“Le pene alternative? Una risorsa”. Fico scuote i 5 Stelle sul carcere di Errico Novi Il Dubbio, 15 agosto 2018 Non che non fosse già venuto allo scoperto. Ma ora Roberto Fico difende l’ormai archiviata riforma carceraria con argomentazioni impietose. Lo fa in una lettera al direttore di Avvenire, pubblicata ieri dal giornale di Marco Tarquinio, e dei vescovi. Chiede alla “politica” e alle “istituzioni” di assumersi la “responsabilità di intercettare” il “dibattito sulla cultura della pena e del modello penitenziario” che “ha preso vita, ormai da tempo, fra associazioni e operatori del settore”. Secondo il presidente della Camera “siamo dentro un processo di cambiamento culturale e di paradigma: si parla sempre meno di “pena” e sempre più, al plurale, di “pene”, come del resto dice la Costituzione”. In un condensato di messaggi garbati ma severi al fronte giustizialista della maggioranza (e agli opinionisti di riferimento), Fico dunque spiattella come se niente fosse il nesso tra misure alternative e diminuzione del tasso di recidiva. Coraggioso. E anche rivelatore. Di un clima ormai del tutto particolare in cui si trova a operare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Lui, il guardasigilli, il detentore di ogni prerogativa decisoria sulla politica penitenziaria. Ma è anche il punto di scarico di tensioni interne all’area di governo, non più ignorabili. Da una parte chi, come singoli esponenti dell’esecutivo (compreso Matteo Salvini) e organi di stampa come il Fatto quotidiano, presidia il fronte della controriforma, e contesta qualsiasi apertura alle misure alternative. Dall’altra parte singoli ma autorevoli esponenti soprattutto dei Cinque Stelle che idealmente sono schierati con la riforma di Orlando, e cioè con un maggiore ricorso all’esecuzione penale esterna, e non si tratta di figure di retroguardia, visto che oltre a Fico si può citare Beppe Grillo. In mezzo c’è Bonafede. Che finora ha compiuto scelte ascrivibili alla prima delle due scuole di pensiero: ha rinunciato a esercitare la delega, scaduta il 3 agosto scorso; e ha preferito scrivere un altro decreto, dal contenuto profondamente cambiato, con singoli interventi organizzativi e cancellazione completa del cuore della riforma, ossia delle norme che eliminavano le preclusioni automatiche nell’accesso ai benefici e alle misure alternative. Fico sembrerebbe isolato. Ma non lo è. Innanzitutto perché come ricordato c’è Grillo, garante e fondatore del partito di maggioranza relativa, che lo scorso 13 luglio ha pubblicato un incredibile post sul sogno di “un mondo senza carceri”. Ma in controluce si scorge anche una certa preoccupazione che inizia ad avvertirsi a via Arenula. Intanto in un’intervista concessa la settimana scorsa a Radio 24, il ministro Bonafede ha detto che per migliorare la condizione dei detenuti si può pensare “anche” alle “misure alternative”, ma solo “per chi davvero se le merita”. Una assai prudente e solo ipotetica riapertura della questione, certo, ma è comunque un segnale. Vi si possono aggiungere le parole (riportate per esteso in altro servizio di questa pagina, ndr) del sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, secondo cui “dobbiamo dedicare la massima attenzione anche al fenomeno preoccupante del crescente numero di suicidi tra i detenuti”. Segno di un allarme sul micidiale cocktail tra sovraffollamento e delusione dei reclusi per la mancata riforma. Fico deve la propria autorevolezza al profilo super partes della carica che riveste. Ma proprio per questo colpisce la precisione chirurgica delle stilettate con cui controbatte ai controriformisti. Nella lettera pubblicata ieri da Avvenire sembra quasi scusarsi per la distanza fra il testo appena emanato dal governo e il decreto accantonato: “Un nuovo schema che attua parte della delega originaria. Non entro nel merito del testo e mi limito a considerare che la riforma in discussione, più che un punto di arrivo, costituisce il tassello di un percorso”. Modo elegante per dire: ci vorrebbe altro. Ricorda quindi che certezza della pena non può voler dire certezza che essa venga espiata in carcere, visto che anche le misure alternative sono una forma di esecuzione penale. Considerazioni che si potrebbero ascoltare dall’estensore della riforma, il professor Glauco Giostra. Fico aggiunge che in ambito accademico, da avvocati e magistrati “si propone l’introduzione di programmi di recupero”, e che appunto tale “cambiamento di paradigma va intercettato dalla politica e dalle istituzioni”. Tradotto: servono proprio le norme escluse dal decreto. Non solo: “Le statistiche attestano tra l’altro che le misure alternative alla detenzione producono minori tassi di recidiva, e quindi più sicurezza per i cittadini”. E questo è forse il passaggio più importante. Perché sulla fondatezza delle tesi per cui più si sconta la condanna al di fuori della cella e meno reati si compiono quando si torna liberi, si è consumata un’aspra polemica nella scorsa primavera tra i fautori della riforma e il Fatto quotidiano. Il direttore Marco Travaglio contestò già a marzo, in un durissimo editoriale, l’idea che le misure alternative fossero sinonimo di maggiore sicurezza. Il suo giornale propose dopo alcune settimane le critiche di uno studioso, Roberto Russo, con cui si metteva in discussione la scientificità degli studi sulla recidiva. Dall’altro fronte rispose anche il Corriere della Sera, con un argomentato articolo di Luigi Ferrarella che citava gli studi di Banca d’Italia e Istituto Einaudi sull’esemplare “caso Bollate”. Fico neppure si affanna a scegliere tra i due fronti. Dà per scontato che tesi come quelle del Fatto siano sbagliate. E pianta una bandiera che non potrà essere priva di significato nel dibattito sul carcere all’interno della maggioranza. Certezza della pena o certezza del carcere? di Stefano Anastasia volerelaluna.it, 15 agosto 2018 Dall’inizio dell’anno trentacinque persone si sono tolte la vita in carcere, undici dei quali tra luglio e agosto, con un ritmo impressionante nelle ultime settimane. Il Ministro della giustizia ha deciso, quindi, di avviare una ispezione, non sappiamo se per accertare le cause dei singoli episodi o per capire le ragioni del fenomeno, ma è un inizio e come tale va apprezzato. Senza dimenticare, però, che non siamo all’anno zero. Giusto un anno fa la Conferenza Stato-Regioni approvava il Piano nazionale di prevenzione del rischio suicidario in carcere, cui stanno seguendo (con la legnosità tipica della pubblica amministrazione italiana) l’approvazione dei piani regionali e locali, istituto per istituto. Sono trent’anni, ormai, che l’Amministrazione penitenziaria affronta il problema, da quella prima circolare sui “nuovi giunti” firmata da Nicolò Amato nel 1987, quando la tragedia dei suicidi venne associata al trauma dell’ingresso in carcere. Da allora abbiamo imparato che anche i passaggi processuali possono essere a rischio, e finanche la prospettiva di un ritorno in libertà senza rete e senza prospettive. Per non parlare delle condizioni ambientali e relazionali in carcere, dal degrado degli spazi ai rapporti con il personale e i compagni di detenzione. Sono trent’anni che, pur tra molta medicina e burocrazia difensiva, si sperimentano nuove e buone prassi di prevenzione, come - per esempio - la formazione di peer supporter tra gli stessi detenuti che, come mi è capitato di vedere a Civitavecchia, sono capaci più e meglio degli operatori di intercettare e intervenire sul disagio della detenzione. Ma il problema dei suicidi in carcere non si risolve in carcere, sarebbe come tentare di svuotare il mare con un bicchiere. Diffondendo la notizia di un recente episodio di suicidio, giustamente il Garante nazionale delle persone private della libertà ha richiamato l’attenzione della società civile e delle istituzioni locali e nazionali sulle condizioni di vita dentro e fuori le carceri, e su quanto potrebbe essere fatto per garantire ai detenuti una speranza di vita migliore prima ancora che vengano arrestati. È il vecchio tema sollevato tanti anni fa dal migliore dei magistrati di sorveglianza e dei capi dell’amministrazione penitenziaria che questo Paese abbia avuto, Alessandro Margara, di cui qualche settimana fa abbiamo ricordato la scomparsa. Margara denunciava la natura del carcere come discarica sociale e proprio per questo elaborò una proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario volta a liberare la marginalità sociale dal carcere. Purtroppo quella proposta è rimasta lettera morta. Così come sono destinate a restare lettera morta le proposte elaborate nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale e della Commissione ministeriale di attuazione della delega alla riforma penitenziaria. Sulla base di nuovi e oscuri calcoli temporali, che - di fatto - hanno prorogato la vigenza della delega fino a ottobre, il Consiglio dei ministri ha approvato una terza versione dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Sulla base della confusione tra certezza della pena e certezza del carcere, sono stati cancellati dalla proposta del Governo tutti i riferimenti alle alternative al carcere. Il rifiuto ideologico delle alternative al carcere arriva fino al punto che nel nuovo schema di decreto sono state cancellate finanche la sospensione della pena per gravi motivi di salute psichica (cosa su cui è chiamata a pronunciarsi a breve la Corte costituzionale, che non potrà che parificare la malattia mentale alle patologie fisiche) e l’alternativa terapeutica per i malati di mente. Intanto, al 31 luglio, i detenuti sono arrivati a 58.506, 1.740 in più dell’anno precedente. Dal contratto tra Lega e M5S e dagli interventi pubblici del Ministro Bonafede sappiamo qual è l’indirizzo di Governo: la pena non può che essere detentiva; poi, lì in carcere, potranno essere promosse attività lavorative per il futuro reinserimento sociale dei condannati; i migliori tra i migliori (quelli che non abbiano reati ostativi, che non si comportino male, che abbiano risorse familiari e sociali significative e la fortuna di trovarsi in un istituto e in un territorio che offrano opportunità di lavoro e di reinserimento sociale) magari riusciranno a finire la loro pena fuori dal carcere. Si tratta di ricette antiche, secondo cui la pena detentiva è di per sé rieducativa e le alternative sono benefici straordinari. Ricette che hanno dimostrato nel tempo la loro inefficacia sotto i due profili costituzionalmente rilevanti del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e della prospettiva di reinserimento sociale dei condannati. Sul primo versante, non dobbiamo mai dimenticare che la privazione della libertà è una condizione innaturale e sempre a rischio di trattamenti contrari al senso di umanità. Proprio quando constatiamo la progressione dei suicidi in carcere, non dobbiamo dimenticare che la loro frequenza è di circa diciassette volte superiore a quella riscontrata nella società libera. Dunque, la prima misura di prevenzione del rischio suicidario è quello di non abusare del carcere, sia in attesa del processo che dopo la condanna, e riservarlo esclusivamente ai reati più gravi (non certo alla detenzione di lieve entità di sostanze stupefacenti, come è accaduto di registrare in più di uno dei casi di suicidio delle ultime settimane). Quanto al reinserimento dei detenuti, va da sé che un’attività di istruzione, formazione e inserimento lavorativo in carcere sia auspicabile, ma deve essere offerta a tutti i condannati e deve avere, appunto, la prospettiva di proseguire anche fuori, e il modo migliore perché la abbia è che possa svilupparsi in una alternativa al carcere già durante l’esecuzione penale, quando gli operatori della giustizia, degli enti locali, del mondo del lavoro e del terzo settore possono cooperare nel sostegno al reinserimento sociale di chi venga da una storia complicata, detentiva e non. Il neo-Ministro va molto fiero del progetto “Mi riscatto per Roma”, promosso con l’Amministrazione capitolina e che vede coinvolti decine di detenuti nella manutenzione urbana, dei parchi e delle strade. E certamente ne saranno contenti i detenuti che vi partecipano, che hanno così la possibilità di uscire dal carcere, fosse pure per lavorare sotto il sole e lo sguardo vigile della polizia penitenziaria. Ma tutto ciò avviene sulla base di una previsione di legge che consente prestazioni di attività a titolo volontario e gratuito per progetti di pubblica utilità. Lasciamo perdere la questione della volontarietà, e se cioè delle persone detenute possano essere “libere” di prestare opera “volontariamente”, come prevede la norma, e se non si tratti piuttosto dell’ennesimo scambio per accedere ai vagheggiati benefici penitenziari. E lasciamo pure perdere l’osservazione di chi contesta che, nel caso specifico, queste attività non generino servizi nuovi per la cittadinanza, ma compensino responsabilità amministrative del Comune che per esse dovrebbe avere e stanziare risorse proprie in bilancio. Stiamo al punto che ci interessa: se la prestazione a favore dell’Amministrazione comunale fosse retribuita, meglio se alle dipendenze di un soggetto terzo, che possa garantire la continuità del rapporto di lavoro, si potrebbe sperare che quell’esperienza - oltre alla formazione, oltre allo svago, oltre all’utilità per il Comune - possa essere l’inizio di un percorso di reinserimento sociale che, attraverso il lavoro esterno e un’alternativa al carcere in fine pena, prosegua in libertà. Altrimenti finirà lì e non si andrà lontano. Questo resta il modo migliore per prevenire i suicidi e per produrre sicurezza nell’esecuzione di misure penali: non chiudere dietro le mura di una prigione o le sbarre di una cella, ma scommettere sulle alternative al carcere sin dall’irrogazione della pena o, per i reati più gravi, nel corso della sua esecuzione. Seguire e accompagnare in un diverso progetto di vita, riconoscendo la distinzione tra la persona e il fatto per cui è stato condannato: è questo il primo, vero cambiamento di cui l’esecuzione penale ha bisogno “Continuiamo a essere speranza per tutti i detenuti italiani” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 agosto 2018 Come da tradizione il Partito Radicale visiterà le carceri: oggi a Rebibbia e domani a Regina Coeli. Rita Bernardini: “verificheremo anche oggi quali siano le condizioni di detenzione nei due istituti penitenziari romani, cronicamente caratterizzati da un forte sovraffollamento”. Come sempre da ormai 18 anni il ferragosto sarà sinonimo di carcere per il Partito Radicale. Infatti alcuni esponenti saranno oggi in visita a Roma nel Nuovo Complesso di Rebibbia, a partire dalle ore 10: 30, e domani a Regina Coeli. A capitanare la pattuglia radicale ci sarà come sempre Rita Bernardini, coordinatrice della Presidenza del Partito, che farà visita all’intera comunità penitenziaria insieme a Valter Cara (Responsabile della campagna raccolta firme per la separazione delle carriere Camera Penale di Tivoli) e agli attivisti del Partito Radicale Maria Laura Turco, Ilaria Saltarelli, Barbara Rosati, Bachisio Maureddu. “Verificheremo anche oggi - ci racconta Bernardini - quali siano le condizioni di detenzione nei due istituti penitenziari romani, cronicamente caratterizzati da un forte sovraffollamento”. Al 31 luglio 2018 a Rebibbia erano ristretti infatti 1.481 detenuti in 1.178 posti regolamentari, con un sovraffollamento del 126%; a Regina Coeli i detenuti erano 954 a fronte di una capienza regolamentare di 617 posti, con un sovraffollamento pari al 155%. “Si tratta di una attività - prosegue Bernardini - che il Partito Radicale svolge durante tutto l’anno in tutta Italia e che è tanto più necessaria nel rovente periodo ferragostano e in questo particolare momento politico, contrassegnato da un pericoloso arretramento riformatore nel campo della legalità costituzionale dell’esecuzione penale. È una situazione disperante per tutta la comunità penitenziaria e finora le uniche risposte che lasciano spazio ad un minimo di speranza sono venute dalla Corte costituzionale e dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, giurisdizioni superiori alle quali come Partito Radicale guardiamo con la fiducia, che nel tempo l’una e l’altra hanno certamente dimostrato di meritarsi”. La situazione appare ancora più preoccupante per i suicidi, ormai 36 dall’inizio dell’anno, che si verificano tra i detenuti e gli agenti e che hanno portato il ministro Bonafede e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ad avviare delle ispezioni. Su questo commenta così Bernardini: “L’arbitrarietà fuorilegge in cui si svolge l’esecuzione penale nelle nostre carceri lascia il campo libero alla disperazione che sovente colpisce anche gli agenti, l’unica figura professionale penitenziaria che è costantemente a contatto con il disagio dei detenuti; è recente la notizia di un agente trentenne che si è suicidato a San Gimignano. Costringere i servitori dello Stato ad agire nell’illegalità e a far fronte all’avvilimento e alla depressione che regnano sovrane è semplicemente ignobile”. Infine è da notare che si entrerà in carcere a pochi giorni dall’affossamento della riforma dell’ordinamento penitenziario da parte del nuovo governo che ne ha predisposto uno ex novo. Ad attendere la delegazione radicale ci sarà quindi un clima difficile e sarà complicato “essere speranza” per i reclusi, come amava ricordare Marco Pannella: “Non mollare è sempre più necessario e mi auguro - conclude Bernardini - che sempre più lo si possa fare insieme alla comunità penitenziaria che ci auguriamo comprenda quanto sia importante salvare il Partito Radicale attraverso il raggiungimento dei tremila iscritti entro la fine dell’anno. Anche questo significa rendere ciascuno artefice della propria incessante risocializzazione, impegno che dovrebbe essere di tutti, non solo dei detenuti”. Gratteri: “costruire 4 carceri prefabbricate di 5.000 posti ciascuno per superare l’emergenza” lameziainforma.it, 15 agosto 2018 È durata 2 ore la lezione che Nicola Gratteri ha tenuto durante l’Università d’Estate di Soveria Mannelli, che quest’anno ha come tema “Come andremo a incominciare. Ricette per la nuova Italia”. Il magistrato è stato introdotto dal Sindaco della Città Leonardo Sirianni e da Mario Caligiuri dell’Università della Calabria che, insieme all’editore Florindo Rubbettino, dell’Università del Molise, dirige l’Università d’Estate. Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro ha trattato il tema della giustizia come consapevolezza civile e culturale, affrontando anche temi quali il consumo della droga cosiddetta leggera, della funzione del carcere e il processo telematico. La cosiddetta droga leggera, per Gratteri, è inevitabilmente l’anticamera di quella pesante: legalizzarla non porterebbe alcun vantaggio ma aumenterebbe soltanto i danni come l’incremento della dipendenza e la riduzione dello spessore della corteccia cerebrale con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Il magistrato ha poi sostenuto che impropriamente si parla di emergenza carceri poiché spesso si chiudono interi reparti in quanto non c’è personale di custodia, considerato che su 44.000 operatori della polizia penitenziaria circa 10.000, fino a poco fa, sono stati sottratti al servizio di detenzione per accompagnare i detenuti, per i processi nei tribunali di tutta Italia. Secondo il magistrato, si potrebbero costruire in poco più di un anno 4 carceri prefabbricate di 5.000 posti ciascuno per normalizzare la situazione, anche se nel 2015 il carcere di Lamezia Terme venne chiuso proprio per poter aprire la nuova area detentiva di quello di Siano. Altra valutazione di Gratteri quella di considerare il lavoro per i detenuti come terapia, esattamente come avviene per i tossicodipendenti. In questo modo svolgerebbero delle attività di utilità sociale senza essere pagati. Per quanto riguarda poi il processo telematico, e in particolare la possibilità di rendere testimonianze in videoconferenza, l’unica riforma recepita nel pacchetto delle riforme proposte dalla commissione guidata da Gratteri, questa ha già comportato risparmi per decine di milioni di euro e un più corretto utilizzo del personale di custodia. Il magistrato ha poi ricordato i risultati della sua azione quale procuratore della Repubblica di Catanzaro con gli arresti eseguiti, i beni sequestrati e i risparmi ottenuti ottimizzando e valorizzando le risorse umane e strumentali a disposizione. Risultati possibili, ha detto, con un convinto gioco di squadra dei magistrati e delle forze dell’ordine, i cui ufficiali inviati in Calabria sono tra i migliori d’Italia. Quattro in definitiva sono state “le ricette per la nuova Italia” proposte dal magistrato. La prima è che il funzionamento della giustizia soprattutto per contrastare efficacemente le mafie è una questione politica e per attuare una necessaria riforma strutturale occorre una politica forte, che guardi al domani e non al sondaggio del giorno dopo. La seconda è che l’educazione rappresenta la chiave fondamentale poiché un cittadino poco istruito è più facilmente manovrabile, anche dalla criminalità organizzata. La terza è che occorre dire no alla droga e all’assistenza, perché se si dipende dalle sostanze stupefacenti o da una persona si perde la libertà e la dignità. Infine, Gratteri ha concluso dicendo che occorre essere consapevoli che la malapianta uccide il presente e il futuro delle giovani generazioni e quindi nessuno si può voltare dall’altra parte. La lezione è stata registrata da Radio Radicale e da Liberi.tv, mentre l’organizzazione è stata curata dall’associazione Fiore di Lino. L’inaugurazione dell’Università d’Estate è avvenuta con la lezione del critico d’arte Vittorio Sgarbi il 10 agosto e la terza lezione si svolgerà mercoledì 29 agosto con il Commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Mario Morcellini. Il Paese che diffida del progresso di Antonio Polito Corriere della Sera, 15 agosto 2018 Il “cigno nero” nel Paese che non progetta il suo futuro. L’Italia è un Paese costruito negli anni 60, abbandonato dagli anni 90, che ha cominciato a venir giù da dieci anni. E la ragione è che abbiamo smesso di credere nel progresso. Tutto ci sembra più importante: l’ambiente, l’austerità, i comitati dei cittadini, la Corte dei conti, la lotta agli sperperi e alla corruzione. C’è sempre una buona ragione per non fare nulla. Di questo cedimento strutturale è una triste testimonianza la polemica politica che si è accesa mentre ancora si tiravano fuori i morti. Il ministro Toninelli, che governa da due mesi, dà la colpa alla mancata manutenzione delle infrastrutture da parte di chi governava prima, mentre chi governava prima dà la colpa a quelli come Toninelli che bloccano ogni nuova opera pubblica. Ma il guaio è che, da molti anni a questa parte, non si fanno né la manutenzione né le grandi opere. Mentre invece un paese moderno aggiusta ciò che si rompe mentre costruisce ciò che non si romperà per i prossimi cinquant’anni. Smettendo di progettare il futuro, stiamo perdendo anche il know how per gestire ciò che avevamo. Chiusa l’industria chimica, finiti i Nobel. Chiuse le centrali nucleari, persa la tecnologia. La storia del declino di un Paese è anche questa. I Romani lasciarono all’Italia la più formidabile rete di strade e acquedotti della storia, e ai barbari bastarono pochi decenni di abbandono per trasformarla in un cumulo di macerie. La straziante tragedia di Genova è figlia di una paralisi del progresso. Il ponte aveva i suoi guai da molto tempo. Se è crollato, è evidente che la manutenzione non è stata all’altezza. La Giustizia dovrà provare a capire perché e per colpa di chi: l’industria dei processi per disastro colposo non si ferma mai. Ma già dalla fine degli anni 90, aveva avvertito un esperto, il costo della manutenzione di quel ponte era diventato così elevato da essere quasi pari al costo della sostituzione. Esiste del resto ormai da decenni un progetto di bretella che può eliminare l’anomalia di un’autostrada che passa sulla testa di una città: la Gronda di Ponente. Eppure, insieme ad altri nomi esotici come la Tav o il Terzo Valico, è finita nell’elenco delle battaglie epiche e infinite di cui sentiamo la sera in tv, con i buoni e i puri che vogliono bloccarle e i cattivi e i corrotti che vogliono farle. Siccome i buoni nelle storie vincono sempre, alla fine le opere si fermano. Ma la vita no. Meno tunnel ferroviari vuol dire più Tir sulle autostrade, compresi quelli che prendono fuoco a Bologna o cadono sulla testa della gente a Genova. E se blocchi la Gronda devi tenerti il Ponte Morandi: infatti nel 2013, sul sito dei Cinque Stelle, un comunicato del Comitato del No definiva “una favoletta” il rischio che il viadotto crollasse. Per evitare di sostituirlo, ci si doveva tenere il vecchio. Come in un paradosso filosofico, la tartaruga diventa più veloce di Achille. La paralisi è destinata ad aggravarsi. Al governo ci sono insieme i più grandi avversari delle opere pubbliche, i Cinque Stelle, e i più accaniti sostenitori, i leghisti. I primi fermerebbero tutto per essere coerenti con quando erano all’opposizione, e cavalcavano tutti i Comitati del No d’Italia. La loro cultura, costruita sugli show di Beppe Grillo, dà per finita la corsa dell’umanità verso il progresso, e assegna alla nostra generazione il solo compito della manutenzione, dai viadotti ai vaccini. I leghisti, invece, farebbero qualsiasi opera pubblica per coerenza con quando erano al governo, locale e nazionale, con il centrodestra. La loro cultura, basata sul fare padano, è produttivista al punto di disprezzare ogni vincolo burocratico o ambientale. E infatti Toninelli ha messo la Gronda, finalmente arrivata alla fine del suo lungo iter amministrativo e ormai pronta per la gara d’appalto nel 2019, nel congelatore delle opere “da valutare”. Mentre il suo vice al ministero delle Infrastrutture, Edoardo Rixi, leghista, si batte per farla fin da quando era l’assessore allo sviluppo di Toti alla Regione Liguria. Tra le macerie e i morti di questa città sfortunata, Genova, che più di altre sembra pagare il prezzo della transizione dalla grande civiltà industriale che fu, si intravede insomma quel “cigno nero”, l’evento imprevedibile ma ineludibile, che è stato evocato come vera prova del nove della strana maggioranza che ci governa. Solo che stavolta Bruxelles, i mercati e Soros non c’entrano niente. È tutto made in Italy, ahinoi. Il Paese malato ha bisogno di sicurezza di Sergio Rizzo La Repubblica, 15 agosto 2018 Le ore successive alla tragedia sono sempre il terreno più fertile per accuse campate in aria, esternazioni improvvide, sentenze insensate. C’è chi se la prende con i tir stranieri che pesano troppo, chi punta l’indice contro la colpevole assenza di “manutenzione ordinaria” senza probabilmente sapere ciò di cui sta parlando, e chi imputa il crollo del ponte Morandi al rigore di bilancio imposto dalle tecnocrazie antidemocratiche di Bruxelles. Non mancano neppure le difese d’ufficio, per quanto si tratti nella maggioranza dei casi di difendere l’indifendibile. Ieri abbiamo assistito a tutto questo, senza che nessuno si assumesse la sia pur minima responsabilità per quanto è accaduto a Genova. L’ingegner Riccardo Morandi, il padre del i ponte venuto giù ieri, è stato considerato a lungo il mago italiano delle grandi strutture in cemento armato, mentre la sua opera veniva eletta a orgoglio dell’ingegneria italiana. Ma quando fu costruita, più di cinquant’anni fa, non si poteva nemmeno lontanamente immaginare a quali sollecitazioni sarebbe stata sottoposta: il livello di traffico raggiunto su quella specie di tratto autostradale, che attraversa la città ligure snodandosi improbabilmente fra le case e i palazzi, sarebbe assolutamente insostenibile in qualunque metropoli del mondo. Figuriamoci a Genova, uno degli agglomerati urbani più congestionati del Paese, più congestionati d’Europa. Che un’autostrada passi lì in mezzo oggi è semplicemente una follia. Così, quel ponte era anche il simbolo arrogante di un ritardo infrastrutturale di svariati decenni. Colmato soltanto da diluvi di parole. Né, cosa forse ancora più importante, negli anni Sessanta esistevano esperienze consolidate della durata di vita in piena efficienza di simili strutture. Non c’erano stime in alcun modo attendibili sulla scadenza del calcestruzzo precompresso per il semplice fatto che quella tecnica veniva utilizzata da pochissimo tempo. Sappiamo per giunta, come sa pure bene chi da molti anni a questa parte gestisce quel tratto di strada sospesa, che il ponte Morandi era stato già oggetto di opere di manutenzione piuttosto significative negli anni passati. E che le condizioni della struttura non fossero le stesse di cinquant’anni prima era un fatto talmente conclamato che la società Autostrade aveva bandito alla fine dello scorso mese di aprile una gara da una ventina di milioni di euro per la realizzazione, testuale, di “interventi di retro-fitting strutturale” del viadotto. In parole povere, si trattava di renderlo più solido e sicuro. Vuol dire che non lo era abbastanza. Su quel viadotto sono poi fiorite le polemiche più ustionanti fra chi giurava sulla sua tenuta centenaria e chi invece ne profetizzava il crollo imminente. Fatto sta che lì sopra hanno continuato a transitare decine di migliaia di mezzi leggeri e pesanti al giorno. E sarebbe bastato questo, oltre alla vetustà dell’opera e alla sua collocazione critica, per giustificare un monitoraggio fuori dall’ordinario. Andrà ora accertato, al di là delle tante assicurazioni che abbiamo ascoltato in queste ore, se quelle verifiche straordinarie siano state effettivamente compiute e quale peso abbiano eventualmente avuto le valutazioni sui costi. Tanto più alla luce di alcuni precedenti assai poco rassicuranti. Negli ultimi anni i cedimenti strutturali di ponti e viadotti in Italia si sono susseguiti con una frequenza impressionante. Nell’aprile del 2017 una pattuglia dei carabinieri è scampata per miracolo al crollo del viadotto della tangenziale di Fossano. Qualche settimana prima era stata la volta di un ponte dell’autostrada A14. Mentre nell’ottobre del 2016 un cavalcavia della provinciale fra Molteno e Oggiono non aveva retto al passaggio di un tir. Per non parlare dei crolli a ripetizione in Sicilia. Da anni i tecnici del ministero delle Infrastrutture avvertono che la sicurezza delle strutture in calcestruzzo precompresso più vecchie va messa in discussione. Lo sa, evidentemente, anche chi si occupa della manutenzione (non quella ordinaria, ovviamente) delle strade: quando infatti si rende necessaria la sostituzione delle strutture portanti di un cavalcavia traballante, sempre più spesso sono le travi d’acciaio che prendono il posto di quelle di cemento. E siccome la stragrande maggioranza dei viadotti stradali e autostradali del nostro Paese è stata realizzata con quei materiali e quelle tecniche, la cosa dev’essere presa maledettamente sul serio, alla stregua di una emergenza nazionale delle nostre infrastrutture. A maggior ragione dopo la tragedia di Genova, sarebbe il caso che chi ha la responsabilità di guidare il Paese accantonasse i bisticci stucchevoli e pretestuosi di queste settimane sulle infrastrutture, più adatte a una campagna elettorale che a un governo, e si concentrasse sulle cose serie. Per dirne una, è necessario quanto prima avviare un piano nazionale di verifica a tappeto dello stato dei viadotti e della sicurezza delle nostre strade e autostrade. Serve molto più delle chiacchiere inutili, delle sciocchezze da dilettanti e delle macabre speculazioni politiche. Anche se forse rende decisamente meno. La corruzione è la nuova mafia? di Alessandro Milone La Repubblica, 15 agosto 2018 La corruzione è senza dubbio uno dei fenomeni criminali che desta più allarme nella società civile italiana. Negli ultimi anni, infatti, il legislatore è intervenuto più volte per regolare la materia, sia tramite nuove norme penali di tipo repressivo, introducendo inedite figure di reato o aumentando il trattamento sanzionatorio, sia costruendo - anche sulla spinta di pressioni internazionali - un’efficace sistema di prevenzione della corruzione fondato sulla trasparenza amministrativa e sulla vigilanza nei contratti pubblici di cui pietra angolare è l’Autorità Nazionale Anticorruzione. La pervasività della corruzione, che si insinua nella pubblica amministrazione, nella politica, nel mondo delle imprese, e in quello delle realtà professionali, ha indotto numerosi commentatori ed attori della scena politica e giudiziaria nazionale a ritenere che essa sia equiparabile alla gravità del fenomeno mafioso. Delle similitudini fra i due fenomeni criminali sono innegabili: la corruzione, invero, al pari dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, è un virus endemico che infetta i gangli vitali dello Stato minando non soltanto l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione ma anche la concorrenza nel mercato e la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Non può tacersi, tuttavia, sulle differenze che intercorrono fra talune fenomenologie corruttive e quelle mafiose. Se un pubblico ufficiale è infedele o corrotto, rimane tale a seconda che svenda il proprio atto e la propria funzione ad un imprenditore-colletto bianco o ad un mafioso. Per utilizzare le parole di Franco Roberti, già Procuratore Nazionale Antimafia, “mafia e corruzione sono fenomeni diversi e distinti, ma hanno in comune la visione proprietaria e predatoria della cosa pubblica. Tanto il mafioso quanto il corruttore rubano a scapito della collettività”. In più, va ribadito con determinazione che, a prescindere dai poco attendibili indici statistici di misurazione dei fenomeni corruttivi, diffusi dai mezzi di comunicazione, l’Italia non è tanto più corrotto di altri paesi dell’Eurozona. D’altro canto, tuttavia non può ignorarsi che la corruzione rappresenti per l’Italia un nuovo veicolo per le mafie di agire, un’arma silente che desta meno allarme nella società e con difficoltà attira l’attenzione delle forze inquirenti. È nata così una nuova mafia, per così dire “borghese”, che preferisce sostituire la violenza con l’accordo, l’intimidazione con le tangenti, l’uso delle armi con la corruzione, e che diventa il mezzo con cui le mafie conducono i propri affari. Attuale ed indicativa in tal senso è l’inchiesta della Procura di Roma su “Mafia Capitale”, un’organizzazione che - secondo l’accusa - sarebbe una mafia “originale ed originaria” attiva nel settore degli appalti e dedita alla corruzione. Come è noto, quindi, la corruzione è una fattispecie criminale oscura, difficile da portare alla luce, proprio per la natura stessa del pactum sceleris, in quanto si sostanzia in un accordo-contratto tra due o più attori protagonisti, senza vittime dirette. A causa della sua sistematicità, che il più delle volte sfocia in un più ampio quadro di mala-administration, quindi, si è iniziato a pensare di poter debellare tale virus utilizzando gli stessi strumenti investigativi e processuali che il nostro ordinamento giuridico ha costruito per affrontare il fenomeno mafioso. Su questo punto - ovvero sull’estensione del cosiddetto doppio binario antimafia alle fattispecie di corruzione - gli interpreti del diritto si dividono in annosi dibattiti. Coloro che sostengono tale estensione di disciplina, valorizzando l’efficienza della medesima vorrebbero l’applicazione analogica, nel contrasto alle fattispecie corruttive, delle norme sui testimoni di giustizia, sul sistema premiale per i “pentiti”, della disciplina sulle intercettazioni, della presunzione semplice in materia cautelare e le disposizioni in materia di undercover agent. Dall’altro lato si pone parte della dottrina, la quale, in una prospettiva garantista, sostiene la necessità di non cedere, ancora una volta, alla legislazione d’emergenza. La lotta alla corruzione non può fondarsi solo su nuove leggi repressive, diminuendo le garanzie processuali ed attuando forme investigative sempre più invadenti. Si evidenzia come il sistema “doppio binario” sia stato creato per essere un sistema speciale e temporaneo finalizzato esclusivamente ai reati di mafia. Estenderlo, sotto spinte giustizialiste, anche ai reati di corruzione - e quindi potenzialmente a tutti i cittadini - creerebbe un vulnus costituzionale insanabile. In conclusione, una soluzione andrebbe trovata mediando tra le due anime estreme e valutando caso per caso quali istituti possano essere ripresi anche per la lotta alla corruzione, senza sacrificare i valori di garanzia della nostra Carta Costituzionale. In tal senso, l’introduzione di misure come, per esempio, quelle in materia di “daspo” per gli autori di fattispecie corruttive ovvero l’estensione dell’utilizzo di agenti sotto copertura, potrebbero essere condivisibili. La lotta alla mafia ed alla corruzione in realtà non possono essere solamente affidate alla materia penale e al sistema sanzionatorio ma vanno concretizzate anche su un piano politico, culturale, sociale ed economico attraverso un completo risanamento delle istituzioni e del mercato. La cultura della legalità non può che essere l’arma vincente e deve diventare una priorità dello Stato. La vocazione manettara del governo gialloverde e l’eredità di Pannella di Annalisa Chirico Il Foglio, 15 agosto 2018 Per Marco Pannella il Ferragosto era come Natale e Capodanno: si passava dietro le sbarre. Tra i carcerati, meglio se criminali. Per il terzo anno di fila, oggi faremo a meno del suo codino bianco in qualche telegiornale, delle interviste dilaganti su Radio radicale, delle nuvole fumose, al sapore di grappa, in via di Torre Argentina. Pannella non c’è più, e ci mancano, quanto ci mancano, le sue filippiche appassionate contro lo “stato in flagranza di reato” e il carcere ridotto a “discarica sociale”, gonfio di un’umanità sofferente eppure capace di “essere speranza piuttosto che avere speranza”. Spes contra spem, e così sia. Pannella non c’è più, l’ho già detto, e la foscoliana “corrispondenza d’amorosi sensi”, caro Marco, non funziona come avevi promesso; in compenso, in via Arenula è assiso sulla poltrona di ministro un sorridente avvocato civilista, di nome Alfonso Bonafede, dimaiano di ferro e teutonico fautore della “certezza della pena”, intesa come certezza di una pena soltanto, la galera. In realtà, l’articolo 27 della Costituzione, le pene, le declinerebbe al plurale, ma certe sottigliezze, com’è noto, fuoriescono dall’orizzonte ideologico pentastellato. Il Guardasigilli lo ha chiarito in un colloquio con il Fatto quotidiano: le misure alternative “sono soltanto interventi deflattivi”, pannicelli caldi da rimpiazzare con ben più incisivi “provvedimenti strutturali”. Si preannuncia un giro di vite per affidamenti in prova, domiciliari, semilibertà e via discorrendo. Il Bonafede-pensiero, sia detto, è coerente con un “contratto di governo” che è un monumento al populismo penale, una forca di programma tesa al radicale Uturn in materia di depenalizzazioni, non punibilità per particolare tenuità del fatto, estinzione del reato per condotte riparatorie. Primeggia la falsa idea che la pena detentiva, attraverso la privazione totale della libertà, sia l’unica degna di questo nome. Sarà che nei circoli pentastellati le massime di Piercamillo Davigo macinano una mole di retweet, e Cesare Beccaria è un marchio di biscotti (“La certezza di un castigo, benché moderato, - scriveva il giurista milanese - farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”), fatto sta che una concezione tribale della giustizia ignora almeno due fatti: l’effetto deterrente della pena dipende non dall’entità ma dalla certezza che essa sarà effettivamente scontata; i paesi che estendono il ricorso alle misure alternative sperimentano tassi di recidiva più bassi. L’ossessiva invocazione di manette e massimi edittali funziona, forse, per la propaganda, ma governare è un’altra storia. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 luglio scorso i centonovanta istituti penitenziari italiani ospitano 58.506 detenuti, con un “surplus” di ottomila unità rispetto alla capienza regolamentare; il 33 percento di questi - quasi ventimila reclusi, tra appellanti e ricorrenti - vive ristretto in una cella in assenza di una condanna definitiva. 9.163 detenuti, pari a circa il 15 percento della popolazione carceraria, attendono una sentenza di primo grado. Si conferma l’anomalia di un paese dov’è più facile finire dietro le sbarre nelle more di un procedimento che non a seguito di una sentenza passata in giudicato. A sentire il ministro Bonafede, il governo costruirà nuove carceri, anzi ristrutturerà gli istituti esistenti: su costi, tempi e personale, già in perenne sotto organico, aleggia l’assoluta incertezza. I piani carceri, annunciati o anche solo ventilati, sono un comodo pass-partout per ogni governo, la vera questione è che, seppure una modesta porzione del programma gialloverde diventasse realtà, le carceri tornerebbero ad affollarsi in un battibaleno. Non a caso, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha evidenziato quanto segue: “Gli stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”; al contrario, “gli stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Certo, toccherà convincere il ministro Bonafede che la pena non è una soltanto. La radicale Rita Bernardini, ribattezzata “Santa Rita delle carceri”, si accinge a trascorrere il terzo Ferragosto senza Pannella. “Questa storia della certezza della pena, per come la interpreta il governo, mi fa un po’ sorridere - ci confida prima di recarsi in visita a Rebibbia - Basterebbe rileggere Beccaria: la pena è certa se sai che verrai beccato e punito per il reato commesso. Da decenni lo stato italiano viola sistematicamente diritti umani fondamentali senza pagare pegno. Siamo in una condizione di illegalità costituzionale”. “Riforma intercettazioni, lo stop è utile ai pm sleali” di Errico Novi Il Dubbio, 15 agosto 2018 Il giudice Guido Salvini: ora gogna libera. Guido Salvini è un giudice oggi in servizio a Cremona, noto per aver istruito a Milano importantissimi processi sul terrorismo. Non è nuovo a polemiche nei confronti dei suoi colleghi. Né a posizioni scomode, assunte in passato anche dalle colonne del Dubbio. Ma l’ultima sua avvelenata gucciniana sul tema intercettazioni è di quelle per le quali rischierebbe un processo disciplinare, se non si trattasse di una posizione inattaccabile nella sostanza. Salvini scrive sul Foglio di ieri in forma di lettera al direttore Claudio Cerasa. Intervento breve ma, diciamo, intenso: “Certo non era una legge perfetta ma non era una legge bavaglio per la stampa e introduceva comunque un principio di responsabilità”, dice tra l’altro a proposito del decreto sugli “ascolti” appena congelato dall’esecutivo. “Prevedeva infatti la costituzione di un Archivio riservato, di cui sarebbe stata responsabile la Procura, che le avrebbe rese inaccessibili (le intercettazioni, ndr), e a questo sistema di controllo si accompagnavano serie sanzioni in caso di divulgazione”. L’annullamento della riforma, secondo il dottor Salvini, “è stato voluto anche da buona parte della magistratura, ma non tutta - si è espresso in modo opposto ad esempio il procuratore di Torino Armando Spataro - ed il consenso a questo passo indietro non è un buon segno”. Ora, insinua, “ci sarà di sicuro qualche pubblico ministero che, scampato il pericolo di una regolamentazione un po’ più seria, sarà tentato di usare le conversazioni registrate non per la prova di reati ma per adornare le indagini con spezzoni di frasi difficili da interpretare ma ad effetto. Conversazioni magari riferite anche a persone che non c’entrano nulla con il reato in modo da dare alle sue inchieste maggior risonanza mediatica e favorirne anche un uso politico”. E ancora: “Questa tecnica nei paesi anglosassoni si chiama Naming and shaming, mettere in piazza intercettazioni che non servono per giudicare ma per esporre, con l’ausilio dei media, la vittima alla gogna. Nel nostro paese si usa un’espressione più volgare, che non ripeto”. La usiamo noi: sputtanare. Cosa che l’ottimo Salvini fa, giustamente, con i peggiori tra i suoi colleghi magistrati. Legittima difesa e furto domestico, una proposta indecente di Sergio Moccia Il Manifesto, 15 agosto 2018 Nella formulazione originaria (del codice Rocco!), la disciplina contemperava in modo equilibrato la tutela del bene e i limiti di una reazione proporzionata. La proposta leghista prevede l’inasprimento delle pene, più che per reati come omicidio colposo, disastro doloso l’associazione per delinquere e stupro. A fronte della diminuzione dei reati predatori contro il patrimonio, ed in particolare di scippi e furti all’interno di abitazioni, in riferimento a questi ultimi la Lega ha presentato alla Camera un disegno di legge, n.274, per inasprire in senso repressivo-deterrente la normativa in materia. Viene proposta una modifica della disciplina relativa sia al furto domestico, di cui all’art. 624-bis c.p., sia alla legittima difesa agita nei confronti degli autori di quel fatto, art. 52 c.p. Il problema non viene considerato dal punto di vista di un sistema penale, secondo moduli precostituiti e formalizzati, bensì come problema di singoli fenomeni criminali, per cui appare scontato liberarsi di impaccianti presupposti, quali ad esempio i principi costituzionali, per dare l’illusione di consentire un’azione quanto più rapida ed efficiente. In realtà, diffuse esigenze di “sicurezza”, unitamente ad una caratterizzazione di forte alterità dal comune cittadino dei potenziali criminali (di solito tossicodipendenti, immigrati ed altri variamente “marginali”) rendono costoro soggetti a diritti minorati e fanno percepire principi e garanzie come dei veri e propri ostacoli ad una “effettiva lotta al crimine”. E tutto questo si verifica perché nella considerazione di fenomeni socialmente rilevanti si sta producendo un mutamento radicale di prospettiva in senso disumanizzante: dagli individui verso aggregati statistici del tutto impersonali - delinquenti presunti, migranti, zingari - che tuttavia hanno il trait d’union di rappresentare un rischio per una disinformata pubblica opinione. La sicurezza, allora, non è più la conseguenza di un ordine sociale teso alla giustizia, ma è l’esito di scelte politiche approssimative, orientate nel migliore dei casi alla riduzione del danno: esse, come l’esperienza ha già dimostrato, sono condannate al fallimento. Appare esemplare la proposta in materia di legittima difesa e furti. La linea di politica criminale sottesa alla proposta si caratterizza, per una irragionevole iper-valutazione del patrimonio, a scapito essenzialmente di diritti fondamentali dell’individuo, compresa la vita e l’incolumità. Nella formulazione originaria del codice penale - sì, proprio quella del codice Rocco! - la disciplina della legittima difesa contemperava in modo equilibrato la tutela con l’esigenza che la condotta della vittima, a difesa di un bene personale o patrimoniale, si mantenesse nei limiti di una reazione necessitata dall’impossibilità di rivolgersi all’autorità, nonché, sottolineo, proporzionata. Sempre su iniziativa leghista, questo equilibrio era già stato alterato dalla riforma del 2006 che, nell’ambito di aggressioni realizzate in un contesto domiciliare (o in contesti a questo equiparati), aveva ampliato gli spazi della legittima difesa, in particolare in relazione alla tutela di beni patrimoniali, riducendo significativamente il potere discrezionale del giudice nella valutazione della proporzione tra aggressione e difesa. L’attuale proposta amplia ancor più lo spazio applicativo della legittima difesa. Manca ogni riferimento alla proporzione, che non può essere dedotto da un implicito richiamo alla necessità. Si tratta, infatti, di requisiti che vanno distintamente evidenziati, essendo strutturalmente e funzionalmente diversi: all’interno di una situazione necessitata, può ben esservi una reazione sproporzionata. Senza il riferimento esplicito alla proporzione passa il messaggio della legittimità di qualsiasi, irragionevole reazione, anche a scapito della vita, per tutelare il patrimonio! Va anche precisato che, al di là di ogni proclama demagogico, qualsiasi disciplina innovativa non potrà mai evitare che la vittima di un’aggressione sia indagata qualora l’aggressore sia ferito o ucciso, dal momento che dovranno comunque essere accertati gli elementi del fatto, in base all’art. 112 Cost. ancora vigente. L’altra parte della riforma riguarda l’inasprimento del già durissimo trattamento sanzionatorio previsto per furto in abitazione e scippo: la proposta leghista dispone la reclusione da cinque ad otto anni e, per le ipotesi aggravate, la reclusione da sei a dieci anni. Siamo veramente oltre i limiti della ragionevolezza, se paragoniamo queste sanzioni con quelle, inferiori, previste per la tutela di beni di significatività notevolmente maggiore rispetto al patrimonio. Penso all’omicidio colposo, alle lesioni dolose aggravate, all’associazione per delinquere, all’incendio, all’abbandono di persone minori o incapaci, al sequestro di persona, al crollo di costruzioni o altri disastri dolosi, allo stalking e alla violenza sessuale. A ciò si aggiunga anche l’esclusione dell’applicabilità di misure alternative alla detenzione. Rispetto alla riforma in materia di furti, l’aspirante legislatore vuole lasciare intendere che sia la vigente normativa, presuntamente poco severa, la causa del ricorrere del fenomeno e non, piuttosto, l’aggravarsi del disagio legato a tossicodipendenza, emarginazione, disoccupazione, espressivo del sempre più deciso - ed irresponsabile - abbandono di quell’ordine sociale equo e razionale alla cui realizzazione mirava l’ideale dello stato sociale di diritto. Ma questo è un addebito da muovere anche a quella classe politica che già da anni ha disatteso le aspettative di umanità e solidarietà tanto diffuse. Addio patteggiamento, ora per la Cassazione è ammissione di colpa di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 agosto 2018 Una sentenza del 6 agosto trasforma il rito speciale in prova “blindata” utilizzabile contro l’imputato in sede civile. La “metamorfosi” del rito del patteggiamento è ormai compiuta. Da istituto processuale per chiudere velocemente i conti con la giustizia senza che l’imputato debba - formalmente - ammettere l’addebito, a “indiscutibile” elemento di prova per il giudice civile. Con una recentissima sentenza della scorsa settimana, la numero 20562 del 6 agosto 2018, la Corte di Cassazione è tornata sui rapporti fra sentenza di patteggiamento e giudizio civile. Tra i principali vantaggi del patteggiamento vi è certamente quello di tagliare fuori dal procedimento penale la parte civile. A differenza del rito ordinario o dell’abbreviato, la persona offesa non può costituirsi per chiedere il risarcimento del danno, potendo far valere le sue ragioni solamente in sede civile dove, però, la sentenza di patteggiamento non ha efficacia. Anzi, non aveva. Con la pronuncia in questione, infatti, la sentenza di patteggiamento costituisce “indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione”. In pratica, la sentenza di patteggiamento può “ben essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che l’imputato non nega la propria responsabilità ed accetta una determinata condanna. Il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità”. Ma non solo: “Il giudice civile può anche utilizzare le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniale (senza alcuna garanzia difensiva, ndr) e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quan- to il procedimento penale è stato definito con il patteggiamento”. Una evoluzione giurisprudenziale profonda che arriva al termine di un percorso di “modifica” dell’istituto del patteggiamento. Inizialmente, nelle intenzioni del legislatore, la richiesta di applicazione della pena non doveva essere considerata come ammissione di colpevolezza. L’imputato, richiedendo l’applicazione della pena, non ammetteva la propria responsabilità ma unicamente rinunciava a fare valere le proprie eccezioni e difese, sia in ordine alle accuse che su questioni processuali. Ed era anche dovere del giudice compiere un esame, sia pure superficiale, del fascicolo per l’eventuale esclusione della sua responsabilità. Negli anni, la richiesta di applicazione della pena è diventata una forma di ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, il quale implicitamente e volontariamente rinuncia ad avvalersi della presunzione di non colpevolezza. Il patteggiamento doveva essere un rito alternativo mutuato dai Paesi del Common law che consentiva allo Stato di deflazionare il dibattimento e all’accusato di chiudere velocemente il procedimento penale fruendo di uno sconto di pena nella misura secca di un terzo. Nessun processo pubblico, nessun onere per il giudice di motivazione puntuale, la decisione allo stato degli atti limitata ad una verifica della congruità. Dopo essersi trasformato in una sorta di “salvagente” per il pm che molto spesso presta il consenso all’applicazione di pene anche modeste e comunque nei limiti della sospensione condizionale - pur dopo aver ottenuto l’applicazione di misure cautelari in carcere - al fine di evitare un dibattimento che potrebbe riservargli “spiacevoli” sorprese, come l’assoluzione dell’imputato, il patteggiamento diventerà dunque per quest’ultimo anche un macigno difficilmente rimovibile in una eventuale causa civile. Il sì al sequestro impeditivo lascia il dubbio sulla confisca di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2018 Con la recente sentenza n. 34293, depositata il 20 luglio dalla Seconda sezione penale, la Cassazione per la prima volta prende posizione sull’applicabilità del sequestro “impeditivo” anche alle società. La Corte lo ritiene possibile. Ma senza chiarire la sorte delle cose pertinenti al reato diverse dal profitto o dal prezzo ed oggetto di sequestro nei confronti dell’ente (per esempio, il prodotto). La questione del sequestro impeditivo, da tempo emersa in dottrina, consiste nell’utilizzare lo strumento previsto dall’articolo 321, comma 1, del Codice di procedura penale nell’ambito del sistema di responsabilità da reato degli enti previsto dal Dlgs 231/2001. A rigore, le cose pertinenti al reato non potrebbero essere confiscate in quanto non contemplate dall’articolo 19 del Dlgs 231/2001. Ma la sentenza 34293 non consente di trovare una conferma, perché affronta principalmente la compatibilità del sequestro impeditivo con Dlgs. La vicenda decisa dalla Corte riguarda una società accusata di truffa sugli incentivi pubblici al fotovoltaico (si veda la scheda a destra). Il Tribunale ha respinto l’istanza di dissequestro degli impianti, con ordinanza impugnata in Cassazione dalla società. La difesa sosteneva, tra l’altro, l’inapplicabilità del sequestro “impeditivo” ai sensi del Dlgs 231/2001, il cui articolo 53 ha per oggetto solo le cose di cui è consentita la confisca a norma dell’articolo 19 (ossia il prezzo e il profitto del reato, anche per equivalente) e richiama l’articolo 321 del codice di rito limitatamente ai commi 3, 3-bis e 3-ter, omettendo ogni riferimento al sequestro impeditivo. Per la difesa, tale esclusione si spiegherebbe pure sul piano sistematico, con l’esigenza di prevenire una indebita sovrapposizione tra il sequestro impeditivo e la misura cautelare dell’interdizione dell’attività (articolo 9, comma 2, lettera a e articolo 45 del Dlgs 231). La Cassazione respinge questa tesi. Preliminarmente, la Corte ricorda che l’apparato di misure cautelari del Dlgs si fonda, da un lato, sull’applicazione anticipata delle sanzioni interdittive (articoli 45 e 9, comma 2), dall’altro, sui sequestri preventivo (articolo 53) e conservativo (articolo 54). La Cassazione riconosce che il sequestro preventivo all’evidenza non coincide con quello dell’articolo 321 del codice di rito, in particolare nella parte in cui non contempla il tipo “impeditivo”. Il dettato normativo è coerente con la relazione ministeriale al Dlgs 231, dove si giustifica la mancata previsione del sequestro impeditivo in quanto la funzione cautelare assolta dalla misura (impedire che “la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”) avrebbe determinato una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili in via cautelare alla persona giuridica, con la medesima finalità. Ma la Corte si discosta apertamente dalla relazione, escludendo che il campo di applicazione del sequestro impeditivo coincida con quello delle misure interdittive, ancorché vi siano situazioni ove gli effetti sembrano gli stessi (l’interruzione dell’attività, nel determinare la paralisi dell’ente, può apparire equivalente al sequestro preventivo delle cose pertinenti al reato). Anzitutto, per la tendenziale temporaneità della misura interdittiva, mentre invece il sequestro impeditivo assume più facilmente connotati definitivi con la confisca a fine processo. Inoltre, la misura interdittiva, essendo rivolta alla societas, “paralizza” l’uso del bene “criminogeno” solo in via mediata; al contrario il sequestro colpisce il bene direttamente, eliminando in radice il pericolo che lo si possa destinare a commettere altri reati. D’altro canto, l’interdizione dell’attività di per sé non esclude che l’ente possa continuare a disporre dei singoli beni, per esempio destinandoli ad altri rami dell’attività non colpiti dall’interdittiva o cedendoli a terzi che continuino ad utilizzarli. Individuato l’autonomo raggio d’azione del sequestro impeditivo, la Cassazione ne argomenta l’ingresso nell’orbita del Dlgs 231. A livello sistematico, la misura sarebbe ammessa in quanto istituto di carattere generale previsto dal codice di procedura penale che non incontra ostacoli di natura logico-giuridica stante l’assenza dei rischi di sovrapposizione paventati dalla relazione ministeriale. Sul piano letterale, inoltre, l’adozione del sequestro preventivo impeditivo agli enti è pienamente consentita dall’amplissimo dettato letterale dell’articolo 34 del Dlgs, secondo cui, per il procedimento sugli illeciti da reato, si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale. Occorre attendere le prossime sentenza per apprezzare la portata applicativa dell’orientamento inaugurato dalla Corte. Sembra utile osservare che, come pure riconosciuto dalla sentenza in esame sulla scia della dottrina, le esigenze cautelari possono nella pratica (continuare a) essere perseguite senza ricorrere al sistema 231, ossia col sequestro impeditivo alla persona fisica indagata o imputata che abbia la libera disponibilità del bene di proprietà dell’ente. Riciclaggio per il promoter finanziario che lava i soldi del mafioso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 14 agosto 2018 n. 38607. Riciclaggio per il funzionario della banca che riceve il denaro dal “clan” dei casalesi e lo ripulisce facendolo passare sul suo conto corrente. Somme destinate ad alimentare la carta di credito di un boss locale. La Cassazione (sentenza 38607) respinge il ricorso contro la condanna, inflitta dalla corte d’Appello al promoter finanziario per il reato previsto dall’articolo 648-bis del Codice penale. I giudici di seconda istanza avevano ribaltato, la decisione del Tribunale che aveva assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Per i giudici di primo grado, infatti, non era dimostrato che il funzionario fosse consapevole della caratura criminale del beneficiario dell’operazione di money laundry. E dunque della provenienza illecita del denaro, che faceva passare sul suo conto e su quello della madre per poi cartolarizzarlo con assegni circolari, versati come fondo sulla carta di credito. Inoltre mancava l’interesse personale. Circostanza questa, precisa la Cassazione, non richiesta dalla norma, secondo la quale per il reato bastano coscienza e volontà di ostacolare l’accertamento della provenienza dei beni, senza riferimenti a scopi di profitto o di lucro. Per quanto riguarda la consapevolezza dell’origine illecita dei soldi il Tribunale aveva ritenuto che questa non fosse provata. L’affiliato ai casalesi, era allora un soggetto libero, amministratore di una società, mai sottoposta a blocco o sequestro dei beni. Inoltre la carta di credito era stata rilasciata all’“uomo d’onore” su sua espressa richiesta e i flussi erano perfettamente accessibili attraverso l’interrogazione della banca dati sulle carte di credito. La Cassazione però non è d’accordo sull’assenza di dolo. Contro l’imputato c’erano delle intercettazioni nelle quali si riferiva al membro del clan dei casalesi, in modo criptico, senza mai chiamarlo per nome e chiedeva incontri per ragioni che non poteva riferire al telefono. In più conservava un articolo di stampa nel quale si dava la notizia della condanna dell’uomo al quale ripuliva il denaro per associazione mafiosa. E il pezzo era risalente al 2003: un’epoca che coincideva con le operazioni incriminate. Abbandono di minori per il genitore che lascia il figlio in macchina, anche per poco tempo di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2018 Tribunale di Trento - Sezione penale - Sentenza 26 marzo 2018 n. 150. Il genitore che lascia in macchina i propri figli minori incustoditi, anche solo per poco tempo, privandoli della possibilità di uscire in caso di pericolo o di volontario allontanamento, commette il reato di abbandono di persone minori o incapaci, previsto dall’articolo 591 c.p.. Tale norma, infatti, tutela la sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo, anche in caso di abbandono temporaneo. Questo è quanto affermato dal Tribunale di Trento con la sentenza 150/2018. I fatti - Protagonista della vicenda è una signora che si trovava in vacanza in una località sciistica trentina con la propria famiglia, composta dal marito e da tre figli minori. Una mattina, dopo aver parcheggiato la propria autovettura in un parcheggio pubblico, l’uomo si recava a prendere l’attrezzatura da sci, mentre la donna si allontanava per salire sugli impianti a monte per seguire una lezione di sci con la propria figlia, lasciando incustoditi all’interno della macchina chiusa gli altri due bambini di 9 e 3 anni. Poco dopo, un passante notava i due bambini nell’auto nel parcheggio, il più piccolo dei quali cercava di attirare l’attenzione piangendo e sbattendo i piedi contro i vetri dell’auto, e chiamava prontamente i Carabinieri, i quali giungevano in contemporanea con il padre, che sbloccava le serrature consentendo ai bambini di uscire dal veicolo. A seguito delle indagini, emergeva che i piccoli erano rimasti bloccati e incustoditi per circa 30 minuti, tempo sufficiente per rispondere dell’incriminazione per il reato di abbandono di minori, di cui all’articolo 591 c.p. La decisione - Tratta in giudizio dinanzi al Tribunale, la madre dei bambini si difendeva sostenendo che si era trattato di un fatto del tutto eccezionale e che il figlio più grande avesse con sé un Ipad per comunicare con i propri genitori. Il giudice però considera tali circostanze non sufficienti a scongiurare la messa in pericolo del bene giuridico tutelato, essendo i minori rimasti da soli in auto per circa 30 minuti, ovvero un lasso temporale apprezzabile ai fini del riconoscimento della violazione della norma incriminatrice. Difatti, spiega il Tribunale, ciò “che il legislatore ha inteso punire non è la durata dell’abbandono quanto la messa in pericolo dell’incolumità di un minore, sicché il reato risulta integrato anche nelle ipotesi di abbandono temporaneo”, tutelando la norma “il valore etico - sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo”. Pertanto, conclude il giudice, la condotta della donna, consistente nel chiudere i propri figli in macchina con privazione della possibilità di poterne uscire in caso di pericolo o necessità e volontario allontanamento, non può che integrare il reato di cui all’articolo 591 c.p., aggravato per essere il fatto posto in essere dal genitore. Reati fallimentari, bancarotta preferenziale per l’amministratore che si autoliquida Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2018 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione - Bancarotta preferenziale - Responsabilità dell’amministratore della società - Bancarotta documentale - Connotati. Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione l’amministratore che, senza autorizzazione degli organi sociali, si ripaghi dei suoi crediti verso la società in dissesto relativi a compensi per il lavoro prestato, prelevando dalla cassa sociale una somma congrua rispetto a tale lavoro; integra, invece, il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione (articoli 216, comma 1, n. 1, e 223 legge fall.) la condotta dell’amministratore unico di una società che effettui prelevamenti dalle casse sociali, provvedendo a determinare ed a liquidare in proprio favore tali somme come compenso per l’attività svolta, senza nemmeno indicarne il titolo giustificativo. Il reato di bancarotta documentale è configurabile con riferimento alla irregolare tenuta delle rilevazioni contabili di magazzino, in quanto il regime tributario di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l’esonero dall’obbligo, previsto dall’articolo 2214 c.c., di tenuta dei libri e delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 30 marzo 2017 n. 16111. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - In genere - Amministratore della società - Prelievo di somme per crediti relativi a compensi e rimborso spese - Reato configurabile - Bancarotta preferenziale - Condizioni. Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione l’amministratore che ottenga in pagamento di suoi crediti verso la società in dissesto, relativi a compensi e rimborsi spese, una somma congrua rispetto al lavoro prestato. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 3 dicembre 2015 n. 48017. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - In genere - Amministratore che si ripaghi di un credito verso la società - Reato configurabile - Bancarotta preferenziale - Ragioni. In tema di reati fallimentari, l’amministratore che si ripaghi di propri crediti verso la società fallita risponde di bancarotta preferenziale - non di bancarotta fraudolenta patrimoniale - specificamente connotata dall’alterazione della “par condicio creditorum”, essendo, invece irrilevante, ai fini della qualificazione giuridica del fatto, la specifica qualità di amministratore della società, se del caso censurabile in sede di commisurazione della sanzione. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 3 febbraio 2014, n. 5186. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta preferenziale - Amministratore che si ripaghi dei suoi crediti verso la società fallita - Configurabilità - Fondamento. Deve ritenersi bancarotta preferenziale e non bancarotta per distrazione quella che consista nella condotta dell’amministratore della società fallita il quale si soddisfi del credito da lui vantato nei confronti della stessa società, quando detto credito risulti accertato sia nell’“an” che nel “quantum”. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 15 luglio 2011 n. 28077. A Lodi l’ultimo suicidio in carcere, siamo arrivati a 36 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2018 La lista funebre dell’istituzione carceraria non si arresta. Un detenuto si è impiccato domenica notte all’una al carcere di Lodi. Si tratta di un italiano, 42enne, ed era stato condannato a giugno dal Gup di Trieste a 8 anni di carcere col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio nell’ambito di un’inchiesta che aveva portato al suo arresto un anno fa. Dopo la condanna, il detenuto aveva incontrato il suo avvocato, Mirko Perlino, nel carcere di Lodi. “Avevamo parlato del ricorso in appello e mi era apparso tranquillo”, ha detto il legale. L’uomo, che abitava a Milano, si era trasferito da non molto a Lodi per raggiungere la sua fidanzata. Era accusato dalla Procura di Trieste di essere attivo sulla piazza milanese nello spaccio di hashish per conto di una presunta associazione a delinquere. Come da prassi, sul decesso, il pubblico ministero ha aperto un’inchiesta. Il magistrato della procura di Lodi ha conferito l’incarico per l’autopsia, eseguita ieri mattina dal medico legale di Pavia. L’obiettivo è accertare le cause della morte e ricostruire anche l’intera vicenda dell’accaduto. Nel frattempo, oggi, in occiasione della giornata di Ferragosto, una delegazione del Partito Radicale vi- siterà proprio la casa circondariale di Lodi a partire dalle ore 10.00. Saranno i componenti di Opera Radicale con Mauro Toffetti, Simona Giannetti, Paola Maria Gianotti, Luca Arosio e Giorgio Bergami a visitare il carcere con lo scopo di verificare le condizioni di detenzione, affinché - assieme alla privazione della libertà - non vi siano altri diritti negati. A cominciare dal diritto alla salute, all’accesso alle cure mediche e a una vita in condizioni igieniche dignitose. La visita si concentrerà anche sulle condizioni di vita lavorativa della Polizia Penitenziaria, spesso sottovalutate e poco considerate ma necessarie per la gestione sistemica della vita di un carcere. Nell’occasione chiederanno lumi sull’ultimo suicidio. La vicenda, che per fortuna è solo un caso sporadico nella casa circondariale in via Cagnola, va ad aggiungersi alla lunga lista di suicidi che non si fermano dall’inizio dell’anno. Con questa ennesima tragedia, siamo giunti a quota 36. Nella macabra conta è aggiunto anche il detenuto che è morto in ospedale dopo aver accusato diversi malori dovuti dallo sciopero della fame intrapreso nel carcere calabrese di Paola. Aggiungendo le morti per cause naturali o ancora da accertare, abbiamo raggiunto 82 decessi. Un numero enorme, ma ancora per fortuna lontano a quello del 2009 quando si raggiunse il record dei suicidi in carcere (71 decessi) tanto da subire una condanna dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 della Convenzione, quello relativo alla tortura e ai trattamenti disumani. La lista sarebbe molto più lunga se gli agenti penitenziari non intervenissero, come hanno fatto finora, per sventare diversi tentati suicidi. Almeno 712 tentativi di suicidio e 6.404 gesti di autolesionismo. Numeri che cristallizzano il disagio che si vive dietro le sbarre. Il 9 agosto scorso, all’ennesimo suicidio, il ministro della Giustizia e il capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, hanno disposto una specifica attività di monitoraggio sui suicidi in carcere. L’Ufficio per l’Attività Ispettiva e del Controllo dovrà raccogliere ogni elemento utile per ricostruire cause, dinamiche e modalità delle condotte auto - soppressive verificatisi dal 1 gennaio 2018 e svolgere accertamenti tempestivi riguardo ogni ulteriore evento futuro. L’attività è mirata a contrastare i suicidi posti in essere da persone detenute il cui numero crescente, afferma il Capo Dap “impone un’attenta riflessione analitica sulle cause e sulle origini che determinano il fenomeno”. L’iniziativa è un segnale concreto di attenzione alle condizioni di vita detentive delle quali il ministro Bonafede ha più volte ribadito l’importanza di affrontare le criticità per evitare che si traducano in una violazione dei diritti umani. Si evidenzia come la stagione estiva è maggiormente a rischio di gesti autolesivi in quanto la restrizione è resa più pesante dal ridursi dei colloqui con i familiari, dalla minore presenza di operatori e dalla sospensione delle attività trattamentali. Bari: Tribunale, Bonafede revoca l’ok alla nuova sede di Errico Novi Il Dubbio, 15 agosto 2018 Annullato l’affitto dell’ex palazzo Inpdap, dopo le ombre emerse sul proprietario. Ad accelerare i tempi della decisione di via Arenula è stata probabilmente una lettera con cui il procuratore di Bari Giuseppe Volpe ha chiesto, due giorni fa, di restare nel Tribunale penale pericolante di via Nazariantz piuttosto che “essere costretto a sopprimere attività e servizi” del suo ufficio. Deve essere stato il nuovo precipitare dell’emergenza verso un esito paradossale a spingere il guardasigilli Alfonso Bonafede verso una decisione difficile: revocare l’aggiudicazione della gara per la scelta dell’immobile in cui trasferire Tribunale e uffici inquirenti. Non si andrà dunque nell’ex Palazzo Inpdap che appartiene a una società di cui è socio al 50 per cento l’imprenditore Pino Settanni, entrato come semplice teste in alcune indagini della malavita barese. Sul nome dell’immobiliarista si era scatenata una durissima campagna di stampa, in particolare condotta da Repubblica, nonostante Settanni non fosse mai stato sfiorato da alcuna accusa. Polemiche che avevano trasformato in un ring la stessa aula di Montecitorio, quando a luglio vi si era discusso il decreto Bari, voluto da Bonafede per sospendere tutti i termini della giustizia penale nel capoluogo pugliese, in modo da consentire lo smantellamento della tendopoli e, appunto, l’individuazione di una “soluzione ponte”. Con lo stop al contratto con la Sopraf di Settanni e al futuro trasloco nel palazzo che aveva ospitato gli uffici Inpdap, tutto sembrerebbe arenarsi, ma in realtà si tratta di un passo prevedibile e che dunque è stato opportuno compiere senza lasciar passare altro tempo. “Con riferimento all’indagine di mercato pubblicata in data 25 maggio scorso per la ricerca di un immobile in locazione da destinare a sede del Tribunale di Bari e della Procura”, si legge nel comunicato ufficiale, il ministero rende noto che, “con decreto del 14 agosto 2018, a seguito dell’esito negativo degli ordinari controlli amministrativi riguardanti il possesso dei requisiti e l’assenza di cause di esclusione, come dichiarati in sede di iniziale offerta, è stata revocata l’aggiudicazione in favore della Sopraf S.r.l., proprietaria dell’immobile in Bari, in via Oberdan 40”. Cosa succederà ora? Intanto che Settanni potrebbe tentare la via dei ricorsi. Ma certo il ministero cercherà di accelerare i tempi per aggiudicare la gara a un altro “concorrente”, e individuare così subito un immobile diverso in cui progettare il trasloco degli uffici penali. Nel ricordato acceso dibattito a Montecitorio, lo stesso Bonafede aveva spiegato di aver agito con correttezza: “L’immobile scelto rispondeva ai requisiti, in base alle informazioni in nostro possesso, ma ho già chiesto approfondimenti agli uffici”. Tali ulteriori verifiche hanno portato evidentemente a rilevare incognite anche sulla trasparenza dell’operazione che aveva consentito a Settanni di acquisire prima il palazzo per 4 milioni di euro da un fondo pubblico, e poi di affittarlo allo Stato per un milione e 200mila euro in 6 anni, dunque per 3 milioni di euro complessivi in più. Una “beffa”, certo. Ma resta da capire quanto abbiano pesato, sulla scelta di annullare tutto, le polemiche sui rapporti tra Settanni e un imprenditore, Michele Labellarte, ritenuto il “cassiere” del clan Parisi. “A Labellarte ho prestato molti soldi”, aveva dichiarato Settanni, in qualità di teste, in un processo del 2015. L’immobiliarista poi scelto da via Arenula non aveva avuto problemi a rivelare quanto sapeva sui rapporti tra Labellarte e i boss. Una correttezza che non è bastata a ritenerlo un interlocutore affidabile per lo Stato. Lecce: “Made in carcere”; borse e sciarpe, la seconda opportunità per le detenute di Antonio Sanfrancesco Famiglia Cristiana, 15 agosto 2018 Luciana Delle Donne nel 2004 dal Nord è tornata nella sua Puglia. Per creare una maison dietro le sbarre che dà lavoro e riscatto. Ha fatto il percorso contrario a quello di molti giovani e famiglie che dal Sud se ne vanno. Ha dato credibilità all’articolo 27 della Costituzione italiana secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ha creato un modello di impresa sociale che coniuga il recupero dei detenuti (donne e bambini, per ora) con l’innovazione, il business e la creatività. Lo spartiacque delle due vite di Luciana Delle Donne, 56 anni, comincia nel 2004 quando lascia Milano e torna nella sua Lecce dopo una brillante carriera di manager finanziaria e il lancio della prima banca on line italiana per San Paolo-Imi. Le avevano appena chiesto di andare all’estero per riorganizzare le filiali del gruppo: “Mi sono detta: ma chi me lo fa fare? Voglio tornare nella mia terra, godermi la luce del sole, se riesco a fare qualcosa per gli altri tanto meglio. Pensavo durasse qualche anno e invece abbiamo già superato i dieci anni d’attività”. Dopo il rientro in Puglia, Luciana Delle Donne fonda “Officina creativa”, una no-profit che ha come obiettivo il reinserimento delle detenute della casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce. Nel 2007 crea il marchio “Made in carcere” e “2nd Chance”. Oggi offre un’opportunità dì lavoro e uno stipendio a circa un centinaio di detenute, persone spesso invisibili per la società e le istituzioni. Dopo Lecce, il progetto ha coinvolto anche il carcere di Trani. Dietro le sbarre, si producono manufatti artigianali (borse, sciarpe, bracciali, portachiavi, cuscini, gilet, cappelli) griffati “Made in carcere” e realizzati dalle detenute con tessuti di scarto donati da vecchi opifici e nuove maison: “Santo Versace ci ha donato tremila chilogrammi di tessuto per la prossima collezione”, spiega. “Nel carcere di Lecce, oltre alla sartoria, abbiamo creato la maison “Made in carcere” e l’abbiamo arredata con tappeti, divani, sala lettura, palestra. È solo per i detenuti ma vengono molte persone dall’esterno a visitarla. Le detenute cucendo i vari pezzi di tessuto per realizzare borse e sciarpe è come se rimettessero insieme i brandelli della loro vita. Non si butta via niente e la creatività e bellezza possono nascere anche dagli accostamenti più strani ed eccentrici”. Dopo Lecce e Trani, la filosofia di “Made in carcere” è sbarcata anche nelle carceri minorili maschili di Bari e Nisida (Napoli) e, presto, anche a Matera. I ragazzi detenuti producono le “Scappatelle”, biscotti biologici e vegani realizzati con ingredienti di primissima qualità. Sono a forma di cuore e inscatolati in eleganti confezioni a righe bianche e azzurre. “Non è stato facile avviare questi progetti perché la burocrazia è enorme e quello carcerario è un mondo piuttosto complesso”, spiega Delle Donne. “Adesso però “Made in carcere” è diventato un fiore all’occhiello in un territorio, come il Sud, dove non ci sono interventi sistematici per il recupero dei detenuti. Lavoriamo per restituire a queste persone dignità attraverso il lavoro e la bellezza. Appena cominciano a lavorare cambiano atteggiamento. L’80 per cento dei detenuti che lavora in carcere non torna più a delinquere. I dati ci dicono che abbiamo fatto la cosa giusta”. Delle Donne racconta anche le difficoltà con i minori: “Sono più distratti. Alcuni dopo aver firmato il contratto non rispettano gli orari di lavoro. Vanno educati”. Però l’idea è stata vincente e il bilancio positivo: “Io credo”, dice Delle Donne, “che “Made in carcere” rappresenti una storia di riscatto del Sud, per noi è un orgoglio riuscire a farlo in Puglia dove non c’è nessun laboratorio di questo tipo. Siamo stati i primi in Italia con un progetto di sartoria “carceraria” che ha anche una sostenibilità economica perché paghiamo gli stipendi con le vendite dei prodotti”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): il consigliere regionale Zinzi “qui manca ancora l’acqua” edizionecaserta.it, 15 agosto 2018 Vigilia di Ferragosto in visita alla casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere per il consigliere regionale Gianpiero Zinzi. Questa mattina il consigliere ha voluto rendersi conto di persona - alla luce anche delle notizie di stampa - delle condizioni in cui versano detenuti e personale. Zinzi, accompagnato dalla vice direttrice Giulia Magliulo, ha visitato diversi padiglioni della struttura penitenziaria colloquiando con i dipendenti. Tre le maggiori carenze riscontrate: idrica, organica e sanitaria. “Uno dei primi atti che ho firmato in Consiglio regionale - ha spiegato Zinzi - è stato un ordine del giorno per impegnare la Giunta a finanziare la costruzione di una condotta idrica a servizio della casa circondariale e delle sue aule bunker. Spiace come a distanza di anni la burocrazia abbia impedito di mettere la parola fine ad una situazione che determina una grave violazione dei diritti umani ed espone detenuti e guardie penitenziarie a forti disagi e concreti rischi per la salute. Accenderemo i riflettori anche sul fronte dell’assistenza sanitaria che oggi risulta insufficiente, chiedendo all’Asl una maggiore presenza in termini di personale e di servizi. In ultimo, un doveroso ringraziamento alla polizia penitenziaria che continua ad operare con estrema professionalità ed abnegazione nonostante le difficoltà che vanno dal sovraffollamento dei padiglioni al sottodimensionamento dell’organico. A tal proposito rivolgo un appello al Ministro Bonafede affinché affronti con decisione e con celerità queste emergenze individuando il carcere di Santa Maria Capua Vetere come struttura pilota per il rilancio della gestione dei servizi penitenziari”. Ancona: Ferragosto, al Barcaglione i detenuti festeggiano con i prodotti dell’orto sociale di Annalisa Appignanesi centropagina.it, 15 agosto 2018 In progetto un allevamento di ovini per la produzione di formaggio caprino, chicken therapy, e un birrificio artigianale interno. Al via anche un polo di formazione professionale con due corsi previsti: ristorazione e meccanica. Tenere impegnati i detenuti, trasferir loro delle competenze e prepararli al ritorno in libertà. Sono questi gli obiettivi dell’Orto Sociale, l’attività gestita dai volontari di Coldiretti Ancona, avviata nel 2015 su idea del direttore della struttura di detenzione, Maurizio Pennelli, in collaborazione con Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Regione Marche, Assam e Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti. “Il progetto - spiega Maria Letizia Gardoni, presidente di Coldiretti Ancona - è nato con l’obiettivo di permettere a queste persone di ritrovare fiducia e motivazioni. Il contatto con la natura può trasmettere un nuovo senso di comunità, di collaborazione e condivisione e vivere un’esperienza formativa. Si tratta di un’attività che permette anche di imparare un mestiere che potrebbe far intraprendere loro un discorso di inclusione sociale una volta espiata le pena”. “Siamo molto soddisfatti di questo progetto che sta dando ottimi risultati e che sta insegnando qualcosa di molto utile ai detenuti”, ha sottolineato il direttore della casa di reclusione Maurizio Pennelli. Pomodori, melanzane, zucchine, cetrioli, cocomeri, meloni e una serra. Sono alcune delle coltivazioni curate da una sessantina di detenuti, degli oltre 90 ospitati nella struttura, che quotidianamente dalle 9 alle 11 si prendono cura dell’orto. Ogni anno al Barcaglione vengono prodotti circa 30 quintali di ortaggi, che poi vengono consumati dagli stessi detenuti. Prodotti naturali, coltivazioni sostenibili e piante tipiche del territorio, quali ad esempio l’ulivo, oltre ad una produzione di miele di acacia e millefiori che si aggira sui 7 quintali annui. “Per me è stato un progetto di vita: cercare di tramandare il messaggio dell’agricoltura”, spiega Antonio Carletti, presidente di Federpensionati Coldiretti che segue quotidianamente i detenuti insieme ad altri 5 volontari. “Molti mi chiedono di insegnar bene loro tutto, perché vorrebbero coltivare ortaggi per essere di supporto alla loro famiglia” conclude. “Un progetto nato con l’obiettivo di promuovere la tradizione contadina - spiega l’agronomo Sandro Marozzi - e porre l’accento sull’importanza del tempo, del lavoro e della pazienza”. Non solo olivicoltura e vivaismo, al Barcaglione, prenderà avvio anche una produzione di birra artigianale, gestita internamente, mentre ora si avvale di un esperto esterno. In progetto anche l’allevamento di ovini per la produzione di formaggio caprino e la chicken therapy, ovvero una pet therapy con le galline come protagoniste. Intanto è già stato siglato con la Regione un accordo per la realizzazione di un polo di formazione professionale che impegnerà circa una trentina di reclusi. Due i corsi di formazione europei previsti: ristorazione e meccanica. Volterra (Pi): come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza anomaliateatro.it, 15 agosto 2018 A luglio Anomalia Teatro ha avuto la possibilità di partecipare al laboratorio promosso da Acri (associazione di fondazioni e di casse di risparmio spa) che vede coinvolte alcune delle realtà di teatro in carcere più importanti in Italia e che ha come centro il lavoro di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza all’interno del carcere di Volterra. Entrare nell’istituto penitenziario di Volterra è un’esperienza straniante, le contraddizioni sono forti e luminose e la sensazione è quella di star camminando lungo un sogno. La cornice è quella del carcere con corridoi grigi e portoni massicci, ma il teatro è penetrato profondamente in tutto l’ambiente: ai muri sono appese le parole di Borghes, ci sono pezzi di scenografia ovunque e in cortile si apre una vasca piena d’acqua che sarà luogo della nuova produzione, Beatitudo. Il lavoro di Punzo è riuscito a creare buchi e spazi all’interno della realtà carceraria. Le persone che conosciamo sono orgogliose del proprio lavoro, allegre e contente di raccontarsi, hanno storie di speranza e ricostruzione. Fabio, detenuto-attore appassionatissimo, ci racconta di quando ha cominciato a leggere, dei libri che adesso divora, del suo amore per il teatro: “Prima la libertà ce l’avevo ma non l’aggio mai tenuta”. L’approccio di Armando si concentra esclusivamente sul risultato artistico del lavoro, ha da sempre dichiarato di non voler salvare nessuno, quello che vuole è fare teatro e farlo al meglio. Eppure, anche se indirettamente, il suo lavoro ha avuto evidenti ripercussioni sociali e ha cambiato drasticamente la vita di tutti i detenuti grazie alla tenace ricerca di bellezza, alla conquista della meraviglia all’interno di una delle istituzioni più dure e rigide esistenti. Noi, che in questo mondo ci siamo entrati in punta di piedi, ci siamo fatti una scorpacciata di speranza e custodiamo preziosamente i ricordi di questa settimana. Siamo anche orgogliosi di poter dire che questo percorso non si conclude, che il progetto va avanti e che noi continuiamo a camminare. Regole? Necessarie. Ma la Rete produce anche uguaglianza di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 15 agosto 2018 Il contrasto agli abusi non deve fare trascurare le opportunità che la sharing e la gig economy aprono alla classe media e medio-bassa, impensabili solo pochi anni fa. Google, Facebook e gli altri big di Internet, come gli aspetti più controversi dell’economia della condivisione e dei “lavoretti”, sono sottoposti giustamente a una critica attenta. Il continuo emergere di scandali e abusi rischia però di oscurare gli aspetti benefici del nuovo mondo, con un paradossale effetto echo chamber - la tendenza a confrontarsi solo con tesi affini - simile a quello che dilaga sui social. Un intervento del giurista americano John O. McGinnis su Time ci scuote da questa inerzia. Il suo argomento è semplice: la smania regolatrice del mondo progressista rispetto alla Rete e alle nuove dinamiche economiche contraddice la sua pretesa lotta all’ineguaglianza. Miliardi di persone, ricorda, beneficiano di ricerca, mappe e connessioni a costo zero, in cambio di dati che le aziende vendono alla pubblicità targettizzata. Lo sappiamo bene, ma lui ci fa notare un aspetto spesso omesso: “La forza equalizzante di questi servizi. Più ricco è l’utente, più valore hanno i suoi dati. Così, molte persone di mezzi modesti ricevono un beneficio netto maggiore di quello dei ricchi”. Altri esempi: il ridesharing non serve certo all’1% di straricchi, abituati allo chauffeur, “ma è una buona approssimazione dello chauffeur per i non straricchi”. E Airbnb “promuove l’eguaglianza perché consente a chiunque di monetizzare il proprio bene più grande: la casa”. Insomma: la sharing e la gig economy aprono alla classe media e medio-bassa opportunità impensabili solo pochi anni fa. L’inquadramento incerto degli addetti (autisti, fattorini eccetera) in quest’ottica non sarebbe un sopruso ma una risorsa: possono lavorare a piacimento e “avere più cura per la famiglia o più tempo per altre attività”, come lo studio nel caso dei giovani. Gli economisti calcolano che questo vale il 40 per cento dello stipendio. A Big Tech va imposta trasparenza sull’uso dei dati. Ma norme troppo restrittive compromettono il potenziale democratico del nuovo modello. Sì, c’è materia per riflettere. Integrazione oltre la violenza di Francesco Dandolo Corriere del Mezzogiorno, 15 agosto 2018 C’è un tema da lungo tempo irrisolto che fa da scenario all’estate che stiamo vivendo. È il tema dell’integrazione. Ce lo ricordano gli episodi di violenza di cui sono oggetto gli immigrati. Violenza che a Napoli ha raggiunto livelli preoccupanti se, come dimostrano le recenti indagini, gli immigrati colpiti al Vasto sono stati oggetto di “stese” di matrice camorristica. E, in modo tragico, ce lo ricorda la morte dei 16 braccianti stranieri nel foggiano mentre erano sui mezzi di trasporto al ritorno dal lavoro dei campi. Più in generale c’è una diffusa percezione di indeterminatezza, al di là di ricette strumentali e semplicistiche, che accompagna il dibattito sull’immigrazione. Manca infatti un’analisi oggettiva basata su due presupposti imprescindibili; in primo luogo la nostra è già una società al plurale; in secondo luogo i processi migratori sono irreversibili e coinvolgono da vari decenni il nostro Paese. In assenza di questi due punti di partenza si resta prigionieri di una logica emergenziale, per lo più pessimista, che accentua conflitti e distanze. Ne è prova ancora una volta la vicenda dei profughi sulla nave Aquarius, alla ricerca angosciante di un porto che li accolga (alla fine Malta), mentre dalla Libia giungono notizie agghiaccianti sul gran numero di profughi detenuti nei lager. Ma la grande questione dell’integrazione - giova ricordarlo - non è faccenda né di destra né di sinistra. Ogni governo di qualsiasi orientamento politico, tranne che non abbia pregiudiziali discriminatore, deve farsene carico. Eppure importanti processi di integrazione sono evidenti. Di recente i dati Inps hanno attestato che dal 2008 il numero di badanti stranieri è in continua ascesa. È un incremento da collegare all’invecchiamento della popolazione italiana. Del resto, basta con un occhio attento girare per le strade di Napoli e si notano subito i tanti anziani tenuti per mano e sostenuti da badanti. È un lavoro prezioso, non scontato, oltre che indispensabile: consente di umanizzare la stagione della vita che va inevitabilmente incontro alla debolezza e al bisogno dell’aiuto altrui. Sono gli anziani stessi a esserne consapevoli, trattando spesso con affetto filiale i badanti con cui coabitano. Analoga importanza è il lavoro svolto dalle bay-sitter straniere nelle case delle famiglie italiane con bambini piccoli. Ulteriore riscontro è il sostegno quotidiano ai disabili assicurato in modo discreto e attento dagli immigrati. A ben guardare, gli immigrati si fanno carico dei servizi alle persone, per lo più fragili, ricevendo in cambio stipendi modesti. Insomma, italiani e immigrati vivono insieme, in armonia. È un tessuto ricco di relazioni umane in cui si tutela la vulnerabilità dei singoli, evitando che siano abbandonati a se stessi. In una società segnata dall’affannosa preoccupazione per la produzione e il consumo di beni, gli immigrati si occupano della cura delle persone, in tutti suoi aspetti, svolgendo un ruolo di supplenza per la carenza di servizi fondamentali, come ad esempio l’assistenza domiciliare, particolarmente palese in Campania. Sempre guardando alle persone, c’è poi un sentiero dell’integrazione che ha come luogo privilegiato la scuola. Pur con mezzi limitati, grazie alla dedizione degli insegnanti, questa volta italiani, ogni giorno nelle scuole si impara a vivere insieme, coltivando amicizie e comunanza di destini, senza chiedersi da dove vieni, ma delineando insieme una società inclusiva e aperta al futuro. Si tratta di un aspetto destinato nei prossimi anni a divenire sempre più rilevante, se si considera che circa un quinto di neonati in Italia sono figli di immigrati o di madre immigrata. Sono tutti esempi in positivo. Ed è questo l’intento di questo articolo: di fronte alle troppe voci cariche di negatività, diffidenza e contrapposizione, accompagnate da crescenti episodi di intolleranza, c’è bisogno di ricordarsi che l’Italia, la Campania, Napoli sono anche altro. Sono integrazione, legami professionali e amicali, rispetto della dignità di tutti. Aquarius, accordo tra cinque stati per dividersi i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 15 agosto 2018 Sbloccata la situazione, Malta apre il porto alla nave. Avramopoulos: “Ma serve una soluzione definitiva”. Non è certo la soluzione sperata, quella che avrebbe permesso di mettere fine una volta per tutte ai pellegrinaggi in mare delle navi che, come l’Aquarius, vagano cariche di migranti in cerca di un porto dove attraccare. Al massimo - e visti i tempi sembra già tanto - si tratta di un compromesso temporaneo utile a sbloccare la situazione permettendo lo sbarco a terra di persone già duramente provate. Con la speranza, non detta, che serva anche a mettere un argine ai populisti di tutta Europa. Che intanto però, come fa Matteo Salvini, cantano vittoria: “La determinazione di questo governo ha svegliato l’Europa”, commenta il ministro degli Interni quando la notizia dell’accordo che finalmente sblocca lo stallo in cui era precipitata la nave di Sos Mediterranée diventa ufficiale: cinque Paesi si divideranno i 141 migranti a bordo della Aquarius più altri 60 tratti in salvo nel frattempo nel Mediterraneo. Dopo essersi rifiutata di far attraccare la nave della ong francese, La Valletta ieri ha dato il via libera per il suo ingresso in porto dove poi i migranti verranno smistati: Francia e Spagna ne prenderanno 60 ciascuno, 30 il Portogallo, 50 la Germania e il resto in Lussemburgo. “La Spagna ha coordinato un accordo pioneristico per distribuire l’accoglienza delle persone sull’Aquarius. È stato possibile grazie alla via che abbiamo intrapreso a giugno promuovendo una via comune e solidale sui flussi migratori”, scrive entusiasta su Twitter il premier spagnolo Pedro Sanchez, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ringrazia l’isola per il “gesto umanitario”. L’accordo raggiunto ieri grazie (sembra) alla trattativa avviata da Sanchez con l’intervento di Macron e l’aiuto della Commissione europea ricalca quello analogo di giugno scorso che permise l’approdo sempre a Malta della nave Lifeline e la successiva divisione tra stati Ue di uomini, donne e bambini recuperati dai gommoni. È chiaro a tutti, però, che per quanto difficile una vera risposta alla questione dei porti nei quali far sbarcare i migranti andrà trovata prima del vertice informale dei capi di stato e di governo che si terrà a Strasburgo il prossimo 20 settembre. Ieri l’Eliseo ha annunciato che in quell’occasione intende presentare un “meccanismo perenne e sostenibile” di divisione dei migranti “per evitare le crisi a ripetizione in un contesto di diminuzione dei flussi irregolari nel Mediterraneo centrale”. Dimitris Avramopoulos, commissario Ue all’Immigrazione, è talmente consapevole della necessità di una soluzione che dopo i complimenti di rito per la fine dell’avventura dell’Aquarius, l’ha detto chiaramente ai leader europei, o almeno a quelli che vogliono sentire: “Non possiamo fare affidamento su un accordo ad hoc, abbiamo bisogno di una soluzione definitiva. La questione non riguarda solo uno o pochi stati, ma l’intera Unione europea”. Sollecitazione resa più urgente dalla paura soprattutto di Germania, Spagna e Francia di veder trionfare la marea populista nelle elezioni europee del 2019. Nonostante il via libera ricevuto, ieri sera la Aquarius non aveva ancora fatto rotta verso Malta. “Ci sono tempi tecnici da rispettare”, spiega Nicola Stalla, coordinatore dei salvataggi di Sos Mediterranée. L’Ong francese si è detta vittima di una “manovra politica” per la decisione annunciata da Gibilterra, della quale batte bandiera, di sospendere la registrazione della nave dichiarando che non è abilitata ad effettuare soccorsi in mare. “Da più di due anni e mezzo Aquarius svolge operazioni di ricerca e soccorso in accordo con le autorità marittime e sempre in trasparenza e in contatto con Gibilterra”, prosegue Stalla. “Una situazione regolare, che però improvvisamente è cambiata”. Droghe in Europa, da Lisbona un richiamo al rigore di Maurizio Coletti Il Manifesto, 15 agosto 2018 Cosa contiene il Report 2018 dell’Osservatorio Europeo sulle Droghe (Emcdda), recentemente diffuso. Nel più assordante silenzio della politica ed anche della stragrande maggioranza di quelle organizzazioni che nel passato erano state molto attive (ad eccezione di alcune cattoliche e di Forum Droghe, che ha rilasciato il rituale - ma non scontato - Libro Bianco sulle droghe 2018) è trascorsa, il 26 Giugno scorso, un’altra Giornata Mondiale sulla Droga. L’Osservatorio Europeo sulle Droghe di Lisbona (Emcdda), intanto, ha diffuso il suo Report 2018. Ma, prima di accennare al Report, ribadisco che manca ancora la Relazione Annuale al Parlamento sulle Droghe, che, per obbligo di legge, doveva essere resa disponibile entro la stessa data. Sono anni che quest’obbligo viene eluso. Il Report Emcdda lo segnala: l’ultimo rapporto italiano disponibile è relativo all’anno 2016. Nulla si conosce sulla preparazione del report 2018, sulla sua struttura, su chi ci sta lavorando e sui metodi utilizzati. Un’assenza colpevole, che si somma alla mancanza di notizie sulla Conferenza Nazionale (l’ultima, più di nove anni fa), e alle agghiaccianti esternazioni del neo ministro Fontana. Torniamo al Report Emcdda, a partire dal primo titolo: Comprendere i problemi in materia di droga in Europa e sviluppare risposte efficaci. l’Osservatorio ribadisce che occorre capire i dati qualitativi e quantitativi attualizzati e, solo dopo, modificare e rinnovare le risposte. Nel nostro Paese sembrano, ancora, imperanti paradigmi antichi e vecchi preconcetti e le risposte (legislative, sociali, di trattamento e prevenzione) sono vecchie e superate. Il Report segnala un aumento di produzione di sostanze sintetiche, soprattutto in alcuni Paesi (Francia, Belgio, Repubblica Ceca), un aumento della raccolta di coca e di oppio ed un rafforzamento dell’acquisto via web. Per la cannabis, si assiste a un aumento della produzione domestica e a consumi modificati a seguito della disponibilità di prodotti legali a basso contenuto di principio attivo, di cannabinoidi sintetici, di cannabis ad elevato contenuto di principio attivo. Nonostante i divieti, il Report stima in quasi 88 milioni gli europei che hanno consumato cannabis nel corso della vita. Il consumo di oppiacei risulta piuttosto stabile. Mentre ritorna l’incubo delle morti per overdose rispetto alle quali lo Emcdda insiste a proporre l’ampliamento della disponibilità del naloxone considerato il farmaco salvavita, soprattutto per coloro che escono da periodi di detenzione. È aumentato in Europa il numero e la varietà delle sostanze disponibili, in specie le sostanze sintetiche: un busillis difficile per le strategie di contrasto. Il macro capitolo dedicato ai danni alla salute derivati dai consumi insiste sulle maggiori conseguenze del consumo di oppiacei, in particolare per via parenterale. La presa in carico e il trattamento dei problemi droga correlati si realizza, in Europa, presso strutture ambulatoriali, per le quali si raccomanda l’adozione di standard di qualità. Dai dati disponibili, sono i nuovi oppiacei e quelli di sintesi a rappresentare i maggiori rischi per la salute. In conclusione: si ribadiscono i punti critici sui consumi conosciuti e si sottolineano i trend dei consumi in crescita. Esiste una notevole differenza tra qualità e quantità dei dati disponibili per ogni Paese. Due osservazioni problematiche finali: non si fa riferimento, per ciascun Paese, all’approccio legislativo e penale. Che va dalla tolleranza portoghese all’intransigenza di alcuni Paesi Nordici. Infine, non si accenna alla “sofferenza” nell’ambito della ricerca, soprattutto a quella “indipendente”. Cina. Un milione di musulmani Uighuri detenuti in campi segreti di Giovanni Sorbello Il Faro Sul Mondo, 15 agosto 2018 Si stima che più di un milione di musulmani Uighuri siano detenuti in “centri anti-estremismo” nell’estremo ovest della Cina, ha dichiarato Gay McDougall, vicepresidente del comitato anti-discriminazione delle Nazioni Unite, citando rapporti attendibili. Gay McDougall ha fatto questi commenti venerdì a Ginevra, mentre il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha iniziato a rivedere l’operato della Cina negli ultimi anni. I membri erano “profondamente preoccupati” per le detenute segnalate di etnia Uighura e altre minoranze musulmane, che hanno “trasformato la regione autonoma Uighura dello Xinjiang in qualcosa che assomiglia a un enorme campo di internamento avvolto nella segretezza - una sorta di “zona senza diritti”, ha dichiarato McDougall all’inizio dell’udienza di due giorni. Altri due milioni sono stati costretti nei cosiddetti campi di rieducazione all’indottrinamento politico e culturale. La Cina sostiene che nello Xinjiang c’è una seria minaccia da parte di ribelli e separatisti che complottano gli attacchi e scatenano tensioni tra la minoranza Uighuri per lo più musulmana, che chiama la regione e la maggioranza cinese etnica Han. Venerdì scorso, Yu Jianhua, ambasciatore cinese presso l’Onu a Ginevra, ha annunciato che sta lavorando per l’uguaglianza e la solidarietà tra tutti i gruppi etnici. Il leader della delegazione cinese ha anche sottolineato il progresso economico e l’aumento degli standard di vita, tra le altre cose. Nelle sue osservazioni, McDougall ha sottolineato che la maggior parte di queste persone non è mai stata correttamente accusata di un crimine o processata in tribunale. Mentre McDougall non citava le sue fonti, il numero di persone costrette alla detenzione e alla rieducazione corrispondeva a un rapporto che la Rete dei difensori dei diritti umani cinesi presentava al comitato. Altri gruppi hanno dato cifre molto più basse. Human Rights Watch ha riferito che ci sono “almeno decine di migliaia” nei centri di educazione politica. Amnesty International ha scritto che “almeno una decina di migliaia, con alcune fonti che affermano che centinaia di migliaia” di Uighuri sono stati arrestati e internati. McDougall ha affermato che membri della comunità Uighura e altri musulmani vengono trattati come “nemici dello Stato” esclusivamente sulla base della loro identità etno-religiosa. Più di cento studenti Uighuri ritornati in Cina da Paesi come l’Egitto e la Turchia sono stati detenuti e alcuni sono morti durante la custodia. Il funzionario Onu ha anche citato dei rapporti che suggeriscono che le autorità cinesi perseguitano le persone per aver usato saluti musulmani, possedere cibo halal o per aver barbe o velo lunghi. Inoltre, ha sottolineato i rapporti di sorveglianza di massa e l’ampia collezione di campioni di Dna e scansioni dell’iride nello Xinjiang. Fatima-Binta Dah, membro del panel, ha fatto riferimento alla “detenzione arbitraria e di massa di quasi un milione di Uighuri”, chiedendo alla delegazione cinese “qual è il livello di libertà religiosa ora disponibile per gli Uighuri in Cina, quale protezione legale esiste per loro la loro religione?”. Venezuela. Detenuti per l’attentato contro presidente Maduro denunciano torture Nova, 15 agosto 2018 I detenuti dalle autorità del Venezuela perché ritenuti coinvolti nel tentativo di attentato ai danni del presidente Nicolas Maduro sarebbero stati torturati. Lo denunciano gli avvocati del Foro penale venezuelano affermando che Yanina Pernia, una degli arrestati, è stata picchiata e torturata prima di essere condotta in tribunale per l’udienza di presentazione. La donna, ha riferito l’avvocato Maria Fernanda Torres, è stata arrestata il 4 agosto e denunciato le violenze subite. Il suo, scrive il quotidiano “El Nacional”, non è l’ultimo caso. “Dovremmo aspettare fino a sera la decisione del tribunale per sapere quale sarà la decisione del giudice per queste persone per le quali la procura chiede la detenzione” ha concluso la rappresentante degli avvocati. Tentato omicidio volontario, terrorismo, danneggiamento, uso di esplosivi, tradimento della patria. Sono queste le accuse formalizzate dalla procura di Caracas contro il deputato Juan Requesens e agli altri sei indagati nell’ambito delle investigazioni sull’attentato contro il presidente venezuelano, Nicolas Maduro. I sette sono comparsi davanti al giudice per l’udienza di presentazione, a seguito dell’arresto da parte del servizio di intelligence venezuelano (Sebin). Dopo la lettura dei capi di imputazione l’udienza è stata divisa in due sessioni: una nella quale sono comparsi i primi sei detenuti; una rinviata al pomeriggio dedicata solo all’analisi della posizione del deputato Requesens. Al termine delle udienze il giudice deciderà se confermare la detenzione degli imputati o determinarne la scarcerazione. Il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, aveva presentato in diretta televisiva le prove raccolte nell’ambito delle indagini sul presunto attentato del quale è stato vittima lo scorso sabato a Caracas. Per Maduro, tutte le prove ricondurrebbero alle responsabilità dell’opposizione venezuelana, in particolare del partito Prima la giustizia, che avrebbe agito con l’appoggio delle autorità della Colombia. Una volta pronto il dossier, ha annunciato il presidente, per tutti i responsabili sarà chiesta l’estradizione perché possano rispondere davanti alla magistratura venezuelana. Dal momento che per Maduro una delle basi operative dei presunti attentatori è stata la capitale della Florida, Miami, ha detto di avere “buona fede” che il presidente statunitense Donald Trump non lasci permettere che sul territorio del suo paese si organizzino attentati contro presidenti stranieri. Nel corso dell’intervento da palazzo Miraflores, ripreso dalla stampa locale, Maduro ha mostrato quattro video grazie ai quali è stato secondo lui possibile ricostruire la traiettoria dei droni carichi di esplosivo usati per l’attacco. Dieci minuti dopo il presunto tentativo di attentato, i primi due individui coinvolti nell’azione erano già stati catturati, grazie alla collaborazione di alcuni cittadini che hanno fornito informazioni utili alle autorità: alcuni residenti avrebbero notato due individui sospetti scendere da un furgoncino e, subito dopo, far volare i droni. Una volta sentite le esplosioni i cittadini avevano intuito che i due soggetti potevano essere coinvolti. Il presidente Maduro ha spiegato che il tutto sarebbe stato organizzato dai suoi detrattori politici in patria, in particolare il dirigenti del partito di opposizione Prima la giustizia, che infatti nella notte sono stati fermati dal servizio di intelligence bolivariano (Sebin). In manette è finito il deputato Juan Requesens e sua sorella Rafaela, dirigente di un movimento studentesco, evidenziando nuovamente lo scontro tra istituzioni in corso nel paese. Ancora una volta Maduro ha sottolineato che gli autori del presunto attentato sono stati addestrati in Colombia, nel nord dello stato di Santander: “È chiaro e abbiamo le prove della partecipazione del governo colombiano”, aveva riferito, aggiungendo “sono ancora sorpreso da quello che stiamo scoprendo, dall’intervento dell’oligarchia colombiana e all’utilizzo di metodi fascisti da parte di importanti leader politici dell’opposizione”. Nella ricostruzione effettuata il presidente ha dichiarato che gli attentatori sarebbero stati pagati con 50 milioni di dollari e un visto per gli Stati Uniti. Undici persone in tutto sarebbero state contrattate per organizzare l’attentato. Nella ricostruzione delle autorità venezuelane, il gruppo avrebbe tentato di organizzare l’attentato sfruttando altre due commemorazioni pubbliche, una il 24 giugno e una il 4 luglio, ma che avevano desistito. Secondo le prove fornite da Maduro il gruppo sarebbe legato al colonnello Juan Cuguaripano, detenuto dallo scorso agosto per aver assaltato la caserma dell’esercito Paramacay per rubare armi. In carcere il colonnello sarebbe stato contattato da un suo alleato, Monasterios Venegas, per realizzare l’azione contro Maduro. Questi avrebbe avuto l’appoggio della Colombia per addestrarsi al pilotaggio dei droni da usare nell’attentato, attraverso l’intermediazione di un altro parlamentare venezuelano esiliato a Bogotà, Julio Borges. “Hanno cercato di uccidermi”, ha dichiarato il capo di stato a poche ore dall’accaduto. Maduro ha accusato da subito “l’oligarchia colombiana” e lo stesso ex presidente Juan Manuel Santos di essere all’origine dell’attacco. Maduro ha ribadito le accuse a Santos anche in settimana. “Non c’è alcun dubbio che l’ordine dell’attacco sia partito dal Palacio de Nariño a Bogotà”, ha rilanciato Maduro, certo che l’ex presidente colombiano abbia dato l’ordine di preparare azioni terroristiche per il suo “assassinio tramite politici venezuelani, che per la prima volta nella storia (...) sono andati a inginocchiarsi e si sono messi al servizio dell’oligarchia di Bogotà”. Il Venezuela darà la colpa alla Colombia per qualsiasi attacco futuro sul suo territorio, ha aggiunto Maduro. Il ministero degli Esteri colombiano ha da parte sua negato qualsiasi coinvolgimento di Bogotà nel tentativo di omicidio su Maduro. Lo stesso Santos ha risposto alle accuse: “Sono stato accusato di molte cose, ma le accuse che mi sono state mosse questo sabato hanno qualcosa di insolito. Dicono che organizzo piani per assassinare il presidente del Venezuela. Presidente Maduro: sabato ero impegnato in cose più importanti, stavo battezzando mia nipote”, ha scritto Santos su Twitter lo scorso fine settimana. Il presidente venezuelano Nicolas Maduro istituirà un nuovo servizio di sicurezza incaricato di contrastare le attività terroristiche presumibilmente orchestrate dalla Colombia. “Ho chiesto al ministero della Difesa di creare un nuovo dipartimento di servizi di sicurezza per la protezione del nostro popolo dal terrorismo colombiano”, ha detto Maduro citato dalla stampa venezuelana. Le relazioni tra i due paesi vicini, tese in più occasioni, si sono indurite da quando Maduro ha subito l’attacco con dei droni carichi di esplosivo.