La questione carceri resti al centro della politica di Roberto Fico* Avvenire, 14 agosto 2018 Non confondere la certezza della pena con una pena afflittiva. Gentile direttore, ho apprezzato particolarmente l’attenzione posta dal suo giornale al tema delle carceri, rispetto al quale sono intervenuto più volte dal giorno del mio insediamento. La questione deve rimanere al centro dell’attenzione delle istituzioni, della politica e della società, perché è anche attraverso il modo in cui si struttura l’ordinamento penitenziario e si tutelano i diritti delle persone detenute che si misura il grado di maturazione democratica di un Paese. Nei primi mesi di legislatura si è trattato del tema che è oggetto di un processo di riforma dell’ordinamento penitenziario, avviato nella precedente legislatura. Qualche giorno fa il Governo ha inviato alle Camere un nuovo schema di decreto che attua parte della delega originaria. Non entro nel merito del testo - ora alle Commissioni parlamentari per il parere - e mi limito a considerare che la riforma in discussione, più che un punto di arrivo, costituisce il tassello di un percorso. Ormai da tempo, fra le associazioni e gli operatori del settore ha preso vita un dibattito sulla cultura della pena e del modello penitenziario. Siamo dentro un processo di cambiamento culturale e di paradigma: si parla sempre meno di “pena” e sempre più, al plurale, di “pene”, come del resto dice la Costituzione; si propone l’introduzione di programmi di recupero che consentano ai detenuti di riconnettersi in anticipo alla società esterna; si assiste a un ripensamento dei tempi e degli spazi all’interno delle carceri, per umanizzarle; la custodia tradizionale cede il passo al paradigma del regime aperto e della sorveglianza dinamica. La politica e le istituzioni hanno la responsabilità di intercettare fino in fondo il cambiamento culturale e di paradigma in atto, per metterlo al centro del dibattito, in cui ritengo che anche il linguaggio debba mutare mettendo al bando espressioni che avvelenano il confronto sul tema senza contribuire ad analizzarlo nella sua complessità. Procedere verso una nuova visione significa anche contribuire a risanare un’antica frattura: quella fra carcere e società, fra carcere e territorio. Perché il carcere è periferia in tutti i sensi possibili: fisica, umana, esistenziale. Come cittadini chiediamo certezza della pena - perché da questo principio passano la sicurezza e la nostra fiducia nel sistema giudiziario - ma non possiamo confondere pena certa con pena afflittiva. Inoltre se la Costituzione parla di pene, è perché possono esservene diverse, perché a seconda del reato e della persona possono essere definiti specifici percorsi rieducativi. Le statistiche attestano tra l’altro che le misure alternative alla detenzione producono minori tassi di recidiva, e quindi più sicurezza per i cittadini. Né possiamo evitare di chiederci che persona sarà il detenuto una volta uscito dal carcere. Sarà certamente una persona migliore se avrà trovato la possibilità di costruire un orizzonte nuovo, seguendo percorsi di formazione e risocializzazione. A Poggioreale, qualche settimana fa, ho visto due modelli di carcere convivere nello stesso spazio. Uno guarda al miglioramento della qualità del tempo e degli spazi dei detenuti; l’altro è fatto di sovraffollamento e degrado. Dobbiamo trasformare il primo modello in regola di sistema. Voglio infine richiamare l’attenzione su una ferita aperta del nostro sistema detentivo: la tutela della salute dei detenuti, in particolare rispetto ai disturbi mentali, che possono sfociare in gesti drammatici purtroppo costantemente sotto ai nostri occhi. Passi in avanti sono stati fatti, ma serve trattare la salute dei detenuti come quella di tutti gli altri cittadini. Anche da questo passa la civiltà del sistema penitenziario, e quindi la maturità democratica del Paese. *Presidente della Camera dei deputati “Sono digiuni della realtà delle carceri e hanno spolpato la riforma Giostra” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 agosto 2018 Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, critica il nuovo Ordinamento penitenziario. “Come Partito Radicale abbiamo già chiesto un incontro con il nuovo capo del Dap Francesco Basentini e, dopo di lui, lo chiederemo anche al Ministro Bonafede”. “L’unica attenuante che è possibile concedere agli estensori è che siano del tutto digiuni di quel che è la realtà penitenziaria italiana, dei 190 istituti sparsi sul territorio nazionale”. Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, commenta così a Il Dubbio il nuovo decreto dell’ordinamento penitenziario riscritto dal governo legastellato. L’esponente radicale può sicuramente essere considerata una leader assoluta dell’azione nonviolenta di lunghi scioperi della fame per la riforma dell’ordinamento che migliaia di detenuti hanno atteso con speranza. Attesa dapprima vanificata dal governo precedente, non approvando il decreto principale, poi, con la riscrittura da parte di quell’attuale, trasformatasi in delusione. A breve verrà probabilmente approvata definitivamente la riforma dell’ordinamento penitenziario, le soddisfa lo schema di decreto legislativo adottato dal Consiglio dei ministri? Non chiamiamola “riforma”, per carità! Il governo penta-leghista ha preso la riforma Giostra (già fortemente compromessa dalle modifiche delle commissioni giustizia di Camera e Senato), l’ha spolpata delle parti più significative e poi si è messo a spilluzzicare qua e là. Un disastro, insomma. Eppure il ministro della giustizia Alfonso Bonafede si ritiene soddisfatto, perché dice di aver garantito la “certezza della pena” e nel contempo ha valorizzato il rispetto della dignità dei detenuti. Questa storia della “certezza della pena” mi fa un po’ sorridere per come viene interpretata da Bonafede e Salvini. Per loro l’unica pena esistente è il carcere..., ignorano volutamente che l’art. 27 della nostra Costituzione parla di “pene” al plurale. “La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando sono certi, spaventano sempre gli animi umani... “, questo affermava Cesare Beccaria nel capitolo riguardante la “dolcezza delle pene” nel suo capolavoro “Dei delitti e delle pene”. Certezza della pena, significa dunque un’alta probabilità di essere “beccato” - e punito - per il reato commesso: questo è ciò che si teme non tanto l’atrocità della sanzione prevista. Non per caso proprio dall’Europa viene una sollecitazione a tutti gli stati membri di privilegiare le misure e le pene alternative al carcere che è ovunque, anche laddove funziona meglio, una vera e propria fabbrica di recidive. E la valorizzazione della dignità dei detenuti? Non ne vedo traccia nel Ddl licenziato dal governo. L’unica attenuante che è possibile concedere agli estensori è che siano del tutto digiuni di quel che è la realtà penitenziaria italiana, dei 190 istituti sparsi sul territorio nazionale. Come si può rispettare la dignità dei detenuti, solo per fare un esempio, togliendo dal Ddl qualsiasi riferimento al diritto all’affettività? Dicono che vogliono far rispettare il principio della territorialità della pena, ma non si trova traccia delle modalità di attuazione di un tale, sacrosanto, principio. Penso alla Sardegna, da anni, piena zeppa di deportati dal “continente”. Rispetto al sovraffollamento, che comporta inesorabilmente la violazione della dignità della persona (vedi sentenza Torreggiani) la risposta che viene data è “costruiremo più carceri” il che dà la misura o dell’ingenuità o della malafede, perché ammesso e non concesso che ci fossero a disposizione i (tanti) fondi necessari e che i tempi di realizzazione fossero (cosa impossibile in Italia) rapidissimi, con quale personale aggiuntivo si intenderebbe farle funzionare, vista la carenza attuale sia del personale addetto alla sicurezza che di quello impiegato alla rieducazione? In alcune norme, come ha anche osservato il Garante nazionale, se in origine veniva indicato un dovere, adesso in alcuni passaggi viene introdotta una possibilità. È un dettaglio importante? Ha ragione il Garante Mauro Palma. È un modo tutto italiano di legiferare: niente è cogente per lo Stato, tutto è perentorio e obbligatorio per il cittadino. Fatto sta che le carceri continuano ad essere il luogo in cui lo Stato italiano da decenni compie i suoi misfatti violando sistematicamente diritti umani fondamentali senza pagare pegno (a proposito di certezza del diritto e della pena). Di uscire fuori da questo stato di illegalità costituzionale, purtroppo, non si vede traccia. Il Partito Radicale, come da tradizione, ha sempre intrapreso un dialogo con i governi passati. In particolar modo con l’ex guardasigilli Andrea Orlando per quanto riguarda la realizzazione della riforma. Proseguirete anche con quello attuale? Certo che dialogheremo anche con questo governo. Come Partito Radicale abbiamo già chiesto un incontro con il nuovo Capo del Dap Francesco Basentini e, dopo di lui, lo chiederemo anche al ministro Bonafede. Ci auguriamo che vogliano far tesoro dell’esperienza radical- pannelliana in termini di conoscenza del sistema penitenziario e dell’amministrazione della giustizia la quale, non da oggi, è paralizzata da milioni di procedimenti penali e civili pendenti che non trovano soluzione se non ad una distanza - irragionevole - di anni. Questo governo ha una cultura politica diversa rispetto a quelli passati, soprattutto nell’ambito del sistema penitenziario e giudiziario. Lei davvero crede che si possano ottenere delle aperture in merito alle proposte radicali che, mi passi il termine, sono impopolari e quindi non gioverebbero ai sondaggi di gradimento degli italiani nei confronti del governo? Se sto ai fatti, non vedo tutta questa differenza tra il governo attuale e i precedenti: questo governo, alla stregua di quelli passati, non ravvisa il degrado, l’imbarbarimento, l’erosione dei principi fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia. Leggere domenica scorsa Eugenio Scalfari rimpiangere la democrazia che avremmo perso oggi con il governo attuale è sconfortante perché proviene da un uomo potente che di scenari degenerativi del sistema democratico è stato artefice e protagonista. La nostra opera, l’opera di un cittadino democratico, è far comprendere ai rappresentanti delle istituzioni che i Diritti Umani fondamentali scolpiti nella Dichiarazione Onu o nella Convenzione europea non è possibile metterli ai voti con la politica quotidiana del “pollice verso”, sono principi irrinunciabili che l’umanità ha conquistato nel corso dei millenni per fronteggiare le prepotenze dei poteri costituiti. Come Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito li abbiamo inseriti nel preambolo allo statuto esortando i cittadini alla disobbedienza nei confronti dei poteri che li violino o li riducano a “verbose dichiarazioni meramente ordinatorie”. Può anticiparci le prossime iniziative radicali nell’ambito penitenziario? Siamo in piena campagna di raccolta firme su otto proposte di legge di iniziativa popolare “contro il regime”, diverse delle quali riguardano proprio la giustizia e le carceri. Occorre ricominciare dall’abc e il Partito Radicale ricomincia dalla “A come Amnistia” per concedere la quale (e vale anche per l’indulto) chiediamo di ripristinare il vecchio testo costituzionale che prevedeva la maggioranza assoluta anziché il quorum dei 2/3 impossibile da ottenere. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta, Riccardo Fraccaro, ha promesso di voler agevolare questi strumenti di partecipazione e noi vogliamo vederlo alla prova dei fatti, tanto più che il nuovo regolamento del Senato prevede l’obbligo della messa all’ordine del giorno dei disegni di legge promossi da 50.000 elettori. Oltre a questo, continueremo a monitorare le condizioni di vita in carcere denunciando i casi più eclatanti di violazione dei diritti. Confidiamo molto nelle giurisdizioni superiori, in particolare, Corte Costituzionale e Corte europea dei diritti umani, le uniche istituzioni che dimostrano di avere a cuore i diritti umani, anche degli ultimi. Nasce “Sognalib(e)ro”, premio letterario per detenuti Redattore Sociale, 14 agosto 2018 Promosso dal Comune di Modena con il ministero della Giustizia, Giunti e il sostegno di Bper Banca, il concorso coinvolge 10 carceri ed è diviso in 2 sezioni, una per i detenuti lettori e una per aspiranti scrittori. Il termine per partecipare è il 13 novembre. Leggere e scrivere sono atti di libertà, che permettono di attraversare i muri portando il dentro fuori e viceversa. Da questa idea nasce “Sognalib(e)ro”, il premio letterario per detenuti ideato da Bruno Ventavoli, direttore di “Tuttolibri”, il settimanale della Stampa, e promosso dal Comune di Modena insieme alla Direzione generale del ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, con Giunti editore e il sostegno di Bper Banca. Obiettivo del premio è “promuovere la lettura e la scrittura negli istituti penitenziari, dando concreta attuazione all’articolo 27 della Costituzione (“Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, ndr.)”. Sono 10 gli istituti penitenziari individuati dal ministero della Giustizia tra quelli in cui sono attivi laboratori di scrittura creativa o lettura: la Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, la Casa circondariale di Modena, la Casa di reclusione Opera di Milano, e poi quelle di Pisa, Brindisi, Trapani, Verona e Cosenza oltre alle Case circondariali femminili di Rebibbia a Roma e Pozzuoli a Napoli. Sono 2 le sezioni del premio “Sognalib(e)ro”: nella sezione “narrativa italiana”, una giuria composta dai detenuti che partecipano ai gruppi di lettura delle carceri attribuisce il premio valutando il migliore tra 3 romanzi di recente pubblicazione scelti dagli scrittori Elena Ferrante, Walter Siti e Antonio Manzini affiancati dal direttore editoriale di Giunti, Antonio Franchini, e da Bruno Ventavoli. In concorso ci sono “L’Arminuta” di Donatella di Pietrantonio (Einaudi), vincitrice del Campiello 2017, “Una storia nera” di Antonella Lattanzi (Mondadori) e “Perduto in paradiso” di Umberto Pasti (Bompiani). Il Comune di Modena ha inviato ai gruppi di lettura 5 copie di ogni libro. Il premio consiste nell’acquisto e invio alle carceri partecipanti di titoli scelti dall’autore vincitore. Nella stessa sezione rientra il Premio Bper Banca che assegnerà un riconoscimento speciale allo scrittore vincitore. La seconda sezione è dedicata agli inediti scritti da detenuti: il premio consiste nella pubblicazione dell’opera vincitrice da parte di Giunti che, inoltre, donerà libri alla biblioteca del carcere vincitore. C’è tempo fino al 13 novembre per partecipare (per inviare al Comune di Modena il punteggio assegnato ai libri candidati nella prima sezione e le opere inedite nella seconda). Democrazie diretta e riforme, battaglie di corto respiro di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 14 agosto 2018 Perché i difensori della Costituzione si limitano a qualche borbottio quando i capi del partito più forte propongono di mandare in soffitta il Parlamento. Certamente c’è una grande differenza fra una consultazione referendaria al termine della quale si deve decidere se cambiare o no alcune parti di una Costituzione e le dichiarazioni di intenti dei leader di un partito (anche se si tratta del partito oggi più votato in Italia). Nel primo caso c’è in ballo una decisione immediata, nel secondo caso si può anche supporre (o sperare) che quelle dichiarazioni lascino il tempo che trovano, che siano parole in libertà, prive di conseguenze pratiche. Tuttavia, un osservatore delle vicende italiane può avere l’impressione che i conti non tornino. Egli ricorda quanto numerosi furono coloro che si spesero con reboanti dichiarazioni, con prese di posizioni di fuoco, “in difesa della Costituzione”, dei “valori costituzionali” e compagnia bella, quando si trattò di respingere una semplice proposta di razionalizzazione della nostra democrazia rappresentativa (ossia, il superamento di quei pessimi, disfunzionali marchingegni che sono il parlamentarismo paritetico e il Titolo Quinto nella sua attuale formulazione). Come mai - potrebbe chiedersi quell’osservatore - i sopracitati difensori della Costituzione si limitano a qualche borbottio di dissenso, quando i capi del partito di maggioranza relativa - non di un irrilevante partitino dello zero virgola - propongono addirittura di mandare in soffitta il Parlamento, e dunque la democrazia rappresentativa, e dunque la Costituzione medesima? Dopo le dichiarazioni di Casaleggio e Grillo il (non molto smaliziato) osservatore di cui sopra avrebbe potuto attendersi qualche manifestazione di protesta: per lo meno, le solite piazze piene dei soliti cittadini indignati e i soliti discorsi dal palco in difesa della costituzione nata dalla Resistenza. Insomma: la solita routine. E invece niente. Come mai? Credo di conoscere la risposta. Durante la campagna referendaria ascoltavo con attenzione gli argomenti dei sostenitori del “no”. Mi parevano, per la maggior parte, assai poco convincenti. La fragilità degli argomenti pro-no (o quella che a me sembrava tale) dipendeva, a mio giudizio, da una circostanza: fatta salva la buona fede di questo o di quello, il vero mastice dello schieramento del “no”, la vera motivazione che lo guidava, aveva poco a che fare con i contenuti del progetto di riforma. Allo schieramento del “no”, soprattutto, premeva sconfiggere quel progetto perché, in questo modo, esso sarebbe riuscito a “fare fuori” politicamente Matteo Renzi. Missione compiuta. Si spiega forse così la differenza: da un lato, quel popò di can can contro una modesta e sensata proposta di riforma costituzionale e, dall’altro, il silenzio di fronte a propositi, essi sì, sicuramente eversivi. Ricordo che, all’epoca della campagna referendaria, uno sprovveduto mi scrisse per spiegarmi che con il manifesto dei cento costituzionalisti contrari alla riforma era la Scienza (niente meno) che si era espressa. Beh, dove è finita ora la Scienza? Dove è andato a nascondersi l’augusto consesso? E l’Anpi, dove è finita l’Anpi? E la Cgil? E Magistratura Democratica? E tutti quei signori che, all’epoca del referendum, forti delle loro profonde e vaste conoscenze e competenze storiche, tiravano in ballo la marcia su Roma o la Repubblica di Salò? Nessuno di costoro, evidentemente, si è accorto che un partito che ebbero al loro fianco in quella battaglia “in difesa della Costituzione” - e che, incidentalmente, è anche il più forte partito italiano - ha nel frattempo cambiato idea (contrordine compagni) e ora della suddetta Costituzione vorrebbe fare carta straccia. Un antico e saggio proverbio recita: “Sono sempre due le ragioni per le quali un uomo fa qualcosa: una buona ragione e la ragione vera”. Si spiega così perché, anche nelle scelte di politica costituzionale, al di là delle dichiarazioni ufficiali, entrino immancabilmente motivazioni, più o meno inconfessabili, che hanno a che fare con ragioni politiche contingenti. C’è anzi chi sostiene che tali ragioni contingenti siano quelle che sempre contano maggiormente. Penso che in ciò ci sia molto di vero. Sappiamo, ad esempio, che parti importanti della nostra Costituzione (quelle che dipesero dalla decisione concorde dei suoi estensori di dare vita a governi strutturalmente deboli) si spiegano alla luce dei calcoli politici contingenti dei partiti presenti nell’Assemblea costituente. Ciò vale anche per la decisione di schierarsi da una parte o dall’altra in una campagna referendaria, sia essa su temi costituzionali oppure no. Ad esempio, non c’è nulla di strano nel fatto che all’epoca del referendum sul divorzio del 1974, una parte dei votanti fosse soprattutto interessata a colpire o a difendere l’allora partito di maggioranza relativa (la Dc). È dunque normale che anche nel recente referendum costituzionale le principali motivazioni di alcuni avessero più a che fare con la politica contingente (sostenere o abbattere Renzi) che con la riforma in sé. Però, persino in politica, stile e decoro hanno una qualche funzione da svolgere. Tacere sulle attuali proposte (molto autorevoli, dato il peso politico dei proponenti) di “democrazia diretta” dopo che si è detto quel che si è detto all’epoca del referendum, segnala, per lo meno, una caduta di stile e poco decoro. Molti, effettivamente, hanno la memoria corta. Ma non tutti. “Caro ministro Bonafede, costruiamo una giustizia libera da rancori e slogan” di Beniamino Migliucci e Francesco Petrelli* Il Dubbio, 14 agosto 2018 Una lettera aperta al Guardasigilli dal Presidente e dal Segretario dell’Unione Camere Penali. Caro Ministro, se è vero che, come da Lei affermato nel corso del nostro primo incontro ufficiale, l’interlocuzione con gli operatori del diritto sarà posta al centro della Sua azione di governo, pensiamo che anche una lettera aperta possa costituire un contributo utile allo scopo di alimentare quel dialogo. Non crediamo sia necessario, in questa sede, ricordare il nostro disaccordo per tutte quelle che sono le linee di riforma indicate nel “contratto” di governo. Gli aumenti delle pene, l’ampliamento dell’utilizzo dello strumento intercettativo, l’eliminazione dei regimi differenziati a favore dei minori e dei giovani adulti, l’irrigidimento del 41bis, il ripensamento di tutte le politiche deflattive in campo processuale, dalle depenalizzazioni alla messa alla prova, dalla esclusione del rito abbreviato alla eliminazione della tenue entità del fatto, costituiscono, infatti, una pericolosa involuzione dell’intero sistema penale. Non si tratta solo di una posizione ideologica e culturale, fondata sulla condivisione di valori costituzionali e convenzionali, ma anche di considerazioni di ordine empirico che tengono in conto il profilo della concreta efficienza e della complessiva razionalità della macchina della giustizia. Prescrizione: rischio di processi eterni - Ma per restare all’idea del confronto produttivo, crediamo sia meglio muovere dalle Sue stesse considerazioni. Partiamo con qualche esempio. Lei dice che quando la gente Le chiede spiegazioni su come sia possibile che anche reati gravi finiscano in prescrizione, Lei non sa cosa rispondere. Potremmo suggerire in proposito molti argomenti e citare fonti autorevoli, a partire da Giustiniano in poi. Ma non è questo il punto. Trattandosi di dare risposte concrete e non di offrire giustificazioni teoriche, per quanto autorevoli esse siano, sembra opportuno restare ai fatti. E il fatto è che negli altri Paesi europei, sia di common che di civil law, il “problema prescrizione” non esiste semplicemente perché, sia pure con le evidenti differenze connesse ai diversi modelli e sistemi, i processi si celebrano comunque in tempi ragionevoli. Nel nostro Paese i termini di prescrizione per i reati più gravi sono all’incirca ventennali. E Lei sa bene che oltre il 60% dei reati si prescrive nella fase delle indagini preliminari, prima ancora che il processo inizi, quando ogni potere dispositivo sta nelle mani dei pubblici ministeri. Fermare il decorso della prescrizione dopo il primo grado non solo non risolverebbe il problema, ma significherebbe anche mortificare il sistema delle impugnazioni. Un cittadino, imputato o vittima di un reato che sia, amministrato o amministratore, ha diritto di sapere in tempi ragionevolmente rapidi se dovrà scontare una pena o se avrà diritto ad un risarcimento, o di sapere se il proprio sindaco era stato corrotto o se l’impianto industriale nel quale lavora dovrà essere confiscato. Bloccata la prescrizione al primo grado si consegna, infatti, il processo ad una sorta di “limbo” che pregiudica tanto gli interessi dei singoli quanto quelli della collettività. Nelle condizioni date, una simile riforma renderebbe il processo sostanzialmente “eterno” e ne deformerebbe in profondità i già precari equilibri. Se al tempo stesso si intendesse abolire i meccanismi deflattivi che incoraggiano i comportamenti positivi dell’autore dell’illecito e limitare in particolare l’applicazione del rito abbreviato, solo per poter offrire al pubblico il trofeo di inutili “pene esemplari”, ciò significherebbe addossare costi insostenibili alla macchina della giustizia, con conseguente ulteriore allungamento dei tempi processuali proprio con riferimento ai fatti di maggiore rilievo, al di fuori di ogni sensato equilibrio di costi e benefici. Fine rieducativo della pena: ci creda - Lei dice, ancora, che la riforma penitenziaria va “buttata a mare” perché in materia di esecuzione penale e di carcere la gente chiede “certezza della pena”. Ed ha portato ad esempio la liberazione anticipata “speciale” del governo Orlando, che ha fatto uscire detenuti al di fuori di ogni criterio di rieducazione e di reinserimento. Lei dice che allora sarebbe stato meglio fare un condono. Su questo siamo d’accordo. Ci siamo battuti a lungo per un provvedimento di clemenza collettivo da adottarsi contro una condizione di illegalità che governa ormai da tempo la condizione carceraria e nella quale, a cinque anni dalla sentenza Torreggiani, abbiamo raggiunto il record nel numero dei suicidi. Ma quello, che piaccia o no, era un intervento emergenziale “svuota carceri” e non è su questi esempi patologici che si può giudicare il sistema. D’altronde Lei stesso ribadisce di credere fermamente nel fine rieducativo della pena, ma che le misure alternative devono essere applicate solo a chi veramente le merita. Non ci pare che la riforma muovesse da presupposti diversi. Potenziava gli strumenti rieducativi personalizzanti e quelli conoscitivi del magistrato, premiando proprio la meritevolezza a scapito di inutili e dannosi automatismi ostativi che impediscono a chi appunto lo merita di accedere a regimi extramurari più utili alla risocializzazione del condannato. Lei ci ha detto ancora che non riesce a spiegare a chi glielo chiede come mai una persona condannata a quattro anni debba vedere l’esecuzione di quella pena sospesa. Il termine di quattro anni non è un termine tirato a casaccio: quel limite, in ambito internazionale (Onu), definisce i reati meno gravi. Sospendere una esecuzione non significa evitare la pena, ma solo far valutare al magistrato, prima che il condannato entri inutilmente in carcere, se questi sia meritevole di scontare la pena in maniera alternativa. Perché, signor Ministro, condividere e alimentare retoricamente questi interrogativi? Sa bene, infatti, da quali culture certamente diverse dalla Sua viene l’idea che il carcere sia una medicina balsamica, che mura e chiavistelli favoriscano il reinserimento e riducano la recidiva, che il lavoro del condannato non debba essere uno strumento di promozione morale dell’individuo ma di punizione (o magari anche di pubblica gogna). Nonostante si apprenda di una Sua “prudentissima apertura”, resta una incomprensibile diffidenza per quello che allo stato appare l’unico sistema compatibile, non solo con l’articolo 27 della Costituzione che Lei continua ad evocare con convinzione, ma anche l’unico aderente alle evidenze disponibili che l’esperienza e le scienze sociali più avanzate ci offrono. Intercettazioni, no a retorica del bavaglio - Insomma, forse basterebbe spiegare a chi Le sta attorno che la giustizia nel suo complesso è una cosa seria che mal si adatta a slogan e a facili demagogie. Il che implica evidentemente uno sforzo politico diverso, ed una educazione ed una adesione profonda della intera società alla costruzione di una giustizia moderna e di quei difficili equilibri che la compongono e la sostengono. Lavorare, invece, per allontanare la collettività dal processo, descrivendolo come una sentina di irragionevolezze e di vanità, non giova né al processo né agli interessi dei cittadini. Crediamo che sia quella la strada da seguire se davvero si ritiene che la tutela dei diritti e delle garanzie dell’imputato e del condannato non sia affatto in conflitto con gli interessi che si intendono tutelare. Apprendiamo pertanto con favore della Sua dichiarata intenzione di rivedere integralmente la riforma sulle intercettazioni, da noi fortemente osteggiata, convenendo con la necessità di tutelare pienamente il diritto di difesa e la funzione difensiva, con specifico riferimento alla tutela delle comunicazioni fra assistito e difensore. Ma siamo, tuttavia, anche convinti che la tutela della riservatezza delle comunicazioni non probatoriamente rilevanti vada comunque perseguita e che quelli del “bavaglio” ai danni dell’informazione e del “regalo” alla politica siano solo slogan che generano confusione e nuocciono al dialogo costruttivo. Ci sarebbe piaciuto ascoltare parole più chiare e più coraggiose in materia di legittima difesa, ma rispettiamo anche qui il Suo non facile ruolo e ci proponiamo di dare, come sempre, il nostro contributo rinviando alle tante cose che abbiamo detto e scritto anche nelle Commissioni parlamentari in questi anni. Non rassegnarsi al risentimento - Ha concluso dicendoci che tutti si aspettavano che Lei nominasse alcuni noti magistrati chiamandoli nei ruoli direttivi di Sua competenza, e che ha invece sorpreso tutti operando scelte esclusivamente fondate sul merito, che dimostrano la Sua equidistanza dalle parti in gioco. Scelte del cui merito non discutiamo, ma pur sempre di magistrati. Nessuna legge stabilisce che gli uffici del Ministero siano presidiati da giudici e da pubblici ministeri, ma Lei, pur appartenendo al governo del cambiamento, non ha inteso modificare l’usanza. È probabile che quella Sua affermazione di non appartenere al “partito dei magistrati” sarebbe risultata più credibile se avesse optato per un effettivo “cambiamento” di stile, chiamando agli uffici direttivi anche qualche avvocato e contribuendo così a quella necessaria “areazione” delle culture che giova al rinnovamento degli abiti mentali. D’altronde la reale indipendenza la si apprezza, a prescindere delle parole, dai fatti. E se il contratto di governo anche da Lei sottoscritto è un “fatto”, va da sé che esso evochi in gran parte proprio quella cultura giudiziaria fatta propria da quei magistrati che Lei ha ritenuto di non chiamare al Suo Ministero. È proprio qui che occorre allora interrogarsi sul modo in cui è nata questa cultura giudiziaria, troppo spesso fondata sulla diffusione di slogan ad effetto, e semplificazioni che creano fra processo e cittadino un solco sempre più profondo, che a sua volta determina un fraintendimento pericoloso per cui il fare giustizia è solo condannare e il condannare è solo far scontare pene. Che, infine, il processo penale sia una burla ai danni dell’onesto cittadino, che i diritti e le garanzie siano solo espedienti per farla franca, ci pare vengano proprio da quel contesto di “pensiero”. La giustizia è invece un rimedio complicato, come Lei certamente ha dimostrato di sapere, il cui compimento necessita di una coralità che nel tempo si è andata perdendo. Il problema della diffidenza nei confronti della giustizia che è cresciuta in questi anni nella collettività è un problema reale, da affrontare certamente, al quale, tuttavia, si sta dando una risposta sbagliata. Sull’onda pericolosa e distruttiva di coloro che, nelle università ed in certe correnti della magistratura, hanno tuonato contro gli idoli passatisti dell’illuminismo e del principio di legalità, si è andata costruendo un’idea di giustizia ready made, le cui semplificazioni rischiano di creare una Babele comunicativa ancora più pericolosa, che sostituisce ai diritti gli appetiti, agli interessi le pulsioni individuali, alle aspettative sociali il risentimento. Ma se poniamo invece la ragione e la paziente osservazione della realtà al centro delle nostre comuni riflessioni, riusciremo forse a convenire che non sempre la risposta più facile è anche la più giusta e che la politica accattivante del segno “meno” davanti alle riforme, nelle cose della giustizia, non sempre dà risultati positivi. Se si toglie il pezzo sbagliato la macchina si potrebbe inceppare. La politica è insomma tale se governa i sentimenti e non se ne lascia semplicemente governare. Ed è tanto più apprezzabile quella politica che, prima di affermare di non saper rispondere alle domande di chi ha il dovere di amministrare, prova a guardarsi intorno alla ricerca delle tante possibili risposte che le risorse intellettuali e professionali di questo Paese ancora fortunatamente ci offrono. *Presidente e Segretario dell’Ucpi - Unione Camere Penali Italiane La Lega vuole il carcere per l’accattonaggio “molesto” di Luca Romano Il Giornale, 14 agosto 2018 Il Carroccio mette nel mirino l’accattonaggio molesto per le strade e ai semafori e studia una proposta per introdurre il reato nel Codice penale. La Lega prepara la stretta sul fronte sicurezza. Il Carroccio mette nel mirino l’accattonaggio molesto per le strade e ai semafori e studia una proposta per introdurre questo tipo di comportamento nel codice penale per sanzionarlo anche con l’arresto. La proposta è stata presentata dal leghista Nicola Molteni, sottosegretario agli Interni. Molteni, come spiega il Messaggero, ritiene questo strumento efficace “per aiutare sindaci e polizia locale nel combattere un problema di ordine pubblico”. Nel 1995 la Consulta considerò questo reato incostituzionale. Ma proprio tra le pieghe di quel verdetto, Molteni ha trovato la chiave per riproporre l’introduzione del reato nel codice penale. Nella sentenza della Consulta infatti spiega che “il reato di accattonaggio è compatibile con la Carta se chi mendica lo fa simulando infermità o arrecando disturbo o in modo invasivo”. Da qui l’etichetta “molesto” che potrebbe portare la proposta di Molteni all’interno del Codice Penale. Nella proposta del Carroccio viene previsto il carcere da tre a sei mesi fino a un massimo di un anno “se si provoca disagio alle persone”. Poi seguono le ammende che vanno da 3.000 a 6.000 euro se si “arreca disturbo” e da 5.000 a 10.000 euro se “si causa disagio”. Infine Molteni sottolinea come questo provvedimento possa essere uno strumento di vitale importanza sul fronte sicurezza per i sindaci che finora possono predisporre sanzioni solo usando le circolari. Il patteggiamento forma prova di Giovambattista Palumbo Italia Oggi, 14 agosto 2018 Il giudice di merito che lo disconosca deve motivare. La sentenza penale di patteggiamento costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Così si è pronunciata la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20562 del 06/08/2018. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Lecce aveva confermato l’ordinanza di rigetto del ricorso, volto ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato dall’Agenzia delle entrate nei confronti di un proprio dipendente. Al di là della specifica vicenda, per quanto di interesse, la Corte di cassazione riteneva infondato il ricorso del dipendente, rilevando come il riconoscimento operato in sede di patteggiamento, pur non essendo oggetto di una statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova, atteso che, in tali casi, l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone, o consentendone, l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità. La Corte di cassazione evidenzia, inoltre, che il giudice di merito, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali. E ciò anche laddove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., ben potendo, del resto, la parte contestare i fatti così acquisiti in sede penale. I giudici di legittimità concludono quindi che è legittimo l’accertamento basato sulla sentenza di patteggiamento, ritenuta una sostanziale ammissione di responsabilità (cfr. anche Cass. sez. trib., n. 22862 del 29/9/2017). Nel processo tributario, del resto, basta pensare alla tipica fattispecie dei recuperi a tassazione dei proventi illeciti. No al sequestro del centro sociale se il comune ha tollerato l’occupazione per anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 10 agosto 2018 n. 38483. No allo sgombero del centro sociale se il comune tollera l’occupazione per venti anni, di fatto legittimandola. La Cassazione, con la sentenza 38483respinge il ricorso del Pm e dà partita vinta ai centri sociali. Nello specifico a beneficiare del principio tolleranza uguale legittimazione, è il centro sociale il “Tempo Rosso” di Pignataro Maggiore nel casertano. Un ex macello comunale nel quale si riuniscono attivisti impegnati da anni in un’azione di contrasto contro l’inquinamento dell’ immensa discarica abusiva della “terra dei fuochi”. La pubblica accusa aveva fatto ricorso contro l’ordinanza con la quale il Gip aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo del Pm. Per l’immobile “invaso” erano finiti sotto accusa dieci attivisti, con l’imputazione di occupazione abusiva, imbrattamento, e mancati interventi su edifici pericolanti. Ma nessuna contestazione resta in piedi. Gli indagati erano bambini quando l’ex macello è stato occupato e “il comune aveva prestato ventennale acquiescenza all’occupazione sostanzialmente legittimandola, e impedendo la configurazione del reato”. Quanto all’imbrattamento è un concetto nel quale non possono rientrare i murales in questione, né si conosce l’identità degli autori. Non passa neppure la censura sulla mancata manutenzione. Non esiste una prova della precarietà dell’immobile e, in ogni caso, lavori di consolidamento e manutenzione spetterebbero al comune proprietario della struttura e non agli indagati. Per la Cassazione la tolleranza dell’amministrazione locale aveva indotto le persone a considerare lecita l’occupazione. Una convinzione indotta anche attraverso atti positivi come il pagamento dell’utenza relativa al consumo di energia elettrica. Maltrattamento di animali per il proprietario che lega il muso del cane per non farlo abbaiare di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2018 Tribunale di Taranto - Sezione I penale - Sentenza 7 marzo 2018 n. 492. Legare il muso del proprio cane con una fascetta di plastica per impedirgli di abbaiare costituisce un comportamento insopportabile per l’animale e incompatibile con le sue caratteristiche etologiche, essendo l’abbaio la principale forma di comunicazione di tale animale. In tal caso, scatta il reato di maltrattamento di animali previsto dall’articolo 544-ter c.p.. Ad affermarlo è il Tribunale di Taranto con la sentenza 492/2018. I fatti - Tutto parte dalla segnalazione alla Centrale Operativa dei Carabinieri di una località marina pugliese del maltrattamento di un animale. Gli agenti, recatisi sul posto, notavano la presenza, in un cortile chiuso da un cancello, di un cane di media taglia che aveva il muso legato con una fascetta di plastica che gli impediva di abbaiare. Prontamente interrogati, i proprietari dell’abitazione e dell’animale si mostravano stupiti dell’accaduto e negavano di aver legato il loro cane per impedirgli di abbaiare. I due coniugi venivano però tratti a giudizio per rispondere del reato di maltrattamento di animali in concorso tra loro, ex articoli 110e 544-ter c.p.. La decisione - Il Tribunale acquisiva l’annotazione di servizio dei Carabinieri al fascicolo per il dibattimento al fine della piena utilizzabilità probatoria e, data la mancata comparsa degli imputati, decideva esclusivamente sulla base di tali informazioni, condannando i proprietari dell’animale senza nemmeno riconoscere in loro favore le circostanze attenuanti generiche tenuto conto, in particolar modo, delle modalità delle azioni e dell’intensità del dolo. Il giudice non ha dubbi sulla penale responsabilità degli imputati, in quanto ritiene “del tutto inverosimile e non credibile quanto dagli stessi dichiarato ai militari al momento del controllo”, ovvero che essi non sapevano chi potesse avere legato il muso del cane con la fascetta, dal momento che l’animale si trovava nel cortile adiacente la loro abitazione e protetto da un cancello. Ciò posto, il Tribunale si sofferma sulla configurabilità del reato di maltrattamento di animali, rubricato all’articolo 544-ter c.p., che punisce chi “per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”. Ebbene, spiega il giudice, il riferimento alle caratteristiche etologiche consente di sanzionare tutti quei comportamenti incompatibili con le esigenze naturali dell’animale, che vanno indiscutibilmente salvaguardate; comportamenti che possono essere attuati con crudeltà, richiedendo in tal caso il dolo specifico, o senza necessità, richiedendo in tal caso semplicemente che la condotta sia cosciente e volontaria. Nel caso di specie, è certo che gli imputati hanno maltrattato il cane di loro proprietà, “legandogli il muso con una fascetta che gli impediva di abbaiare, così sottoponendolo a comportamenti insopportabili e del tutto incompatibili con le caratteristiche etologiche” dell’animale. L’abbaio è, infatti, la principale forma di comunicazione del cane e la scelta di legargli il muso con una fascetta, con le sofferenze e difficoltà anche respiratorie collegate, non può che integrare una condotta vietata dalla norma incriminatrice. Reato continuato: valutazione dell’unicità del disegno criminoso. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2018 Reato - Reato continuato - Giudice dell’esecuzione - Applicazione della continuazione - Identità del disegno criminoso - Elementi di valutazione. In tema di applicazione della continuazione, l’identità del disegno criminoso che caratterizza l’istituto disciplinato dall’articolo 81, comma secondo, c.p., richiamato per la fase esecutiva dall’articolo 671 c.p.p., postula che l’agente si sia previamente rappresentato ed abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo che esprime, invece, la sua opzione a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, pure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza che si concretizza di volta in volta in relazione alle occasioni ed opportunità esistenziali. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 luglio 2018 n. 34363. Esecuzione penale - Giudice dell’esecuzione - Reato continuato - Elementi ed indici di valutazione della continuazione ex articolo 671 c.p.p. - Provvedimento di diniego - Motivazione. La decisione del giudice dell’esecuzione in ordine all’eventuale applicazione della continuazione ex articolo 671 c.p.p. (con la relativa rideterminazione delle pene comminate per i reati giudicati separatamente in maniera definitiva), se congruamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità. Il provvedimento del giudice a quo che rigetti l’istanza di applicazione della continuazione deve ritenersi assolutamente ben motivato se individua correttamente una serie di elementi sintomatici dell’inesistenza del medesimo disegno criminoso, quali la diversa identità dei complici del condannato, la svariate serie dei luoghi di commissione dei delitti e la distanza temporale tra i fatti. Peraltro, l’istanza di applicazione della continuazione avanzata dal condannato non deve essere generica, come ad esempio accade qualora il richiedente si limiti ad elencare le sentenze di condanna intervenute a proprio carico. Infatti, colui che intenda beneficiare della disciplina del reato continuato ha l’onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno della propria domanda, non essendo sufficiente il semplice riferimento alla contiguità temporale degli addebiti o alla identità e/o analogia dei reati commessi, indici, questi ultimi, sintomatici non dell’attuazione di un disegno criminoso unitario quanto, al contrario, di un’abitualità criminale e di ripetute scelte di vita del condannato sistematicamente ispirate alla violazione delle norme vigenti. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 13 settembre 2016 n. 37995. Esecuzione - Istanza di applicazione della disciplina della continuazione - Reati di omesso versamento iva - Diniego - Esclusa sussistenza di medesimo disegno criminoso - Implicito riconoscimento di distinte e separate decisioni. Ai fini della determinazione della continuità, di per sé l’omogeneità delle violazioni e la contiguità temporale di alcune di esse, seppure indicative di una scelta delinquenziale, non consentono, da sole, di ritenere che i reati siano frutto di determinazioni volitive risalenti a un’unica deliberazione di fondo, con la conseguenza che l’identità del disegno criminoso deve essere negata qualora la successione degli episodi sia tale da escludere, malgrado la contiguità spazio-temporale e il nesso funzionale tra le diverse fattispecie incriminatrici, la preventiva programmazione dei reati, ed emerga, invece, l’occasionalità di quelli compiuti successivamente rispetto a quello cronologicamente anteriore. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 3 settembre 2015 n. 35912. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Indici rivelatori dell’unicità del disegno criminoso - Nozione - Sufficienza anche di uno soltanto di essi ai fini del riconoscimento della continuazione - Fattispecie. In tema di reato continuato, l’identità del disegno criminoso è apprezzabile sulla base degli elementi costituiti dalla distanza cronologica tra i fatti, dalle modalità della condotta, dalla tipologia dei reati, dal bene tutelato, dalla omogeneità delle violazioni, dalla causale, dalle condizioni di tempo e di luogo, essendo a tal fine sufficiente la sola constatazione di alcuni soltanto di essi, purché significativi. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione aveva escluso la configurabilità della continuazione per fatti di partecipazione a due associazioni per delinquere finalizzate a traffico degli stupefacenti, sebbene vi fosse contiguità temporale tra i due sodalizi ed una parziale coincidenza spaziale delle condotte). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 12 marzo 2013 n. 11564. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Accertamento della “continuazione” - Indici rivelatori dell’unicità del disegno criminoso - Nozione - Sussistenza di alcuni soltanto degli indici ai fini del riconoscimento della continuazione - Sufficienza. In tema di applicazione della continuazione in sede esecutiva il giudice, ponendo a raffronto le sentenze deve verificare la ricorrenza di almeno alcuni degli indici rivelatori dell’identità del disegno criminoso - tra cui la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, la tipologia dei reati, il bene protetto, l’omogeneità delle violazioni, la causale, le condizioni di tempo e di luogo - onde accertare se sussista o meno la preordinazione di fondo che cementa le singole violazioni. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 9 gennaio 2013 n. 8513. Lodi: suicidio in carcere, si impicca un italiano 42enne condannato per droga affaritaliani.it, 14 agosto 2018 Si è tolto la vita nella sua cella impiccandosi la sera del 12 agosto. L’uomo, C.R., 42 anni era stato condannato a giugno dal Gup di Trieste a 8 anni di carcere col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio nell’ambito di un’inchiesta che aveva portato al suo arresto un anno fa. Dopo la condanna, il detenuto aveva incontrato il suo avvocato, Mirko Perlino, nel carcere di Lodi. “Avevamo parlato del ricorso in appello e mi era apparso tranquillo”, ha detto il legale. L’uomo, che abitava a Milano, si era trasferito da non molto a Lodi per raggiungere la sua fidanzata. Era accusato dalla Procura di Trieste di essere attivo sulla piazza milanese nello spaccio di hashish per conto della presunta associazione a delinquere. Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere senz’acqua, altra estate d’inferno di Marilù Musto Il Mattino, 14 agosto 2018 Il Garante per i reclusi scrive al Comune e alla direzione: “Non si perda più tempo”. È la classica storia in cui alle domande sì risponde sempre: “Sono i tempi della burocrazia”. E la burocrazia ha una enorme responsabilità sul tema dei ritardi dei lavori per la costruzione di una rete idrica che porti al carcere di Santa Maria Capua Vetere: un complesso dì sbarre e cemento che da almeno venti anni ha sete. E pensare che l’aula bunker del carcere è stata costruita, pezzo dopo pezzo, grazie al calcestruzzo fornito dal clan dei casalesi. La camorra però non aveva pensato a collegare la struttura a una rete che potesse dissetare quel complesso di cemento e ferro. Così, per anni i detenuti hanno comprato bottiglie di acqua per farsi semplicemente la doccia. Ora, c’è chi dice “no”. Ed è il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello che con una nota fa sapere: “I detenuti mi chiedono notizie in merito alla sistemazione della condotta idrica, il carcere non è servito dalla rete e l’approvvigionamento di acqua è assicurato grazie all’utilizzo di acque di falda e un impianto di potabilizzazione, spesso mal funzionante”. “Il carcere non ha colpe”, risponde la direttrice Elisabetta Palmieri. “Rispetto agli altri anni, l’acqua qui non manca. Per la maggior parte del giorno è assicurata la fornitura anche grazie a un impianto di potabilizzazione. Certo, abbiamo compulsato di istanze il Corri une, ma che altro possiamo fare?”. Venti anni fa, in maniera rurale, si era scavato un fosso in terra e si era preferito far salire l’acqua direttamente da un pozzo artesiano. Un metodo antico, poco dispendioso rispetto al collegamento con la rete comunale. È proprio il Comune che ora deve rispondere alle critiche del garante dei detenuti: “Abbiamo ottenuto il decreto di finanziamento solo nel marzo scorso”, ribatte il sindaco dì Santa Maria Capua Vetere, Antonio Mirra. Il nodo è proprio questo: far entrare il denaro stanziato dalla Regione nel bilancio comunale per poi programmare e iniziare le opere. Eppure, la regione Campania il 5 aprile del 2016 ha approvato un Protocollo d’Intesa per la “costruzione di una condotta idrica a servizio della casa circondariale di Santa Maria - spiega Ciambriello - e delle aule bunker, l’accordo è stato sottoscritto istituendo un capitolo spesa nel bilancio di previsione della Regione per 2 milioni 190mila euro, cofinanziati dall’Unione Europea. Per questo, chiedo a tutti, al sindaco Mirra e alla direttrice del carcere, Palmieri, con estrema urgenza, i tempi di realizzazione dell’opera che servirà a portare l’acqua ai detenuti e alla struttura penitenziaria”. “Con il decreto di finanziamento a marzo, noi stiamo proseguendo con tutte le procedure previste nel crono-programma, dopo la progettazione vi sarà la gara per l’affidamento del cantiere”. Sono stati aggiudicati 150mila euro, circa, solo per la progettazione, ora dovrà essere messo sul banco il bando di gara per far accedere le ditte. Il piano definitivo ci sarà subito dopo le vacanze. “Abbiamo attivato una regolare procedura pubblica per avere il progetto. Anzi, per la verità, prima ancora che ci arrivasse il finanziamento, abbiamo attivato la procedura di aggiudicazione, Ora, si dovrà costruire questo collegamento fra la condotta comunale e il carcere, ce la faremo”. La storia del cantiere mai nato per il collegamento all’acqua è ricca di promesse, ma solo nella primavera del 2016, anche grazie alla intermediazione dell’ex deputata Camilla Sgambato (Pd) fra il carcere e il ministero della Giustizia, i fondi pari a 2 milioni furono sbloccati e la Regione diede impulso alla realizzazione. Ora è di nuovo tutto arenato nel mare della burocrazia: un mare arido, dove a navigare senz’acqua sono i mille detenuti ristretti a Santa Maria Capua Vetere. Roma: il sottosegretario alla Giustizia Morrone a Ferragosto in visita a Regina Coeli Adnkronos, 14 agosto 2018 “Pur non essendo state ancora rese note le ragioni del tragico gesto, - commenta il sottosegretario - dobbiamo tutti riflettere sulle difficili condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria, naturalmente non da oggi, ma causate da anni di colpevoli ritardi nella presa in carico dei loro problemi. Ciò che posso dire è che questo ministero si attiverà al più presto per verificare le iniziative più urgenti da assumere, confrontandosi con le rappresentanze sindacali”. Lo sottolinea il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, annunciando che il giorno di Ferragosto visiterà il carcere romano di Regina Coeli e inviando le condoglianze alla famiglia dell’agente della Polizia penitenziaria che si è tolto la vita ieri a San Gimignano. “Dall’altro lato, dobbiamo dedicare la massima attenzione - aggiunge l’esponente dell’esecutivo - anche al fenomeno preoccupante del crescente numero di suicidi tra i detenuti. L’obiettivo è quindi un miglioramento dell’esperienza detentiva, contestuale ad azioni concrete per il benessere lavorativo degli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria, che ringrazio per l’abnegazione con cui sopperiscono al sottodimensionamento di organico”. “È attività -ricorda Bernardini- che il Partito radicale svolge durante tutto l’anno in tutta Italia e che è tanto più necessaria nel rovente periodo ferragostano e in questo particolare momento politico, contrassegnato da un pericoloso arretramento riformatore nel campo della legalità costituzionale dell’esecuzione penale”. “È situazione disperante per tutta la comunità penitenziaria e finora le uniche risposte che lasciano spazio ad un minimo di speranza sono venute dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, giurisdizioni superiori alle quali come Partito radicale guardiamo con la fiducia che nel tempo l’una e l’altra hanno certamente dimostrato di meritarsi”. Chiavari (Ge): delegazione di Forza Italia visita il carcere levantenews.it, 14 agosto 2018 Nella prima mattinata di domani una delegazione di Forza Italia, composta dagli onorevoli Roberto Bagnasco e Roberto Cassinelli e dal consigliere regionale Claudio Muzio, farà visita all’istituto penitenziario di Chiavari. L’iniziativa è promossa dal Coordinamento provinciale del partito. “Questa scelta - dichiarano Bagnasco, Cassinelli e Muzio - nasce dalla volontà di mantenere alta l’attenzione, anche nel periodo delle vacanze estive e nell’approssimarsi della festività del 15 agosto, sulla realtà delle carceri, spesso dimenticata nel dibattito politico e pubblico”. “Desideriamo innanzitutto - proseguono - manifestare il nostro sostegno ed il nostro apprezzamento per l’ottimo lavoro svolto dai dirigenti della Casa circondariale di Chiavari e dagli agenti di Polizia penitenziaria. Tale lavoro ha reso l’istituto un modello a cui guardare con grande attenzione e favore: la quasi totalità dei detenuti è impegnata in attività lavorative o di formazione, oltre che in attività culturali e ricreative; sono stati anche avviati progetti di lavoro con Enti e cooperative; non si registrano inoltre casi di autolesionismo”. “Permane il problema - sottolineano ancora i tre esponenti di Forza Italia - della carenza di organico di Polizia penitenziaria: dei previsti 57 agenti, ne prestano servizio a Chiavari 41. Ci attiveremo, nelle sedi di nostra competenza, per sollecitare il Governo a varare un piano straordinario di assegnazione di nuovi agenti”. “Vogliamo infine far giungere alle 48 persone detenute (la stragrande maggioranza a seguito di condanna definitiva) un messaggio di attenzione. Il carcere deve certamente essere un luogo di espiazione della pena, ma anche, come previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione, un luogo di recupero di coloro che stanno pagando il prezzo dei propri errori”. Caporalato. Cortometraggio su Paola Clemente, bracciante morta in Puglia Redattore Sociale, 14 agosto 2018 Parla Pippo Mezzapesa, autore del corto “La giornata”, che racconta la morte di Paola Clemente. Dopo aver raccolto premi all’Anello Debole, ai Nastri d’argento ed essere stato candidato ai David di Donatello, sarà presentato domani a “Vicoli Corti” di Massafra. Un film che “restituisce perfettamente la realtà del caporalato”. Nato da una richiesta di Cgil Puglia e Flai Puglia, il cortometraggio “La giornata”, sulla morte di Paola Clemente, bracciante di 49 anni morta il 13 luglio 2015 mentre lavorava nelle campagne pugliesi, continua a essere di attualità: in Puglia negli ultimi giorni sono morti 16 braccianti di origine straniera. “Il film ritrae una realtà che è di drammatica attualità e che è difficile superare fino a quando ci sarà gente costretta ad accettare qualsiasi condizione e ad affrontare il rischio di morire per le necessità di sopravvivere - dice Pippo Mezzapesa, regista del film scritto insieme alla giornalista e sceneggiatrice Antonella Gaeta a partire dalle inchieste di Giuliano Foschini su la Repubblica -. Non mi sembra, però, che ci si stia preoccupando più di tanto ma che ci si concentri su problemi futili per spostare l’attenzione dalle vere piaghe del quotidiano”. Tra reportage giornalistico e narrazione cinematografica. “All’inizio è stato difficile capire quale forma dovesse prendere questo racconto - spiega Mezzapesa - Partivamo da atti giudiziari e testimonianze, ma non volevamo fare il solito reportage con interviste a persone che non vogliono mostrarsi in viso. Poi è nata questa idea di mettere in scena l’ultima giornata di Paola, raccontando il viaggio delle lavoratrici per raggiungere i campi in pulmino, pulmino su cui paradossalmente è presente anche Paola in una sovrapposizione di piani temporali, come uno spirito che aleggia mentre tutti parlano della giornata”. Il film riporta fatti e dialoghi contenuti negli atti del processo ai caporali della bracciante pugliese e le testimonianze delle sue colleghe. “È stata una frase letta negli atti processuali a far scattare l’idea della narrazione - continua Mezzapesa - Dato che la morte di Paola è stata attribuita a cause naturali, lei non ha avuto nemmeno l’onore di una fiaccolata in ricordo. È stata l’idea di questa fiaccolata ideale che chiude il corto a convincermi che ci potesse essere una forza nella narrazione”. La prima del film “La giornata” è stata alla Camera dei Deputati lo scorso ottobre alla presenza della Presidente della Camera, Laura Boldrini, e del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, oltre che del marito di Paola Clemente, Stefano Arcuri. “I familiari di Paola avevano già visto il corto e lo abbiamo rivisto insieme - conclude Mezzapesa - è stato molto emozionante. Il fatto poi che il marito mi abbia detto che questo lavoro era necessario e che restituisce perfettamente la realtà del caporalato, mi ha fatto capire che ho fatto bene a partire per questa avventura”. Dopo aver vinto il Premio speciale per l’impegno sociale ai Nastri d’argento 2018, il Premio Corto giovani all’Anello Debole ed essere entrato nella cinquina finale dei David di Donatello, “La giornata” sta raccogliendo numerosi riconoscimenti. “Sta girando molto - continua il regista - ed è un bene perché stiamo raggiungendo l’obiettivo di rendere la fruizione più ampia possibile: viene proiettato a scuola e nei cinema attraverso il circuito Fice”. L’8 agosto sarà presentato alla tredicesima edizione di “Vicoli Corti”, il festival di cinema di Massafra. A fine agosto, invece, Mezzapesa sarà a Venezia per la 75esima edizione della mostra del cinema dove il suo film “Il bene mio” (in uscita a ottobre) sarà presentato alla 15esima edizione delle Giornata degli autori come evento speciale fuori concorso. “Il film racconta la storia dell’ultimo abitante di un paese fantasma svuotato in seguito al terremoto e la lotta tra chi è legato al ricordo e chi rimargina la ferita dimenticando e andando via, uno scontro in cui tutti hanno le proprie ragioni, ma viaggiano in direzioni opposte”. Caporalato. Schiavi nei campi con pranzo in stalla di Remigio Russo Avvenire, 14 agosto 2018 Poliziotti si travestono da braccianti per sgominare gli sfruttatori a Terracina. Quattro euro l’ora, per almeno 12 ore di lavoro al giorno, tutti i giorni del mese. Niente riposi o festivi, solo giornate da trascorrere sudando sotto il sole e in condizioni di assoluto degrado. Addirittura la “pausa pranzo” da passare in un tugurio dei più fetidi. Una specie di stalla, una mangiatoia per gli animali, in cui fermarsi per mangiare chissà cosa, e con accanto invece di una credenza lo scaffale con i prodotti chimici e fitosanitari utilizzati nelle coltivazioni. Questa è la condizione delle decine di braccianti indiani trovati ieri dagli agenti del commissariato di Terracina, in provincia di Latina, all’interno di un’azienda agricola. Il titolare è Massimiliano Cimaroli, 41enne del posto, finito agli arresti domiciliari con l’accusa di sfruttamento di lavoratori per l’impiego di manodopera in condizioni degradanti e in stato di bisogno. Gli agenti hanno denunciato anche i due caporali, entrambi indiani, di 28 e 58 anni, per concorso nello stesso reato del titolare in quanto “svolgevano funzioni di controllo e sorveglianza dei braccianti sfruttati”. L’indagine rientra in un piano di controllo dello sfruttamento dei lavoratori stranieri che la questura di Latina conduce da anni. Non a caso l’agro pontino ospita la seconda comunità indiana per grandezza, impiegata nelle tante aziende agricole della zona, in particolare di quel triangolo compreso tra Sabaudia, il Circeo e Terracina, dove si esportano frutta e ortaggi fino al Nord Europa. Per molti, però, sono davvero terribili le condizioni di vita e di lavoro da sopportare. Se ne sono accorti proprio i poliziotti che hanno agito con appostamenti o travestendosi da braccianti per lavorare, infiltrati e sotto copertura, nei raccolti. Ore e ore trascorse sotto il sole, e nelle ultime due settimane Latina è stata pure classificata con il bollino rosso per le alte temperature. Norme sulla sicurezza completamente ignorate. Inutile parlare di “dispositivi individuali di protezione” quando si trovano gli operai a lavorare a piedi nudi sulla terra infuocata dal sole. Le condizioni economiche sono da lavoro nero: la maggior parte dei braccianti risultano clandestini, con paghe dimezzate e nessuna maggiorazione per il lavoro festivo, né riposi settimanali. “L’unico dei braccianti con un contratto di lavoro percepiva in busta paga meno di un terzo di quanto effettivamente avesse lavorato”, spiega il commissariato di Terracina. Nella villa accanto ai terreni vive il datore di lavoro: qui si trova ora agli arresti domiciliari in attesa della convalida dell’arresto. Contro lo sfruttamento dei lavoratori, specie in agricoltura, si muove la Caritas diocesana di Latina che proprio a Borgo Hermada (Terracina) ha aperto un centro d’ascolto, e dal 2014 ha attivato uno sportello legale per la tutela degli immigrati. Caporalato. 3 indagati per i 12 migranti morti a Foggia nello schianto di un furgoncino di Tatiana Bellizzi La Stampa, 14 agosto 2018 La procura di Larino, che indaga sull’incidente di Lesina, ha iscritto nel registro degli indagati gli amministratori dell’azienda molisana “Di Vito” che aveva assunto la maggior parte dei braccianti coinvolti. La Procura della Repubblica di Larino ha iscritto tre persone nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sul caporalato. Le indagini sono partite dopo la strage di braccianti avvenuta il 6 agosto scorso lungo la statale 16 tra San Severo e Termoli e che ha portato alla morte di 12 migranti, stipati nel furgoncino che si è scontrato frontalmente con un Tir che proveniva nel senso opposto di marcia. In quella carneficina solo due africani e il conducente del Tir si sono miracolosamente salvati. Tra gli indagati - secondo prime indiscrezioni - ci sarebbero anche gli amministratori dell’azienda “Di Vito”, che si trova a Campomarino in provincia di Campobasso. Azienda che ha destinato alcuni ettari di terreno alla coltivazione dei pomodori. Presso la ditta “Di Vito” avrebbero lavorato solo 7 dei 14 migranti che viaggiavano a bordo del furgoncino. Ma secondo fonti investigative in realtà erano occupati tutti i 14 braccianti agricoli; sebbene formalmente risultassero impiegati in altre aziende dislocate sul territorio Foggiano, come Cagnano Varano e Apricena. Per questo secondo filone di inchiesta, il primo riguardava l’incidente stradale, stanno lavorando anche i magistrati della Procura della Repubblica dauna, competenti perché l’incidente mortale è avvenuto nel foggiano. Già nelle ore immediatamente successive alla tragedia i carabinieri del comando provinciale di Foggia hanno acquisito la documentazione della ditta ‘Di Vitò per cercare di stabilire la posizione lavorativa dei migranti. In particolare le condizioni contrattuali, gli orari e i relativi compensi. Come già dichiarato da Giovanni Di Vito, proprietario dell’azienda a conduzione familiare, ora in pensione (la gestione è passata nelle mani del figlio) nell’intervista a Repubblica del 9 agosto scorso, il reclutamento dei braccianti è avvenuto per il tramite di Lhassan Goultaine, il marocchino di 39 anni alla guida del furgoncino. Stando al racconto dell’uomo, Lhassan un anno fa passò dalla sua azienda chiedendo se avessero avuto bisogno di manodopera da impiegare in campagna. Lhassan - sempre a detta del vecchio proprietario - caricava tutte le mattine all’alba suo mezzo alcuni suoi connazionali e, dall’accampamento abusivo di Lesina, li trasportava nei campi. Un altro filone di inchiesta riguarda proprio quest’ultimo aspetto: ovvero il trasporto dei migranti sul luogo di lavoro. In entrambi gli incidenti stradali, sia quello del 4 agosto, che quello del 6, in cui sono morti i 16 migranti, a guidare i furgoncini erano africani anche loro tragicamente deceduti. Con questo ulteriore fascicolo di indagine si dovrà dunque accertare, oltre ad eventuali condizioni di sfruttamento, anche il possibile collegamento tra le aziende agricole e i cosiddetti caporali che si occupavano, appunto, di reclutare la manodopera. Migranti. La differenza con Marcinelle: è morta la pietà di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 14 agosto 2018 Le 136 vittime italiane furono uno choc: da allora, in Belgio cessò il disprezzo per i “macaronì”. Oggi, il sentimento diffuso verso i migranti è molto diverso. In un mondo in cui tra il nero e il bianco non ci sono sfumature intermedie, su certi temi nascono delle sottigliezze che appaiono subito pretestuose. Nei giorni scorsi mi è capitato di riprendere le parole del ministro Enzo Moavero, che nell’anniversario di Marcinelle raccomandava agli italiani di fare tesoro della propria memoria di emigranti per comprendere le migrazioni attuali. Apriti cielo. Un mare di distinguo (e di insulti, ovvio). Soprattutto questo: i nostri emigranti partirono grazie a un accordo italo-belga che prevedeva lo scambio tra uomini e carbone; gli extracomunitari arrivano spontaneamente, in massa, non richiesti. Le regole che c’erano sessant’anni fa oggi non ci sono? È vero per il Belgio, dove però arrivarono anche tanti italiani “clandestini” grazie a trafficanti illegali e speculatori: il patto prevedeva l’invio di 2.000 minatori a settimana sotto i 35 anni, ma nelle miniere lavorarono (e morirono) anche i minorenni, quelli che non rientravano nei parametri e che si erano infiltrati senza rispettare le procedure. Ma se quella in Belgio fu un’emigrazione di Stato, per altri Paesi gli italiani sono partiti alla ventura, disperati e privi di certezze nel futuro. La sostanza è che oggi come ieri si emigra (oltre che per le guerre e le persecuzioni) per povertà e per lavoro, e che spesso per lavoro si muore. Dunque, le differenze, che pure esistono (è cambiato il mondo!), tra le nostre partenze e le migrazioni attuali non giustificano l’urlo indignato all’offesa nel vedere accostati i due fenomeni. Ripeto: se ci si offende, è probabilmente per una forma di razzismo che fa considerare meno degni dei “nostri” i morti “altrui”. Sopravvissuti e vedove ricordano che la catastrofe di Marcinelle, con i 136 morti italiani, fu un tale choc per i belgi che da quella mattina (8 agosto 1956) il disprezzo verso i “macaronì” venne meno: i belgi cambiarono sentimenti da un giorno all’altro partecipando alla sofferenza e al lutto dei lavoratori stranieri. Oggi, viceversa, “pietà l’è morta” (e sepolta): non bastano i migliaia di morti (e non sepolti) per farci almeno riflettere. Giorni fa mi trovavo sul treno regionale tra Pinerolo e Torino: il controllore entra, salta tutti i passeggeri e chiede il biglietto all’unico africano presente sul vagone, in fondo. Il biglietto non c’era, dunque il controllore estrae il blocchetto delle multe chiedendo ironicamente al ragazzo se è italiano. Alla domanda (mia) sul perché controllasse solo lui, saltando gli altri, la risposta è stata che dopo sarebbe tornato indietro per controllare tutti i biglietti: “Ma intanto - ha detto - vado a campione”. Criterio del campione? Il colore della pelle. Microspie made in Europe al servizio delle dittature di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 14 agosto 2018 Quattro Ong tra cui Amnesty e Reporters Sans Frontières denunciano nove Stati dell’Unione tra cui l’Italia. “Non vogliono le nuove regole sull’export dei software di sorveglianza verso i Paesi senza democrazia”. Universitari e tecno-imprenditori come Musk concordano: “Intelligenza artificiale più pericolosa dell’atomica”. Come si conciliano sorveglianza e democrazia? Il dilemma è stato rilanciato quest’estate da quattro Ong. “Nove stati della Ue - Italia, Regno Unito, Irlanda, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia e Cipro - stanno cercando di bloccare il rafforzamento delle norme sull’esportazione di tecnologia di sorveglianza a Paesi che violano i diritti umani”, hanno denunciato Access Now, Anmesty International, Privacy International e Reporters Sans Frontières. Un working paper firmato dalle delegazioni dei nove Paesi indirizzato al Consiglio - denunciano ancora le Ong - “mette in discussione diversi aspetti delle proposte della Commissione e del Parlamento espressamente destinate a proteggere i diritti umani. Per esempio, i nove Paesi sarebbero contrari a una nuova lista di categorie di tecnologia di sorveglianza per le quali sarebbero necessarie licenze per l’export e anche alla possibilità che tali licenze siano negate nei casi in cui le esportazioni potrebbero recare danno ai diritti umani”. Ascolto delle telefonate, lettura e modifica dei testi delle email, tracciamento degli spostamenti attraverso sistemi Gps. Esistono software fatti apposta per spiare e controllare i cittadini. Se vediamo una luce sulla testa molto probabilmente non è una stella, ma un drone che ci controlla. “Da tempo - sostiene Joshua Franco, ricercatore di Amnesty International su Tecnologia e diritti umani - le imprese dell’Unione europea stanno fornendo sofisticata tecnologia di sorveglianza a Stati repressivi”. “La portata di queste tecnologie è sorprendentemente ampia e tutte le informazioni sono filtrate e organizzate su una scala così vasta che può essere utilizzata per spiare ogni persona in un intero Paese”, spiega 1’Ong Electronic Frontier Foundation. Ong esagerate? Forse. Ma la pensa così anche un “insospettabile” come l’imprenditore visionario Elon Musk. “Penso che il pericolo dell’Intelligenza artificiale sia molto più grande del pericolo delle testate nucleari”, ha dichiarato a maggio il co-fondatore di PayPal e presidente di Tesla. Sulla stessa linea Eric Ezechiel, Faculty member di Singularity University: “Sono anni che studio il tema e condivido la prospettiva di Musk”, dice. E prosegue: “L’intelligenza artificiale progredisce talmente in fretta che già oggi in moltissimi campi gli umani non sono in grado di performare al suo livello. Per questo è fondamentale che sia impostata in una direzione benigna e che ci siano informazione e consapevolezza diffuse sulle sue potenzialità, anche se il potere della tecnologia travalica sempre più le nostre capacità di comprensione e la possibilità di governi burocrazie di gestire la complessità. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere gestita e regolamentata almeno con la stessa attenzione che è dedicata alle armi e all’energia nucleare”. Il punto è: come fare? “Le tecnologie come Internet non hanno un ambito spaziale, esulano dai confini degli Stati e per questo è molto difficile regolamentare”, spiega Lina Panella, ordinario di Diritto internazionale all’Università di Messina e curatrice del libro Nuove tecnologie e diritti umani: profili di diritto internazionale e di diritto interno (Editoriale Scientifica, 2018). “La tecnologia va bene se usata contro la criminalità, ma può avere un uso distorto e le categorie giuridiche usate finora non vanno più bene. Bisogna andare oltre bilanciando il progresso della scienza con i diritti fondamentali dei singoli. Molti non si rendono conto che il Grande Fratello che ci sorveglia c’è già”. L’Unione Europea sta regolamentando, anche se le norme saranno valide soltanto all’interno dei Paesi membri. “Le proposte della Commissione e del Parlamento europeo richiederebbero ai governi di valutare i rischi per i diritti umani nel Paese destinatario prima di inviargli tecnologia di sorveglianza. Chiediamo al Consiglio di far suo questo approccio”, dice Amnesty. La posizione del Consiglio è attesa nella seconda parte dell’anno. Siria. Nel carcere di Assad: morire di politica di Maria Grazia Rutigliano sicurezzainternazionale.luiss.it, 14 agosto 2018 Torture fisiche e psicologiche, violenze sessuali e abusi sono contenuti in una serie di documenti che raccontano le esperienze personali di numerosi detenuti delle prigioni siriane del presidente Bashar Al-Assad. La guerra in Siria, iniziata nel marzo del 2011, ha causato circa 465.000 vittime e ha comportato un costo umano impossibile da quantificare sia per i 5,6 milioni di profughi siriani all’estero, sia per i 6,6 milioni di rifugiati interni. Mentre infuria il conflitto siriano, nelle prigioni di Al-Assad le condizioni di trattamento dei prigionieri politici raccontano un’ulteriore guerra, caratterizzata a sua volta da terribili violenze. Il Violations Documentation Center in Syria (Vdc) è un’organizzazione non governativa fondata dall’avvocato Razan Zaitouneh, un’attivista siriana per i diritti umani, già nota prima della rivoluzione del 2011. Un server da 600.000 gigabyte, di proprietà del VDC, contiene documenti relativi alle vittime di questo conflitto. Mentre Bashar Al-Assad era intento a reprimere le proteste iniziali della popolazione siriana, nel marzo del 2011, e quando l’opposizione ha iniziato a fratturarsi, con l’emergere di nuovi attori nel conflitto, Zaitouneh ha voluto registrare ogni violazione del diritto internazionale umanitario. Dalla prigionia alla tortura, dall’omicidio e dal rapimento, tutto doveva essere registrato. Tutte le vittime dovevano essere identificate e gli autori dei crimini, indipendentemente dalla loro posizione nel conflitto, dovevano essere individuati. Costretta, nel 2012, a fuggire dalla sua città natale, Damasco, Zaitouneh si è trasferita a Douma, a nord-est della capitale. Lì, la 36enne è stata rapita, il 9 dicembre 2013, dalla sua casa da Jaysh al-Islam, un gruppo di miliziani islamici, insieme a suo marito, Wael Hamadeh, un collega avvocato e poeta, Nazem Hammadi, e Samira al- Khalil, un’attivista precedentemente imprigionata per ragioni politiche dal regime del padre di Assad, Hafez Al-Assad. Quel giorno di dicembre fu l’ultima volta in cui i cosiddetti “Quattro di Douma” furono visti. Tuttavia, la loro attività di documentazione legale è stata continuata da altri. I 35 dipendenti del VDC in Siria e la sua enorme rete di volontari cercano di raccogliere il maggior numero possibile di dati, sia nelle aree controllate dall’opposizione, sia nel territorio controllato dal regime di Assad, recentemente in crescita. Le testimonianze e i dati grezzi sono inviati a una squadra di 15 funzionari di controllo, istruiti legalmente in tutta Europa, che perfezionano le informazioni ricevute e fanno ulteriori ricerche. Tuttavia, i dati riguardanti le operazioni dello Stato islamico rimangono abbozzati e spesso di seconda mano, a causa dei pericoli dovuti al ricercare nell’area. Il database è fluido, aggiornato quando arrivano nuove informazioni da testimoni, avvistamenti nelle carceri, cartelle cliniche, famiglie delle vittime o persino imam che svolgono le loro sepolture quotidiane. Si stima che più di 500.000 persone siano rimaste uccise in Siria a causa della guerra. Il Vdc ha documentato 188.957 di quelle morti e i suoi registri indicano che il 77% è stato potenzialmente ucciso, in violazione del diritto umanitario, dal regime di Assad. Un ulteriore 12% della documentazione si riferisce alle vittime di gruppi armati dell’opposizione, il 4% alle vittime dello Stato Islamico e del gruppo estremista Al-Nusra, il 3% alle vittime di attacchi provenienti dalla Russia e l’1,4% alla quelle delle offensive della coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti. La Turchia e i curdi, insieme ad altri attori periferici, sono ritenuti responsabili per il resto. Due terzi delle morti documentate sono di civili. Nei primi anni, arresti, torture ed esecuzioni costituivano la maggior parte dei dati. Alkatlaby, i cui genitori sono stati detenuti nelle carceri di Hafez Al-Assad per quasi tutta la sua infanzia, nel 2008, ha lasciato la Siria per l’Olanda dopo l’arresto di alcuni amici delle università di Aleppo e Damasco. Noura Al-Jizawi, studentessa alla Homs University, racconta del suo arresto e della sua prigionia, in un report che raccoglie le testimonianze di numerose prigioniere siriane. Mentre stava coordinando una dimostrazione non violenta, era stata portata via, bendata, fino alla prigione, da agenti dell’intelligence siriana che le puntavano una pistola al petto. Al riguardo di tali arresti, Alkatlaby sostiene che si debbano andare a ricercare gli autori di alto livello. “Non crediamo che si possa fare giustizia nei confronti di tutti i responsabili di questi crimini, ma ciò che è più importante è ottenere l’alto livello dell’opposizione, i generali, il cerchio ristretto attorno ad Al-Assad e lo stesso Al-Assad. Questo è quello che stiamo cercando di fare”, ha dichiarato. Le storie contenute nelle testimonianze sono numerose. Una donna incinta, arrestata perché il governo sospettava che suo marito fornisse medicine alle forze ribelli, ha descritto i corpi dei morti che venivano trascinati attraverso i corridoi e le urla delle persone torturate. Un’altra ex detenuta ha raccontato di essere rimasta rinchiusa in una cella per sei giorni con un cadavere. Questa, ha cercato di togliersi la vita con una lama di rasoio, che la donna riporta essere stata intenzionalmente lasciata accanto a lei. Zahira, il cui nome è stato cambiato, aveva 45 anni quando è stata arrestata nel suo posto di lavoro in un sobborgo di Damasco nel 2013. Appena arrivata all’Aeroporto militare di Al Mezzeh, è stata perquisita, legata a un letto e violentata da cinque soldati. Per i successivi 14 giorni, è stata violentata o minacciata di stupro ripetutamente. Durante un interrogatorio, un soldato ha filmato quello che stava accadendo e ha minacciato di mostrarlo alla sua famiglia e alla sua comunità. Passata da una struttura all’altra nel corso di cinque mesi, oltre a ripetute brutali violenze sessuali, Zahira è stata anche regolarmente picchiata. In un’occasione è stata torturata con l’elettricità, in un’altra è rimasta legata a testa in giù per oltre un’ora, mentre la colpivano in faccia con un bastone. Tra un interrogatorio e l’altro, Zahira era tenuta in isolamento, in una cella non più grande di un metro per un metro, senza luce naturale. Secondo quanto riportano gli analisti, le cicatrici fisiche e mentali della detenzione influenzeranno i prigionieri per il resto della loro vita. Molti provano vergogna, con enormi ripercussioni sul loro re-inserimento nella società e sulle loro relazioni con le famiglie. Alcune comunità, inoltre, tendono giudicare le vittime, soprattutto nei casi relativi alle violenze sessuali subite dalle prigioniere, a causa della stigmatizzazione degli abusi sessuali e dello stupro. La speranza di chi ha raccontato e delle organizzazioni che si occupano di registrare tali abusi, è quella di far luce su ciò che accade nei centri di detenzione di Assad. Ciò che la loro testimonianza significa, tuttavia, è che i funzionari del governo, della polizia e dell’esercito siriano potrebbero essere ritenuti responsabili delle loro azioni, in potenziali futuri processi per crimini di guerra, una volta concluso il sanguinoso conflitto siriano. “Io, nelle prigioni di Erdogan per lesa maestà” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 14 agosto 2018 In “Tre manifesti sulla libertà” le memorie difensive dello scrittore Ahmet Altan, arrestato dopo il fallito golpe del 2016. “Il pubblico ministero non si preoccupa nemmeno del fatto che le sue bugie vengano smascherate così presto, perché per lui non è importante che le sue affermazioni siano vere o meno. Quello che è importante per lui è tenerci in galera. È convinto che tali bugie saranno sufficienti, e in effetti grazie a loro è riuscito nel suo intento. Ecco a che punto è arrivata oggi la legge in Turchia”. Le parole dello scrittore turco Ahmet Altan, arrestato insieme a migliaia di altre persone in seguito al fallito colpo di Stato in Turchia del 15 luglio 2016, si levano alte e indignate contro un sistema giudiziario malato e connivente con il governo di Recep Tayyp Erdogan, che in seguito al tentato golpe ha ulteriormente rinsaldato il proprio potere personale, divenuto pressoché illimitato dopo la vittoria del referendum del 16 aprile dell’anno scorso - che gli permise di approvare una riforma della Costituzione in senso presidenzialista - e quella al primo turno delle elezioni presidenziali con il 52,5 % dei voti, che gli assicurò un nuovo mandato fino al 2023. La memoria difensiva dello scrittore, il suo indignato j’accuse, è raccolta nel pamphlet Tre manifesti per la libertà (Edizioni e/ o), introdotta da una lettera aperta di 51 Premi Nobel che chiedono il rilascio dei tanti giornalisti turchi incarcerati. Ad “un sistema giudiziario sul letto di morte”, asservito alle logiche del partito al potere e, in particolare, atto ad oscurare e strumentalizzare la verità sul colpo di Stato - “L’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Ndr.) e i suoi pubblici ministeri stanno approfittando del tentato golpe del 15 luglio, che Erdogan ha definito una benedizione divina” - fanno eco altri comparti della società turca, vacillanti e corrotti, come il Parlamento, l’economia, la politica estera, la pubblica istruzione, il sistema sanitario, l’esercito e l’informazione veicolata dai quotidiani filo- governativi, “elefantiache prostitute del bordello delle idee”. Per chi non si allinea si schiudono le porte del carcere, come per le migliaia di magistrati, avvocati, militari e docenti universitari, oltre ai 13 deputati del partito curdo Hdp, dietro le sbarre per presunti legami con il PKK. L’atto d’accusa analizzato da Altan si dimostra quanto mai risibile: “Si ritiene che noi conoscessimo degli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato”. Ciò sulla scorta di tre articoli di giornale - il quotidiano Taraf, da lui diretto fino al 2012 - e di un’apparizione televisiva in un talk- show condotto da Nazli Ilicak e Mehmet Altan, occasioni in cui avrebbe diffuso “messaggi subliminali” in favore del colpo di Stato del 15 luglio. Particolarmente ricorrente l’imputazione di fiancheggiare il network Feto di Fethullah Gülen - ex- imam auto- esiliatosi negli Stati Uniti, considerato mandante occulto del golpe - in base, puntualizza l’autore, “alle affermazioni di un testimone inattendibile e totalmente disonesto, che già in precedenza ho smascherato come bugiardo”. A venire osteggiata è, in ultima istanza, la possibilità di una coscienza critica che si scagli con fermezza contro chi detiene il potere e ne smascheri vizi e incompetenze: “non c’è più libertà di pensiero in questo paese, - osserva amareggiato - a parte quella del pubblico ministero di raccontare bugie”. Diventa quindi proibito affermare che Erdogan ha violato la Costituzione e ogni tipo di legge o asserire che quando un governo “tenta di servirsi dell’esercito per mantenere in vigore le proprie pratiche oppressive, avviene un colpo di Stato”. “Criticare un politico - argomenta - non è golpismo. Erdogan è un politico: un politico che ha compiuto di gran lunga troppi errori negli ultimi cinque anni. È ovvio che venga criticato”. O almeno, così dovrebbe essere. L’accusa che maggiormente suscita lo sdegno e il furore dello scrittore è, tuttavia, quella di aver attaccato l’operato dell’AKP sotto prescrizione altrui, di aver subordinato la propria libertà critica a condizionamenti esterni. “Ciò che mi fa infuriare - confessa - è che il publico ministero afferma che io avrei criticato l’AKP perché “qualcuno” mi aveva ordinato di farlo. Dovrebbe vergognarsi a dire una cosa del genere. Sono trentacinque anni che scrivo sui giornali di questo paese. La mia linea politica non si è mai spostata nemmeno di un millimetro. Sostengo chiunque esiga democrazia e uno stato di diritto e critico tutti coloro che si oppongono alla democrazia e allo stato di diritto”. Yemen. 49 morti per le torture compiute dagli Emirati Arabi nelle prigioni lantidiplomatico.it, 14 agosto 2018 Un articolo rivela le “torture di massa” di yemeniti detenuti nelle prigioni clandestine controllate dai soldati degli Emirati nel sud dello Yemen che hanno provocato 49 morti. L’articolo pubblicato sul sito web del canale satellitare del Qatar, Al Jazeera, mette in evidenza che ci sono “27 siti” utilizzati dai militari degli Emirati Arabi Uniti (UAE) per “torturare e abusare sessualmente degli yemeniti”. Gli yemeniti detenuti in queste carceri clandestine sono esposti a “brutali tattiche di interrogatorio che includono torture fisiche e psicologiche”, secondo la pubblicazione. L’articolo indica che i detenuti hanno subito violenze sessuali da parte delle forze degli aggressori e hanno ricevuto scosse elettriche in parti sensibili del corpo, come l’ascella e il torace. Si aggiunge che anche i soldati appendono i detenuti a faccia in giù, mentre li umiliano e li picchiano con bastoni di legno e acciaio, così come con i cavi elettrici. In alcuni casi, secondo l’articolo, i soldati degli Emirati Arabi privano i detenuti del sonno e li mantengono in piccoli spazi in condizioni igieniche pessime e con circolazione dell’aria limitata. Nel tentativo di farli soffrire di più, i soldato degli Emirati frustano e spargono sale sulle loro ferite. Inoltre, inseriscono i chiodi nelle dita delle mani o nelle unghie dei piedi. La pubblicazione rileva che circa 49 detenuti sono morti a causa della brutalità delle forze degli Emirati Arabi Uniti che accompagna l’Arabia Saudita nella sua aggressione contro lo Yemen. I corpi dei defunto, secondo Al Jazeera, non saranno consegnati ai loro parenti, ma saranno sepolti in cinque siti organizzati come un cimitero. Questo articolo dell’emittente del Qatar conferma sia un rapporto della Associated Press pubblicato a giugno su presunti atti di tortura perpetrati da membri della coalizione saudita-UAE in una rete di almeno 18 prigioni segrete che quello di Amnesty International dello scorso luglio.