza 28 marzo 2018 n. 93. Le rassicurazioni fornite al creditore sulla regolarità dei pagamenti da parte di un debitore, già mostratosi insolvente, non integrano la condotta ingannatoria del delitto di truffa. Difatti, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti dei tempi e delle modalità di pagamento, rispetto a quanto inizialmente concordato con l’altra parte, può configurare il reato di truffa soltanto se sussistano condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto. In mancanza di una condotta decettiva si configura, invece, solamente un inadempimento civilistico. Questo è quanto emerge dalla sentenza 93/2018della Corte d’appello di Lecce. Il caso - La vicenda penale sorge a seguito della querela presentata da un imprenditore nei confronti di un suo cliente, il quale aveva commissionato dei lavori di impiantistica presso un capannone industriale in corso di costruzione, senza però procedere al pagamento secondo le modalità concordate. In particolare, dopo il versamento di alcuni acconti, il committente non era più in grado di rispettare gli impegni presi, al punto da indurre l’impresa ad interrompere i lavori. Tuttavia, a seguito di ampie rassicurazioni sulla propria solvibilità e sulla possibilità di effettuare il regolare pagamento dei lavori, il committente convinceva l’imprenditore a completare le opere, senza però riuscire a mantenere le promesse di pagamento. Di qui la denuncia e il processo penale per truffa, che si concludeva però con assoluzione dell’imputato per l’insussistenza nella condotta del dolo iniziale, necessario per integrare l’ipotesi della truffa contrattuale. La decisione - Tale verdetto viene poi confermato anche in appello, nonostante il tentativo dell’imprenditore, costituitosi parte civile, volto a mostrare l’intenzione iniziale del suo committente di non provvedere correttamente al pagamento concordato. La Corte d’appello non ha dubbi: si tratta di un semplice inadempimento civilistico, posto che il comportamento dell’imputato non è qualificabile come artificio o raggiro e, perciò, non rileva ai fini del reato previsto dall’articolo 640 c.p.. Nello specifico, precisano i giudici, il committente si è limitato a fornire rassicurazioni circa il corretto pagamento dei lavori e ciò non è sufficiente a integrare quella condotta decettiva volta a trarre in inganno l’imprenditore e idonea a generare un danno con correlativo ingiusto profitto. Ciò vale se si considera, a maggior ragione, che lo stesso committente già si era mostrato poco affidabile nel pagamento degli acconti previsti per la realizzazione delle stesse opere impiantistiche. In altri termini, chiarisce il Collegio, l’imprenditore aveva già sospeso i lavori in attesa di ricevere le somme pattuite per le opere già realizzate e, ciononostante, si era determinato a “riprendere e completare i lavori medesimi, a seguito delle richieste insistenti della parte committente, che assicurò di riuscire ad adempiere il proprio debito”. E dunque, nel momento della ripresa dei lavori, l’imprenditore era già in credito con il committente e le rassicurazioni fornite da quest’ultimo non potevano di certo avere alcuna efficacia ingannatoria, posto che lo stesso imprenditore “era consapevole di operare con una controparte mostratasi già insolvente”. Appalti, confini ancora labili per gli illeciti professionali di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 20735/2018. Gli appalti di opere, servizi e forniture si vincono con le offerte migliori, ma a condizione che non si siano stati commessi precedenti errori. Un crollo, anche senza conseguenze drammatiche, può quindi far escludere motivatamente un imprenditore da successive gare pubbliche, anche in attesa di accertamenti della magistratura (Consiglio di Stato, 4999/2006; Tar Torino,303/2012). Accantonando i riferimenti a recenti eventi, il meccanismo è comunque complesso, ed è descritto nell’articolo 80 del codice appalti (Dlgs 50/2016); su questa norma è anche in corso una consultazione ministeriale (si veda il Sole 24 Ore del 10 agosto), a seguito di contrasti tra Anac e giurisprudenza. Un’esclusione da gare può ad esempio avvenire per “gravi illeciti professionali” o per “gravi errori”, tenendo presente, da un lato, che esiste uno specifico casellario di questi errori (gestito dall’Anac, articolo 213 del codice) e, dall’altro, che spesso sono le altre imprese concorrenti ad essere più aggiornate del casellario pubblico. Accade così che, a gara avanzata, giunga alla stazione appaltante la notizia di un precedente grave errore commesso dall’impresa potenzialmente aggiudicataria, con conseguente possibile esclusione dell’impresa stessa per due motivi: il primo, relativo all’esistenza ed alla gravità dell’errore professionale non dichiarato; il secondo, relativo alla sola reticenza ed opacità dell’impresa, sanzionando cioè la circostanza che l’impresa non abbia confessato l’esistenza di un precedente proprio errore. Ad esempio, in una gara del maggio 2018, relativa al rifacimento di un campo di atletica, un Comune aveva individuato l’offerta economicamente migliore, senza farsi condizionare da una precedente risoluzione di contratto disposta, a carico dell’impresa offerente, da altro committente pubblico: ma con ordinanza Tar Torino (27 luglio, n. 31), l’aggiudicazione è stata sospesa perché il concorrente avrebbe dovuto dichiarare tutti i provvedimenti astrattamente idonei a porne in dubbio l’integrità o la sua affidabilità, anche se non ancora inseriti nel casellario informatico. Inoltre - osserva il Tar - è rimesso alla stazione appaltante il giudizio in ordine alla rilevanza in concreto dei comportamenti accertati ai fini dell’esclusione, e l’impresa che non dichiari una possibile causa di esclusione va estromessa, applicando l’articolo 80, comma 1, lettera f-bis del codice (cioè per dichiarazione non veritiera sull’assenza di cause di esclusione). Questa ordinanza del Tar Piemonte collima con l’orientamento dell’Anac, che impone trasparenza ai concorrenti. Un avviso diverso è tuttavia espresso dal Consiglio di Stato (sentenza 2 agosto, n. 4790), che dà meno peso alla direttiva Anac: secondo i giudici, nè l’Autorità nè la magistratura possono colmare lacune presenti in bandi di gara e in conseguenza, se il bando non impone espressamente di confessare precedenti gravi illeciti, non opera alcuna causa di automatica esclusione. Diventa quindi urgente che, revisionando l’articolo 80 del codice appalti, si chiarisca fino a che punto le imprese devono dichiarare i propri insuccessi professionali. Lodi: il suicidio di Raimondo, in carcere senza un aiuto psicologico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 agosto 2018 Opera Radicale a Ferragosto nell’istituto dove domenica un detenuto si è tolto la vita. “Il carcere è un sistema complesso. Quando viene a mancare uno o più degli elementi e delle figure, fondamentali, che lo compongono, collassa”. Così Mauro Toffetti, presidente dell’associazione Opera Radicale, cristallizza le problematiche riscontrate nel carcere di Lodi. Una delegazione del Partito Radicale, con Simona Giannetti, Paola Maria Gianotti, Luca Arosio e lo stesso Mauro Toffetti, organizzata da Opera Radicale, ha fatto visita al carcere nel giorno di Ferragosto. Proprio nel penitenziario dove, domenica notte, si è ucciso un detenuto. È una dei componenti della delegazione radicale, l’avvocata Simona Giannetti, a raccontare a Il Dubbio gli eventi che avrebbero portato al suicidio Raimondo Cristiano. “Scendendo al piano terra - spiega l’avvocata Giannetti -, arriviamo davanti alla cella numero 9, sulla cui serratura si trova la striscia adesiva rossa, che appone i sigilli alla porta di ferro. “Era la cella di Raimondo Cristiano, che domenica sera nella doccia si è tolto la vita”, così ci dice il suo concellino”. Alla delegazione di Opera Radicale, l’ex compagno di cella aggiunge anche che Armando era un uomo schivo, che parlava poco, aveva una fidanzata molto più giovane di lui che lo andava a trovare ad ogni colloquio, mentre quelli con la famiglia erano più sporadici. Raimondo avrebbe appreso della sentenza di condanna ad 8 anni di reclusione per associazione dedita allo spaccio di hashish stando in cella: l’ispettore conferma alla delegazione che decise di non andare a Trieste e di rinunciare a comparire all’udienza. “La spiegazione che cercano di fornire i detenuti - prosegue la radicale Simona Giannetti, che vogliono parlarci di lui, è per lo più legata all’inatteso esito del processo: “Non si aspettava una condanna ad 8 anni’, ci dicono tutti”. L’ispettore che guida la delegazione, alle domande risponde che non si dà spiegazioni, ma aggiunge che il sabato, il giorno prima del tragico fatto, Armando aveva incontrato a colloquio la fidanzata e sembrava averle detto che voleva lasciarla perché lei era giovane e la sua vita futura era invece stata segnata da quella sentenza. “Anche se gli altri detenuti confermano che l’avvocato aveva cercato di dargli un prospettiva - racconta sempre Giannetti -, confermandogli che ci sarebbe stato l’appello, per Armando, dicono i suoi compagni di detenzione, 8 anni erano forse troppi per non sentirsi disperato”. Ogni suicidio ha dietro una storia a se, ma tutto rientra nella drammaticità della reclusione, l’esisto delle condanne, il buio che uno si ritrova di fronte e anche la perdita degli affetti. Strazi che forse potrebbero attenuarsi con l’aiuto di figure come uno psicologo o uno psichiatrica. Il carcere di Lodi - problema che riguarda tutte le carceri italiane - non ne ha a sufficienza. Quando i componenti di Opera Radicale chiedono se ci sia una sezione per la psicopatia, oltre al presidio medico presente stabilmente con un medico e un infermiere ogni giorno fino alle 20.00 di sera, viene spiegato che lo psichiatra è previsto solo un giorno a settimana. I detenuti che volessero un sostegno psicologico dovrebbero mettersi in lista per il colloquio e attendere una settimana nel caso la necessità insorgesse proprio nel giorno successivo al turno. “Questa non può che considerarsi una grave criticità - racconta sempre Giannetti, ancor più evidente quando veniamo a sapere che, non disponendo il carcere di una sezione per detenuti con psicopatie, un giovane schizofrenico è costretto suo malgrado, perché vorrebbe stare da solo, a condividere la cella con altro detenuto in regime non attenuato e senza un costante sostegno psichiatrico”. Continuando il giro dei tre piani su cui si sviluppa la struttura, certamente vecchia ma non fatiscente, la delegazione approda alla sezione aperta: i detenuti sono in parte definitivi, un metà, per la maggior parte in esecuzione di pene che si aggirano attorno ai tre o quattro anni. Sorge il dubbio del funzionamento delle misure alternative, laddove molti di loro potrebbero essere già in affidamento o in detenzione domiciliare e invece sono in attesa dei lunghi tempi di fissazione dell’udienza al Tribunale di Sorveglianza. Alla domanda posta dalla delegazione radicale sulla frequenza dei colloqui con il Magistrato di Sorveglianza, gli sguardi non sono rassicuranti e qualcuno risponde con schiettezza: “Il Magistrato non lo vediamo mai”. Psicologo e Magistrato di Sorveglianza sono i grandi assenti, ma anche le figure chiave per un’esecuzione della pena secondo dignità e in funzione rieducativa. Reggio Calabria: c’è un posto dove vittime e “carnefici” s’incontrano... di Riccardo Tripepi Il Dubbio, 17 agosto 2018 L’Ufficio per la Giustizia Riparativa aperto a Reggio Calabria. È intitolato a Nelson Mandela l’ufficio per la giustizia riparativa aperto nel cuore di Reggio Calabria, all’interno di un bene confiscato alla criminalità dal valore simbolico assai forte. Sul campanello di quella che è divenuta la sede del Mandela’s Office si legge ancora il nome dell’avvocato Paolo Romeo, al centro del processo Gotha che ha visto finire sotto accusa anche l’ex senatore Antonio Caridi. “Serve cambiare la simbologia di Reggio che deve diventare positiva per l’effetto di una rivoluzione culturale” ha detto il sindaco Giuseppe Falcomatà al momento del taglio del nastro. L’immobile in cui sorge il nuovo ufficio fa parte dell’immenso patrimonio immobiliare confiscato al “re dei videopoker” Gioacchino Campolo. Il garante dei diritti dei delle persone private della libertà del Comune di Reggio Calabria, Agostino Siviglia ha spiegato come l’avvio dell’ ufficio per la giustizia riparativa, attivo fino ad oggi soltanto in una ventina di città italiane, rappresenti una grande opportunità per la città anche in considerazione dell’impegno inter-istituzionale che ha portato alla sua realizzazione sulla quale c’è stata anche la benedizione dell’Agenzia dei beni confiscati e del ministro della Giustizia che ha mandato un messaggio di saluto in occasione della cerimonia di apertura, dando risalto dell’operato svolto in riva allo Stretto anche sul sito del Ministero. “Chi ha commesso rati è giusto che paghi il suo debito con la giustizia, ma anche che abbia l’opportunità di potere cambiare vita e fare una scelta di vita positiva. Le Istituzioni devono contribuire a custodire un diritto alla speranza per chi il reato lo ha subito, ma anche per chi il reato lo ha commesso per consentirgli di cambiare vita”. E del resto proprio nella stessa realizzazione del Mandela’s Office c’è una storia di giustizia riparativa. Gli uffici sono stati ristrutturati e rimessi a nuovo da alcuni detenuti del carcere di Arghillà che hanno chiesto di essere inseriti in programmi di lavoro proprio con l’idea di riparare in qualche modo i torti che hanno fatto alla Comunità. “Il Comune ha fatto partire questo percorso due anni fa - ha spiegato ancora Siviglia - attivando la possibilità prevista all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario e coinvolgendo 14 detenuti che sono stati impegnati nella cura del verde pubblico, nella manutenzione di alcuni siti archeologici e in altre attività di pubblica utilità”. Si tratta di colpevoli di reati comuni, per la gran parte, ma anche in un caso di un soggetto condannato per omicidio che dopo aver scontato dieci anni di reclusione ha iniziato a voler riparare il male fatto in precedenza. I lavori vengono svolti a costo zero per l’Amministrazione comunale che pasa soltanto i contributi Inail e garantisce il trasporta da e per la casa circondariale di Arghillà. Il racconto degli incontri del Mandela’s Office “Così il rapinatore ha aiutato la rapinata a superare il trauma”. A vigilare sulla realizzazione del Mandela’s Office anche una delle massime esperte in Italia nell’ambito della giustizia riparativa. Si tratta di Isabella Mastropasqua del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, nonché responsabile per la giustizia amministrativa. “L’Ufficio di Reggio Calabria non nasce dal nulla - spiega Isabella Mastropasqua - ma al termine di un percorso cominciato otto anni fa. Purtroppo la scorsa legislatura si è chiusa senza una legge sulla giustizia riparativa, ma al momento esistono ottime prassi dalle quali si può prendere spunto di attesa che si arrivi a legiferare sul tema”. Secondo Mastropasqua è assai significativo che un ufficio del genere si apra a Reggio Calabria “una città assai difficile in cui spesso si interrompono i rapporti tra i cittadini e lo stato di diritto e il conflitto sociale è difficile da gestire. Ecco uffici del genere servono per trovare spazio al conflitto e, attraverso l’attività di mediazione, sua risoluzione. Uno spazio di ascolto che serve a ricostruire legami sociali e di appartenenza”. È ovvio che per funzionare l’ufficio abbia necessità della volontà di superare il conflitto sia dell’autore del reato che della vittima dello stesso. Complicatissimo in alcuni casi, anche se la volontà del solo autore di riparare, senza l’accordo della vittima, può trovare sbocco in attività di riparative a vantaggio della Comunità. Come quelle che hanno portato diversi detenuti a lavorare anche alla ristrutturazione del Mandela’s Office. Tra i casi più significativi in Calabria che hanno avuto esito positivo in mediazione, sicuramente quello di Giuseppe (nome di fantasia), minore diventato un noto writer cittadino e dedito a imbrattare muri e monumenti con disegni e scritti di quella che lui ha definito “controcultura” durante gli incontri di mediazione avvenuti con i rappresentanti dell’Amministrazione comunale. Dopo diversi incontri Giuseppe ha non solo manifestato la volontà di riparare il danno prodotto, ma anche di impegnarsi in attività in favore della Comunità e l’Amministrazione lo ha impiegato in attività di sorveglianza per le mostre che si sono svolte all’interno del Castello Aragonese. C’è poi il caso del giovane adulto Roberto (nome di fantasia) che si è reso autore di una rapina a mano armato in banca. Evento che ha provocato un forte trauma di natura psicologica nell’impiegata che in quel momento stava lavorando allo sportello. In un primo momento, nonostante la volontà espressa dall’autore del reato, la vittima ha rifiutato di partecipare agli incontri di mediazione. Nel momento in cui si è convinta, però, è stata proprio la vittima a ricevere i maggiori benefici dall’incontro. Ascoltare le ragioni e il pentimento dell’autore del reato hanno in qualche modo attenuato il trauma psicologico che aveva richiesto un trattamento medico nei mesi precedenti. Stesso risultato si è avuto con i due giovani adulti che si sono resi autori di una rapina in un tabacchino con tanto di passamontagna. Anche in questo caso la mediazione ha avuto effetti benefici non solo sull’autore del reato, ma anche sulla psicologia della vittima. “C’è molto da lavorare - spiega ancora Mastropasqua - in quanto la giustizia riparativa deve entrare a far parte della nostra cultura. Va specificato però che non si tratta di prassi che incidono in alcun modo sulle pene che sono state inflitte ai singoli autori. Accanto alla pena viene concessa questa seconda opportunità di provare a rientrare in società e di riannodare i rapporti con le persone offese. Quando ciò si realizza le assicuro che i benefici si vedono eccome anche nel soggetto che è la persona offesa dal reato”. Salerno: “detenuti martoriati”, sit-in dei Radicali davanti al carcere di Fuorni ottopagine.it, 17 agosto 2018 Salzano: “Sos per lo stato di diritto di chi è rinchiuso”. “Nel giorno di ferragosto, a partire dalle 10:30, si è tenuto un sit-in di lotta nonviolenta davanti al carcere di Fuorni dei militanti del Partito Radicale di Salerno per la difesa dei diritti umani, lo stato di diritto e il diritto umano e civile alla conoscenza, contemporaneamente alle visite di Rita Bernardini a Rebibbia e di oggi a Regina Coeli. Il ferragosto con e per Marco Pannella, come sempre solitari e in pochi, pochissimi affianco e vicini a questa umanità dolente e martoriata”: comincia così la nota stampa a firma di Donato Salzano, attivista radicale e da sempre in prima linea nella difesa dei diritti dei detenuti. “Da oltre un sessantennio lo Stato italiano continua fraudolentemente a violare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Costituzione repubblicana. Quest’ultimi arrivati hanno smantellato la “Riforma Giostra” perché cominciava lentamente ad invertire il senso di marcia verso l’auspicata transizione allo stato di diritto, che a partire dal carcere appendice illegale di un processo penale altrettanto illegale, cominciava ad impedire alla ragion di Stato e di partito di far ancor strage di diritto e di popolo. Mayday! Mayday! Sos stato di diritto!”, l’allarme lanciato dai radicali salernitani. “Dai buoni a nulla ai capaci di tutto, ma proprio di tutto, perfino di sostituire il principio della presunzione d’innocenza con la infame presunzione di colpevolezza, ciò nonostante loro non smettiamo di continuare ad essere speranza per darne ad altri, come Paolo nella lettera ai romani con il suo “Spes contra spem” tanto amato da Marco Pannella. A Fuorni e in tutte carceri italiane siamo oltre il collasso, siamo al mayday continuo minuto per minuto, siamo all’sos per lo stato di diritto e i diritti umani. Il mio è un appello ai credenti e ai credenti in altro, a tutte le donne e gli uomini di buona volontà. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”, conclude Salzano citando il vangelo di Matteo. Napoli: detenuto in sciopero della fame da due settimane, chiede trasferimento per curarsi cronachedellacampania.it, 17 agosto 2018 Il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello si è recato nella mattinata di ieri, insieme a due persone del suo staff, a fare una visita “ispettiva” nel carcere napoletano di Poggioreale. Ha visitato i padiglioni Avellino, Firenze, Genova e Roma. “Visitando il bagno della cella, nel padiglione Avellino, dove recentemente si è tolta la vita uno dei tre detenuti suicidi di Poggioreale ho provato un senso di angoscia e di profonda amarezza, personale prima di tutto ma anche per il ruolo istituzionale che ricopro. Nello stesso padiglione tra gli altri detenuti ho voluto parlare lungamente con Gennaro G. di Casoria che da tredici giorni è in sciopero della fame perché non riesce ad avere un trasferimento in un altro carcere dove può essere curato meglio - racconta Ciambriello. Gli ho chiesto un gesto di responsabilità per se e per i suoi cari e gli ho offerto la mia disponibilità a seguire il suo caso”. Accompagnato dalla vicedirettrice Anna Laura De Fusco, il garante ha visitato, dopo il padiglione Avellino di alta sicurezza, dove sono rinchiusi 212 detenuti, anche il padiglione Firenze che accoglie i detenuti che entrano per la prima volta in carcere, e dove in stanze da sei, sette otto persone sono rinchiusi 309 detenuti. E poi il padiglione Roma, dove sono presenti trans, tossicodipendenti e i detenuti per reati sessuali, complessivamente 255 persone e il nuovo padiglione Genova dove “colpisce vedere una stanza divisa in zona notte e zona giorno, con due, tre, posti letto soltanto e un bagno dotato di tutti i servizi. Solo qui sono stati fatti dei passi in avanti per superare elementi patologici, ma restano ancora troppi padiglioni invivibili”, dice il Garante Ciambriello. A Poggioreale oggi erano presenti 2264 detenuti su una capienza di 1659 posti. Una condizione di sovraffollamento che per il Garante riguarda tutta la Regione, perché nella 15 carceri campane vi sono 7410 detenuti su una capienza complessiva di 6161 posti. “Si possono coniugare dignità e sicurezza, ma il sovraffollamento - conclude - decine di detenuti per stanza e con un bagno in precarie condizioni, mi inducono a ritenere che Poggioreale sia una questione nazionale. Meno celle, più spazi di socialità. Più assistenza sanitaria. E meno male che tante iniziative, tanti volontari, tante figure di agenti penitenziari riducono sia il numero dei suicidi che dei gesti autolesionistici. Anche le condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Poggioreale sono più che critiche. Occorrono percorsi di reinserimento e di alternativa alla inutile centralità del carcere per certi reati. Occorre discutere, senza demagogia, delle forme e dei modi della decarcerizzazione necessaria”. Trapani: nella Valle del Belice la giustizia è un chicco di grano maturo di Laura Bellomi Famiglia Cristiana, 17 agosto 2018 Su terreni confiscati alla mafia, in provincia di Trapani, la cooperativa Rita Atria produce anche olive Dop, arance, meloni gialli, ceci e lenticchie. Gli alberi tornano a vivere, le colture cominciano a dare frutto e i terreni diventano produttivi. È un intero paesaggio a cambiare fra i Comuni di Castelvetrano, Paceco, Partanna e Salemi, nella Valle del Belice in Sicilia. Qui, su terreni confiscati alla criminalità organizzata, dal 2014 è attiva la cooperativa sociale Rita Atria Libera Terra. “All’inizio ci siamo adoperati per riqualificare il terreno, espiantando e potando le piante ormai abbandonate e mettendone a dimora di nuove”, dice Vito Mazzara, 33 anni, agronomo e presidente della cooperativa. A Partanna viveva Rita Atria, giovane testimone di giustizia che, dopo aver denunciato il sistema mafioso del suo paese, a 17 anni si tolse la vita: era il 1992 e l’omicidio del giudice Paolo Borsellino, che l’aveva sostenuta nella ricerca della giustizia, significò per lei la fine della speranza. Oggi la Rita Atria Libera Terra mantiene viva la sua memoria dando un’opportunità di crescita al territorio e a chi lo abita. Campì pianeggianti e lievi colline: qui si producono olive Dop “Nocellara del Belice”, melone giallo, grano, ceci e lenticchie, “culture tipiche del territorio praticate secondo i principi dell’agricoltura biologica per rispetto dei lavoratori, della terra e dei consumatori”, spiega ancora Mazzara. Negli anni il numero dei lavoratori coinvolti è aumentato fino ai 12 attuali. “Siamo una cooperativa di tipo B, fra dì noi ci sono cinque persone svantaggiate. Creiamo opportunità occupazionali e cerchiamo di far lavorare le attività locali: in questo modo dimostriamo che c’è un’alternativa giusta, sana ed equa al sistema mafioso”. L’utile viene reinvestito nei terreni che, nel tempo, daranno sempre più frutto. “L’olivo è un albero secolare, le piante che abbiamo messo a dimora con l’avvio della cooperativa diventeranno produttive fra cinque anni. Ci vuole pazienza, ma siamo convinti che riqualificare un bene coinvolgendo soggetti svantaggiati abbia un grande impatto sociale”, prosegue ancora l’agronomo. Sostenibilità sociale, economica, ambientale e culturale: la sfida per questo Sud che vuole rilanciarsi è impegnativa. “Intraprendere cambiamenti culturali è un mezzo per far conoscere un altro modo dì esistere, quindi aprire la possibilità della responsabilità personale: quando l’alternativa c’è, ciascuno può decidere da che parte stare”, chiude Valentina Fiore, amministratrice delegata del Consorzio Libera Terra Mediterraneo, nove cooperative sociali nelle regioni Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, fra cui appunto la cooperativa Rita Atria. “La nostra è una battaglia politica: le imprese che lavorano sui beni confiscati hanno a cuore lo sviluppo collettivo”. Ancona: orto sociale in carcere, festa con le famiglie grazie ai cocomeri dei detenuti interris.it, 17 agosto 2018 Ferragosto speciale per i 40 aderenti al progetto che hanno passato la giornata con le famiglie. Hanno potuto riabbracciare i loro familiari grazie ai cocomeri. Un Ferragosto speciale per i quaranta detenuti del Barcaglione di Ancona che hanno deciso di aderire al progetto “Orto sociale in carcere”. Si tratta di un’iniziativa promossa dalla Coldiretti che collabora direttamente mettendo a disposizione l’esperienza di agricoltori in pensione. Giornata speciale - Ai detenuti viene insegnato come coltivare un orto che produce zucchine, pomodori ma anche meloni e cocomeri. E proprio le angurie sono state al centro dell’appuntamento organizzato per festeggiare la giornata di Ferragosto. I quaranta detenuti hanno avuto la compagnia dei loro familiari presenti nell’orto sociale del penitenziario e che sono riusciti ad assaggiare gli ortaggi coltivati dai loro cari. Per la festa dell’Assunta, la Coldiretti Ancona con la collaborazione della direzione della struttura ha organizzato così una cocomerata seguita poi da canti e balli. Una giornata diversa e spensierata per i detenuti che hanno potuto stare accanto ai propri cari e mostrare loro il risultato del loro lavoro. L’iniziativa - Il progetto, di cui avevamo parlato in passato, è nato per rimarcare l’importanza sociale dell’attività agricola e per sottolineare il valore della pazienza, necessaria sia nel lavoro dei campi che durante la detenzione. Antonio Carletti, presidente dei pensionati della Coldiretti anconetana e che segue quotidianamente l’impegno di chi ha aderito all’iniziativa, ha spiegato: “Per me è stato un progetto di vita: cercare di tramandare il messaggio dell’agricoltura. Molti mi chiedono di insegnar bene loro tutto, perché vorrebbero coltivare ortaggi per essere di supporto alla loro famiglia”. Il progetto nasce dall’intuizione del dott. Maurizio Pennelli, direttore della struttura penitenziaria, che non nasconde la sua soddisfazione per quanto realizzato: “Siamo molto soddisfatti di questo progetto che sta dando ottimi risultati e che sta insegnando qualcosa di molto utile ai detenuti”. La produzione - Nell’orto del Barcaglione vengono prodotti a tutt’oggi trenta quintali di ortaggi all’anno, destinati poi anche ai pasti di tutti i detenuti. Oltre ai meloni, alle zucchine, ai pomodori e alle angurie, presto partirà anche la produzione di birra artigianale. Bari: ad Alberobello spettacolo teatrale “Il coraggio della legalità. Paolo Borsellino” baritoday.it, 17 agosto 2018 Si terrà lunedì 20 agosto a Casa D’Amore, alle ore 21.00, “Il coraggio della legalità: Paolo Borsellino”, adattamento scenico e regia di Antonio Turco e Cosimo Rega, musiche di Paolo Petrilli e Roberto Turco, scenografia di Tamara Boccia. Lo spettacolo, con ingresso libero, è promosso dalla Compagnia Stabile Assai ed è inserito nel programma “Trulli Viventi - Summer 2018”, il cartellone di manifestazioni promosso dall’amministrazione comunale per i mesi estivi. Sinossi - “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si identificano con la scelta di due personaggi di non indietreggiare di fronte alla certezza della morte”. A Palermo, il giudice Borsellino, dopo la morte del suo fraterno amico e collega Giovanni Falcone, non rinuncia a proseguire nell’opera di indagine contro i corleonesi, esponendosi ad un attentato che arriverà puntuale, come il tradimento dei vertici dello Stato che non fanno nulla per rimuoverlo da una sede che si rivelerà mortale per questo coraggioso Magistrato e per gli uomini della sua scorta nella strage di via D’Amelio. Lo spettacolo rende omaggio a due figure che hanno saputo interpretare sino alla fine il ruolo di “servitori dello Stato” con una dignità e con una “onestà di principi” fuori dal comune. Il riferimento all’”Agenda rossa di Paolo Borsellino”, alle dichiarazioni della famiglia del Magistrato, 25 anni dopo, alle assurde affermazioni del giudice Sagunto e dell’inafferrabile “Corvo” costituiscono l’ossatura degli spunti che sono stati utilizzati per costruire questa ennesima testimonianza di “Teatro di denuncia”. Breve storia della compagnia - La Compagnia Stabile Assai della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma è il più antico gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano. Il suo esordio risale a luglio 1982 con la sua partecipazione al festival di Spoleto. Questa storia trentennale ha consentito alla Compagnia, formata da detenuti e da detenuti semiliberi che fruiscono di misure premiali, oltre che da operatori carcerari e da musicisti professionisti, di esibirsi nei maggiori teatri italiani. La Compagnia “Stabile Assai” si è caratterizzata per la stesura di testi del tutto inediti, dedicati ai grandi temi dell’emarginazione, come l’ergastolo (“Fine pena mai”), la follia (“Nella testa un campanello”), la questione meridionale (“Carmine Crocco”), la integrazione interetnica (“Nessun fiore a Bamako”). Nell’ultimo triennio la Compagnia ha messo in scena la storia criminale del nostro Paese nel periodo 1977-1992 con spettacoli specificamente dedicati alla Banda della Magliana con “Roma, la capitale”, al periodo post cutoliano a Napoli con “Nascett’n’miezz o mare”, alla morte di Pier Paolo Pasolini con “Ma che razza di città”. Tutti realizzati n anteprima nazionale, al Teatro Parioli che ha ospitato negli ultimi 6 anni la Compagnia, nella programmazione ufficiale. È da evidenziare che la Compagnia si è esibita, unico caso in Italia, nel giugno del 2009, all’interno della Camera dei Deputati alla presenza del Presidente della Camera On. Gianfranco Fini, del Presidente della Commissione Giustizia del Senato On. Giulia Buongiorno e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Presidente Franco Ionta. Nel dicembre 2010 si è esibita nell’Auditorium della Casa Madre del Mutilato di Guerra di Piazza Adriana, in uno spettacolo voluto dai vertici del Tribunale di Sorveglianza di Roma e da personaggi politici. Di particolare rilievo, inoltre, è l’attribuzione della medaglia del Capo dello Stato alla Compagnia per la valenza sociale della sua attività teatrale. Il 30 giugno del 2011 la Compagnia ha vinto il prestigioso “Premio Troisi”. Il 14 dicembre 2011 è stata, inoltre, ospite del Sindaco Alemanno nella sala della Protomoteca, con lo spettacolo dedicato al 150° anniversario dell’Unità d’Italia, “Una canzone per l’Italia”. Lo stesso spettacolo è stato rappresentato all’Università di Sassari in occasione del 450° anniversario della fondazione. Nel maggio del 2012 la Compagnia ha messo in scena “L’ultima canzone”, uno spettacolo dedicato a Osvaldo Pugliese, uno dei maestri argentini più importanti della storia del tango, spesso in carcere durante l’epoca peronista. L’opera è stata rappresentata dapprima al Teatro Golden di fronte ad esponenti dell’Ambasciata Argentina in Italia. Durante il 2014/2017 la Compagnia si esibirà a Terni, Rieti, Viterbo, Campobasso, Termoli, Alberobello, San Giorgio a Cremano, Napoli, Savona, Padova, Monza, Roma, Spoleto, Cervia, Taormina e Sassari. Roma è da sempre stata la città principe delle iniziative della Compagnia. A marzo 2018 è stata ospite al Teatro Ghione per la Conferenza Nazionale della Cgil. Altre date sono in fieri. Teatri, piazze e Università saranno i luoghi che ospiteranno questo ormai consolidato “Teatro di denuncia” di cui è significativa esponente la Compagnia Stabile Assai, come noto patrimonio artistico della Presidenza nazionale dell’AICS che, da sempre, ne sostiene le vicende. Come da consuetudine il gruppo si avvale della collaborazione di volontari e di operatori del settore carcerario come Sandra Vitolo, psicologa di Rebibbia ed espressioni dottrinali come Patrizia Patrizi, professore ordinario dell’Università di Sassari ed ancora Educatori e pedagogisti penitenziari, nonché esponenti della polizia penitenziaria primi in Italia a salire sul palco insieme ai detenuti. Ferrara: entro il 5 settembre le iscrizioni per assistere al teatro in carcere cronacacomune.it, 17 agosto 2018 Ultimi 15 giorni per iscriversi alla lista di partecipazione a “Ascesa e caduta degli Ubu”. Nell’ambito del programma ufficiale del festival Internazionale a Ferrara, presso la Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara il 6 ottobre alle 20.30 la compagnia dei detenuti attori dopo l’esperienza fatta al Teatro Comunale di Ferrara, si presenterà nella sala che ospita le prove durante il corso dell’intero anno. Nuovi attori, una scenografia tagliata su misura, nello spettacolo vi sono aumentate consapevolezze, grazie alle osservazioni introiettate dopo l’ultima replica. Giocato in casa questa volta, propone un rapporto più stretto con lo spettatore, ritagliando all’interno dell’istituto di pena una stanza che per un’ora vivrà in un altro tempo ed in un altro spazio. Alfred Jarry a cavallo tra due secoli rifiuta la retorica parolaia della scena del suo tempo e recupera i saperi e i sapori della Commedia dell’Arte. Tutt’altro che superficiale concede allo spettatore di vedere come mostri grotteschi sovrani e tiranni di ogni specie. Ne inventa il lessico e le movenze. Ne riconosce i vizi principali senza scadere nella banalità. Ne riconosce le virtù alle quali hanno rinunciato con disarmante leggerezza. Esilarante e caustico allo stesso tempo. Le logiche che portano ad un colpo di stato, ad una truffa o ad una rapina sono sempre somiglianti dacché l’umanità esiste in quanto entità organizzata. Il principio è semplice: comincia ad invidiare. Coltiva l’invidia ed identifica il nemico, poco importa se vi è della stima reciproca. Trova un alleato, fatti aiutare e sbarazzatene una volta che hai raggiunto ciò che volevi. Uno spettacolo che l’umanità mette in scena quotidianamente, ai quattro angoli del globo. Di quanto avviene all’interno delle mura delle carceri sappiamo poco. Per larga parte della società libera, il carcere rappresenta semplicemente un deterrente. In pochi vedono la finalità trattamentale di questo luogo, le opportunità che può offrire a chi vi è destinato. In condizione ristretta si trovano anche persone dalle potenzialità inespresse, abilità e sensibilità che per ragioni sovente del tutto fortuite non sono riuscite ad esprimersi a pieno. Concedersi di percepire il detenuto in questa maniera significa per la società iniziare a riappropriarsi di risorse umane utili per il suo funzionamento. Il benessere dei detenuti serve anche a chi sta fuori. Il presente progetto si inserisce nel più ampio Stanze di Teatro Carcere 2018 del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, l’associazione che riunisce le realtà che operano in carcere con progetti teatrali a Forlì, Parma, Modena, Castelfranco, Reggio Emilia, Ravenna, Ferrara e Bologna, nell’ambito di un Protocollo d’intesa con la Regione Emilia, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziarie e il Centro Giustizia Minorile Emilia Romagna e Marche. Le attività sono sostenute dalla Regione Emilia Romagna, dal Comune di Ferrara, e dal programma europeo Erasmus. Per accedere è necessario inviare una e-mail all’indirizzo: teatroccferrara@gmail.com. Entro e non oltre mercoledì 5 settembre, indicando: cognome, nome, data e luogo di nascita, numero di documento e allegando scansione del documento d’identità. La comunicazione di avvenuta autorizzazione verrà data entro l’1 ottobre. Posto unico 10 €. Biglietti disponibili da lunedì 1 ottobre, per coloro che sono autorizzati, presso il botteghino del Teatro Nucleo, via Ricostruzione 40, Pontelagoscuro (Ferrara) aperto lunedì-venerdì ore 8-12 e sabato ore 9-13 e 15-19. Maggiori informazioni su www.teatronucleo.org Migranti. Unicef: più di 68.000 bambini detenuti in Messico in due anni, il 91% espulsi La Stampa, 17 agosto 2018 Estrema violenza, povertà e mancanza di opportunità non sono soltanto cause delle migrazioni irregolari di bambini dall’America centro-settentrionale (El Salvador, Guatemala e Honduras) e dal Messico, ma anche conseguenze delle espulsioni dagli Usa. Secondo il rapporto dell’Unicef, 96.216 migranti dall’America centro-settentrionale, fra cui 24.189 donne e bambini sono stati rimpatriati dal Messico e dagli Stati Uniti fra gennaio e giugno di quest’anno 68.409 bambini migranti sono stati detenuti in Messico fra il 2016 e aprile 2018, il 91% dei quali sono stati espulsi verso l’America Centrale. Circa 96.216 migranti dall’America centro-settentrionale, fra cui 24.189 donne e bambini sono stati rimpatriati dal Messico e dagli Stati Uniti fra gennaio e giugno di quest’anno; oltre il 90% è stato espulso dal Messico: questi i principali dati del nuovo rapporto (serie Child Alert) dell’Unicef “Sradicati in America Centrale e Messico - Bambini migranti e rifugiati affrontano un circolo vizioso di difficoltà e pericoli”, che esamina le diverse sfide e pericoli che affrontano i bambini e le famiglie migranti e rifugiate durante il difficile processo di migrazione e rimpatrio, riferisce il Sir. “Milioni di bambini nella regione sono vittime di povertà, indifferenza, violenza, migrazioni forzate e paura di essere espulsi”, ha dichiarato Marita Perceval, direttore regionale dell’Unicef per l’America Latina e i Caraibi. “In molti casi, i bambini che sono rimandati nei loro Paesi d’origine non hanno nessuna casa in cui tornare, e finiscono per essere sommersi dai debiti o sono presi di mira dalle gang criminali. Essere riportati a situazioni invivibili rende più probabile una nuova migrazione”. Secondo il rapporto dell’Unicef, estrema violenza, povertà e mancanza di opportunità non sono soltanto cause delle migrazioni irregolari di bambini dall’America centro-settentrionale (El Salvador, Guatemala e Honduras) e dal Messico, ma anche conseguenze delle espulsioni dal Messico e dagli Stati Uniti, evidenzia l’agenzia dei vescovi italiani. L’Unicef ha invitato i governi “a lavorare insieme per attuare delle soluzioni che aiutino a ridurre le cause scatenanti delle migrazioni irregolari e forzate ed a tutelare il benessere dei bambini rifugiati e migranti durante il viaggio”. Nebraska, prima esecuzione dal 1997. Casa farmaceutica: “Chi vi ha dato i nostri prodotti?” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 agosto 2018 Il fentanyl, il potente oppiaceo che è al centro dell’epidemia nazionale di consumo di droga, è stato utilizzato l’altro ieri per eseguire in Nebraska la prima condanna a morte dal 1997. L’ultimo condannato era stato messo a morte mediante sedia elettrica. Carey Dean Moore, 60 anni, condannato a morte quasi 40 anni fa per aver ucciso due conducenti di taxi nel 1979, è stato messo a morte utilizzando una mai sperimentata combinazione di quattro farmaci: da quando le principali case farmaceutiche mondiali hanno deciso di non esportare negli Usa prodotti che potrebbero essere usati per eseguire condanne a morte, ci si arrangia come capita. Moore è stato dichiarato ufficialmente morto 23 minuti dopo la prima somministrazione dei farmaci. Invano la casa farmaceutica tedesca Fresenius Kabi ha chiesto per vie legali che l’esecuzione venisse sospesa, lamentando in caso contrario danni alla reputazione e chiedendo che venisse chiarito come lo stato del Nebraska - in assenza del consenso del produttore - avesse ottenuto due dei quattro medicinali usati per mettere a morte Moore: il cisatracurio e il cloridrato di potassio. Il terzo farmaco usato è stato il comune Valium. Il quarto, come detto, il fentanyl. Amara ironia, lo stato ha ucciso un uomo con la stessa droga che sta facendo strage negli Usa. Libia. 45 condanne a morte per uccisioni nel 2011 di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 17 agosto 2018 La sezione penale del tribunale di appello di Tripoli ha condannato a morte 45 persone, mercoledì 15 agosto, in seguito agli omicidi commessi nella capitale libica durante una rivolta avvenuta nel contesto della guerra civile tra governo e ribelli, nell’agosto 2011. Un funzionario del Ministero della Giustizia ha affermato che il caso riguarda le aggressioni, perpetrate da uomini armati fedeli all’ex leader Muammar Gheddafi, ai danni di alcuni civili, i quali, mentre fuggivano dalla città a causa degli scontri, vennero circondati, assaliti e lasciati morti sotto il ponte di Tariq Sareea, come atto di rappresaglia, il 21 agosto 2011. Oltre ai 45 uomini condannati a morte, 54 sono stati puniti con 5 anni di reclusione, mentre 22 sono stati assolti. Altri 3 erano già morti in prigione, prima che il verdetto fosse rilasciato. Gli avvocati della difesa e i parenti degli imputati erano presenti in tribunale, ma non i detenuti. Questa è una delle poche condanne a morte pronunciate in Libia dal 2011, quando il Paese si è diviso in fazioni rivali che hanno causato per anni disordini e conflitti armati. Molte di queste, tuttavia, non sono mai state portate a termine. Nel suo ultimo rapporto annuale, il gruppo per la difesa dei diritti umani, Amnesty International, ha descritto il sistema giudiziario della Libia come “disfunzionale”, e ha affermato che un clima generale di impunità continua a prevalere. Inoltre, molti detenuti sono trattenuti dal 2011 senza alcun controllo giudiziario o mezzo per contestare la legalità delle loro pene. La prima guerra civile in Libiaha avuto luogo tra il febbraio e l’ottobre del 2011e ha visto le forze lealiste di Muammar Gheddafi contrapporsi a quelle dei rivoltosi, riunite nel Consiglio nazionale di transizione.Da quando l’intervento della NATO, guidato da Stati Uniti e Francia, nell’ottobre 2011, ha rovesciato il regime di Gheddafi, la Libia non ha mai compiuto una transizione democratica. Ancora oggi, il potere politico è diviso in due governi. Il primo, creato dall’ONU con gli accordi di Skhirat del 17 dicembre 2015, ha sede a Tripoli ed è guidato, dal 30 marzo 2016, dal premier Fayez al-Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite e dall’Italia. Il secondo, con sede a Tobruk, è appoggiato da Russia ed Egitto. L’Onu si impegna a riunificare al più presto la Libia e a organizzare elezioni nazionali, al momento previste per dicembre 2018. Uiguri in Cina: antiterrorismo o violazione dei diritti umani? di Ilaria Tipà sicurezzainternazionale.luiss.it, 17 agosto 2018 Negli ultimi 18 mesi, la Cina ha intrapreso una massiccia campagna di repressione contro le minoranze etniche di fede musulmana nella regione occidentale del Xinjiang, in cui l’etnia maggioritaria è quella uigura. Una campagna che vede più di 1 milione di persone recluse nei campi di concentramento e quasi due milioni di uiguri sottoposti a sessioni di rieducazione e indottrinamento pur non essendo detenuti. Una campagna che è stata gestita con segretezza e ha attirato poca attenzione e generato scarsa pressione da parte del resto del mondo. La situazione che è cambiata da quando, venerdì 10 agosto, il Comitato dell’Onu per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali ha convocato la rappresentanza di Pechino per rispondere di quanto sta avvenendo in Xinjiang. Di fronte all’Onu, la delegazione cinese ha negato fermamente le accuse e ha affermato che le azioni intraprese al governo provinciale del Xinjiang sono volte a prevenire il diffondersi di fenomeni terroristici. Le accuse dell’Onu - Nella provincia occidentale cinese del Xinjiang, dove la maggioranza della popolazione è di etnia uigura e di fede musulmana, le misure di sicurezza sono state irrigidite sempre di più, dopo alcuni scontri violenti avvenuti nel 2009, raggiungendo il culmine nel 2016, con l’arrivo del nuovo segretario provinciale del Partito Comunista Cinese, Chen Quanguo che ha espanso le attività di sicurezza e sorveglianza. Gay McDougall, membro del Comitato dell’Onu, ha definito la provincia come “un enorme campo di reclusione” in cui sono frequenti operazioni di detenzione di massa, rieducazione e sparizioni, venerdì 10 agosto. Durante l’udienza a Ginevra, lunedì 14 agosto, la delegazione cinese composta da 49 membri ha dovuto affrontare per la prima volta il tema della repressione in Xinjiang in un teatro internazionale rispondendo alle domande del Comitato e negando tutte le accuse. La risposta della Cina: misure antiterrorismo? - “Non esistono assolutamente campi di ri-educazione”, ha affermato Hu Lianhe, alto ufficiale del Partito Comunista Cinese. La delegazione cinese ha affermato che non vi sono torture, persecuzioni o sparizioni di persone rimpatriate. Una parte delle accuse dell’Onu, infatti, affermava che si sono verificate centinaia di sparizioni di studenti che, dopo un periodo di studio all’estero, erano rientrati in Xinjiang e sono morti durante la detenzione o sono spariti. La Cina non prende di mira alcuna minoranza etnica, ha affermato il portavoce della delegazione cinese Hu Lianhe, anzi, le minoranze etniche vivono in pace e godono di libertà di credo religioso. Secondo Pechino, tutte le attività che sono state svolte dalle autorità erano volte a fermare le attività terroristiche e la violenza e a rafforzare la sicurezza. La rieducazione, secondo i delegati cinesi, è limitata ai criminali minori. Le dichiarazioni del Comitato dell’Onu e i report dei giornali occidentali, secondo un editoriale del Global Times - tabloid in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, il giornale di Partito del governo cinese, avrebbero come unico obiettivo quello di disseminare “guai e minacciare la stabilità” del Xinjiang. L’Ambasciatore cinese all’Onu, Yu Jianhua, ha affermato che le accuse all’operato delle autorità del Xinjiang provengono da gruppi politicizzati che vogliono dividere la Cina e hanno connessioni con le organizzazioni terroristiche. Gli ufficiali cinesi affermano che le misure di sicurezza sono volte a limitare le pratiche religiose degli uiguri - in maggioranza musulmani sunniti - e prevenire l’emergere di episodi di violenza e ondate di separatismo, terrorismo ed estremismo religioso nella provincia. Le prove della repressione: violazioni dei diritti umani - Nonostante la negazione delle accuse da parte degli ufficiali cinesi, molti studiosi ed attivisti hanno messo insieme prove sufficienti corredate da immagini satellitari che comprovano la rapida espansione dei campi di rieducazione e detenzione nel Xinjiang. Nei campi di rieducazione e di detenzione - tra i 1000 e i 2000 in totale, in una regione che è grande quanto la Germania - le persone vengono detenute senza una base legale, senza mandato, senza accuse precise per crimini, senza diritto a un avvocato e senza sapere se e quando sarà possibile uscirne, secondo Sophie Richardson, direttrice per la Cina di Human Rights Watch. Tra i detenuti nei campi vi sono molti intellettuali uiguri e parenti di giornalisti che hanno scritto della campagna di repressione, compresi quelli di Radio Free Asia, media sponsorizzato dagli Usa. All’interno dei campi, i detenuti vengono sottoposti alla propaganda governativa, forzati a recitare gli slogan e a intonare i canti per ottenere cibo, nonché costretti a rinunciare alle loro pratiche religiose musulmane. La tortura è una prassi comune, così come lo sono le morti, secondo quanto riportato da una dichiarazione dei dissidenti cinesi. C’è un’emergenza umanitaria in corso, ha affermato Adrian Zenz, esperto del Xinjiang presso la Scuola Europea di Cultura e Teologia di Berlino. Si tratta di una politica deliberata di rieducazione che mira a “cambiare il fulcro dell’identità e il sistema di valori di un’intera popolazione, su una scala senza precedenti”, secondo Zenz. L’avvio della repressione - Il rafforzamento delle misure di sicurezza e di sorveglianza e controllo sulla minoranza etnica uigura in Xinjiang è stato intrapreso nel 2009, in seguito a una serie di attacchi violenti nei confronti dei cinesi Han - etnia maggioritaria in Cina. La situazione è poi peggiorata con un attacco violento a Pechino nel 2013 e l’intensità della repressione del governo provinciale ha raggiunto il suo massimo storico nell’agosto 2016, con l’arrivo del nuovo Segretario del Partito Comunista Cinese, Chen Quanguo e con la promulgazione di una sua ordinanza di “di-estremizzazione”, all’inizio del 2017. Il segretario Chen, che aveva già passato quasi dieci anni a capo del Partito provinciale del Tibet, ha raddoppiato il budget per la sicurezza e ha avviato il reclutamento di ufficiali della polizia, costruito nuove centrali e inviato quadri di etnia Han a vivere con le famiglie uigure, nonché ha voluto l’installazione di telecamere e tecnologie per il riconoscimento facciale in tutta la provincia. Nel 2017, più di un quinto di tutti gli arresti avvenuti in Cina sono stati nella provincia del Xinjiang, la quale, con i suoi 11 milioni di abitanti, rappresenta meno del 2% della popolazione cinese, secondo un rapporto del gruppo per i diritti umani China Human Rights Defenders. La repressione non si limita alla sola minoranza etnica uigura, ma si estende alle altre minoranze musulmane della provinciale, come i kazaki, i kirgizi e gli hui, nonostante questi ultimi non siano mai stati protagonisti di atti di violenza o di resistenza al governo di Pechino. La campagna in corso in Xinjiang è la più ampia e la più brutale messa in atto dal regime sin dalla Rivoluzione Culturale - voluta da Mao Zedong dal 1966 al 1969 e mirata a rieducare gli intellettuali cinesi inviandoli a lavorare nelle campagne - paragonabile, attualmente, alla politica di repressione della minoranza Rohingya in Myanmar. A differenza di quanto accade con la crisi che coinvolge i musulmani Rohingya, però, la campagna repressiva del governo cinese contro gli uiguri non ha sollevato le proteste della comunità internazionale. Sri Lanka. Detenute scioperano sul tetto del carcere, chiedono più cibo e processi veloci di Melani Manel Perera asianews.it, 17 agosto 2018 “Nessuna restrizione al cibo portato dai parenti dall’esterno e processi più veloci”. È quanto hanno chiesto per due giorni 25 detenute del carcere di Welikada, a Colombo. Il 13 agosto le donne hanno attuato una protesta chiedendo il rispetto dei loro diritti. Alla fine ieri le autorità carcerarie hanno acconsentito ad una revisione dei casi, e le prigioniere hanno deciso di sospendere lo sciopero. Ad AsiaNews il rev. Sathivel (anglicano), coordinatore del “Movimento nazionale per il rilascio dei prigionieri politici” afferma che “le richieste delle donne sono ragionevoli. Tutte le detenute devono essere trattate come esseri umani e non al pari di oggetti”. La protesta deriva dalla decisione del penitenziario di limitare il cibo proveniente dall’esterno. Secondo l’amministrazione, insieme ai generi alimentari nel carcere vengono introdotte anche droghe e sostanze stupefacenti. Il rev. Sathivel sostiene che “l’accusa è falsa, e le carcerate hanno fatto bene a salire sul tetto. Esse protestavano non solo per se stesse, ma per le condizioni di tutti i detenuti”. Poi aggiunge: “Ridurre il cibo introdotto in carcere dai familiari non è la scelta migliore. Piuttosto dovrebbe essere istituito un meccanismo di controllo più efficace”. Il coordinatore del Movimento ritiene che sia “giusto manifestare quando le richieste verbali rimangono inascoltate da parte delle autorità. Allo stesso tempo, è davvero triste che [le detenute] siano dovute arrivare fino a questo punto per far rispettare i loro diritti fondamentali”. Fonti non ufficiali lamentano le penose condizioni dei penitenziari srilankesi e riferiscono che il reparto in cui sono rinchiuse le manifestanti dovrebbe avere una capienza massima di 200 posti; invece le prigioniere sono più di 1.500. Dopo l’avvio dello sciopero, Thalatha Athukorale, ministro della Giustizia e delle riforme carcerarie, ha affermato che “a prescindere dalle proteste, non è possibile velocizzare i processi delle prigioniere e la giustizia deve fare il suo corso”. Ma ieri sera, dopo un incontro con il portavoce del ministro, le donne hanno deciso di sospendere la manifestazione e sono scese dal tetto. A far loro cambiare idea, la rassicurazione che il ministero prenderà in carico i loro casi e avvierà indagini celeri. Spagna. Addio spaccio e illegalità, fioriscono i cannabis club di Roberto Pellegrino Il Giornale, 17 agosto 2018 A scopo terapeutico o ricreativo poco importa. Nelle città spagnole è nata una nuova tendenza. Se chiedi informazioni per la arrivarci, la gente del quartiere ti guarda come se avessi chiesto la strada per l’armeria di fucili Stupore, sospetto e teste che dicono no. Eppure i Cannabis Social Club (Csc) nella città di Antoni Gaudi sono una realtà, un grande successo tra gli amanti dell’erba legale. Dopo l’esempio catalano, hanno aperto a Madrid, Bilbao, Salamanca, Valencia e nelle isole ingolfate di turisti. Sono centri ricreativi gestiti da soci che possono consumare per uso ludico e terapeutico, liberamente marijuana e hascisc. Sono sorti, moltiplicandosi nel vuoto legislativo, sia del governo centrale di Madrid che di quello delle comunità. Ma per molti spagnoli la percezione dei CSC è confusa, spesso sbagliata. Nei club non si va per sballarsi, per quello ogni maggiorenne può comprare una bottiglia di whiskey o una collezione di pastiglie a base di anfetamina illegalmente per strada. Gli utilizzatori dei CSC non cercano lo sballo, sono trentenni, quarantenni e cinquantenni, alcuni sposati, con una cultura medio alta e nessun precedente penale. Non è facile trovarli, nemmeno quando ti hanno spiegato bene la strada. Non hanno insegne, né nomi sul campanello, da fuori sembrano negozi dismessi. Alcuni sono camuffati all’interno di centri commerciali o piazze turistiche. Pochi fanno pubblicizzano il club, meglio il passa-parola. Meglio navigare nella tra il pulviscolo del “non so”. Poi, quando ci entri, comprendi perché non sono e non potrebbero essere luoghi oscuri ubicati in malfamate periferie col rischio di essere rapinati dallo stesso spacciatore che ti vende il fumo. Nulla di questo. Nel Caval, quartiere multietnico con una forte impronta araba, al secondo piano, senza ascensore, un appartamento dei primi del Novecento è un club dove fumare in tranquillità. Volti accoglienti, luci soffuse, aria condizionata non aggressiva. Il socio mostra la tessera ed entra, al giornalista è concesso di guardare, ma non toccare. Attorno ambienti confortevoli, divani abbondanti, tavolini puliti con posaceneri, scaffali carichi di tanti libri in materia, ma anche di viaggi. Un tv da 40 pollici e tanti dvd (“Qualche socio viene anche soltanto per vedersi un film”). In un angolino, persino un frigorifero con bibite a base di aloe a marijuana. Nell’aria il brano, molto distensivo, “Put it on”, di Bob Marley. I soci sorridono, hanno varie età, trai trent’anni e i cinquanta, accomunati dalla voglia di fumarsi uno spinello in tutta calma, lontano da occhi indiscreti. Le regole? Poche, ma semplici: ogni socio deve avere almeno 21 anni, deve risiedere in città, avere un lavoro, e pagare una quota annua che copre le spese di mantenimento del club e di produzione della marijuana da utilizzare tra soci. Cifra che va dai 20 ai 60 euro al mese e che garantisce una certa quantità annuale di erba a scelta da fumare o custodire, soltanto nel club. Vietato regalarla o venderla, dentro e fuori l’associazione, vietato aprire ai turisti o a chi vuole solo provare e non è un abituale. Ogni violazione comporta l’espulsione dal club e, qualche volta, la denuncia alle autorità. A pochi passi dalle ramblas degli sanguinosi attentati islamisti, dal 2006 c’è un altro club, con qualche italiano. “Dodici anni fa eravamo sette amici, tutti abituali fumatori di cannabis”, spiega uno dei soci fondatori. “Volevamo un luogo tranquillo e intimo dove farci un porro (uno spinello, ndr), ma soprattutto avevamo il desiderio di produrre noi stessi la marijuana, perché stanchi di erba troppo costosa e di cattiva qualità. Oggi siamo quasi mille soci che coltivano e consumano un ottimo prodotto naturale a un costo trasparente. Abbiamo una lista di attesa lunghissima per i nuovi iscritti e al momento diamo priorità a chi è in terapia”. Anche qui c’è un ambiente caldo e famigliare, pulito, da circolo privato. Divani per rilassarsi, tavolini con carte da gioco, una macchinetta del caffè. “C’è chi viene anche per lavorare al computer, per leggere un romanzo, fare due chiacchiere. Qui si fa un uso responsabile, la quantità è modica per tutti. Il costo annuale dell’abbonamento varia tra i club, la “consumazione”, il prezzo dell’erba, va dai 6 ai 9 euro al grammo, mentre per quanto riguarda l’hashish si trovano estratti di tutte le qualità e di tutti i prezzi. Nella quasi totalità dei club visitati, non è mai successo nulla di illegale. Nemmeno una lamentela dei vicini per chiasso. Si cerca di non attirare troppo l’attenzione. A Barceloneta, ex quartiere di pescatori, ora ci sono gli hipster. “Sono molti i turisti che vogliono iscriversi, ma a tutti diciamo “no”. Se fosse permesso, Barcellona diventerebbe come Amsterdam”, spiega Josep, biologo marino. “Se vendi ai turisti, il Comune ti chiude. Ne ha chiusi una ventina in pochi anni”. E anche se “In Spagna c’è “il fai da te”“, ricorda Paolo, designer, “con tre soci apri “Vaso ciación cannabica”, paghi la tassa comunale, ti registri all’agenzia delle entrate che vede gli iscritti, il bilancio e i libri contabili... in Italia c’è l’uso terapeutico, ma il consumo è limitato e clandestino che, regolarizzato, cancellerebbe lo spaccio”.