Dossier Viminale: reati in calo. Ma un terzo degli omicidi sono femminicidi La Repubblica, 16 agosto 2018 Salvini: “Triplicati gli arresti di mafiosi in Calabria”. Nell’ultimo anno sbarchi diminuiti del 76 per cento. Respinto il 53 per cento delle richieste di asilo. Numero dei reati ancora in calo in Italia. Dall’1 agosto 2017 al 31 luglio 2018 - secondo il dossier presentato dal Viminale in coincidenza della consueta conferenza stampa di Ferragosto - i delitti consumati sono stati 2.240.210, il 9,5% in meno rispetto ai dodici mesi precedenti (quando erano stati 2.453.872): da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi (da 371 a 319, il 16,3% in meno), le rapine (da 31.904 a 28.390, il 12,3% in meno) e i furti (da 1.302.636 a 1.189.499, il 9,5% in meno). In particolare, tra gli omicidi diminuiscono anche quelli attribuibili alla criminalità organizzata, da 48 (il 12,9% del totale registrato tra agosto 2016 e luglio 2017) a 30 (il 9,4% del totale tra agosto 2017 e luglio 2018). Tra l’agosto 2017 e il luglio 2018 le donne sono state vittime del 37,6% dei 319 omicidi volontari commessi in Italia ed, in particolare, del 68,7% dei 134 omicidi in ambito familiare/affettivo. Sempre con riferimento agli omicidi in ambito familiare/affettivo, le donne sono vittime dell’89,6% degli omicidi commessi dal partner, dell’85,7% di quelli commessi dall’ex partner e del 58,6% di quelli commessi da un altro familiare. Nell’ultimo anno le denunce per stalking sono state 6.437 (contro le 8.732 dell’anno precedente) ed è calata del 26,3% la percentuale delle donne che le hanno presentate; in aumento invece del 20,7% gli ammonimenti del questore (dai 940 del 2017 ai 1.135 del 2018, con un +17,9% di quelli per violenza domestica) e del 33,1% gli allontanamenti (dai 160 del 2017 ai 213 del 2018). Dopo una riunione a San Luca (Reggio Calabria) del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, il ministro dell’Interno Salvini ha annunciato che in Calabria “sono triplicati gli arresti di mafiosi”. Aggiungendo che dal primo agosto del 2017 al 31 luglio 2018 sono stati 1.662 i mafiosi arrestati, di cui 53 latitanti di massima pericolosità. Questione immigrazione, altro capitolo del dossier Viminale. Dall’1 agosto 2017 al 31 luglio 2018 sono sbarcati sulle coste italiane 42.700 migranti, il 76,6% in meno dei dodici mesi precedenti quando a sbarcare erano stati in 182.877; nello stesso periodo gli scafisti arrestati sono stati 209 contro i 536 dei dodici mesi precedenti. Dei 42.700 migranti sbarcati nell’ultimo anno, il 65% è partito dalla Libia, il 15% dalla Tunisia, il 3,5% dalla Turchia, il 2% dall’Algeria, il 2% dalla Grecia, l’1% dall’Egitto e lo 0,5% dal Montenegro. Quelli rintracciati a terra sono 4.747, l’11%. Con riferimento ai Paesi di provenienza, la Tunisia con il 20% degli arrivi precede Eritrea (11%), Nigeria (7%), Sudan (7%), Costa d’Avorio (6%), Mali (6%), Algeria (5%), Guinea (4%), Pakistan (4%), Marocco (4%) e Iraq (4%). I minori stranieri non accompagnati sbarcati sono stati 6.042 tra l’agosto 2017 e il luglio di quest’anno a fronte dei 24.797 arrivati tra l’agosto 2016 e il luglio 2017. I minori stranieri soli nel circuito dell’accoglienza sono 13.151. Al 31 luglio 2018 i migranti in accoglienza in Italia sono 160.458, di cui 440 in hotspot, 132.287 in centri di accoglienza e 27.731 nel circuito Sprar per rifugiati e richiedenti asilo. Tra l’agosto 2017 e il luglio 2018 le richieste di asilo presentate nel nostro Paese sono state 82.782, il 42,5% in meno rispetto alle 144.099 dell’agosto 2016-luglio 2017. Il ministero dell’Interno ricorda che delle 89.054 domande di protezione internazionale esaminate negli ultimi dodici mesi il 53,8% si è risolta con un diniego (a fronte del 46% di un anno prima) e il 39% con il riconoscimento di una forma di protezione internazionale (a fronte del 49% dell’anno precedente): status di rifugiato (7,1%), protezione sussidiaria (5%), motivi umanitari (26,9%). Sempre tra l’agosto 2017 e il luglio 2018 i rimpatri sono stati 6.833, il 7,1% in più, i rimpatri volontari assistiti 1.201, il doppio dell’anno prima. Al 31 luglio 2018 i Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri) attivi sono sei - Torino, Roma, Bari, Brindisi, Palazzo San Gervasio e Caltanissetta - per un totale di 880 posti disponibili, quelli in fase di attivazione quattro - ex carcere di Macomer, Modena, Gradisca d’Isonzo e Milano - per altri 400 posti. Negli ultimi dodici mesi la lotta alla criminalità organizzata ha al suo attivo 22.650 sequestri (di cui 1.068 aziende) per un valore complessivo di 4.592 milioni di euro e 9.620 confische (di cui 477 aziende) per un valore di 3.227 milioni. I beni in gestione all’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati al 31 luglio scorso erano 21.265, divisi tra immobili (18.247) e aziende (3.108): nella classifica per regioni, la Sicilia è prima con 7.176 beni in gestione all’Agenzia, davanti a Campania (3.375), Calabria (2.539), Lombardia (2.040), Lazio (1.641), Puglia (1.175) e Piemonte (820). Sempre al 31 luglio, i beni restituiti alla collettività erano 14.943, di cui 14.016 immobili e 927 aziende. La Regione con il maggior numero di beni destinati è la Sicilia (5.938), davanti a Calabria (2.634), Campania (2.211), Puglia (1.579) e Lombardia (1.190). In particolare, nell’ultimo anno, gli immobili destinati dall’Anbsc sono stati 2.283 per un valore di 180,9 milioni di euro mentre le aziende destinate sono state 50. Dall’1 agosto 2017 al 31 luglio scorso sono state espulse per “motivi di sicurezza nazionale” in quanto ritenute islamisti radicali 108 persone (di cui due imam) ed arrestati 43 estremisti; nei dodici mesi precedenti le espulsioni erano state 96 (di cui otto imam) e gli estremisti arrestati 24. Lo rende noto il Viminale, ricordando che vengono anche monitorati 135 foreign fighters ‘italiani’ (legati cioè per qualche motivo al nostro Paese o di passaporto italiano), di cui 48 deceduti e 26 rientrati in Europa dai teatri di combattimento. Più in generale, i controlli di prevenzione hanno riguardato 510.492 persone (l’87% in più rispetto ai dodici mesi precedenti), 195.434 veicoli e 316 motonavi. Viminale, sbarchi ridotti del 76%, raddoppiati i controlli anti-terrorismo di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 16 agosto 2018 Il dossier del ministero dell’Interno fa il punto sulle attività delle forze dell’ordine. Delitti leggermente in calo, ma resta alta l’attenzione sui femminicidi. Incidenti stradali e morti, ancora allarme. Il primo dato che salta agli occhi è quello degli immigrati: sono stati 42 mila gli sbarchi dal 1° agosto 2017 al 31 luglio del 2018, -76,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima (1 agosto 2016-31 luglio 2017) quando si era arrivati al picco di 182.877 immigrati approdati sulle nostre coste. Ma è solo una delle tante informazioni che fornisce il ricco dossier del Viminale, appena pubblicato per fare il punto sulla sicurezza e la lotta alla criminalità nel nostro Paese nell’ultimo anno. La parte immigrazione è sicuramente quella più corposa e legata all’attualità, che mette nero su bianco i numeri, al di là dei proclami e della propaganda degli ultimi mesi. A proposito degli sbarchi, il dossier ci dice anche che sono 160.458 gli immigrati accolti dal nostro Paese, 440 in hotspot, più di 132 mila nei centri di accoglienza e quasi 28 mila accolti dallo Sprar, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati. Anche le richieste di asilo sono praticamente dimezzate, da 144 mila a 82 mila, mentre i rimpatri sono più o meno in linea con l’anno scorso, anche se leggermente aumentati, da 6378 a 6833. La violenza di genere - Salta all’occhio anche un altro dato del dossier: è quello che riguarda i femminicidi. Se gli omicidi si sono leggermente ridotti, infatti, la cosa drammatica è che il 37,6% riguarda donne, e che tra gli omicidi avvenuti in ambito familiare affettivo la quasi totalità (134 su 135) riguarda proprio le donne, uccise dal partner o dall’ex. Anche se le denunce per stalking si sono ridotte (-26,3%), gli ammonimenti del questore nei confronti di uomini molesti sono aumentate del 20,7% e di queste la metà riguarda violenze domestiche. “In un quadro generale in cui la sicurezza migliora, colpisce che tra l’agosto 2017 e il luglio 2018 le donne siano state vittime del 37,6% dei 319 omicidi volontari commessi in Italia ed, in particolare, del 68,7% dei 134 omicidi in ambito familiare/affettivo-sottolinea l’ex ministra delle Pari opportunità Mara Carfagna, deputata di Forza Italia. Le donne vengono uccise soprattutto in ambito familiare, dove è più complicato proteggerle, nonostante le buone leggi introdotte nell’ultimo decennio, come quella sullo stalking, che ha consentito ad un numero crescente di donne di chiedere l’ammonimento o l’allontanamento del loro persecutore. Questi numeri dimostrano che la battaglia è ancora lunga e che non si può perdere altro tempo, come si è fatto negli anni scorsi”. Lotta alla mafia - Senza tregua la lotta alla criminalità organizzata: anche quest’anno sono stati 1662 i mafiosi arrestati (l’anno prima erano 1627), 53 i latitanti, e 154 le operazioni di polizia giudiziaria. Purtroppo ancora 26 i Comuni dove è stato necessario indagare per sospetti di infiltrazione mafiosa, con 34 gestioni affidate ai commissari per infiltrazioni accertate. Negli ultimi anni la lotta alla mafia si esplica anche in sequestri e confische di beni che portano un valore aggiunto alla società, grazie all’affidamento a società e cooperative di case, terreni, palazzi, che possono tornare a vivere una vita utile. Se l’anno scorso sono stati più di 22 mila i sequestri e quasi mille le confische, il Viminale rileva che ormai sono oltre 21 mila i beni in gestione all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: nella maggior parte si tratta (più di 18 mila) di case, ma ci sono anche aziende (3 mila), per lo più situate in Sicilia e Calabria. Delitti in calo - Ma quanto stiamo sicuri nelle nostre città? I dati dicono che i delitti sono in leggero calo: si passa dai 2 milioni quasi e mezzo dello scorso anno ai 2 milioni e 240 di quest’anno. Si sono verificati 319 omicidi dal 1° agosto del 2017 al 31 luglio del 2018, ce n’erano stati un po’ di più lo scorso anno (371). Anche le rapine sono in leggero calo (da quasi 32 mila a poco più di 28 mila) ma i furti sono rimasti per lo più invariati (da 1,3 milioni a 1,2). I morti sulle strade - Gli incidenti stradali restano tanti: intorno ai 75 mila all’anno, in 1500 casi con morti. Così come restano elevate le infrazioni: anzi, c’è un piccolo aumento, si è arrivati a quasi 2,5 milioni di infrazioni accertate, a fronte delle 2,3 dello scorso anno, nonostante le pattuglie in campo siano diminuite di circa 100 mila. Merce falsa - Sono stati 119 mila gli articoli sequestrati quest’anno perché contraffatti o venduti abusivamente, rispetto ai 148 mila dello scorso anno. Effetto forse di un leggero calo delle operazioni antiabusivismo commerciale (da 50 mila a 46 mila) che ha portato anche a una riduzione degli arresti/denunciati (da 11 mila a 9mila) ma non ad un calo delle multe, che restano intorno alle 36mila. Quest’anno è poi partita l’operazione spiagge sicure, proprio per contrastare e prevenire i venditori ambulanti abusivi: 54 i progetti in tutta Italia, con 2,5 milioni di euro destinati ad hoc. Meno incendi - Calano leggermente gli incendi di boschi e sterpaglie: dai 130 mila dello scorso anno si passa ai 103 mila di quest’anno, e anche gli interventi dei vigili del fuoco per dissesti statici si sono dimezzati (da 114mila a 51 mila), mentre restano in linea con lo scorso anno i danni idrici e idrogeologici per cui è stato necessario chiamare i pompieri (36 mila). Terrorismo, 108 espulsi - Sul terrorismo, il Viminale tiene altissima la guardia: 108 le espulsioni avvenute per motivi di sicurezza, in linea con lo scorso anno (96), 43 gli estremisti arrestati (erano 24 nello stesso periodo tra 206 e 2017), e sono 135 i foreing fighters monitorati (erano 125). Massiccio il controllo: 510 mila le persone controllate (l’anno scorso erano state la metà), così come i veicoli (195 mila a fronte degli 87 mila dello scorso anno) e le motonavi (316 invece di 165). Il proibizionismo, da Al Capone alla cannabis di Roberto Rossi La Repubblica, 16 agosto 2018 Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? No, un’idea. Persistente, contagiosa. Una volta che si è impossessata del cervello un’idea pienamente formata, compresa, si avvinghia nella testa ed è quasi impossibile sradicarla. Le varie forme di proibizionismo nella storia hanno avuto sempre una costante: un’idea. Presente e insindacabile. Senza alcuna pretesa di carattere morale, si è cercato di comprendere queste idee analizzandole sotto un punto di vista storico per ragionare su come e quanto il presente sia influenzato dal passato e su come, queste idee, possano essere messe in discussione per il bene della collettività ed il male delle organizzazioni criminali. Tutto parte nel 1920 con il “Volstead Act” che dichiarò l’alcol illegale negli Stati Uniti. L’alcol era stato individuato come la causa di molti dei mali che affliggevano la società come l’assenteismo al lavoro, le violenze domestiche e addirittura la nascita di bambini deformi. Questo fece nascere il mercato nero di alcol che andò nelle mani della criminalità che, da predatoria si trasformò in imprenditoriale e da comune ad organizzata. Il “magnate” del contrabbando di alcolici fu Alphons Capone che raggiunse un potere tale da divenire il ricercato numero uno della Cia. Il giro d’affari di questo mercato fu enorme: 3 miliardi di dollari che corrispondevano al 3% del Pil nazionale. Praticamente grazie a questi soldi sono nate e si sono radicate le mafie in America. Dunque la mafia americana nasce, indirettamente, a causa di un preconcetto morale che demonizzò l’alcool per ragioni “progressiste”, ritenendo il suo consumo immorale. Questa immoralità non era percepita però dalla maggior parte della società, per questo il contrabbando avanzò senza che le persone si sentissero fuori dalla morale e quindi fuori legge. Ciò generò una reazione sociale automatica: ovvero la creazione di un circuito illegale che deterrà il monopolio di quel bene. è nient’altro che la legge del mercato, ed allora avvenne con l’alcol, mentre oggi avviene con la cannabis. L’altra forma di proibizionismo è quello della cannabis negli anni 30. Questa pianta venne definita la coltivazione da un miliardo di dollari per le sue straordinarie potenzialità di sfruttamento soprattutto in campo industriale. Ciò face storcere il naso a molti affaristi americani dell’epoca, uno su tutti Andrew Mellow, proprietario della Gulf Oil, ma anche segretario del tesoro degli Usa che nominò a capo dell’ufficio narcotico Harry J. Anslinger che aveva il compito di screditare le potenzialità della cannabis. Attuò così una campagna mediatica contro la marijuana che faceva leva sui sentimenti razziali e xenofobi degli americani ed in poco tempo fece della marijuana il simbolo del peccato, della depravazione e della violenza. Gli si attribuirono caratteristiche del tutto false come, tra le altre cose, il fatto che rendesse le donne infedeli e depravate. Non ci volle molto affinché tutti credessero a ciò. Il nemico del popolo era nuovamente creato. Nel 1937 Roswelt approvò il Marijuana Tex Act che proibiva la coltivazione della pianta in tutta l’America. Le assurde teorie di Anslinger vennero smentite più volte da diversi rapporti scientifici, su tutti il Rapporto La Guardia e Shafer; dati concreti che vennero oscurati dalla schizofrenia di messaggi oramai entrati prepotentemente nelle teste delle persone. La “guerra alla marijuana” fin dalle origini dunque è stata viziata da un artificio ideologico che prescinde da solide fondamenta scientifiche ed oggi ne subiamo ancora i riflessi. Ciò mi ha portato alla riflessione che collega la campagna mediatica di Anslinger alla società attuale, ovvero la società della post-verità. Eletta come parola internazionale dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary, post-verità” indica una situazione in cui i fatti obbiettivi sono molto meno influenti sull’opinione pubblica rispetto a concetti promulgati attraverso il mezzo dell’emotività. Ed è proprio questo il motivo per il quale il proibizionismo va avanti: da sempre Anslinger ha parlato all’emotività della gente e l’emotività fa agire d’istinto, mentre la razionalità richiede il dovere di fermarsi, ragionare e riflettere. All’epoca non c’era tempo per riflettere, altrimenti il male si diffondeva. Nella società della post-verità non importa realmente che le informazioni convincano con argomentazioni razionali, con prove. Queste ultime devono solo colpire alla pancia, suscitare violente reazioni, per diventare più virali possibili. Oggi la chiamano post-verità, ma Anslinger settant’anni fa già faceva scuola. La cannabis è una costante del nostro Paese e per comprendere la portata del fenomeno basta analizzare i dati: in Europa i consumatori di cannabis sono 16,6 milioni, in Italia 5 milioni. La cannabis è la sostanza più confiscata di tutte in Europa. In Italia un detenuto su quattro entra in carcere per motivi legati alla droga. Il 56.3% delle operazioni di polizia riguardanti la droga attengono alla cannabis. La cannabis mafiosa in Italia che proviene perlopiù dall’Albania genera un giro d’affari d 4-5 miliardi l’anno e nel 91% dei casi risulta essere altamente tossica perché tagliata con piombo e metalli pesanti che creano il plusvalore per le mafie. Oltre a ciò in Italia non mancano le produzioni nostrane: le ultime piantagioni scoperte sono state a Reggio Calabria, tra le serre dell’Aspromonte e in Campania, tra i monti lattari, con un sequestro record di 34 mila piante di marijuana. Gli studi di Ferdinando Ofria, professore di politica economica all’Università di Messina, ci dicono che, tra le tante cose, qualora si legalizzasse in Italia il gettito fiscale oscillerebbe tra i 5 e gli 8 miliardi e si creerebbero fino a 300 mila nuovi posti di lavoro. La cosa ancora più importante è quella che verrebbero indebolite moltissimo le attività criminali mafiose che si finanziano continuamente anche attraverso le piazze di spaccio presenti nelle periferie delle città italiane. La qualità della vita è la prima vittima delle mafie. Queste infatti, non investono per migliorare i territori di cui sono figlie, perché le mafie hanno la principale intenzione di far restare le cose esattamente così come stanno, affinché possano sostanziarsi del degrado e della disperazione in cui riversano le periferie italiane. Si verifica quella che alcuni sociologi americani hanno definito la “teoria delle finestre rotte” secondo la quale “se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre” (una sorta di senso di rassegnazione). Dunque legalizzare non vuole dire promuovere il consumo di droga, anzi, è esattamente il contrario, più si è contro e più si dovrebbe essere favorevoli alla legalizzazione, in modo tale che le prime ad essere ripulite saranno proprio le piazze di spaccio. L’obbiettivo non deve essere eliminare totalmente la droga, in quanto sarebbe pura utopia, ma cercare di ridurre o eliminare le gravi conseguenze indotte dalle droghe nelle persone e nelle intere comunità. La stessa direzione antimafia ha dichiarato già nel 2015 che la lotta repressiva alla cannabis in Italia è un totale fallimento. Dunque probabilmente sarebbe arrivata l’ora di provare ad affrontare il problema in un modo diverso, slegandosi dai riflessi di un’ideologia che viene, come abbiamo visto, da molto lontano. Siamo in un’epoca che si dichiara post-ideologica ma che conserva dell’ideologia gli aspetti peggiori, dove l’immobilismo dello Stato, rispetto al tema della legalizzazione, equivale ad una resa che consegna nelle mani della criminalità miliardi di euro annui. Legalizzare non vuol dire assolutamente incentivare al consumo di cannabis, significa regolamentare un mercato già libero e totalmente criminale. “C’è solo qualcosa di peggiore del non cercare informazioni e del sostituirle con supporti ideologici per le scelte, ignorando i dati reali, ed è quella di conoscere i dati reali e ciò nonostante di andare avanti come se nulla fosse”. Crollo ponte Genova: alibi inutili perché tutti sapevano di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 16 agosto 2018 Un colpo durissimo a una città già colpita negli ultimi anni da più eventi rovinosi e oggi spezzata in due, con danni gravissimi per tutta l’economia ligure. È il quinto ponte in cinque anni che viene giù. Nel 2017 quello di Fossano che piombò su un’auto dei carabinieri, salvi per miracolo. Nel 2016 quello sulla superstrada di Annone Brianza. Nel 2015 quello sulla Palermo-Agrigento inaugurato sei giorni prima. Nel 2014 quello accanto alla sede Rai a Saxa Rubra e il Ponte Lungo a Ceto... Fatalità? Basta! Lo spiegò secoli fa Francesco Guicciardini: “Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città”. Per carità, “quasi sempre”. Solo la magistratura potrà dirci se nell’apocalisse di Genova ci siano o meno precise responsabilità umane, amministrative, politiche. Ma certo, per chi ha perduto un marito, una moglie, un fratello, un figlio in questa tragedia ripresa in diretta coi telefonini (“Oddio! Oddio!”) sarà difficile se non impossibile accettare certe rassicurazioni uscite in queste ore sul “quotidiano e scrupoloso monitoraggio” sulle condizioni strutturali del viadotto Morandi. Il cui crollo, tra l’altro, assesta un colpo durissimo a una città come quella della Lanterna già colpita negli ultimi anni da più eventi rovinosi e oggi spezzata in due, con danni gravissimi per tutta l’economia ligure (qui, le foto del disastro). Il monito nel 2012 - Sì, magari c’entra davvero anche un fulmine caduto nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Mano a mano che escono nuove ricostruzioni, sbucano nuovi testimoni e riemergono varie denunce dal passato, però, monta la collera: c’era almeno un po’ di consapevolezza del pericolo? Ed ecco un articolo del Giornale, certamente non favorevole alla sinistra che allora aveva in pugno la Regione, la Provincia e la città che già nel 2006 titola: “Genova scioglie il “nodo” del groviglio autostradale” e spiega che “il Ponte Morandi sarà demolito e al suo posto sorgerà un nuovo viadotto”. E poi un monito nel 2012 di Giovanni Calvini, all’epoca presidente della Confindustria genovese, che spiega al Secolo XIX la necessità di avviare i lavori per quella circonvallazione esterna di cui si parla da anni, la cosiddetta “Gronda”, con parole incancellabili: “Perché guardi, quando tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà, e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore, ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto “no”“. E poi ancora i video e le interviste del presidente della Provincia Alessandro Repetto che denunciavano il degrado del ponte: “Non vorrei far la parte dell’uccello del malaugurio”. Il “piano viario non orizzontale” - Per non dire dell’intervento di esperti come l’ingegnere Antonio Brencich, che nel 2016 disse a Radio Popolare: “Negli anni 90, molti genovesi se lo ricordano, il ponte ebbe una quantità di lavori enorme. Gli stralli di una campata sono stati affiancati da nuovi cavi di acciaio. Io non lo prenderei come un campanello d’allarme, ma è indice che hanno rilevato una corrosione molto più veloce di quella ipotizzata e hanno dovuto integrare la struttura originale per impedire che insorgessero delle condizioni di pericolo”. Dopo di che aggiunse: “Non vorrei far passare il messaggio che ci sia un pericolo imminente. Se dopo 30 anni dalla costruzione si devono sostituire integralmente degli elementi strutturali, però, vuol dire che è un ponte sbagliato. Un ponte non deve durare centinaia di anni ma almeno 70-80-100 senza manutenzione di questo tipo. Abbiamo dei ponti in muratura che hanno 150-200 anni e nessuno li ha mai toccati”. Lo stesso ingegnere, docente di costruzioni in cemento armato all’università di Genova, spiegava a Sara Frumento di ingegneri.info che non solo il ponte Morandi era stato costruito con un “piano viario non orizzontale” al punto che “chi percorreva il viadotto era costretto a fastidiosi alti-e-bassi” per anni, ma che solo “ripetute correzioni di livelletta” avevano aggiustato il piano viario “nelle attuali accettabili condizioni di semi-orizzontalità”. Non bastasse, accusava, “alla luce della vita utile che dovrebbe avere una struttura del genere (almeno 100 anni)” era preoccupante che “fin dai primi decenni” il ponte fosse stato oggetto di manutenzioni così profonde che “tra non molti anni i costi di manutenzione supereranno i costi di ricostruzione del ponte: a quel punto sarà giunto il momento di demolire il ponte e ricostruirlo”. Il comunicato dei “No Gronda” - Dice oggi il ministro per i Trasporti e le Infrastrutture Danilo Toninelli, che dovrà trovare una soluzione per rimediare nei tempi più brevi possibili al disastro dell’interruzione dell’unica via diretta tra Italia e Francia: “In questi 60 giorni di governo abbiamo dato immediatamente mandato di lavorare su manutenzione e messa in sicurezza dei viadotti e al loro monitoraggio attraverso dei sensori. Quasi tutti, costruiti tra gli anni 50 e 70 hanno bisogno di manutenzione ordinaria. Questo governo metterà i soldi proprio lì, per evitare che capitino ancora tragedie di questo tipo”. Di più: “La manutenzione viene prima di tutto e i responsabili dovranno pagare fino all’ultimo”. Parole d’oro. Che finiranno presto in secondo piano dopo la scoperta che, nei minuti successivi al crollo del viadotto, una manina ha cancellato un comunicato online targato M5S “Coordinamento dei comitati No Gronda”, gli attivisti nemici acerrimi della nuova autostrada ligure. Comunicato che non si limitava a sparare a zero sul progetto con le parole di Beppe Grillo (“Questa gente va fermata. Con l’esercito italiano. Perché l’esercito deve stare con gli italiani”) ma ironizzava: “Ci viene poi raccontata, a turno, la favoletta dell’imminente crollo del Ponte Morandi, come ha fatto per ultimo anche l’ex presidente della Provincia, il quale dimostra chiaramente di non avere letto la Relazione Conclusiva del Dibattito Pubblico”... Gli errori di calcolo - Favoletta... Sia chiaro: sarebbe un peccato se questa sciagurata superficialità polemica, un autogol che dovrebbe suggerire ai grillini un po’ di cautela in più prima di aprire bocca per spararla grossa, fosse cavalcata strumentalmente per mettere in ombra tutto il resto. Ma questa catastrofe potrebbe aiutare le due parti a ragionare in modo serio su temi seri. Senza risse pretestuose e volgari. Basti rileggere quanto diceva già nove anni fa lo studio “La Gronda di Genova” di Autostrade per l’Italia. E cioè che i calcoli fatti nei lontani anni Sessanta su quell’arteria ieri spezzata erano totalmente sbagliati: “Il tratto più trafficato è il viadotto Polcevera (Ponte Morandi) con 25,5 milioni di transiti l’anno, caratterizzato da un quadruplicamento del traffico negli ultimi 30 anni e destinato a crescere, anche in assenza di intervento, di un ulteriore 30% nei prossimi 30 anni”. Davvero sarebbe bastata, per il futuro, una “manutenzione ordinaria con costi standard”? L’Italia delle grandi fragili opere, tanti i disastri di Adriana Pollice Il Manifesto, 16 agosto 2018 Negli ultimi 14 anni c’è stata una lunga scia di crolli da nord al sud del paese. Nel 2004 un ponte in fase di collaudo sul torrente Vielia, a Tramonti di Sopra, in provincia di Pordenone, venne giù per un cedimento. Un autista rimase ferito. In Liguria, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 2013, a causa di un nubifragio crollò il ponte a Carasco sul torrente Sturla: due i morti. Nello stesso anno, il mese dopo, un’alluvione che colpì la Sardegna distrusse il ponte sulla provinciale Oliena-Dorgali. Morto un agente di polizia, feriti tre suoi colleghi: la loro vettura stava scortando un’ambulanza. Il 7 luglio 2014 ci furono quattro feriti nel crollo di un tratto del viadotto Lauricella, lungo la statale 626 tra Ravanusa e Licata, in provincia di Agrigento. Era stato inaugurato con tre mesi di anticipo. Dopo dieci giorni venne giù il viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento. La terribile sequenza in Sicilia si conclude il 10 aprile 2015, con il cedimento di un pilone del Viadotto Himera sull’Autostrada A19 Palermo-Catania. L’anno dopo tocca al Nord. Il 28 ottobre un cavalcavia sulla provinciale 49 Molteno-Oggiono cede al passaggio di un tir sulla superstrada Milano-Lecco, un morto e quattro feriti. Il 9 marzo 2017 lungo l’autostrada A14 Adriatica, tra Camerano e Ancona Sud, nelle Marche, si sbriciola un ponte in ristrutturazione. Due deceduti e due feriti. L’ultimo caso, prima di Genova, si è verificato il 18 aprile 2017: a venire giù è stato un viadotto della tangenziale di Fossano. La struttura era stata realizzata negli anni Novanta e inaugurata nel 2000. Alcuni casi riguardano nuove opere, in altri, come a Genova, sono strutture vecchie: “Gran parte delle infrastrutture viarie italiane - spiega il Cnr - ha superato i 50 anni di età, che corrispondono alla vita utile delle opere in calcestruzzo armato realizzate nel dopoguerra. Decine di migliaia di ponti in Italia hanno superato, oggi, la durata di vita per la quale sono stati progettati”. In base alla relazione del ministero dei Trasporti, aggiornata al 2016, Autostrade per l’Italia, con i suoi 2.857,5 chilometri, ha in concessione oltre la metà della rete. I ricavi netti da pedaggio sono andati aumentando fino a raggiungere, nel 2017, 1.740 milioni di euro. Eppure dai dati del Mit si ricava che nel 2016, a fronte di una crescita generalizzata (6,896 miliardi di fatturato, l’83% da pedaggi), le società concessionarie hanno contenuto i fondi per manutenzione. Nel 2016 ci sono stati investimenti per 1,064 miliardi con un taglio del 23,9%. Per la manutenzione impiegati 646 milioni, in calo del 7,3% rispetto al 2015. Roma: detenuti riparano strade. il ministro Bonafede: sia un modello theworldnews.net, 16 agosto 2018 Intesa con Autostrade per formazione. Raggi,è ponte rieducazione. Pulizia delle caditoie, riparazione delle buche e ‘ripassò delle strisce pedonali in alcune zone di Roma. Sono le attività a cui si dedicherà un gruppo di detenuti selezionati per un percorso di reinserimento sociale attraverso il lavoro, con corsi di formazione ad hoc e pratica. A tal fine è stato siglato in Campidoglio un protocollo di intesa, presentato oggi dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dalla sindaca Virginia Raggi e dall’ad di Atlantia e Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci. A marzo del 2018 a Roma era già entrato nel vivo un progetto per coinvolgere i detenuti nella cura del verde della Capitale: in 42, già formati, fanno interventi mirati nei parchi e ad agosto saranno nella Pineta di Castel Fusano. “Questo progetto ha creato un ponte fondamentale, ovvero la rieducazione. E ci ha convinto talmente tanto che abbiamo voluto prolungarlo e ampliarlo - ha detto la sindaca Raggi. Riteniamo che questo protocollo porterà benefici ai detenuti in primis e ai cittadini”. “Chiederò agli altri sindaci di portare avanti queste iniziative” volte a “reinserire nella società” i detenuti “puntando sul lavoro. Ho intenzione di creare una task force per estendere queste pratiche”, ha annunciato il ministro Bonafede. Questo percorso é “perfettamente compatibile” con la “certezza della pena” ed è “l’ulteriore dimostrazione di come questo Governo sia concentrato sulla vita nelle carceri”, trascurata in passato secondo il ministro. A partire da settembre, nel nuovo step sulla manutenzione delle strade, chiamato “Mi riscatto per Roma”, saranno 15 i detenuti coinvolti (con l’obiettivo finale di arrivare a 50), selezionati tra quelli a bassa pericolosità e con pene ridotte. Essi verranno formati in carcere e presso scuole di formazione di Autostrade per l’Italia per una durata di due mesi e mezzo, al termine dei quali otterranno un attestato professionale. I loro primi interventi interesseranno le strade adiacenti al penitenziario di Rebibbia che, una volta risanate, diverranno una sorta di laboratorio di formazione. Successivamente saranno impiegati nell’area metropolitana della Capitale per la pulizia delle caditoie, la riparazione delle buche a caldo e il ripasso delle strisce pedonali, in particolare delle arterie a basso scorrimento del centro storico. “Con la firma di questo protocollo Autostrade per l’Italia mette a disposizione di Roma Capitale competenze, mezzi e materiali per riqualificare una serie di strade del centro storico, insegnando un mestiere ai detenuti e dando così loro una chance concreta di re-inserimento sociale”, ha sottolineato l’ad Giovanni Castellucci Roma: la Sindaca Raggi “reinserimento, inclusione e dignità” romadailynews.it, 16 agosto 2018 “Reinserimento, inclusione e dignità. Sono le parole chiave del percorso che abbiamo scelto di portare avanti insieme ai detenuti che possono contribuire al decoro della nostra città. Un piccolo, ma fondamentale passo, per il loro reinserimento sociale e lavorativo, costruito su un nuovo patto con la città e i cittadini, sulla dignità del lavoro e sul valore della persona” lo scrive in un post su Facebook la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “A marzo scorso è partita la nostra iniziativa che vede i detenuti del carcere di Rebibbia pulire le aree verdi e i parchi della città. Un progetto importantissimo che punta alla rieducazione. Ci ha convinto talmente tanto che abbiamo voluto prolungarlo e ampliarlo. “Mi riscatto per Roma” è il progetto per il reinserimento dei detenuti nella società attraverso lavori socialmente utili che abbiamo presentato nei giorni scorsi in Campidoglio insieme al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Grazie ad un protocollo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Autostrade per l’Italia i detenuti saranno impegnati in lavori di manutenzione stradale che riguarderanno il rifacimento della segnaletica orizzontale, la pulizia di tombini e caditoie e la sistemazione delle sedi stradali. Voglio ringraziare tutti coloro che si sono impegnati per portare avanti questo importantissimo progetto: il ministro Bonafede, il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, la Presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma Maria Antonia Vertaldi, l’Amministratore Delegato di Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci, la Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Gabriella Stramaccioni, la direttrice della Casa circondariale di Rebibbia Rosella Santoro, gli assessori Pinuccia Montanari, Daniele Frongia, Margherita Gatta e Laura Baldassarre. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” recita l’articolo 27 della nostra Costituzione. Noi ne siamo profondamente convinti. Perché una comunità si costruisce con il contributo di tutti. “Mi riscatto per Roma” è l’esempio che un’altra società è possibile: detenuti che lavorano e si prendono cura della città. Per ricucire quel patto con i cittadini” conclude il post. Roma: il Sottosegretario alla Giustizia Morrone in visita a Regina Coeli giustizia.it, 16 agosto 2018 Visita ferragostana del sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, alla casa circondariale di Regina Coeli a Roma, accompagnato dal Vice capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Riccardo Turrini Vita. Morrone, dopo aver incontrato il direttore del carcere, Silvana Sergi, ha proseguito la visita dell’intera struttura, guidato dal comandante della Polizia penitenziaria, Rosario Moccaldo, soffermandosi a parlare con il personale in servizio, con il quale ha poi pranzato nella mensa del carcere. Il sottosegretario, in particolare, ha avuto modo di vedere il centro sanitario appena ristrutturato e in attesa delle ultime procedure burocratiche per partire. Morrone ha anticipato che nell’agenda dei prossimi mesi è prevista una serie di visite alle carceri italiane in modo da far emergere e rendere visibile alla comunità “il mondo parallelo delle strutture detentive, i problemi e le necessità di chi vi lavora e delle persone ristrette. Questioni sulle quali, spesso, non si riflette a sufficienza”. “Sono qui - ha evidenziato il sottosegretario durante la visita - per testimoniare la vicinanza del Ministero della Giustizia e di tutto il Governo alle persone che stanno scontando la pena all’interno degli istituti detentivi. Ma sono qui anche per far sentire il sostegno e la gratitudine dell’intero Esecutivo e mie personali agli agenti della Polizia penitenziaria che operano quotidianamente con impegno e spirito di servizio. Mi preme quindi ringraziare, anche a nome dell’intera comunità nazionale, gli agenti per il lavoro che stanno svolgendo, sopperendo a situazioni di sottodimensionamento dell’organico, a cui intendiamo far fronte, e per la professionalità con cui affrontano situazioni di pericolo e di violenza che si stanno presentando con sempre più frequenza”. “Come rappresentanti dello Stato - ha concluso - non dobbiamo trascurare le esigenze e le difficoltà delle persone momentaneamente private della libertà personale, evitando che siano a rischio dello sconforto e dell’emarginazione, ma costruendo insieme un sentimento di fiducia nelle istituzioni e di condivisa appartenenza alla società. Uno degli obiettivi del Ministero della Giustizia è, quindi, un reale miglioramento dell’esperienza detentiva, rendendo più vivibili le strutture penitenziarie. Un obiettivo non semplice, rinviato per troppi anni, ma da perseguire se si vuole garantire sia un apprezzabile grado di sicurezza e un buon livello delle condizioni di lavoro per gli agenti, sia il rispetto dei diritti e della dignità delle persone ristrette e la fondamentale funzione rieducativa della pena. La certezza della pena e la sua finalità rieducativa non sono, infatti, principi in contraddizione, ma contestuali, l’uno deve garantire l’altro, anche per ricostruire il senso di fiducia dei cittadini nelle Istituzioni e nella capacità dello Stato di garantire una risposta di giustizia sostanziale e rispettosa di tutti gli interessi in gioco. Una particolare attenzione deve poi essere rivolta a verificare il protocollo contro il proselitismo islamico ed evitare che le carceri diventino dei centri di reclutamento del terrorismo”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): l’ultima estate senz’acqua, nel carcere all’asciutto da sempre di Antonio Tagliacozzi edizionecaserta.it, 16 agosto 2018 Ogni anno in questo periodo di caldo torrido torna alla ribalta il vergognoso problema della carenza idrica al carcere di massima sicurezza che ospita 940 detenuti su una capienza massima di 833, 478 agenti di polizia penitenziaria e circa altre cento figure professionali. Il carcere non è senza acqua, ma non è attaccato alla rete idrica cittadina e questa “mancanza” crea qualche problema di approvvigionamento che risale alla sua costruzione e da allora si è andati avanti con pozzi artesiani, autobotti e… bottiglie di acqua minerale. Questa volta a sollevare per l’ennesima volta il problema è stato il garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Samuele Giambriello che ha inviato una lunga nota al sindaco Antonio Mirra ed alla direttrice del carcere, Elisabetta Palmieri per sollecitare la soluzione della questione. Il sindaco, da parte sua, ha assicurato tutto il suo impegno in attesa che…. la burocrazia faccia il suo. Ed anche quest’anno, quindi, niente acqua corrente al carcere. Qualcosa intanto, si sta muovendo per la realizzazione dei circa 5 chilometri di condotta idrica per l’allacciamento della casa circondariale “Generale Uccella” e delle due aule bunker alla condotta idrica comunale. L’ufficio tecnico, infatti, ha aggiudicato la gara per l’affidamento del servizio di progettazione e di tutte le indagini connesse al Rtp (Raggruppamento temporaneo di persone) studio tecnico Colosimo ed altri che ha offerto un ribasso, sull’importo fissato in complessivi 96 mila euro e 600, del 39,25 per cento determinando l’importo netto di aggiudicazione in 58 mila 684 e 50 oltre Iva e cassa Previdenza per complessivi 15 mila 774,00 euro. E’ il primo atto concreto, questo, per la soluzione del problema che negli ultimi anni è stato più volte denunciato e al centro di vibrate proteste da parte dei detenuti e dei difensori dei loro diritti che hanno posto in essere una serie di iniziative che sono valse a smuovere la burocrazia e concretizzare tutte quelle iniziative necessarie per risolvere la questione. Certo, ancora molto vi è da fare, siamo solo in una fase preliminare, ma le intenzioni ci sono e basta velocizzare solo le procedure per allacciare finalmente la casa circondariale ed il suo complesso alla rete idrica comunale alla quale, ovviamente, dovrebbe essere collegata anche l’isola ecologica di via Napoli che da anni va avanti senza acqua e servizi igienici ed è attualmente chiusa per intervento del NOE che ne ha accertato carenze igieniche e autorizzative. L’unico problema è che la Regione Campania non ha ancora definito l’acquisizione del finanziamento di circa un milione e mezzo di euro, ma il finanziamento è assolutamente assicurato da una delibera di giunta regionale dell’aprile del 2016. E con i tempi che occorrono, si dovrà attendere qualche anno. Palermo: lettera a Papa Francesco “faccia tappa presso un nostro carcere” giornalelora.it, 16 agosto 2018 “Nel giorno di Ferragosto il mio pensiero va a chi soffre, a chi vive una situazione di disagio profondo legato all’espiazione della pena. A tutti quegli uomini e quelle donne che hanno sbagliato nella loro vita e che stanno pagando attraverso l’istituto della detenzione. Ai migliaia di detenuti delle carceri e delle case circondariali siciliane - a dichiararlo è Vincenzo Figuccia deputato regionale dell’Udc e leader del Movimento Cambiamo la Sicilia. A tutti quegli uomini e quelle donne che hanno sbagliato nella loro vita e che stanno pagando attraverso l’istituto della detenzione. Ai migliaia di detenuti delle carceri e delle case circondariali siciliane - a dichiararlo è Vincenzo Figuccia deputato regionale dell’Udc e leader del Movimento Cambiamo la Sicilia che prosegue - Qualche tempo fa incontrai i loro sguardi e i loro volti volendo verificare con diverse visite ispettive nell’isola, lo stato delle strutture e della loro detenzione. Sovraffollamento, condizioni igienico sanitarie precarie, celle microscopiche, carenze di personale sanitario che in queste calde giornate di agosto costringono queste persone a vivere in ambienti afosi, ricettacolo di patologie e malesseri di ogni tipo. Basti pensare che da gennaio 2018 ad oggi, sono 479 gli atti di autolesionismo mentre i tentativi di suicidio accertati sono addirittura 54. Tassi elevatissimi. Il mio pensiero non può che andare anche al personale della penitenziaria che con grande diligenza svolge il proprio operato, subendo passivamente la piaga del sovraffollamento. La disumanità - prosegue - non guarda in faccia ai ruoli ma colpisce indiscriminatamente detenuti e agenti e polizia, costretti a convivere in un contesto assai difficile. Per questo, per i prossimi mesi, sto pianificando ulteriori visite agli istituti penitenziari. Approfitto per fare un appello a sua Santità Papa Francesco perché in occasione della sua visita nella nostra città, possa fare tappa presso una di queste realtà carcerarie che si ergono imponenti e al tempo stesso fatiscenti, come città nella nostra città. Ripensare il sistema della pena nel nostro Paese attraverso sistemi dinamici e forme alternative alla detenzione per i reati minori, è la vera sfida per scongiurare il sovraffollamento. Auspico - conclude - che il governo nazionale e per esso, il Ministro di Grazia e Giustizia Alfonso Bonafede, prenda una posizione più chiara in tal senso”. Napoli: il Garante regionale dei detenuti in visita a Poggioreale La Repubblica, 16 agosto 2018 Il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello si è recato nella mattinata di oggi, insieme a due persone del suo staff, a fare una visita “ispettiva” nel carcere napoletano di Poggioreale. Ha visitato i padiglioni Avellino, Firenze, Genova e Roma. “Visitando il bagno della cella, nel padiglione Avellino, dove recentemente si è tolta la vita uno dei tre detenuti suicidi di Poggioreale ho provato un senso di angoscia e di profonda amarezza, personale prima di tutto ma anche per il ruolo istituzionale che ricopro. Nello stesso padiglione tra gli altri detenuti ho voluto parlare lungamente con Gennaro G. di Casoria che da tredici giorni è in sciopero della fame perché non riesce ad avere un trasferimento in un altro carcere dove può essere curato meglio - racconta Ciambriello - Gli ho chiesto un gesto di responsabilità per se e per i suoi cari e gli ho offerto la mia disponibilità a seguire il suo caso”. Accompagnato dalla vicedirettrice Anna Laura De Fusco, il garante ha visitato, dopo il padiglione Avellino di alta sicurezza, dove sono rinchiusi 212 detenuti, anche il padiglione Firenze che accoglie i detenuti che entrano per la prima volta in carcere, e dove in stanze da sei, sette otto persone sono rinchiusi 309 detenuti. E poi il padiglione Roma, dove sono presenti trans, tossicodipendenti e i detenuti per reati sessuali, complessivamente 255 persone e il nuovo padiglione Genova dove “colpisce vedere una stanza divisa in zona notte e zona giorno, con due, tre, posti letto soltanto e un bagno dotato di tutti i servizi. Solo qui sono stati fatti dei passi in avanti per superare elementi patologici, ma restano ancora troppi padiglioni invivibili”, dice il Garante Ciambriello. A Poggioreale oggi erano presenti 2264 detenuti su una capienza di 1659 posti. Una condizione di sovraffollamento che per il Garante riguarda tutta la Regione, perché nella 15 carceri campane vi sono 7410 detenuti su una capienza complessiva di 6161 posti. “Si possono coniugare dignità e sicurezza, ma il sovraffollamento - conclude - decine di detenuti per stanza e con un bagno in precarie condizioni, mi inducono a ritenere che Poggioreale sia una questione nazionale. Meno celle, più spazi di socialità. Più assistenza sanitaria. E meno male che tante iniziative, tanti volontari, tante figure di agenti penitenziari riducono sia il numero dei suicidi che dei gesti autolesionistici. Anche le condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Poggioreale sono più che critiche. Occorrono percorsi di reinserimento e di alternativa alla inutile centralità del carcere per certi reati. Occorre discutere, senza demagogia, delle forme e dei modi della decarcerizzazione necessaria”. Ancona: a Ferragosto carcere aperto alle famiglie con i cocomeri coltivati dai detenuti anconatoday.it, 16 agosto 2018 Una cocomerata per svagarsi in vista della festa con i prodotti dell’orto sociale diretto da Coldiretti Ancona: “Utile per i valori ma come lavoro per quando usciranno”. Un pomeriggio da passare con i propri famigliari. Tra un pezzo di pizza e una fetta di anguria. Tutta autoproduzione che contribuisce e non poco a dare una bella dose di autostima in una situazione non facile. Il Ferragosto al carcere di Barcaglione si festeggia con un giorno di anticipo con le famiglie che possono incontrare i propri cari reclusi. Un pomeriggio di spensieratezza tra buon cibo, balli, musica e karaoke. Così oggi pomeriggio (14 agosto) e a rendere ancor più speciale la giornata ecco i dolci cocomeri che nascono proprio nell’orto sociale del carcere, un progetto nato nel 2014 e seguito quotidianamente da Coldiretti Ancona. L’idea è venuta anni fa al direttore della struttura di detenzione Maurizio Pennelli. Grazie al lavoro congiunto del Dap e della Regione Marche e alla collaborazione con Coldiretti è nata questa realtà che oggi conta 60 detenuti volontari sui circa 90 presenti a Barcaglione. “Il progetto - spiega Maria Letizia Gardoni, presidente di Coldiretti Ancona - è nato con l’obiettivo di permettere a queste persone di ritrovare fiducia e motivazioni. Il contatto con la natura può trasmettere un nuovo senso di comunità, di collaborazione e condivisione e vivere un’esperienza formativa. Si tratta di un’attività che permette anche di imparare un mestiere che potrebbe far intraprendere loro un discorso di inclusione sociale una volta espiata le pena”. A seguire quotidianamente i reclusi c’è Antonio Carletti, presidente di Federpensionati Coldiretti Ancona. Un bell’orto con zucchine, cetrioli, melanzane, cocomeri, meloni, pomodori ma anche una serra: in tutto si producono 30 quintali di ortaggi ogni anno che poi vengono consumati dagli stessi detenuti. “Abbiamo una produzione di prodotti orticoli molto limitata - spiega Carletti - ma cerchiamo di spaziare su più prodotti. Devo ringraziare tutti i detenuti che partecipano a questo progetto, la struttura che è stata ideatrice di questo progetto. Per me è stato un progetto di vita: cercare di tramandare il messaggio dell’agricoltura a questi giorni che oggi si rendono conto del suo valore. Molti mi chiedono di insegnar bene loro tutto perché vorrebbero coltivare ortaggi per essere di supporto alla loro famiglia”. Manifesto antirazzista, pioggia di adesioni di Gioacchino Amato La Repubblica, 16 agosto 2018 Tra le prime 400 firme, c’è pure quella di Grasso. Politici, associazioni, ma soprattutto tanta gente comune: l’Italia si mobilita. Si può aderire scrivendo a palermo@repubblica.it. Il primo obiettivo del Forum antirazzismo, quello di far partire dalla Sicilia un messaggio che arrivi oltre i confini della regione, viene raggiunto subito. Il manifesto rilanciato ieri da Repubblica Palermo supera lo Stretto in pochi minuti, non appena i sei punti attraverso i quali si chiede di schierarsi apertamente contro il razzismo, contro le fake news che alimentano l’intolleranza e per i diritti di cittadinanza arrivano sul web. Da Treviso a Firenze, da Bolzano a Cagliari le firme sotto il documento del Forum si moltiplicano già nelle prime ore della mattinata e a metà pomeriggio erano quasi quattrocento ma sono arrivate ancora fino a sera inoltrata. Firma e aderisce il senatore Pietro Grasso, leader di Liberi e Uguali: “Aderisco con convinzione al manifesto che parte dalla mia città, una città che per storia e tradizione è da sempre un crocevia di popoli e culture. Consapevoli che i nostri problemi non sono causati dall’immigrazione, ma dalla feroce avidità dei nostri concittadini criminali e da decenni di politica clientelare, da Palermo, dalla Sicilia e da tutto il Meridione può nascere una rivolta civile contro la povertà e non contro i poveri, contro il razzismo e non contro le persone. Restiamo, anzi, torniamo umani.” Oggi è arrivata anche la adesione del centro studi Pio La Torre. Il testo del manifesto antirazzista: “Più libertà e diritti per tutti” - Firma la Cgil di Palermo con Enzo Campo e Mario Ridulfo e Renato Costa della Cgil Fp medici di Palermo ma anche la Uilcom pugliese con Massimo Passabì. “No a ogni forma di razzismo. Non esiteremo mai - dice Enzo Campo - a mobilitarci in difesa del lavoro, della libertà e dei diritti di tutti, contro qualsiasi forma di diseguaglianza che veda penalizzati i cittadini più deboli e perché non esistano forme di discriminazioni e guerre fra poveri”. Oltre al sindaco Leoluca Orlando dal mondo della politica rispondono i consiglieri di Sinistra Comune Giusto Catania, Barbara Evola, Katia Orlando e Marcello Susinno, il segretario regionale del Partito democratico Fausto Raciti, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana di Palermo, Antonio Alamia di Liberi e Uguali. Ma i nomi conosciuti si mischiano e si perdono fra quelli di intere famiglie, di italiani all’estero e stranieri in Italia. E in molti, oltre alla firma non risparmiano le critiche al nuovo governo, in particolare al ministro dell’Interno Matteo Salvini. Elizabeth Harvey scrive: “Dopo 60 anni a Roma ora mi fa vergognare l’aria di razzismo che si sente. Ma sono fiera della Sicilia per quello sta facendo in questi anni difficili”. E da Toronto in Canada Alessandro Pellerito aggiunge: “Da italiano e da emigrante ogni giorno mi vergogno sempre di più per le azioni razziste di tanti miei conterranei, inclusi meridionali come me, e per il menefreghismo di questo nuovo governo”. Migranti. La nuova crisi divide la Spagna di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 16 agosto 2018 Porte aperte a sessanta profughi. Tra accoglienza e respingimenti. Sánchez tratta con Bruxelles ma ignora l’asilo. La Spagna accoglierà 60 dei 141 migranti sull’Aquarius. La notizia è arrivata nel primo pomeriggio di ieri, dopo che l’opposizione, soprattutto il Pp, aveva attaccato il governo Sánchez per la gestione della nuova vicenda Aquarius. In un primo momento l’esecutivo spagnolo aveva sostenuto di non essere “il porto sicuro più vicino”, il che naturalmente è vero, ma non lo era neppure nel caso della prima emergenza Aquarius. Anche se in quel caso si parlava di più di 600 persone (la capacità della nave era di 500), e stavolta sono solo 141. Invece sembra che Sánchez stesse lavorando a Bruxelles per una soluzione condivisa, simile a quella presa in altri casi, per cui saranno sei paesi (fra cui Spagna, Portogallo e Francia) ad accogliere i migranti alla deriva. Il ministro degli interni portoghese Cabrita (il Portogallo ne accoglierà 30) ha comunque ricordato l’ovvietà che è necessaria una “soluzione stabile a livello europeo” per evitare soluzioni ad hoc per ogni barca alla deriva nel Mediterraneo. Certo è che apparentemente l’approccio del governo socialista sembra passare per Bruxelles e che con i gesti delle ultime settimane è riuscito ad ottenere la solidarietà di altri paesi molto più che con l’approccio muscolare di Matteo Salvini. Il tema migrazione sta comunque scaldando sempre più gli animi in Spagna. Dalla Catalogna sono arrivate pressioni molto forti verso Madrid: dopo l’appello al governo della seconda vicesindaca di Barcellona Laia Ortiz, facente le funzioni di sindaca durante l’assenza di Ada Colau e del suo numero due Gerardo Pisarello, che offriva ancora una volta il porto di Barcellona, è arrivata anche la presa di posizione del presidente catalano Quim Torra, che offriva polemicamente i piccoli porti che gestisce direttamente la Generalitat catalana. Nel caso la nave avesse davvero attraccato lì si sarebbe creato un ulteriore caso di conflitto di competenze con Madrid, perché l’immigrazione (e quindi la gestione delle pratiche per i migranti) è comunque di competenza del ministero degli interni spagnolo. In assenza del leader Pablo Iglesias e della numero due, la sua compagna Irene Montero, entrambi fuori dall’arena politica dopo la nascita prematura dei loro gemelli all’inizio dell’estate, e nell’assenza agostana dei principali leader, a parlare è l’ex capo di stato maggiore e leader del partito a Madrid Julio Rodríguez, che chiede “un protocollo trasparente e uniforme e non arbitrario”, come ha detto in un’intervista. Intanto, anche l’Andalusia reclama la solidarietà delle altre comunità autonome e del governo centrale. Dopo un breve rallentamento nel flusso degli arrivi, con il calmarsi del vento sulle coste andaluse ricominciano ad arrivare al ritmo di 500 persone al giorno. Da gennaio fino a fine luglio sono arrivate più di 21mila persone su decine di precari gommoni: il triplo che nello stesso periodo nel 2017 e il 40% di tutti gli arrivi europei attraverso il Mediterraneo. Fra loro, migliaia di minori (fino al 31 luglio erano più di 3700), per i quali esiste un protocollo di protezione particolare. La Giunta andalusa vorrebbe che le altre comunità se li ripartissero. Criticatissima anche da ong e da sinistra è la decisione di Madrid di mantenere le argomentazioni del partito popolare nella causa aperta dal Tribunale di Strasburgo contro la Spagna per i cosiddetti casi di “restituzione a caldo” dei migranti sulla linea di frontiera delle enclavi di Ceuta e Melilla. Se nel 2015 il Psoe ricorreva al Tribunale Costituzionale (che ancora non si è espresso) la norma del Pp che permette di rimandare indietro i migranti che superano la frontiera senza permettere loro di chiedere asilo politico, oggi l’Avvocatura dello stato abbraccia le motivazioni dei ministri degli interni popolari: non si tratta di “espulsione” ma di “prevenzione di ingresso” perché i migranti non avrebbero superato la linea di frontiera. A luglio si sono verificati le prime 27 espulsioni alla frontiera dell’era Sánchez con questa modalità, riprendendo una tradizione già inaugurata nell’era Zapatero e ampliata e difesa dal governo Rajoy. Libia. Le milizie sgomberano e disperdono all’interno del Paese 2.000 persone sfollate La Repubblica, 16 agosto 2018 Sono famiglie originarie della città di Tawergha. Secondo i residenti, una milizia locale ha costretto l’intera popolazione di Triq Al Matar a fuggire dalle proprie case. Detenuti in condizioni terribili. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) segnala e denuncia lo sgombero forzato - da parte di alcune delle milizie che in Libia di fatto controllano gran parte del Paese - di circa 2.000 sfollati interni dall’insediamento di Triq Al Matar a Tripoli. Triq Al Matar era il più grande insediamento di sfollati interni nella città più settentrionale, dove sin dalla sua creazione nel 2011 vivevano 370 famiglie originarie della città di Tawergha. Secondo i residenti, la scorsa settimana una milizia locale ha costretto l’intera popolazione di Triq Al Matar a fuggire dalle proprie case, dopo tre notti di incursioni indiscriminate e l’arresto arbitrario di 94 residenti, 12 dei quali sono tutt’ora detenuti dalle milizie in condizioni terribili. Alcune donne e ragazze sono state minacciate di stupro. Tutti hanno dovuto abbandonare le loro case con breve preavviso, portando con sé solo il minimo indispensabile. La disperazione diffusa fra la gente. Queste persone sono ora disperse, vivono in diverse aree in cui hanno parenti o conoscenti, anche all’interno di altri insediamenti di sfollati interni. Alcune famiglie che possiedono un’automobile si trovano a dormire al suo interno. L’Unhcr esprime preoccupazione per il rischio a cui potrebbero essere esposte le persone che risiedono in altri insediamenti a Tripoli a causa di possibili ulteriori sgomberi. Alcune famiglie di Tawergha che vivono in altri insediamenti a Tripoli sono già fuggite dalle loro case per paura di essere attaccate. L’Unhcr chiede il rispetto dei diritti umani, la protezione dei civili e il diritto delle persone sfollate a decidere sul proprio futuro. L’Agenzia segue la situazione da vicino e collabora con tutte le parti per assicurare che vengano soddisfatte i bisogni essenziali degli sfollati interni e che vengano evitati altri eventuali sgomberi. Quarantamila persone costrette alla fuga. La popolazione di Tawergha costituisce una minoranza etnica, circa 40mila persone che sono state costrette a fuggire dalle proprie case nel 2011. Nella maggior parte dei casi hanno cercato un luogo sicuro all’interno di insediamenti informali intorno all’area di Tripoli o Bengasi. Vivono lì da sette anni in attesa di poter tornare a casa, dopo un recente accordo tra le parti in causa. In Libia, circa 192mila sfollati all’interno del Paese vivono da anni in condizioni terribili. L’Unhcr richiede soluzioni urgenti per porre fine alle loro sofferenze e per garantire il loro ritorno a casa in modo volontario, sicuro e dignitoso. Turchia. Amnesty: “ordinato il rilascio del nostro presidente in Turchia Kilic” La Repubblica, 16 agosto 2018 L’annuncio dell’organizzazione internazionale. L’uomo era accusato di complicità con i golpisti nel fallito colpo di Stato del 2016. Amnesty International ha fatto sapere che un tribunale di Istanbul avrebbe ordinato la scarcerazione del suo presidente in Turchia, Taner Kilic. Kilic, detenuto da oltre un anno, era accusato di aver utilizzato ByLock, una app di messaggistica crittografata che le autorità turche pensano sia stata usata per comunicare durante l’organizzazione del tentativo di colpo di stato del luglio 2016. “Faremo festa solo quando lo sapremo al sicuro a casa e tra le braccia di sua moglie e delle sue figlie”, ha commentato il segretario generale di Amnesty International, Kumi Naidoo. Afghanistan. Attacco kamikaze a Kabul tra i giovani diplomati: almeno 48 studenti uccisi Corriere della Sera, 16 agosto 2018 Nella capitale colpita ancora la minoranza sciita. Obiettivo un centro educativo dove decine di ragazzi si stavano preparando per i test dell’università in autunno, in una zona dove spesso opera l’Isis. Intanto i talebani attaccano una base militare: 44 morti. È di almeno 48 studenti uccisi e 67 feriti il bilancio di un attacco suicida contro un centro di educazione privato a Kabul. L’edificio, in cui studiavano decine di ragazzi e ragazze appena diplomati che si preparavano ai test d’ingresso per l’università, sorge in una zona a maggioranza sciita della capitale, presa di mira già diverse volte dall’Isis. I talebani smentiscono ogni coinvolgimento. Altra strage intanto a est di Kabul: sei bambine tra i 10 e i 12 anni sono rimaste uccise dalla deflagrazione di un ordigno inesploso nella provincia orientale di Laghman. Almeno 35 militari afghani e nove uomini della polizia sono morti nell’attacco dei talebani nelle prime ore di questa mattina ad una base nella provincia nord di Baghlan, in Afghanistan. Lo riportano i media locali. Quattro giorni di offensiva talebana - Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha confermato l’attentato e il numero delle vittime su Twitter. E’ l’ultimo di una serie di attacchi da parte egli insorti che hanno già fatto decine di vittime e continuano a tenere sotto pressione le forze governative in varie province del paese. Due giorni fa era stata definita “una catastrofe” dal New York Times la quattro giorni di offensiva talebana costata all’esercito afghano oltre 200 morti. Egitto. Arrestati membri della Fratellanza Musulmana per “istigazione al caos” trt.net.tr, 16 agosto 2018 Agenti di sicurezza egiziani hanno effettuato operazioni contro membri della Fratellanza Musulmana (Ihwan) per impedire manifestazioni per commemorare i massacri di Rabia e Nahda. Il Ministero degli Interni egiziano ha annunciato di aver arrestato 13 persone con l’accusa di incitare il pubblico alla manifestazione e al caos per commemorare gli incursioni di Rabia e Nahda nel loro quinto anniversario. Gli agenti di sicurezza egiziani hanno effettuato operazioni contro membri della Fratellanza Musulmana (Ihwan) per impedire manifestazioni per commemorare i massacri di Rabia e Nahda. Nella città di Giza e Bahira sono stati detenuti 13 membri di Ihwan. Secondo i rapporti, i detenuti avrebbero svolto attività con lo scopo di diffondere voci infondate al fine di incoraggiare il caos, le turbolenze e le dimostrazioni tra il popolo. Mauritania. Giro di vite in vista delle elezioni di settembre di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 agosto 2018 Amnesty International ha chiesto l’immediata fine della serie di arresti di giornalisti, esponenti dell’opposizione e attivisti contro la schiavitù in corso in Mauritania alla vigilia delle elezioni. Il 7 agosto l’ex candidato alla presidenza della repubblica e attuale presidente dell’Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista (Ira) Biram Dah Abeid è stato arrestato nella sua abitazione. Il giorno dopo è stata la volta dei giornalisti Babacar Ndiaye e Mahmoudi Ould Saiboutwas, per un articolo critico nei confronti di un avvocato residente in Francia e con forti legami col governo mauritano. Il 9 agosto è toccato a un altro esponente dell’Ira, Abdellahi el Housein Mesoud. Biram Dah Abeid e Abdellahi el Housein Mesoud sono stati arrestati dopo la presunta denuncia di un giornalista che avrebbe accusato Biram di averlo minacciato. Gli arresti sono stati eseguiti esattamente il giorno in cui sarebbero stati presentati i nominativi per le elezioni al parlamento, cui Biram si era candidato. Non è stato esibito alcun mandato di cattura. A Biram è stato detto che l’ordine di arrestarlo veniva “dall’alto”. Il momento dell’arresto di Biram, poche settimane prima dello svolgimento delle elezioni cui si era candidato, è particolarmente sospetto. Data la ricorrenza della persecuzione giudiziaria contro di lui e di altri esponenti dell’Ira, non sarebbe affetto sorprendente se le accuse nei suoi confronti fossero politicamente motivate. Da tempo, gli attivisti e le organizzazioni non governative che lottano contro la schiavitù in Mauritania subiscono arresti e limitazioni allo svolgimento delle loro campagne. Gli avvocati di Biram Dah Abeid e di Abdellahi el Housein Mesoud si sono visti impedire più volte di incontrare i loro clienti e non hanno potuto avere visione dei verbali della polizia e dei fascicoli d’indagine. Il 13 agosto Biram Dah Abeid è stato formalmente incriminato per i reati di “aggressione volontaria alla vita e all’integrità fisica di una persona”, “incitamento all’aggressione volontaria alla vita” e “minaccia di violenza”, mentre Abdellahi el Housein Mesoud è stato accusato di “complicità” in tali reati. Babacar Ndiaye, amministratore del portale “Cridem”, e Mahmoudi Ould Saibout, giornalista di “Taqadoum” sono stati arrestati sulla base dell’esposto di un avvocato mauritano residente in Francia. Non sono stati ancora formalmente incriminati. Amnesty International continua a seguire anche la vicenda del senatore dell’opposizione Mohamed Ould Ghadde, arrestato il 10 agosto 2017 da uomini in borghese privi di mandato di cattura. Il suo processo per presunti reati di corruzione continua a essere rinviato. Egli aveva espresso l’intenzione di ricandicarsi alle elezioni di settembre ma ciò non è possibile dato che il procedimento nei suoi confronti è ancora in corso. Nel luglio 2018 il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha chiesto l’immediato rilascio di Ould Ghadde.