Fermiamo l’eversione delle parole del diritto di Francesco Petrelli* Il Foglio, 13 agosto 2018 Con questo governo ogni categoria del diritto viene manipolata e trasformata nel suo contrario, convertita in un prodotto da piazzare direttamente sul mercato del consenso politico. Forse un “vincolo di mandato” dovrebbe essere imposto alle parole. Un vincolo per far sì che le parole che usiamo in politica conservino obbligatoriamente il loro senso compiuto. Un simile “vincolo” dovrebbe essere imposto con particolare rigore nei discorsi di chi si occupa di “politica giudiziaria”, perché le cose della giustizia necessitano di limiti definitori precisi. La “truffa delle etichette” è in questa materia sempre dietro l’angolo e gli slogan che volano rapidi sui social divorano spesso il senso delle cose e dei concetti che le esprimono e così le parole, perso per strada il proprio significato, si trasformano in imposture. Se, ad esempio, si parla di “efficienza” e di “semplificazione” del processo penale, come si potrebbe essere in disaccordo. La giustizia penale deve funzionare, le procedure devono essere semplici e il processo, come si legge nel contratto di governo, deve essere “giusto e tempestivo”. Ma se giusto e tempestivo significa fermare la prescrizione in primo grado, introdurre la reformatio in peius e rendere di fatto i processi sostanzialmente eterni e le impugnazioni delle improbabili ordalìe, allora ecco che alle parole vengono attribuiti significati diversi, che tradiscono il loro vero mandato. Se, così come si legge in quello stesso contratto, si dice che “la difesa è sempre legittima” non possiamo che essere d’accordo. Si tratta infatti di un principio che è già scritto nella legge: se ci si trova in presenza di una vera e propria “difesa” (e come tale proporzionata e necessaria, perché altrimenti, se così non fosse, trasmoderebbe in una offesa ingiustificata), è ovvio che la stessa sia anche legittima. Ma anche qui le parole, prive di alcun “vincolo” di senso, finiscono con il guadagnarsi, per chi le usa come slogan, significati inaspettati e pericolosi. Se, infatti, “la difesa è sempre legittima”, perché mai - si dice - un magistrato dovrebbe mettere il naso in una questione privata? La tutela del domicilio è cosa talmente seria da imporre di tener fuori, oltre che i ladri, anche giudici e pubblici ministeri. Così il governo del cambiamento diviene cambiamento delle parole. E, ancora, la “certezza della pena”, che nasce come limite e perimetro del potere punitivo dello Stato, affinché il condannato sconti quella pena che è stata inflitta e non altra, diviene arbitrariamente espressione di qualcosa d’altro. Finisce con il porre una inesorabile e assurda equazione fra pena detentiva e carcere, che in nessun moderno e serio sistema punitivo ha corso. Una equazione che contraddice anche il buon senso del principio secondo il quale il reinserimento sociale, cui tende la rieducazione, non può essere praticato lasciando il condannato in carcere. Insomma, le cose della giustizia penale hanno un’anima coerente e tragica nel fondo, ci si può giocare fino a un certo punto. La politica, che con il processo non ha mai avuto un rapporto sano, ora scopre tuttavia una virtus manipolatoria che non si era mai vista, che apre per tutti noi una fase pericolosa. Ogni categoria del diritto viene infatti direttamente manipolata e trasformata nel suo contrario, convertita in un prodotto da piazzare direttamente sul mercato del consenso politico. Fermare l’eversione delle parole del diritto, deformate da questa nuova fabbrica della banalità, è oggi un dovere di tutti coloro che credono nei valori democratici e liberali che con quelle parole sono stati faticosamente costruiti. E che a quei valori meritano di essere al più presto restituite. *Segretario dell’Unione camere penali Gli Stati non sono sovrani di Sabino Cassese Corriere della Sera, 13 agosto 2018 Perché Erdogan è messo in difficoltà dalla crisi che ha quasi dimezzato il valore di scambio della lira turca? A quale titolo l’Unione Europea ha stabilito nel 2014, e successivamente ampliato, sanzioni contro la Russia? Perché Polonia e Ungheria debbono dar conto all’Unione Europea delle loro leggi sull’ordinamento giudiziario? Perché l’Italia deve sottostare ai criteri dell’Unione Europea sul deficit e sul debito pubblico? Questi vincoli hanno origini e ragioni diverse e discendono da fonti diverse, da regole del diritto internazionale, da accordi tra Stati, dai mercati. L’Unione Europea ha un accordo di associazione e uno di libero scambio con l’Ucraina e ha introdotto sanzioni (restrizioni economiche e individuali) contro la Russia, colpevole di aver annesso illegalmente la Crimea e di aver destabilizzato l’Ucraina. Vuole, quindi, punire una evidente violazione del diritto internazionale. I mercati (risparmiatori e investitori, possessori di lire turche) hanno scarsa fiducia sia nei programmi politici ed economici del governo turco, sia nella qualità dell’”équipe” che li gestisce. Chi possiede una valuta vuole aver assicurazioni sull’affidamento che dà l’emittente. I Paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto trattati in cui si impegnano a rispettare alcuni principi giuridici (indipendenza dei giudici) ed economici (equilibrio di finanza pubblica. Essi debbono quindi dar conto all’Unione del rispetto di tali principi, se limitano l’indipendenza dei giudici o hanno un alto debito pubblico con bassa crescita economica (lo spread sale e la borsa scende). Pur provenendo da fonti diverse, questi vincoli hanno un tratto in comune. Discendono dalla interdipendenza che lega gli Stati nel mondo. Essi non sono più isole separate. Si influenzano reciprocamente. Le sorti dell’uno sono legate alle sorti dell’altro. Un vicino aggressivo può domani essere un pericolo. La politica economica allegra di un “partner” deve preoccupare gli Stati che sono associati ad esso. A dispetto dei “sovranisti”, quindi, gli Stati non sono interamente sovrani, devono godere anche della fiducia dei propri vicini e dei mercati. Quelli che chiamiamo mercati sono anche loro, in ultima istanza, composti di risparmiatori-investitori, quindi di “popolo”. Se, per un verso, gli Stati controllano i mercati, per altro verso sono i mercati a controllare gli Stati. Tra gli studiosi della globalizzazione, questa viene chiamata “horizontal accountability”, per dire che i governi non debbono rispondere solo ai propri elettorati, ma anche, orizzontalmente, ad altri governi e ad altri popoli. Non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati e dare affidamento ai propri vicini. È bene che questo accada? Se le sorti sono comuni, se la crisi di un Paese può trascinare altri nella caduta, è certamente utile che tutti vengano richiamati al rispetto delle regole condivise. I “sovranisti” lamenteranno l’invasione di altri protagonisti nella vita degli Stati, una diminuzione dei poteri del popolo. Ma questo perché hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo. Razzismo e tifo avvelenato, i numeri della violenza negli stadi di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 13 agosto 2018 I tifosi arrestati sono aumentati da 13 a 52, quelli denunciati da 283 a 428.Il razzismo è però la piaga che preoccupa di più. Campionato di calcio, il 18 agosto riparte la Serie A. E il clima - viste le violenze della stagione passata - si annuncia molto caldo. Rispetto alla stagione precedente, nella classe maggiore le partite con feriti a bordo campo sono salite da 19 a 33 e la violenza tocca anche chi lavora per la sicurezza degli altri: i feriti tra le Forze dell’ordine sono passati da 11 a 18, tra gli steward da 2 a 4. I tifosi arrestati sono aumentati da 13 a 52, quelli denunciati da 283 a 428. I dati del report finale dei campionati di calcio elaborati dall’Osservatorio nazionale sulle violenze sportive che raffrontano la stagione appena conclusa con quella precedente (che comunque conta una ripresa della partecipazione di pubblico allo stadio) non danno buone notizie. Il confronto conferma la generale tendenza negativa che si era già vista nel girone di andata. In base al rapporto, se gli incidenti allo stadio o nelle immediate vicinanze sono stati praticamente nulli, si è invece registrata una ripresa pericolosa di condotte delinquenziali o incivili lungo le vie di trasporto, specialmente lungo le strade, che sono passate da 93 a 120. “Protagonisti” i tifosi della serie A (da 45 a 65), seguiti dalla Lega Pro (da 23 a 35) e dalla serie B (da 25 a 20). Negli stadi, accanto al tifo “normale”, si sono visti quelli che picchiano, appendono striscioni contro gli ebrei e cantano cori contro i neri. Non solo calcio - La “gioia incontenibile” (leggi il comportamento pericoloso) dei tifosi del Frosinone per la promozione in A il 16 giugno, grazie alla vittoria a Palermo, è costata a undici di loro il Daspo, cioè il divieto di assistere alle manifestazioni sportive. Ma la violenza esplode anche nel calcio minore. In provincia di Varese, durante un torneo estivo, un arbitro è stato inseguito e picchiato da due giocatori a causa di un cartellino rosso. Il razzismo è la piaga che preoccupa di più e che non ha mancato di mostrare il lato peggiore anche durante gli ultimi Mondiali di calcio quest’estate in Russia. L’Italia non è esente. Anzi. In base al report dell’osservatorio dell’Aic (Associazione Italiana Calciatori) relativo al campionato di calcio 2016/2017, nonostante una leggera diminuzione dei casi (-2,5%) i calciatori sono nel mirino. E un fenomeno in aumento è quello degli insulti sui social media. “Contro il razzismo nel calcio dobbiamo fare ancora tanta strada se vogliamo liberare gli stadi da questa piaga”, aveva detto Mario Balotelli, ospite in video alla presentazione dei Mondiali Antirazzisti a fine giugno. Proprio Balo era stato preso di mira dai tifosi con cori e striscioni ingiuriosi: peccato che, come noto, sia figlio di genitori ghanesi, nato a Palermo e cresciuto con una famiglia di Brescia. “L’Italia non è un Paese razzista, ma i razzisti ci sono. La Francia non è un Paese razzista, ma i razzisti ci sono. In ogni Paese esiste qualcuno che ha un pensiero marcio. Il compito di tutti è isolare certe persone, renderle ridicole di fronte a un modo di pensare medievale che nel 2018 non può più esistere”. Al debutto della prossima stagione, però, c’è una novità: entro la loro prima gara ufficiale tutte le società dovranno aver adottato il Codice etico (“Codice di regolamentazione della cessione dei titoli di accesso alle manifestazioni calcistiche”), come richiesto dalla Figc, altrimenti rischiano 200.000 euro di ammenda. Il ruolo dei club - I club dovranno intervenire nei confronti dei tifosi che si comportano male (atti di violenza, striscioni, razzismo) e nei casi estremi è previsto anche il ritiro dell’abbonamento. Per dare una mano ai club, la Lega Serie A, con il sostegno dell’Osservatorio, ha fornito una bozza di Codice che poi i club hanno adottato in toto o hanno arricchito nei contenuti secondo le proprie valutazioni. Sono anche previste multe da 20.000 a 5000 euro nei confronti delle società che non applicheranno le misure previste dal codice. Un anno fa è stato firmato il “Protocollo d’Intesa sulla Fruizione degli Stadi” tra Figc, Coni, ministeri dell’Interno e per lo Sport, Lega Serie A, Lega B, Lega Pro, per introdurre un nuovo modello di gestione della sicurezza e dello stadio che si articola su tre aree: l’impiantistica sportiva, l’organizzazione e la fruibilità. Per quanto riguarda il ticketing, è stata prevista un’evoluzione della tessera del tifoso, con l’acquisto libero dei biglietti delle partite non a rischio e dell’abbonamento, ma è anche stato introdotto il meccanismo del gradimento: la società potrà revocare l’abbonamento ai tifosi ritenuti non graditi. L’ex Br e il figlio dell’autista di Moro, pace in chiesa davanti a mille giovani di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 agosto 2018 “Sognavo di fare la rivoluzione per cambiare il mondo e per questo ho sparato, ferito e ucciso, trasformando quel sogno in una tragedia”, racconta l’ex terrorista. “Il mio sogno s’è infranto quando hanno ammazzato mio padre e io ero un bambino di 12 anni, ma poi ho capito che non potevo soltanto odiare e portare rancore; un assassino resta tale per sempre, ma una persona può cambiare”, gli fa eco la vittima. Non solo le persone ma tante altre cose sono cambiate dal 1978, quando l’ex brigatista rosso Franco Bonisoli partecipò alla strage di via Fani, per eliminare gli uomini della scorta e sequestrare il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro; e l’ex bambino Giovanni Ricci capì quel che era successo a suo padre - Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri e autista di Moro - vedendolo crivellato di proiettili nella foto pubblicata sull’edizione straordinaria di un giornale. Quarant’anni dopo, nella chiesa del Gesù dove Benigno Zaccagnini e altri politici venivano a pregare e piangere nei giorni del sequestro, Bonisoli e Ricci ne parlano a un migliaio di ragazzi di oggi, venuti e Roma per incontrare il papa e che nella veglia notturna assistono all’incontro tra un carnefice e la sua vittima. Nessuno di loro era nato quando Moro fu rapito e, 55 giorni dopo, ritrovato cadavere nel bagagliaio della Renault rossa, a trecento metri da qui, tra le sedi della Dc e del Pci, che oggi non ci sono più. Restano i palazzi antichi, resta la chiesa secolare, e resta la testimonianza di due persone che, con ruoli decisamente diversi, hanno attraversato quella stagione di sangue e ne portano ancora i segni. Davanti all’altare centrale, stimolati dalle domande di un sacerdote, raccontano le ragioni della morte e del dolore trasformati in speranza e riscatto; uno da responsabile e l’altro da innocente, ma entrambi attraverso l’incontro e il dialogo, che quasi miracolosamente cancellano ogni traccia di sacrilegio nel sentire un assassino parlare in chiesa, o un prete che porta a esempio il percorso che ha compiuto. “Nel nome della rivoluzione feci una scelta totalizzante che trasformava le persone in cose, simboli da abbattere, nemici da eliminare - spiega l’ex brigatista rosso che ripercorre l’escalation violenta degli anni Settanta, dalle macchine bruciate agli omicidi -. E quando mi hanno arrestato ho continuato a combattere lo Stato dal carcere, finché le convinzioni non hanno cominciato a incrinarsi e io ho pensato di suicidarmi perché con la lotta armata doveva finire anche la mia vita. Ma poi un cappellano ci ha chiamato “fratelli”, ed è cominciata la risalita dall’inferno al purgatorio”. “Io inizialmente volevo restituire alle persone che hanno ucciso mio padre tutto il male che mi avevano provocato - ricorda Ricci -, ma incontrarle e scoprire che si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto, mi ha permesso di non vivere più quotidianamente la morte di mio padre, di ricordarlo quando era vivo e non più solo da morto; di conservare la memoria di una persona, e non soltanto di un omicidio”. Sono storie che possono suonare incredibili per ragazzi che non hanno vissuto il clima degli Anni di piombo e dei sogni trasformati in tragedia, e che vincendo il sonno e la stanchezza ascoltano per oltre due ore l’ex terrorista rammaricarsi per le sofferenze provocate: “L’unica cosa che potevo tentare, per rimediare, era trasformare il mio senso di colpa in senso di responsabilità, cercando le vittime e il dialogo con loro, pronto a prendermi tutto quello che mi avrebbero scaricato addosso, e adesso renderlo pubblico. Per questo tanti ex compagni mi criticano, ma non mi interessa; quello che conta è essere testimoni credibili, e io ci provo”. Anche la strada di Ricci non è stata semplice: “Mio fratello e molte altre vittime non condividono il nostro percorso, e io rispetto le loro scelte. C’è chi sceglie il diritto all’odio, ma io rivendico il mio diritto alla pace e a non morire ogni giorno, considerando chi mi ha fatto del male un uomo e non più un mostro”. Al momento delle domande c’è chi chiede a Bonisoli che cosa pensi oggi di Moro, che rapì e condannò a morte quarant’anni fa. “Una persona eccezionale - risponde - che cercava di capire quello che accadeva intorno a lui, comprese le ragioni di chi aveva fatto la nostra scelta; se non l’avessimo ucciso avrebbe potuto aiutare a chiudere prima la stagione della lotta armata, con danni minori”. Ilaria, testimone del cammino che Bonisoli e Ricci hanno fatto insieme ad altri ex terroristi e altre vittime, spiega la ragione di una notte così, tra gli appuntamenti preparatori al Sinodo: “La voglia di comunicare ai giovani il rifiuto della violenza, attraverso una storia del passato che guarda al futuro”. La Sacra Corona Unita ai tempi dei social di Maria Luisa Bianco La Repubblica, 13 agosto 2018 Anche i protagonisti della Sacra Corona Unita hanno mostrato spirito di adattamento alla nuova era digitale e virtuale: quasi tutti gli esponenti dell’organizzazione, uomini, donne, giovani e anziani, hanno un loro profilo personale su Facebook. Attraverso il social più usato al mondo stabiliscono legami e amicizie, comunicano i propri sentimenti, lanciano messaggi e condividono valori e credenze del gruppo mafioso a cui appartengono. Immergersi nell’analisi dei loro profili è semplice: sono quasi tutti facilmente individuabili, per trovarli infatti è sufficiente cercare all’interno del social i nomi di alcuni esponenti noti alla cronaca. Molto spesso sono profili non protetti da regole di privacy e quasi sempre sono associati ai loro nomi reali, anche se qualcuno preferisce confondersi, tra i milioni di utenti, usando nomi riconducibili a famosi criminali come quello di Boston George, il pioniere dello spaccio internazionale di marijuana e cocaina, diventato famoso al grande pubblico grazie al film Blow (2001). Interessanti i post pubblicati, soprattutto quelli delle nuove generazioni, in cui i giovani boss si fanno ritrarre all’interno di limousine rigorosamente bianche, prese in affitto anche solo per un giorno, con l’intento di “farsi notare”. Facebook è soprattutto utilizzato per tutelare la reputazione degli affiliati: in occasione della conclusione dei processi, per esempio, vengono condivisi in rete i verdetti finali, che - positivi o negativi che siano - possono essere così conosciuti da quanta più gente possibile, in modo tale che “tutti devono sapere”, suscitando d’altro canto un’immediata gratificazione provocata dalla solidarietà espressa da parte del gruppo di appartenenza, che si scatena con una moltitudine di “like”. Per salvaguardare la memoria visiva dei suoi storici protagonisti, ma anche di quelli attuali che si trovano in stato detentivo e che non possono comunicare con l’esterno, la SCU sembra aver accolto e messo in pratica una regola cara a tutte le mafie, rivelata da un mafioso d’eccezione come Leoluca Bagarella, secondo cui “la presenza è potenza”. Sono soprattutto i profili di mogli, fidanzate, madri, figlie e nipoti di boss, che si riempiono di vari tipi di post per rispettare questa logica mafiosa: il social diventa un valido aiuto per le donne, che da tradizionali messaggere - spesso impegnate nel recapitare messaggi tra l’interno e l’esterno del carcere - si trasformano in messaggere virtuali, preferendo l’innovativo “post su Facebook”, la cui immediatezza e visibilità soddisfa a pieno le finalità di determinati messaggi. Ed ecco allora che compaiono le foto dei mazzi di fiori, dei bigliettini e delle lettere che gli uomini inviano dal carcere alle donne della famiglia; vengono pubblicate le foto dei detenuti scattate all’interno delle celle, talvolta insieme ai compari di altre consorterie mafiose, fatte anche all’esterno in occasione dei permessi; viene fatto sapere ad un ampio pubblico il giorno del colloquio con i propri uomini, scatenando la reazione di tutti “gli amici” che per dimostrare loro rispetto e lealtà, commentano con saluti e dediche per i detenuti; vengono messi in rete i messaggi che dal carcere devono essere trasmessi all’esterno, anche attraverso le fotografie dei biglietti scritti a mano. Il social è un ottimo mezzo per dimostrare a tutti che la successione del potere e la trasmissione del codice culturale mafioso avvengono secondo le regole: in un paese del Nord Salento, un boss ha pubblicato la foto di una torta augurale per la nascita del figlio in cui c’era scritto “Benvenuto Francesco. Da oggi comando io”; esistono anche foto di un boss che diventato zio, e non avendo ancora figli, si fa immortalare con in braccio il nipote, di appena un anno, a cui insegna a tenere in mano una piccola pistola. È usato inoltre per soddisfare il costante bisogno di autotutela individuale e sociale del gruppo di appartenenza, attraverso lo screditamento dei collaboratori di giustizia. È emblematico quanto avvenne nell’estate del 2015, quando divenne pubblica la notizia del pentimento di Gioele Greco, un importante esponente di un clan operante nella città di Lecce. In quella circostanza tutti i suoi famigliari presero le distanze da lui in maniera pubblica attraverso una lettera inviata ai giornali, persino la madre del pentito esordì con un post in cui ne dichiarava la morte: “Io oggi do la notizia di aver seppellito mio figlio Gioele”. In un’altra occasione, in un paese del Nord Salento, non appena si venne a sapere della collaborazione di un esponente del clan il cui soprannome è “Paco”, altri affiliati resero pubblica la sua infamità attraverso un post che riecheggiava la pubblicità del noto profumo “Paco Rabanne” (per l’assonanza con il soprannome del collaboratore), accusandolo del fatto che oltre ad avere un nuovo lavoro (quello di pentito, che nella retorica mafiosa equivale ad essere un servo pagato dallo Stato) aveva anche cominciato a produrre profumi. I membri della Sacra Corona Unita hanno avuto, da sempre, bisogno di apparire, di mostrarsi e di raccontarsi, alla faccia dell’antica discrezione tipica della cultura rurale mafiosa; un bisogno che ancora oggi continua a manifestarsi in maniera spasmodica e disinvolta grazie alle nuove tecnologie a cui questi attori criminali hanno saputo adattarsi senza alcun problema. L’iter processuale deve prevalere sul diritto di sciopero di Francesco Ciampi Guida al Diritto, 13 agosto 2018 Corte costituzionale - Sentenza 10-27 luglio 2018 n. 180. La decisione in commento del giudice delle leggi ritiene sostanzialmente inadeguato il bilanciamento operato dalla normativa sub primaria, precisando in primo luogo la “forza prevalente” dei diritti di libertà dell’imputato detenuto a una sollecita definizione del processo rispetto al diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva. Con la sentenza in commento la Corte costituzionale è intervenuta sul tema dell’astensione degli avvocati nei processi. La decisione è stata talvolta sbrigativamente riassunta nel senso che il giudice delle leggi avrebbe “vietato” lo sciopero degli avvocati nel processo penale. Il campo di intervento della Consulta - In realtà la stessa Consulta ha preliminarmente delimitato il campo del suo intervento, precisando che le sollevate censure erano “circoscritte alla fattispecie del processo penale con imputato sottoposto a custodia cautelare”. Infatti, tutto lo sviluppo argomentativo delle ordinanze di rimessione e la fattispecie all’esame del rimettente, in ordine al quale questi deve pronunciarsi (legittimità, o no, dell’astensione dichiarata dal difensore in adesione all’astensione collettiva), mostra chiaramente che la fattispecie in riferimento alla quale sono mosse le censure di costituzionalità è quella specifica dell’imputato in custodia cautelare nel processo per il quale si procede, e non già, in generale, dell’imputato detenuto, che può esser tale per altra causa estranea al processo in corso. E il parametro costituzionale di riferimento ritenuto assorbente dalla decisione in commento è in primo luogo quello di cui all’articolo 13, quinto comma, della carta costituzionale da ritenersi “un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali” (cfr. sentenza n. 299 del 2005 della stessa Corte costituzionale). La questione sollevata dal tribunale di Reggio Emilia - Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia aveva sollevato la questione, sotto più profili, in riferimento agli articoli 1, 3, 13, 24, 27, 70, 97, 102 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale della norma di cui all’articolo 2-bis della legge 13 giugno 1990 n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati stabilisca che nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, analogamente a quanto previsto dall’articolo 420-ter, comma 5, del codice di procedura penale, si proceda malgrado l’astensione del difensore ove l’imputato lo consenta. In particolare il Tribunale rimettente aveva osservato che dalla sospensione dei termini di custodia cautelare (prevista per la situazione di specie) derivasse per l’imputato, presunto non colpevole, una restrizione della libertà personale per motivi diversi da quelli espressamente considerati dalla legge. La durata della custodia cautelare è infatti fissata nell’esclusiva considerazione delle esigenze che giustificano una ragionevole limitazione del diritto della libertà personale fino alla sentenza irrevocabile. Non è quindi possibile che sia rimessa alla volontà dell’imputato la scelta in ordine alla restrizione della propria libertà personale, atteso che la durata della custodia cautelare in carcere può e deve dipendere dalla legge. Due aspetti controversi - La delicatezza del tema aveva comportato già in precedenza numerosi interventi giurisprudenziali, incentrati in particolare su due aspetti particolarmente controversi: in primo luogo il problema della natura giuridica dell’astensione collettiva dalle attività forensi; in secondo luogo quello della valenza da attribuire alle disposizioni contenute nel vigente Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle attività forensi, previsto dall’articolo 2-bis della legge 12 giugno 1990 n. 146, sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Il rispetto delle decisioni del Codice di autoregolamentazione appare infatti requisito fondamentale per la legittimità dell’astensione. Quanto al primo aspetto la giurisprudenza più recente, a partire dalla sentenza n. 26711 del 2013, delle sezioni Unite ha superato l’orientamento interpretativo, un tempo maggioritario, che considerava l’astensione quale legittimo impedimento del difensore, ricordando che la stessa Corte costituzionale - avendo ricondotto l’astensione forense nel “perimetro dei diritti di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l’intera prima parte della Costituzione” (cfr. sentenza n. 171 del 1996) - ha individuato “un diritto, e non un semplice impedimento partecipativo”; per altro verso, nella medesima pronuncia, le sezioni Unite hanno escluso la possibilità, per il difensore, di astenersi nelle udienze afferenti misure cautelari personali, alla luce di quanto stabilito nell’articolo 4 del vigente codice di autoregolamentazione: conferendo espressamente, a quest’ultimo, “valore di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi”. Tale importantissimo novum giurisprudenziale ha determinato la quasi immediata rimessione alle sezioni Unite di un’ulteriore questione, relativa alla configurabilità, anche dopo l’emanazione del codice di autoregolamentazione oggi vigente, di un potere giudiziale di rigetto dell’istanza di rinvio per adesione all’astensione collettiva, pur ritualmente presentata, qualora ricorrano esigenze di giustizia non contemplate dal predetto codice. Le sezioni Unite e quelle semplici - A tale quesito, le sezioni Unite avevano risposto in linea di massima negativamente, non potendosi ritenere, nell’attuale contesto normativo, che residui spazio per il riconoscimento di un autonomo potere giudiziale di bilanciamento dei valori costituzionali in possibile contrasto, “se non in ipotesi veramente eccezionali ed in limiti molto ristretti” (cfr. Sez. U., 27 marzo 2014, n. 40187, Lattanzio). In un interessante e più recente precedente delle sezioni semplici (n. 40 del 2017) si era peraltro ritenuto che in tema di adesione del difensore all’astensione proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria, nell’ipotesi in cui gli imputati detenuti, con posizioni processuali tra loro connesse e non separabili, assumano divergenti determinazioni in ordine alla possibilità dei rispettivi difensori di aderire all’iniziativa di protesta, prevale la volontà contraria all’adesione all’astensione, con il conseguente obbligo, per il giudice, di procedere alla trattazione del procedimento nei confronti di tutti gli imputati, compresi quelli che non abbiano manifestato alcuna volontà o abbiano espressamente manifestato la loro non opposizione all’astensione. (Fattispecie nella quale la Corte ha respinto la richiesta di rinvio in presenza di divergenti determinazioni degli imputati e in assenza di prova della preventiva comunicazione dell’adesione alle altre parti). In questa decisione può leggersi che a sostegno del diverso principio qui affermato - ribadito che l’astensione dei difensori dalle udienze costituisce esercizio di un diritto e non un legittimo impedimento (cfr., tra le tante, Sez. 2, sent. n. 41165 del 17/06/2015, Puca, Rv. 264656) - si richiama il fondamentale rilievo che, in difetto di una previsione normativa specifica, il bilanciamento degli interessi in gioco (il diritto dell’imputato alla difesa e alla celere trattazione del processo, da un lato; e, dall’altro, il diritto degli avvocati di manifestare il proprio pensiero, anche aderendo all’astensione delle udienze proclamata dagli organismi di categoria) impone di considerare la volontà, anche di un solo imputato in stato di detenzione, a che si proceda prevalente non soltanto rispetto alla volontà del suo difensore di astenersi dall’udienza ma anche rispetto alla posizione assunta dai difensori degli altri imputati in vinculis (rispetto all’eventuale dichiarazione di astensione dei propri rispettivi difensori). Nel caso in esame, infatti, non vengono in rilievo interessi della medesima natura (quale la volontà di astensione di un legale e la volontà di non astensione di un altro), ma vengono in rilievo interessi di natura diversa (quale la volontà di un imputato detenuto a che si proceda e si definisca celermente la sua posizione per quanto strettamente connessa ed inseparabile rispetto a quella dei suoi coimputati). D’altronde, lo stesso Codice di autoregolamentazione valuta il diritto del difensore all’astensione come recessivo rispetto al diritto dell’imputato detenuto alla immediata trattazione del processo. E sarebbe irragionevole che detto ultimo diritto diventi recessivo nei confronti di quello dei difensori di altri imputati (potendo questi ultimi, oltre che manifestare espressamente la propria opposizione all’astensione, provvedere, in ipotesi, in caso di dissenso, alla revoca del mandato e alla nomina di nuova difensore); né rileva che non siano pervenute espresse opposizioni al rinvio del processo da parte degli imputati detenuti, cosa che peraltro non poteva ritenersi comunque dovuta in considerazione della circostanza che nella specie non risulta che la volontà di astenersi da parte degli avvocati sia stata posta tempestivamente e ritualmente a conoscenza delle altre parti. Ciò sarebbe invero di per sé solo sufficiente al mancato accoglimento della dichiarazione di astensione, mancando - si ribadisce - la prova della intervenuta preventiva comunicazione alle altre parti e dovendo l’esercizio del diritto - come precisato dalle sezioni Unite e come sopra ribadito - essere riconosciuto e garantito “purché avvenga nel rispetto delle condizioni e dei presupposti previsti dalle specifiche norme che lo regolano”. La decisione in commento - La decisione in commento pone definitivamente fine alle questioni come sopra delineate, riaffermando con vigore che “l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo”, in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio “diritto di libertà” e che il Codice di autoregolamentazione “costituisce una vera e propria normativa sub-primaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali che raggruppano gli avvocati nell’esercizio del diritto di associarsi (articolo 18 Cost.)”. Ha ribadito tuttavia il giudice delle leggi che è necessario, però, un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo conto che il secondo comma, lettera a), dell’articolo 1, della legge 146 del 1990 indica fra i servizi pubblici essenziali “l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione”. Sul punto la giurisprudenza della Cassazione, come già ricordato, aveva sostenuto che spettasse al giudice il bilanciamento tra l’interesse difensivo ad astenersi e gli altri valori di rilievo costituzionale, evidenziandosi come in un caso fosse stato ritenuto prevalente l’interesse dell’imputato alla celebrazione del processo, nonostante gli fosse stata applicata una misura non detentiva e non si fosse opposto al rinvio; nell’altro escludendo che l’articolo 3, comma 2, del vigente Codice di autoregolamentazione (di cui pure veniva ribadita la valenza di normativa secondaria, vincolante erga omnes), potesse essere interpretato nel senso che l’astensione del difensore di parte civile determinava il rinvio del processo, anche nell’ipotesi in cui l’imputato avesse manifestato una volontà contraria: dovendosi in tal caso far prevalere quest’ultima, anche in virtù del principio di ragionevole durata del processo. Secondo la stessa Corte, peraltro, non si era trattato in tali decisioni “di bilanciamento tra valori costituzionali confliggenti, ma della scelta di una interpretazione - fra le varie possibili - estensiva ed adeguatrice (a norme o principi costituzionali) delle norme secondarie in materia”. Sul bilanciamento dei diritti - Le sezioni Unite più recentemente hanno sostenuto che il bilanciamento in questione “risulta oggi effettuato a monte dal legislatore”, con la conseguenza che, ove siano rispettate le norme primarie e secondarie dettate dopo la riforma, il giudice è tenuto a disporre il rinvio, data anche la presenza di istituti e disposizioni in grado di salvaguardare gli altri diritti e principi suscettibili di essere lesi dall’astensione. Nel valorizzare tale percorso interpretativo, il Supremo consesso ha ulteriormente precisato che “le situazioni che richiedono un bilanciamento sono state in via generale previste dalle norme legislative e secondarie competenti in materia, le quali hanno già provveduto al bilanciamento”, e ha richiamato espressamente le disposizioni in tema di preavviso, durata e motivazione dell’astensione, di comunicazione all’autorità procedente, di legittimazione ad astenersi, di divieto di astensione nei processi con detenuti o prossimi a prescriversi, ecc., nonché gli insegnamenti giurisprudenziali, del tutto pacifici, in tema di operatività della sospensione della prescrizione e dei termini di custodia cautelare per l’intero periodo compreso tra l’udienza rinviata per astensione e quella successiva. In definitiva, ad avviso delle sezioni Unite, il vigente sistema ha già approntato un sistema “idoneo ad operare esaurientemente il bilanciamento” tra il diritto all’astensione e gli altri diritti e valori costituzionali individuati da dottrina e giurisprudenza, tra cui il principio di ragionevole durata del processo “chiaramente ritenuto dal legislatore non idoneo di per sé solo, a giustificare una valutazione discrezionale del giudice e ad escludere o limitare l’esercizio del diritto costituzionale del difensore all’astensione”. Il Supremo consesso ha peraltro inteso precisare che tutto ciò non significa che al giudice sia preclusa qualsiasi valutazione, dovendo egli accertare la ritualità dell’astensione attraverso un’interpretazione anche in chiave sistematica o adeguatrice delle norme primarie e secondarie rilevanti, “in modo che il risultato della interpretazione sia il più possibile conforme ai principi e valori costituzionali di cui si sta discutendo. In altre parole, questi principi costituzionali potrebbero essere utilizzati per bilanciare i diversi interessi in modo indiretto, dando alle disposizioni del codice una interpretazione più conforme ai principi stessi, sempre però nella misura in cui tale interpretazione adeguatrice non si ponga in contrasto con lettera della disposizione o con la ratio della soluzione normativa”. Neppure può escludersi a priori, ad avviso delle sezioni Unite, una riemersione del potere giudiziale di bilanciamento, peraltro in situazioni del tutto peculiari, quali il venir meno della normativa secondaria o, l’emersione di ulteriori valori costituzionali (nuovi o comunque non considerati nell’intervento normativo di bilanciamento): “mentre non potrebbero ritenersi sufficienti, ad esempio, generiche ragioni di opportunità, o vaghe esigenze di giustizia non contemplate dal codice, o il fine di evitare il grave disagio ad un teste chiamato a testimoniare da città lontana” (circostanza, quest’ultima, rilevante nella fattispecie in quell’occasione devoluta alle sezioni Unite). Inadeguato il bilanciamento operato dalla normativa sub primaria - La decisione in commento del giudice delle leggi, invece, ritiene sostanzialmente inadeguato il bilanciamento operato dalla normativa sub primaria, precisando in primo luogo la “forza prevalente” dei diritti di libertà dell’imputato detenuto a una sollecita definizione del processo rispetto al diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva. Sicché, è da privilegiare l’interpretazione costituzionalmente orientata che riconosce “al giudice il potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere la “libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari”. Ha quindi ricordato come con la sentenza n. 171 del 1996, della stessa Consulta era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui non prevedeva, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività defensionale degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo d’un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e, altresì, nella parte in cui non prevedeva gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali durante l’astensione stessa, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza. Ha poi rimarcato le “inadempienze” del legislatore che avrebbe dovuto introdurre “misure idonee ad evitare che vengano compromessi i beni primari della convivenza civile che non tollera la paralisi della funzione giurisdizionale e, quindi, esige prescrizioni volte ad assicurare, durante l’astensione dell’attività giudiziaria, le pre­stazioni indispensabili”, nonché l’inadeguatezza della soluzione adottata con una norma primaria che si limita a definire il perimetro di riferimento: riconosce il diritto di “astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria” e fissa, al contempo, il principio del necessario “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati”, ma poi coinvolge gli stessi destinatari di questo bilanciamento richiedendo l’adozione, da parte “delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate”, di “codici di autoregolamentazione”. In definitiva secondo la Consulta, la disposizione censurata viola la riserva di legge posta dall’articolo 13, quinto comma, della Costituzione nella parte in cui consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella disciplina nella libertà personale; interferenza consistente nella previsione che l’imputato sottoposto a custodia cautelare possa richiedere, o no, in forma espressa, di procedere malgrado l’astensione del suo difensore, con l’effetto di determinare, o no, la sospensione, e quindi il prolungamento, dei termini massimi (di fase) di custodia cautelare. Spese di giustizia: il Ministero adegua gli importi per il diritto di copia e certificato di Eugenio Sacchettini Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2018 Decreto del ministero della Giustizia 4 luglio 2018. E rieccoci alla revisione dei costi pure per spese di copia e certificazioni: anche se stavolta l'aumento non è sensibile, stante la stagnazione dei prezzi dell'ultimo triennio, è l'occasione per rivisitare una delle componenti più ingenti dei carichi che incombono sul processo, con particolare riguardo alle problematicità insorte in tema di copie su supporto diverso da quello cartaceo in conseguenza dell'avvio a pieno regime del processo telematico. L'articolo 274 del Testo unico delle spese di giustizia (Dpr 30 maggio 2002 n. 115 in Dossier n. 7/2002 di “Guida al Diritto”) prevede che la misura degli importi del diritto di copia e del diritto di certificato venga adeguata ogni tre anni, in relazione alla variazione, accertata dall'Istat, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi nel triennio precedente, con decreto dirigenziale del ministero. Gli incrementi sul diritto di certificato - A norma dell'articolo 273 del Tu delle spese di giustizia (Dpr 2002 n. 115) il diritto di certificato era inizialmente dovuto nell'importo di euro 3,10: a) per ogni certificato richiesto dalle parti, compreso il certificato del casellario giudiziale, quello dei carichi pendenti e quello delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, b) per il certificato del casellario giudiziale, per quello dei carichi pendenti e per quello delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, se si richiede il rilascio immediato e si ottiene il certificato nel medesimo giorno della richiesta (con aggiunta dunque d'identico importo). Il diritto venne elevato dal decreto del ministero della Giustizia 8 gennaio 2009 (in n. 8/2009 di “Guida al Diritto”, pagina 28) all'importo di euro 3,54 con la conseguenza che il doppio sarebbe costato euro 7,08 in caso di urgenza. Il successivo decreto del ministero della Giustizia 10 marzo 2014 (in “Gazzetta Ufficiale” n. 91/2014) ha ulteriormente adeguato gli importi del diritto di copia e di certificato ai sensi dell'articolo 274 del Dpr 115/2002; l'importo di euro 3,54 previsto per il “diritto di certificato” dalle lettera a) e b) dell'articolo 273 dello stesso Dpr, così come adeguato con decreto dell'8 gennaio 2009, veniva aggiornato a euro 3,68. Adesso il decreto del ministero della Giustizia 4 luglio 2018 (in “Gazzetta Uffciale” 26 luglio 2018) ha ritenuto di dover adeguare la misura degli importi previsti per il diritto di copia e per il diritto di certificato sulla base della variazione dell'indice Istat registrata nel triennio 1° luglio 2014-30 giugno 2017, constatato che nel triennio considerato l'Istituto nazionale di statistica ha rilevato una variazione in aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati pari allo 0,8%, disponendo all'articolo 1 che l'importo del diritto di certificato previsto dalle lettere a) e b) dell'articolo 273 del citato Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Dpr 30 maggio 2002 n. 115) venga aggiornato a € 3,87. Conseguentemente l'importo sarà di euro 7,74 nel caso di rilascio immediato (si veda quantondicato infra per il diritto di urgenza delle copie). I cambiamenti sui diritti di copia - Più complessa è la ricaduta del suindicato aggiornamento nella misura dello 0,8% del trascorso triennio per i diritti di copia: il decreto del ministro della Giustizia 4 luglio 2018 all'uopo rielabora all'articolo 2 gli importi recati nelle precedenti tabelle contenute negli allegati n. 6, 7 e 8 del suddetto Tu delle spese di giustizia. Si ricorda che a norma dell'articolo 271 del medesimo Tu (Dpr 115/2002) nei processi dinanzi al giudice di pace tutti i diritti di copia sono ridotti alla metà. Non rimane quindi che guardare ai nuovi importi recati dalle rispettive tabelle in calce al Dm: l'allegato n. 6 (articolo 267 del Tu spese di giustizia) attiene al diritto di copia senza certificazione di conformità; l'allegato n. 7 (articolo 268 Tu delle spese di giustizia) contiene i nuovi importi per il diritto di copia autentica; mentre l'allegato n. 8 (articolo 269 Tu delle spese di giustizia) indica i nuovi importi per il diritto di copia su supporto diverso da quello cartaceo distinguendo a seconda della durata per ogni cassetta fonografica e distinti importi per ogni dischetto informatico e per ogni compact disc. Criticità per le copie su supporto diverso da quello cartaceo - Ma è proprio su quest'ultimo allegato n. 8 che appare opportuno soffermare l'attenzione, appunto perché in quest'ambito assolutamente nuovo, e assai “caldo” sotto vari aspetti non solo da oggi, sono insorte le maggiori criticità. Fra i vari problemi si è posto il rapporto tra copie su supporti informatici diversi da floppy disc e compact disc (Dvd, chiavette Usb, hard disk esterni) emerso nella vasta indagine probatoria sul tragico evento del naufragio della Costa Concordia: il Consiglio di Stato con sentenza 21 settembre 2015 n. 4408 ha in proposito rilevato l'esistenza di una lacuna determinata dal mancato allineamento tra norma e tecnologia di comune diffusione. Tuttavia il supremo giudice amministrativo ha escluso che possa vietarsene o anche semplicemente disincentivare l'utilizzo dell'introdotta nuova tecnologia, sicché gli uffici giudiziari possono richiedere una sola volta l'importo forfettario di euro 295,16 - all'epoca euro 0,48 - in relazione a ciascuna richiesta di copia, con esclusione del caso in cui sia possibile calcolare il numero delle pagine memorizzate su supporto informatico (articolo 4, quinto comma, del Dl n. 193/2009, convertito in legge 24/2010). Il ministero della Giustizia con l'articolata nota 17 novembre 2017 (in “Rivista delle Cancellerie”, 2018, pagina 205) ribadendo la propria circolare del 20 ottobre 2015, ha indicato di doversi attenere a quanto espresso da Palazzo Spada con la menzionata sentenza 21 settembre 2015 n. 4408. Sempre con riguardo alle spese di copia su supporto diverso da quello cartaceo si è posto il problema del supplemento per l'urgenza, disponendo l'articolo 270 del Tu delle spese di giustizia (Copia urgente su supporto cartaceo) che per il rilascio entro due giorni di copie su supporto cartaceo, senza e con certificazione di conformità, il diritto dovuto è triplicato. Ma allora la triplicazione si riferisce alle sole copie in supporto cartaceo ovvero anche alle altre rese in supporto diverso? La circolare del ministero della Giustizia 23 aprile 2014 (in “Rivista delle Cancellerie” 2014, pagina 282) ha ritenuto, in attesa della revisione della disciplina prevista dall'articolo 40 del Tu, di attenersi al tenore letterale di cui al citato articolo 270 del Tu, nel senso che la suddetta triplicazione vada applicata soltanto per la richiesta di urgenza di copie in supporto cartaceo. Sempre sul tema è infine da osservare che a norma del comma 9-bis dell'articolo 16-bis del “decreto sviluppo” - Dl 18 ottobre 2012 n. 179 - convertito in legge 17 dicembre 2012 n. 221 (si veda Dossier di “Guida al Diritto” n. 1/2013) nel testo modificato dal Dl 83/2015, i difensori possono attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti contenuti nel fascicolo informatico e logicamente l'estrazione della copia è esente dai relativi diritti. Gratuito patrocinio, il compenso è più equo di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2018 Tribunale-Vasto ordinanza 9 aprile 2018. Compenso proporzionale all’impegno legale, copertura anche per la mediazione obbligatoria ma niente onorario per l’avvocato che presenta un ricorso prevedibilmente inammissibile. Negli ultimi mesi diverse sentenze hanno fornito indicazioni e fissato paletti sul ricorso all’istituto del gratuito patrocinio previsto dal Testo unico sulle spese di giustizia (Dpr 115/2002), che assicura il diritto all’assistenza legale anche a chi, per motivi di reddito non può permettersela. Il compenso dell’avvocato - L’onorario deve basarsi sull’impegno legale. Nel liquidare il legale del cliente ammesso al gratuito patrocinio, il giudice non dovrà infatti limitarsi a mettere in conto la tariffa professionale vigente ma dovrà valutare anche le attività professionali svolte e l’impegno tecnico richiesto dalla questione trattata (Cassazione, ordinanza 6 giugno 2018 n. 14485). La stessa regola vale per il giudizio di opposizione, poiché al legale non spettano solo le spese vive documentate, ma anche i compensi legati allo svolgimento dell’attività (Cassazione, ordinanza 23 marzo 2018, n. 7292). Niente onorario, invece, per l’avvocato che presenti un ricorso prevedibilmente inammissibile (Corte Costituzionale, sentenza 30 gennaio 2018, n. 16). Esborsi coperti dallo Stato, dunque, per qualsiasi tipologia di azione, inclusa la procedura della mediazione obbligatoria ove non si possa fare a meno della figura dell’avvocato. E se i giudici hanno negato l’onorario al legale della parte ammessa al beneficio che non ne abbia comunicato il provvedimento prima della chiusura della causa (Tribunale di Caltanissetta, 14 luglio 2014), la circolare ministeriale dello scorso 10 gennaio ha chiarito che in caso di istanza presentata a procedimento definito - scaduto il termine dell’articolo 83, comma 3 bis, T.U. - graveranno sul difensore ritardatario soltanto gli effetti negativi della ritardata liquidazione, ma non la perdita del compenso. I requisiti per l’accesso - Al beneficio è ammesso il titolare di un reddito imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, inferiore a 11.493,82 euro. Soglia elevata di 1.032,91 euro per ogni familiare convivente. Nella borsa del reddito entrano, quindi, le entrate di chi (parente o meno) coabiti con l’interessato (Cassazione 17426/2018) ma non quelle dei familiari non conviventi seppur fiscalmente a carico. Tuttavia, puntualizza la Consulta 219/2017, andrebbe sollecitata una riforma che consideri i carichi familiari anche come fonte di maggiori spese. Esclusa dal paniere del reddito, invece, l’indennità di accompagnamento, in quanto sussidio teso a consentire al disabile un tenore di vita dignitoso (Cassazione 26302/2018). Ancora, se un coniuge proceda contro l’altro per maltrattamenti, lesioni personali e stalking, non si terrà conto né dei redditi di chi si sia allontanato dalla sua abitazione per sottrarsi ai reati (Cassazione 45889/2017) né di chi sia stato colpito dal divieto di avvicinamento domestico (Cassazione 27423/18). Computo del reddito personale anche in altre ipotesi conflittuali: il figlio che quereli il genitore (Cassazione 54484/2016) o il consorte che intenda separarsi o divorziare. In tal caso, però, alle sue entrate si sommeranno quelle della prole convivente (Cassazione 30068/2017). I soldi di provenienza illecita, infine, confluiranno nel computo dei redditi ma il giudice, non potendo avvalersi di automatismi, sarà tenuto a indicare gli elementi sulla base dei quali intende operare il giudizio presuntivo (Cassazione 836/2018). Chi invece dichiari un reddito pari a zero, anche laddove si presuma un intento fraudolento - motivo per cui può essere disposta una verifica finanziaria - non potrà restare escluso a priori dal diritto a un beneficio disegnato appositamente a tutela della fascia economicamente più debole (Cassazione 10406/2018). Se a chiedere il patrocinio gratuito è un cittadino extraUe in ritardo con il reperimento dell’attestazione consolare, gli sarà permesso, intanto, di autocertificare i redditi senza vedersi respinta la domanda, purché l’inconveniente non dipenda dalla negligenza ma da semplici intoppi burocratici (Cassazione 8617/2018). Beneficio accordato - vista la natura costituzionale del diritto alla difesa - anche all’irregolare in attesa degli esiti dell’iter, amministrativo o giurisdizionale, che potrebbe sfociare nella concessione del permesso. Le false dichiarazioni - Attenzione ad attestare un reddito più basso di quello percepito per evitare di pagare la parcella all’avvocato. La dichiarazione fasulla potrebbe costare una condanna ai sensi dell’articolo 95 del citato T.u. che punisce chi, nel compilare la documentazione necessaria per essere ammesso al beneficio “bari” sulla cifra o ometta di fornire le precisazioni richieste. È ovvio che, ove si tratti di mera svista o leggerezza, la condotta, giacché colposa, sfuggirà a sanzione penale (Cassazione 4623/2018). Lavoro: solo evento “abnorme” interrompe nesso causale tra incidente e condotta del datore di Giuseppe Amato Il Sole 24 ore, 13 agosto 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 11 luglio 2018 n. 31615. La Cassazione torna e chiarisce, con la sentenza n. 31615 del 2018, in materia di infortuni sul lavoro. In tema di responsabilità per violazione della normativa antinfortunistica, compito del datore di lavoro, titolare della posizione di garanzia, è quello di evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio dell'attività lavorativa, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti a eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Esenzione dalla colpa - Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, la legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa. Il datore di lavoro, quindi, non può essere considerato esente da responsabilità ove il lavoratore esplichi un incombente che, anche se inutile e imprudente, rientri comunque nelle sue attribuzioni e non risulti eccentrico rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate, nell'ambito del ciclo produttivo. Vi è però esonero da responsabilità del datore di lavoro ove, il nesso causale tra la sua condotta in ipotesi colposa e l'evento lesivo risulti interrotto da una causa sopravvenuta, sufficiente da sola a determinare l'evento, ciò che si verifica nei casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta. Tale interruzione del nesso causale è ravvisabile qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto e incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche, ponendo in essere un comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. In questi casi è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (nella specie, la Corte ha annullato la sentenza di condanna pronunciata a carico del titolare della posizione di garanzia evidenziando come nella eziologia dell'incidente fosse subentrata una manovra compiuta dall'infortunato che aveva innescato una categoria di rischio del tutto nuova rispetto a quella determinata dal difetto di un'adeguata manutenzione del macchinario oggetto di contestazione: il comportamento del lavoratore doveva considerarsi abnorme essendosi risolto, nella vicenda, in una condotta radicalmente, ontologicamente, lontana dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, scelte, anche imprudenti, di un lavoratore, nell'esecuzione del lavoro, con conseguente esonero da responsabilità del titolare della posizione di garanzia). Sull'addebito di responsabilità - È principio assolutamente pacifico quello secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, l'addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell'infortunio, giacché al datore di lavoro, che è “garante” anche della correttezza dell'agire del lavoratore, è imposto (anche) di esigere da quest'ultimo il rispetto delle regole di cautela (cfr. articolo 18, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81). A tale regola, si fa unica eccezione, in coerente applicazione dei principi in tema di interruzione del nesso causale, in presenza di un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile del lavoratore: in tal caso, anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell'evento dannoso, essendo intervenuto un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile (e come tale inevitabile) del lavoratore, finisce con l'essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento dannoso (l'infortunio), che, per l'effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore. Comportamenti “abnormi - Ciò può verificarsi in presenza (solo) di comportamenti “abnormi” del lavoratore, come tali non suscettibili di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. In questa prospettiva, secondo la lettura più recente e accreditata (cfr. anche, in parte motiva, Sezioni unite, 24 aprile 2014, Espenhahn e altri), il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore non solo quando il comportamento di quest'ultimo risulti definibile come “abnorme” e quindi non suscettibile di controllo da parte del titolare della posizione di garanzia (dovendosi considerare abnorme non solo il comportamento posto in essere in una attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, ma anche quello “connesso” con lo svolgimento delle mansioni lavorative, ma consistito in qualcosa di radicalmente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione del lavoro), ma anche quando il comportamento del lavoratore, pur non abnorme di per sé, risulti “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il titolare della posizione di garanzia è chiamato a “governare” (Sezione IV, 26 settembre 2014, Colella, che, da queste premesse, in una fattispecie in cui al sindaco di un comune si era addebitato un infortunio subito da uno “stradino” comunale, sul rilievo della pretesa mancata formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna che non aveva approfondito se l'infortunio si fosse veramente verificato nell'ambito delle mansioni svolte dal lavoratore, sì da potersene fare discendere l'addebito di carenza di formazione; diversamente, si era finito con l'addebitare al titolare della posizione di garanzia un comportamento prevenzionale rispetto a una condotta del lavoratore di cui non si era verificata la coerenza con le mansioni; nello stesso senso, anche Sezione IV, 5 maggio 2015, Viotto, che ha attribuito rilievo “interruttivo” anche al comportamento “esorbitante” del lavoratore: nozione nella quale si sono fatte rientrare quelle condotte che fuoriescono dall'“area di rischio” che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, e che non rientrano nell'ambito delle mansioni, ordini, disposizioni concernenti il contesto lavorativo). Sul punto, cfr. anche Sezione IV, 20 marzo 2018, Bozzi, laddove si è ulteriormente precisato che, nel sistema della normativa antinfortunistica, per potere considerare interrotto il nesso causale tra l'incidente e la condotta del datore di lavoro, è necessario che la condotta del lavoratore cui si vuole ricondurre la causa esclusiva dell'evento sia caratterizzata dalla c.d. abnormità, ossia da quel comportamento del lavoratore che assume valenza interruttiva del nesso di causalità fra la condotta del garante in tema di sicurezza e l'evento dannoso verificatosi a suo danno: tale condizione, peraltro, si verifica non perché il comportamento del lavoratore qualificato come abnorme sia “eccezionale”, ma perché esso risulta eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. Stupefacenti: lieve entità del piccolo spaccio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2018 Stupefacenti - Spaccio - Piccolo spaccio - Circostanza attenuante comune ex articolo 62, n. 4, c.p. - Lieve entità del fatto - Compatibilità - Condizioni. In tema di stupefacenti, la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità di cui all'articolo 62, n. 4, cod. pen., è compatibile con la lieve entità del delitto, nel solo caso in cui la valutazione del danno patrimoniale sia rimasta estranea al giudizio sulla lieve entità di cui al quinto comma dell'articolo 73, T.U. stup. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 luglio 2018 n. 34122. Stupefacenti - Fatto di lieve entità - Presupposti - Valutazione giudiziale. Il cosiddetto “piccolo spaccio”, di per sé compatibile con la detenzione di dosi di droga “conteggiabili a decine” e non escluso di per sé dal mero profilo della continuatività della condotta, ove mantenuta a quel grado di offensività, rientra nell'ambito di operatività dell'ipotesi attenuata di cui all'articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990. Per converso, anche al di là del quantitativo modesto delle dosi (quindi anche in caso di cessione di una singola dose o di una quantità non accertata), va esclusa l'ipotesi lieve ove risulti che il soggetto disponga di fonti di approvvigionamento certe e stabili o comunque sia in grado di rifornire un vasto mercato ovvero ove risulti la disponibilità da parte del soggetto di un assetto organizzativo complesso o l'utilizzo di peculiari e studiate modalità per agire sfuggendo all'ordinaria azione preventiva, soprattutto quando tali modalità coinvolgano il contributo di più soggetti o implichino il ricorso a strumenti particolari, per l'occultamento o la movimentazione della droga: pertanto, non può riconoscersi il fatto lieve, anche a prescindere dal quantitativo di volta in volta smerciato o detenuto, ove risulti la gestione di una cosiddetto “piazza di spaccio”, che fa leva su un'articolata organizzazione di supporto e difesa ed assicura uno stabile commercio di sostanza stupefacente. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 15 marzo 2018 n. 11994. Stupefacenti - Carcere - Lieve entità compatibile con il piccolo spaccio - Nozione di lieve entità. In tema di stupefacenti, il fatto può ritenersi lieve solo quando si versi nell'ipotesi di piccolo spaccio, che si caratterizza per una complessiva minore portata dell'attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati. In altre parole la lieve entità del fatto sta ad indicare una minima offensività dello stesso; minima offensività che costituisce la risultante del complesso degli elementi indicati dalla disposizione di legge, con l'effetto che quando già uno solo di questi esprime il superamento di quel limite di minima offensività (che va misurato in rapporto all'oggettività giuridica) il quesito in merito alla ricorrenza dell'ipotesi di cui all'articolo 73, comma 5 T.U. Stup. trova immediata risposta. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 27 luglio 2017 n. 37533. Stupefacenti - Fatto di lieve entità - Valutazione complessiva degli elementi dell'azione. Ai fini del riconoscimento o meno dell'ipotesi del fatto di lieve entità, il giudice è comunque tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi normativamente indicati ovvero sia quelli concernenti l'azione che quelli attinenti all'oggetto materiale del reato. In tema di stupefacenti, solo attraverso tale valutazione complessiva della condotta tenuta dall'imputato, il giudice è in grado di valutare in concreto il “piccolo spaccio”, caratterizzato da una minore portata dell'attività dello spacciatore, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 25 novembre 2016 n. 50069. Stupefacenti - Attività illecite - Fatto di lieve entità - Abitualità della condotta - Ostatività - Esclusione - Ragione. La differenza fra le due ipotesi di reato dell'articolo 73 D.P.R. n. 309/1990, previste rispettivamente nei commi 1 e 5) non attengono al carattere occasionale o abituale dello spaccio, in particolare l'ipotesi minore di cui al comma 5 non è affatto condizionata dalla episodicità dell'attività criminale, come dimostra il fatto che è prevista, nell'articolo 74 dello stesso Dpr, la figura della associazione finalizzata alla commissione di reati di cui all'articolo 73, comma 5. Piuttosto, la fattispecie autonoma di cui al comma 5 dell'articolo 73 è configurabile nelle ipotesi di cosiddetto “piccolo spaccio”, che si caratterizza per una complessiva minore portata dell'attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore - tenendo conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a decine. Del resto, se si ritenesse che un reato autonomo, quale è l'articolo 73, comma 5, sussista non per le sue caratteristiche in sé, ma per essere la data condotta singola senza collocarsi in un contesto di condotta “abituale”, dovrebbe ritenersi che il comma 1 dell'articolo 73 sia un reato abituale, ricorrendo, invece, il reato di cui al comma 5 a fronte di qualsiasi entità del singolo traffico che non abbia caratteri di abitualità; o, comunque, dovrebbe ritenersi l'ipotesi di cui al comma 1 quale reato eventualmente abituale con il conseguente assorbimento delle ulteriori (pur se numerose e protratte nel tempo) condotte (da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna che aveva escluso il “fatto lieve” valorizzando solo la circostanza che le condotte di spaccio fossero “abituali”). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 9 febbraio 2016 n. 5257. Stupefacenti - In genere - Attività di cosiddetto piccolo spaccio - Reato di lieve entità - Configurabilità - Condizioni. In tema di reati concernenti gli stupefacenti, la fattispecie autonoma di cui al comma quinto dell'articolo 73, D.P.R. n. 309/1990 è configurabile nelle ipotesi di cosiddetto piccolo spaccio, che si caratterizza per una complessiva minore portata dell'attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore - tenendo conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente - a dosi conteggiate a “decine”. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 15 aprile 2015 n. 15642. San Gimignano (Si): agente di Polizia penitenziaria suicida nel parcheggio davanti al carcere firenzepost.it, 13 agosto 2018 Ieri sera un appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria si è tolto la vita uccidendosi con l’arma di ordinanza nel parcheggio adiacente il carcere di San Gimignano, in provincia di Siena: lo rende noto il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), Donato Capece. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, commenta Capece. “L’uomo, un Agente Scelto sui 30 anni, si è sparato nella macchina, premurandosi però di chiudere prima le porte con le sicure. Siamo sconvolti. Sono ancora oscure le cause che hanno portato l’uomo al tragico gesto, ma se è importante evitare strumentalizzazioni è fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto”. “L’Amministrazione Penitenziaria continua a non fare nulla di concreto per contrastare il disagio psicologico dei poliziotti, anche se non è direttamente collegato col servizio. Questo aiuta a capire quali evidentemente siano le priorità per l’Amministrazione Penitenziaria. Non il fatto - conclude Capece - che contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, compresi i numerosi suicidi di appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati proprio dal Dap”. Genova: “ammoniti” dieci ladri al mese, per fermare il boom di furti Il Secolo XIX, 13 agosto 2018 Per bloccare l'escalation di colpi in abitazione la questura ha deciso di utilizzare quest'anno anche le misure di sicurezza. Tra le misure di prevenzione un tempo riservate principalmente a mafiosi, membri della criminalità organizzata o pregiudicati appena usciti dal carcere c'era anche e soprattutto “l'avviso orale” del questore. Di cosa si tratta? È una sorta di comunicazione ufficiale che arriva dalla polizia in cui si avvisa il soggetto che “si sta indagando sul suo conto, che è invitato a tenere una condotta conforme alla legge, con l'avvertenza che in caso contrario potrà essere proposto per l'applicazione di altre misure”. Come, appunto, la sorveglianza speciale che impone pesanti limitazioni alla libertà personale. Oggi l'avviso orale - che è una valutazione sulla pericolosità sociale del soggetto e non richiede prove compiute della commissione di reati - è stato esteso. L'avvertimento - Con l'avviso orale il soggetto viene invitato a tenere una condotta conforme alla legge. La valutazione sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede prove compiute della commissione di reati. L'aggravamento - Chi continua a mettere in atto condotte illecite viene sottoposto quindi alla sorveglianza speciale che impone divieti stretti e impone limitazioni sulla libertà della persona anche a ladri, rapinatori e spacciatori. Facciamo un esempio. Tra le attività che la questura ha in essere per contrastare il fenomeno annoso (soprattutto in estate, dei furti in appartamento) a supporto di pattuglioni, indagini investigative, sopralluoghi ecco l'idea di estendere l'avviso orale anche a chi già a Genova è ben noto per la sua attività di ladro o rapinatore. E così da gennaio ad oggi gli uffici della sezione anticrimine della polizia di stato hanno fatto scattare più di dieci avvisi al mese per persone che compivano furti all'ombra della Lanterna. Gli agenti diretti dal primo dirigente Olga Crocco ne hanno notificati quasi ottanta dall'inizio dell'anno facendo una sorta di censimento tra chi ha scontato condanne per furto o per rapina. E il sistema di prevenzione sembra funzionare dal momento che l'avviso ha inevitabilmente condizionato l'attività illecita di queste persone. In particolare di soggetti, sia stranieri che italiani, che però devono necessariamente vivere all'interno della provincia di Genova. Chi non rispetta l'avviso orale viene colpito dalla misura della sorveglianza speciale. Che impone determinate prescrizione (non uscire nelle ore serali o non frequentare determinati locali o zone della città). Diverso invece il discorso per i ladri trasfertisti. Quelli per capirci che arrivano a Genova per rubare ma che non vivono nella nostra provincia. In questo caso l'unica arma in materia di prevenzione è quella del foglio di via. Si tratta cioè di una sorta di espulsione dal Comune in cui si è sorpresi a compiere un reato. Espulsione che ha un tempo limitato e solitamente si attesta intorno a due o tre anni a seconda della gravità dell'episodio. Solitamente viene comminata come sanzione accessoria dopo una denuncia o un arresto. Negli ultimi mesi gli uffici dell'Anticrimine della Questura hanno firmato una ventina di espulsioni a stranieri o trasfertisti sorpresi a rubare a Genova o in provincia. Viterbo: cari onorevoli, per Ferragosto andiamo al carcere Mammagialla di Giacomo Barelli* tusciaweb.eu, 13 agosto 2018 La mancanza di “qualità” si avverte in ogni settore della giustizia e in particolare modo in quello penitenziario, dove alla privazione della libertà si accompagna spesso la vera e propria illegalità dello stato di detenzione. Una violazione di diritti, di cui pochissimi si fanno carico e, nell’indifferenza collettiva, si continuano a calpestare principi costituzionali e di elementare civiltà. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri… Perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” diceva Voltaire nel diciottesimo secolo e questo è un concetto che sta alla base dell’art. 27 della nostra Costituzione, tuttavia la politica spesso se ne dimentica. Come consigliere comunale di Viterbo la legge non mi consente di far visite ispettive al carcere nemmeno a quello della mia città, la casa circondariale di Mammagialla. Tuttavia ritengo opportuno, cosi come ha insegnato Marco Pannella, lanciare un appello a tutti quei soggetti politici che ai sensi dell’art. 67 dell’ordinamento penitenziario hanno questa facoltà a voler visitare, magari insieme, il giorno di ferragosto il carcere di Mammagialla. In particolare mi rivolgo ai nostri parlamentari di Viterbo onorevoli e senatori, nonché anche ai nostri parlamentari europei, ai nostri consiglieri regionali del Lazio facciamo insieme una vista ispettiva al carcere di Viterbo il 15 agosto per dimostrare la nostra attenzione e la nostra vicinanza ai problemi di chi vi lavora e della popolazione carceraria. Nei carceri sempre sovraffollati e con forti deficienze di organico della polizia penitenziaria, tuttavia ci finiscono per la maggior parte dei casi persone emarginate, tossicodipendenti o malati psichiatrici che dovrebbero essere curati e migliaia di altri che avrebbero diritto a pene alternative, e invece possono fare poco e niente, questo è uno dei gravi problemi dell’Italia è il problema della giustizia, col suo carico di milioni e milioni di procedimenti penali pendenti a cui ancora oggi non siamo riusciti a dare una risposta adeguata, rispettosa della nostra Costituzione e delle esigenze dei nostri cittadini. Ciò detto anche alla luce dei tanti, troppi fatti di cronaca che hanno funestato questo 2018, che tra aggressioni e suicidi dimostra ancora una volta le difficile condizioni in cui versa il nostro sistema carcerario, oramai al vicino al collasso e per il quale il carcere di Viterbo purtroppo non fa eccezione, credo che sia necessario che la politica viterbese batta un colpo e si faccia carico a speranza di portare alla ribalta un mondo che viene censurato e dimenticato. Forse hanno ragione le camere penali quando invitano la politica a “meno visite, maggior impegno per la legalità” ma allo stesso tempo i penalisti italiani hanno sempre ribadito che “solo con una classe politica preparata e pronta a sfide anche impopolari, ma profondamente giuste, utili e ormai indispensabili per il nostro paese, l’attività degli stati generali sull’esecuzione penale, troverà concreta applicazione e l’impegno di coloro che vi stanno lavorando non sarà vano”. Ed è per questo che ribadendo la mia disponibilità ad esserci spero che il mio appello non cada nel vuoto e che almeno alcuni dei nostri rappresentanti lo raccolgano. *Consigliere comunale, Capogruppo liste civiche Viva Viterbo e Area Civica Firenze: Grassi (Frs) “condizioni inaccettabili per detenuti con queste temperature” controradio.it, 13 agosto 2018 Il Capogruppo di Firenze riparte a sinistra, Tommaso Grassi, ha sollecitato Comune, Regione e istituzioni a risolvere la situazione del carcere di Sollicciano. “Quest’anno una nuova, e forse ancor peggiore, situazione coinvolge tutte e tutti i detenuti, di ogni sezione: i passeggi, dove alcune ore al giorno potevano uscire, sono stati repentinamente chiusi dopo il crollo in un solo cortile del muro”. “Si tratta di condizioni inaccettabili in un carcere che possa definirsi dignitoso. Non si comprende come mai, ben consapevoli delle temperature a cui le celle, piccole e sovraffollate, possono arrivare a toccare si sia voluto chiudere tutti i passeggi in via precauzionale. Impossibile non supporre - prosegue Grassi - che la permanenza al chiuso di uomini e donne possa avere anche ripercussioni negative sul clima dei rapporti sia di chi è detenuto che verso il personale che ci lavora, sia che questo sia della polizia penitenziaria, che sanitario o educativo. Si tratta quindi di una vera emergenza che non va in alcun modo sottovalutata dalle autorità”. “Chiediamo quindi a Comune, Regione e istituzioni carcerarie - aggiunge Grassi - di attivarsi immediatamente per risolvere la situazione che stanno vivendo uomini e donne, recluse per i loro reati, ma a cui è riconosciuto il diritto di quattro ore al giorno per poter uscire. Al Comune ricordiamo che il carcere è parte del nostro territorio e come tale chi vi è recluso ha diritto all’attenzione dell’amministrazione comunale in questi momenti”. “Non è certo nuovo il problema strutturale al carcere di Sollicciano- conclude Grassi - ma non può neppure essere la scusa per paura di non saper gestire adeguatamente la sorveglianza, che già deve subire una drastica riduzione rispetto all’organico e il cui personale risulta minore nel periodo estivo, per sottrarre un diritto ai detenuti e obbligarli a rimanere nei pochi metri quadrati a disposizione nelle celle con questo caldo torrido”. San Marino: nuovo carcere tra le priorità della Segreteria alla Giustizia di Mauro Torresi smtvsanmarino.sm, 13 agosto 2018 Della realizzazione di una nuova struttura penitenziaria si parla da tempo: da quando a San Marino il numero dei detenuti è cresciuto tanto da rendere sempre più insistente il bisogno di un carcere diverso da quello attuale. Allo stesso tempo, pesano le raccomandazioni degli organismi internazionali relative proprio alla struttura. Così i progetti per la costruzione di un penitenziario sono entrati nel Programma economico 2019, nella sezione dedicata alle priorità della Segreteria di Stato alla Giustizia. In questo momento si è in una fase preliminare del progetto, con il relativo studio di fattibilità, come spiega il segretario di Stato al Territorio, Augusto Michelotti. Ai professionisti sono state date indicazioni di base e linee guida. Gli architetti hanno lavorato a un piano definito “d'eccellenza” che, prevede Michelotti, potrebbe essere ridimensionato. Si dovranno valutare proposte ed esigenze di tipo economico. Una delle aree ipotizzate per i lavori è quella dove ha sede l'Ufficio automezzi, di proprietà dello Stato. Ma nessuna decisione è stata presa, precisa. Oltre alle osservazioni sulla struttura, gli organismi internazionali in passato hanno espresso pareri sul tema del lavoro esterno per i detenuti che è così stato introdotto nel 2017. Con la nuova struttura, si legge nel programma economico, saranno ripensate le professionalità al suo interno, con l'obiettivo di rieducazione e recupero del detenuto. Tra le diverse novità in tema di giustizia, ci sono il progetto di legge in fase di ultimazione sul processo per direttissima, insieme alla futura introduzione nel codice penale della fattispecie della corruzione privata e la pubblicazione on-line delle sentenze del tribunale. Ragusa: Sprigioniamo Sapori, pasticceri fuori dalle carceri di Sarah Putzu ilpuntonews.net, 13 agosto 2018 Sprigionare sapori significa affrancarsi con dolcezza con la natura e con la vita. Vuol dire esplorare la storia di coloro che, con sacrificio e dedizione, creano prodotti di qualità e nel contempo riqualificano il proprio modo di vivere. Questo il punto di partenza di “Sprigioniamo Sapori”, una cooperativa che ha puntato sulla riabilitazione sociale dei detenuti della Casa Circondariale di Ragusa, considerandoli lavoratori e cittadini a tutti gli effetti,in un’attività di pasticceria esclusivamente siciliana. La storia - “Tutto è nato nel 2013 da un progetto di formazione all’interno del carcere - ci racconta Pino Di Grandi, uno dei quattro soci - promosso dal Consorzio La Città Solidale di Ragusa volto a formare i detenuti a mestieri artigianali. Una volta terminato il periodo di formazione non avevamo intenzione di vanificare gli sforzi e il tempo investiti e, quindi, abbiamo pensato di formare una cooperativa per poter proseguire l’attività all’interno delle mura carcerarie e fare impresa”. “Assumiamo i detenuti come lavoratori quindi con una normale retribuzione - sottolinea Pino. Diamo loro l’opportunità di apprendere l’arte della pasticceria fornendo loro le competenze necessarie per ripartire nel mondo del lavoro una volta fuori dal carcere”. Pino e i suoi soci Andrea Iurato, Giuseppe Giampiccolo e Maria Palazzolo, in collaborazione con la Casa Circondariale, hanno organizzato e messo a punto un laboratorio di pasticceria di 100 mq dove vengono lavorati tutti i prodotti creando una vera e propria realtà imprenditoriale. I prodotti di nicchia - A oggi l’impresa presenta un catalogo di ben 26 prodotti dolciari, tutti a base di mandorle, pistacchi e nocciole. Le materie prime vengono selezionate e reperite da produttori locali fidati per garantire la massima qualità. Nascono così svariati torroni, croccanti, e creme spalmabili impreziosite da ricette classiche in una continua evoluzione e per questo riattualizzate. Ne è un esempio il prelibato torrone bianco di pistacchio, arancio e bacche di Goji. L’intento è quello di produrre prodotti di alta qualità certificati da Icea (Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale). I torroni presentano, per esempio, il 70% di frutta secca pertanto si tratta di una referenza che come le altre è buona al palato e al tempo stesso genuina e salutare. Sprigioniamo Sapori commercializza su tutto il territorio nazionale, in particolare nel centro nord, all’interno di botteghe solidali con vendita esclusiva di prodotti di nicchia. Territorio e innovazione - Oltre ai torroni e alle creme di vari gusti, molto particolare la crema spalmabile di carruba, un frutto tipico del territorio. Il 70% del prodotto nazionale viene prodotto proprio in Sicilia, soprattutto nelle aree collinari fino a un’altitudine di 400 metri slm. Si tratta di un frutto tipicamente estivo, che prevede la raccolta tra agosto e settembre a seconda del clima stagionale. “Acquistiamo la farina di carruba - sottolinea Pino - rigorosamente biologica, e la lavoriamo insieme agli elementi essenziali: cioccolato bianco, zucchero di canna e olio di semi di girasole. Il composto viene poi lavorato nelle nostre macchine e centrifugato a temperature massime di 60° fino a ottenere un’eccellente spalmabile dolce”. La prospettiva del futuro - “Tra i progetti futuri, nei prossimi anni vorremmo aggiungere un ulteriore laboratorio al di fuori delle mura carcerarie - conclude Pino. Ciò consentirebbe ai detenuti di continuare l’attività superando le difficoltà di collocazione lavorativa che incontrano una volta tornati alla vita normale. Un modo di assicurare loro una prospettiva di vita dignitosa e, al tempo stesso, far crescere la nostra attività, portandola avanti nel tempo con tutto l’orgoglio di aver contribuito a mettere un tassello in termini di solidarietà e promozione del territorio”. Ferrara: ultimi 15 giorni per iscriversi a lista partecipazione di “Ascesa e caduta degli Ubu” Ristretti Orizzonti, 13 agosto 2018 Nell’ambito del programma ufficiale del festival Internazionale a Ferrara, presso la Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara. Il 6 ottobre alle ore 20:30 la compagnia dei detenuti attori dopo l'esperienza fatta al Teatro Comunale di Ferrara, si presenterà nella sala che ospita le prove durante il corso dell'intero anno. Nuovi attori, una scenografia tagliata su misura, nello spettacolo vi sono aumentate consapevolezze, grazie alle osservazioni introiettate dopo l'ultima replica. Giocato in casa questa volta, propone un rapporto più stretto con lo spettatore, ritagliando all'interno dell'istituto di pena una stanza che per un'ora vivrà in un altro tempo ed in un altro spazio. Alfred Jarry a cavallo tra due secoli rifiuta la retorica parolaia della scena del suo tempo e recupera i saperi e i sapori della Commedia dell’Arte. Tutt’altro che superficiale concede allo spettatore di vedere come mostri grotteschi sovrani e tiranni di ogni specie. Ne inventa il lessico e le movenze. Ne riconosce i vizi principali senza scadere nella banalità. Ne riconosce le virtù alle quali hanno rinunciato con disarmante leggerezza. Esilarante e caustico allo stesso tempo. Le logiche che portano ad un colpo di stato, ad una truffa o ad una rapina sono sempre somiglianti dacché l’umanità esiste in quanto entità organizzata. Il principio è semplice: comincia ad invidiare. Coltiva l’invidia ed identifica il nemico, poco importa se vi è della stima reciproca. Trova un alleato, fatti aiutare e sbarazzatene una volta che hai raggiunto ciò che volevi. Uno spettacolo che l’umanità mette in scena quotidianamente, ai quattro angoli del globo. Di quanto avviene all’interno delle mura delle carceri sappiamo poco. Per larga parte della società libera, il carcere rappresenta semplicemente un deterrente. In pochi vedono la finalità trattamentale di questo luogo, le opportunità che può offrire a chi vi è destinato. In condizione ristretta si trovano anche persone dalle potenzialità inespresse, abilità e sensibilità che per ragioni sovente del tutto fortuite non sono riuscite ad esprimersi a pieno. Concedersi di percepire il detenuto in questa maniera significa per la società iniziare a riappropriarsi di risorse umane utili per il suo funzionamento. Il benessere dei detenuti serve anche a chi sta fuori. Il presente progetto si inserisce nel più ampio Stanze di Teatro Carcere 2018 del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, l’associazione che riunisce le realtà che operano in carcere con progetti teatrali a Forlì, Parma, Modena, Castelfranco, Reggio Emilia, Ravenna, Ferrara e Bologna, nell’ambito di un Protocollo d’intesa con la Regione Emilia, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziarie e il Centro Giustizia Minorile Emilia Romagna e Marche. Le attività sono sostenute dalla Regione Emilia Romagna, dal Comune di Ferrara, e dal programma europeo Erasmus+. Per accedere è necessario inviare una e-mail all’indirizzo: teatroccferrara@gmail.com. Entro e non oltre il 5 settembre, indicando: cognome, nome, data e luogo di nascita, numero di documento e allegando scansione del documento d’identità. La comunicazione di avvenuta autorizzazione verrà data entro l’1 ottobre. Posto unico: 10 €. Biglietti disponibili da lunedì 1 ottobre, per coloro che sono autorizzati, presso il botteghino del Teatro Nucleo, via Ricostruzione 40, Pontelagoscuro - Ferrara nei seguenti orari: lun-ven 8-12 sab 9-13 15-19. Maggiori informazioni su teatronucleo.org. Da Saviano al medico di Pozzallo: Legambiente premia i difensori della legalità di Giorgia Pacino La Repubblica, 13 agosto 2018 Il riconoscimento è andato ad amministratori, giornalisti, rappresentanti delle forze dell'ordine, magistrati e cooperative. Lo scrittore: “Come un abbraccio, in questa fase in cui ricevo sputi e fango”. Un riconoscimento speciale “per l'impegno costante e concreto nella denuncia delle mafie”. Roberto Saviano è fra i vincitori di “Ambiente e Legalità”, il premio organizzato da Legambiente giunto alla trentesima edizione. La manifestazione Festambiente, in corso a Ripescia (Grosseto), è dedicata ai “difensori della legalità contro l'ecomafia e la criminalità organizzata”. “Ricevere questo premio - ha detto lo scrittore in un videomessaggio - significa ricevere un abbraccio in una fase dove ricevi sputi, balle, fake news, fango perché smonti la propaganda sui migranti, perché smonti la propaganda di questo governo che a costo zero può solo manomettere i diritti e trovare bersagli”. Lo scrittore è stato di recente bersaglio degli attacchi del ministro dell'Interno Matteo Salvini, che lo ha anche querelato su carta intestata del Viminale. Legambiente ha voluto premiare “l'impegno costante e concreto, attraverso le sue opere e la sua testimonianza di scrittore, nel denunciare le mafie, la loro pericolosità per l'ambiente e la vita civile e per la costante difesa dei diritti dei più deboli quale vero antidoto alle mafie, alla corruzione e alle dinamiche distruttive della democrazia”, si legge nella motivazione. “Non è da poco ricevere un premio - continua Saviano - non è da poco sentire che esiste ancora in qualche modo una comunità pronta a ascoltare, diffondere, approfondire. Ecco questa è la parola che vale la pena ripetere in un contesto importante come quello di Festambiente”. Per Saviano oggi, più che mai, è importante “avere la coscienza di essere diversi e in questa diversità riuscire a ritrovare una comunità resistente. Ecco in qualche modo noi siamo sulla strada giusta se ci siamo incontrati”. Lo scrittore ha ringraziato Festambiente anche sulla sua pagina Facebook. “Non un passo indietro, se non per prendere la rincorsa”, scrive sul social network. Tra i premiati, c'è anche il medico marittimo del porto di Pozzallo, Vincenzo Morello, per “lo straordinario lavoro di soccorso a decine di migliaia di migranti giunti attraverso il mar Mediterraneo, un gesto concreto di ecologia sociale, approccio indispensabile per affrontare le sfide globali che vedono parimenti vittime, uomini e ambiente”. Un riconoscimento a sorpresa per Morello, “che non credo di meritare io personalmente perché in tanti avrebbero agito come e meglio di me e in tanti lo fanno. Ne sono onorato, io svolgo un lavoro ordinario, nulla di straordinario, mi auguro possa servire a sensibilizzare sul problema”. L'arrivo dei migranti è una costante nel lavoro di Morello, così come il cambio delle rotte con gli ultimi arrivi dalla Turchia a bordo di barche a vela. “C'è un popolo che si muove per disperazione. Spero che ci sia attenzione sulle problematiche che affrontiamo e su cosa accade in mare e lo dico da testimone: davanti ai miei occhi ho gli abbracci dei bambini, la felicità della salvezza, ma c'è anche tanto dolore”. Il riconoscimento è andato, tra gli altri, alla Dia di Catania per inchiesta 'Garbage affair', operazione su corruzione di imprenditori e funzionari pubblici coinvolti in un'inchiesta su appalti nel settore dei rifiuti, al sostituto procuratore di Udine Viviana del Tedesco, per un'inchiesta sull'uso illecito di pesticidi neonicotinoidi nelle campagne locali, e a Giovanni Bombardieri della procura di Reggio Calabria per l'inchiesta 'Free wildlifè sull'uccisione e la cattura dei piccoli passeriformi. Premiati anche la giornalista Marilù Mastrogiovanni, che dal 2007 vive sotto protezione per le inchieste sulle infiltrazioni mafiose nei comuni salentini, i giornalisti di Fanpage.it per l'inchiesta “Bloody money” su affari, politica, rifiuti e tangenti. Eancora premiati anche il presidente dell'Ente parco nazionale dell'Aspromonte Giuseppe Bombino, per l'attiva difesa dell'area protetta, il sindaco di Altavilla Milicia (Palermo) Giuseppe Virga, per aver portato avanti l'abbattimento di villette abusive sulla spiaggia comunale, e al Consorzio Macramé. Riconoscimenti anche ai carabinieri di Milano per un'inchiesta sul traffico di rifiuti provenienti dalla Campania, ai carabinieri di Palermo per l'inchiesta “Demetra” sul traffico di beni archeologici siciliani, ai carabinieri forestali di Livorno per l'inchiesta “Dangerous trash” e al comandante della stazione dei carabinieri forestali di Cotronei (Crotone) Salvatore Salerno. Premiate anche la guardia di finanza di Lucca per l'inchiesta “Ghost tender” e la Capitaneria di porto di Civitavecchia. “Nessuno soccorre i migranti”, ricomincia l’odissea dell’Aquarius di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 agosto 2018 La nave di Msf salva 141 persone. La Libia non indica un porto sicuro, Italia e Malta dicono no. La denuncia: “I profughi erano alla deriva e cinque mercantili hanno fatto finta di niente”. Nel Mediterraneo qualcosa è cambiato: scomparsi i gommoni, tanti barchini stracarichi di migranti, abbandonati in mare alcuni senza motore, con le navi di passaggio che ignorano le richieste di aiuto e i libici che coordinano i soccorsi ma non assegnano un porto di sbarco. È l’ultima fotografia scattata dalla Aquarius che, dopo tre soccorsi eseguiti in coordinamento con Tripoli, si è sentita rispondere: “Il porto di sbarco chiedetelo ad altri”. Hanno risposto alle loro comunicazioni, hanno persino chiesto loro di effettuare un terzo soccorso (10 persone a bordo di un piccolo barchino dopo i 141 già salvati venerdì su due diverse imbarcazioni), ma il “ porto sicuro” quello non glielo hanno dato. “Chiedetelo ad un altro Mrcc”, hanno ordinato i libici. E, dalla Aquarius, non se lo sono fatti ripetere due volte perché comunque non avrebbero mai riportato nell’inferno libico quei migranti presi a bordo dopo che almeno cinque navi passate vicino avevano ignorato la loro richiesta di soccorso per evitare guai. “Abbiamo incrociato altre imbarcazioni prima, chiedevamo aiuto, ma nessuna si è fermata ad aiutarci”, le drammatiche testimonianze dei migranti alcuni dei quali in mare da 36 ore su una bagnarola senza motore. Dunque prua verso nord e immediata richiesta alle sale operative di Malta e Italia di offrire un porto sicuro. Con altrettanto immediato diniego da La Valletta e con il silenzio di Roma facilmente interpretabile con un altro no visto che già sabato il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva ribadito che per la nave umanitaria di Sos Mediterranée e Msf i porti italiani restano chiusi. La missione di agosto della Aquarius rischia dunque di trasformarsi in una nuova odissea se l’Europa non risponderà in tempi rapidi alla richiesta di indicare un porto sicuro dove sbarcare i 141migranti a bordo, metà dei quali sono minori. Con una novità che aumenta, se possibile, le perplessità sull’idoneità della Libia a coordinare operazioni di soccorso nelle acque di sua competenza senza poi indicare, come prevedono le norme, anche il porto di sbarco. Ma soprattutto l’allarme che arriva dalla Aquarius è quello di un Mediterraneo dove i gommoni mezzi sgonfi sembrano aver di nuovo lasciato spazio a barchini e barconi in legno che le navi di passaggio, per evitare giorni e giorni di prevedibile stand by con i migranti a bordo, fanno finta di non vedere. “È gravissimo, ma le navi potrebbero non essere disposte a rispondere a chi è in difficoltà per l’alto rischio di rimanere bloccate e di non vedersi assegnare un porto di sbarco”, dice Aloys Vimard, coordinatore di Msf a bordo. Sette su dieci dei migranti soccorsi sono eritrei, dei 116 a bordo di un barcone sovraffollato ben 67 sono minori non accompagnati. Nessun caso grave, ma quasi tutti sono denutriti e portano addosso i segni della detenzione in Libia, anche una giovane donna con la sua bimba di dieci mesi che è diventata la mascotte di bordo. “Abbiamo seguito le istruzioni del centro di coordinamento libico e abbiamo contattato altri centri per un porto sicuro dove sbarcare - dice Nick Romaniuk, coordinatore di Sos Mediterranée - ciò che è di massima importanza è che i superstiti siano portati senza ritardi in un luogo sicuro dove possano essere protetti dagli abusi. I governi europei hanno fatto tutto il possibile per sostenere la Libia, ma gli eventi mostrano che non hanno assolutamente la capacità di coordinare un salvataggio. Non ci hanno informato delle imbarcazioni in pericolo di cui erano a conoscenza nonostante noi fossimo nelle vicinanze. Se non avessimo avvistato noi stessi queste barche in pericolo non so che fine avrebbero fatto queste persone”. Migranti. Ad Alessandria protestano contro l’associazione che li ospita di Massimo Mathis La Stampa, 13 agosto 2018 Il presidente minaccia la giornalista dopo l’articolo che racconta la denuncia dei richiedenti asilo. Urlavano: “We are desperate, we are desperate”. Siamo disperati. Indossavano scarpe rotte, magliette rimediate dalla spazzatura, più che rabbiosi sembravano esausti, stremati. In un inglese stentato, hanno provato a farsi capire, a chiedere aiuto. Dimenticate Lampedusa: Prince, Zakaria, Bernard e gli altri tre immigrati, che l’altra mattina si sono presentati davanti agli uffici della prefettura di via Piacenza, sono sei degli oltre millecinquecento richiedenti asilo inseriti nei centri di accoglienza attivati in 63 Comuni della provincia di Alessandria, 32 gestori e oltre duecento strutture fra cui molti appartamenti, sparsi un po’ dappertutto. Uno schema morbido di accoglienza diffusa, disegnato dall’ex prefetto Romilda Tafuri (dopo sei anni in Piemonte, è alla guida della prefettura di Cagliari). Un sistema che finora ha permesso di “assorbire” senza traumi un fenomeno in crescita. Nel 2016 i richiedenti asilo erano 1102, oggi sono 1536. Sono aumentati, ma il saldo è quasi impercettibile perché il modello applicato qui funziona. “Per favorire il processo di integrazione - spiegano dalla prefettura, dove da pochi giorni nell’ufficio della Tafuri siede Antonio Apruzzese, i migranti sono ospitati in strutture di piccole o medie dimensioni, da appartamenti a comunità da 10-40 posti, e una sola struttura con un centinaio di ospiti”. L’altra mattina, questi sei ragazzi sono arrivati da Masio a cercare lo Stato qui nel capoluogo. L’hanno già fatto in passato, almeno altre sei volte dicono, vengono sempre a piedi o in bicicletta, se va bene al ritorno rimediano un passaggio. Diciotto chilometri sotto il sole padano sono una passeggiata per chi è scappato da Senegal, Nigeria, Mali. Hanno modi educati, ma risoluti. Vogliono spiegare che dopo quella fuga tormentata dall’Africa, l’approdo in Sicilia e l’arrivo nel ricco Nord, l’accoglienza italiana se la immaginavano diversa. Non il grand hotel certo, ma nemmeno la fame. Il frigorifero spesso vuoto, niente da mettersi addosso, poco da mangiare. Ai funzionari hanno raccontato di essere ospiti dell’associazione La Casa di Elisa. E riferito di pranzi e cene che saltano, di una dispensa spesso vuota e di cure che mancano, insieme ai soldi del loro “pocket money”. Pochi spiccioli, 2 euro e 50 al giorno dei 35 che incassa la struttura per ognuno di loro, ma a cui hanno diritto e che non sempre ricevono. Dall’inizio dell’estate, pare che la situazione sia cambiata, in peggio. La loro resta l’unica versione della storia, i responsabili della struttura preferiscono non fornirne altre. Poi, Giorgio Isidoris, presidente dell’associazione La Casa di Elisa - ospita 11 persone a Masio, 10 a Conzano e 12 a San Germano di Casale, contatta la giornalista che ha firmato il servizio su La Stampa e la minaccia: “Ti sei messa in un vespaio, ora diventa una cosa tra te e me”. Un chiaro atteggiamento intimidatorio, ribadito in una seconda telefonata e riportato nel verbale di una denuncia presentata ai carabinieri. Non è la prima: Isidoris è stato citato, in questura, anche dagli ospiti di Masio. Loro, i ragazzi, continuano ad aver paura. Riferiscono di prevaricazioni e dispotici tentativi di fermarli quando provano a dire basta, come l’altra mattina, e cercare qualcuno che li ascolti. Sull’ente vigilano le autorità, ma è la prassi. Negli ultimi mesi, l’associazione ha subìto sanzioni per inadempienze nel servizio o la mancata frequentazione ai corsi di alfabetizzazione da parte dei ragazzi delle comunità di Masio e Casale. Cose che succedono e che forse poco hanno a che fare con il clima che si respira là dentro. Alcune “penali” hanno riguardato le condizioni dello stabile, altre probabilmente sono in arrivo. Migranti. Poche espulsioni e detenzioni lampo, così in Spagna va in crisi l'accoglienza di Francesco Olivo La Stampa, 13 agosto 2018 Centri stracolmi dopo gli sbarchi degli ultimi mesi. L'anomalia di Ceuta e Melilla: illegali i rimpatri immediati. “Grazie a Dio siamo in Spagna”. I soccorritori lo raccontano spesso: quando i migranti scoprono di essere sbarcati nella penisola iberica si lasciano andare a grida di gioia. Per la fine di un viaggio drammatico, certo, ma anche per il luogo d'approdo, considerato più ospitale. La Spagna, infatti, ha un sistema garantista, con un problema strutturale (mancano i fondi) e due anomalie mai sanate: la gestione dei minori e la normativa a parte delle due enclave nel Nord del Marocco, Ceuta e Melilla, dove vige un sistema molto più rigido. Gli arrivi degli ultimi mesi stanno mandando al collasso i centri di accoglienza del Sud, specie nella provincia di Cadice, dove sono stati allestiti accampamenti di fortuna. Tanto che il governo socialista ha dovuto ammettere quello che aveva negato per settimane: “Siamo in emergenza”. Liberi di circolare - Gli ultimi dati completi sono quelli del 2017, raccolti dal Difensore del Popolo, una sorta di garante indipendente che vigila sull'attività del governo: dei 27.614 sorpresi ad attraversare la frontiera illegalmente, quasi tutti via mare, circa 20 mila hanno ricevuto un ordine di espulsione, ma solo 5.272 sono stati quelli effettivamente allontanati dal Paese (il 18% del totale). Anche la Spagna ha i suoi Cie, i quali però sono spesso stracolmi, così, il più delle volte si lasciano liberi di circolare i migranti in sovrannumero: solo il 34% degli stranieri sbarcati sulle coste ha trascorso un periodo nel centro di internamento, per un massimo di due mesi. Una volta arrivati sul suolo spagnolo, i migranti intercettati sono fermati dalla polizia per una durata limite di 72 ore e in seguito messi a disposizione di un giudice che valuta la singola situazione e poi decide: o reclusione in un Cie o la libertà. Come funziona nelle enclave Un discorso a parte, come detto, va fatto per Ceuta e Melilla. Chi entra (e non è facile) nelle enclave nel Nord Africa, circondate da alte reti con il filo spinato, può infatti essere immediatamente rimandato al di là del confine, senza nemmeno essere identificato. La procedura delle “restituzioni a caldo” (“devoluciones en caliente”), in vigore dal 2005, è possibile grazie a un accordo con il Marocco ed è da anni al centro di forti polemiche, culminate in una sentenza del Tribunale europeo dei Diritti Umani di Strasburgo che ha condannato la Spagna a risarcire i migranti colpiti dalla misura con 5000 euro. Chi non viene espulso immediatamente finisce nei Ceti, centri di identificazione più rigidi dei Cie, visto che di fatto i migranti non possono mai uscire. Il governo socialista finora ha agito con grande prudenza sul tema di Ceuta e Melilla: ha confermato il ricorso contro la condanna di Strasburgo, ma ha annunciato la volontà di togliere il filo spinato dalle reti di protezione del confine, una promessa che ha generato molto malumore nelle forze di polizia e, pare, nelle autorità marocchine. L'Andalusia protesta - L'escalation degli sbarchi degli ultimi due mesi inizia a provocare problemi territoriali. Praticamente tutte le barche arrivano in Andalusia, con la sua lunga costa affacciata di fronte al Marocco, da Malaga fino a Cadice, così il sistema d'accoglienza della regione è andata presto in tilt. La potente presidente andalusa, Susana Diaz, socialista, ma rivale interna di Sanchez, se la prende con il governo: “I migranti devono essere distribuiti equamente in tutte le regioni”. A differenza di quanto avvenuto in Italia, nessun amministratore locale, almeno esplicitamente, ha rifiutato l'arrivo dei profughi, anzi la vicenda dell'Aquarius vide una competizione tra alcune città per aprire il proprio porto alla nave respinta dall'Italia e da Malta. Alla polemica di Siviglia si deve aggiungere un'altra spina nel fianco del governo: il Partito Popolare e Ciudadanos stanno rompendo il tabù, che ha visto per anni l'immigrazione tenuta fuori dal dibattito politico. Sia pure in forma molto più blanda rispetto ai movimenti populisti europei, i due partiti stanno criticando Sanchez per la gestione migratoria, “non c'è posto per tutti”, ha detto il neo leader del Pp Pablo Casado. Per ora, però, i socialisti non se ne preoccupano e si godono gli effetti dell'anomalia spagnola: l'approccio soft sull'accoglienza ha fatto tornare il Psoe il primo partito spagnolo dopo un decennio. In Libia serve un’intesa tra italiani e francesi di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 13 agosto 2018 Occorrono sforzi accorti per favorire la riconciliazione. Le milizie che si contendono il potere a Tripoli influenzano in via indiretta il governo di al Serraj. È possibile che non sia passeggera la condizione di anarco-oligarchia nella quale si trova la Libia, da ormai sette anni terra nelle mani di potentati armati e priva di legge applicata in modo uniforme sull’intero territorio. Vasto sei volte l’Italia e abitato da poco più di sei milioni e mezzo di persone, questo Paese non era dotato di uno Stato vero e proprio neppure sotto il polso fermo della dittatura di Muhammar el Gheddafi. È possibile tuttavia che in questi mesi più fattori spingano verso una ridefinizione degli attuali equilibri, precari e incerti ma da qualche anno contraddistinti da un’instabilità tanto febbrile quanto ordinaria, al punto di determinare una forma di sua continuità dell’era post-Gheddafi. Il generale Khalifa Haftar, che controlla la Cirenaica e si contrappone al Consiglio presidenziale guidato a Tripoli da Fayez al Sarraj, ha definito sabato “persona non gradita ai libici” l’ambasciatore d’Italia Giuseppe Perrone. L’avvertimento ha preso a pretesto un’intervista nella quale il diplomatico osservava che sarebbe meglio convocare le prossime elezioni libiche dopo aver definito il quadro costituzionale dei futuri poteri nazionali, non prima. Haftar l’ha giudicata una “interferenza”. Nel giudizio si intravede una divergenza con l’Italia che non coinvolge soltanto lui e va oltre i limiti geografici del Maghreb. È stata la conferenza internazionale del 29 maggio scorso a Parigi, voluta da Emmanuel Macron, a indicare come possibile data per le elezioni presidenziali e parlamentari in Libia il prossimo 10 dicembre. Quella riunione ha inquietato varie delle milizie attive in Tripolitania. Nelle settimane scorse il governo italiano ha riservato ad Haftar segnali di attenzione: il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha affermato che ha intenzione di andarlo a trovare in Cirenaica, il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini si è detto disponibile a incontrarlo. Haftar è appoggiato da Egitto e Russia. Salvini è stato a Mosca e al Cairo. Per annunciare il futuro viaggio Moavero ha parlato dal Cairo. Ma Haftar ha come sponda anche Parigi. E il governo di Giuseppe Conte, con l’obiettivo di non perdere influenza a vantaggio della Francia, prepara per novembre in Italia un’altra conferenza internazionale sulla Libia. Il generale che un tempo lavorava per Gheddafi, come del resto Sarraj, può avere interesse a far votare presto i libici per tornare a Tripoli e dominarla sbarazzandosi del Consiglio presidenziale, sostenuto dall’Onu e nato nel 2015 su spinta italiana. Che in molte zone del Paese manchi sicurezza dal suo punto di vista conta poco. E non è detto che una Costituzione lo avvantaggerebbe. Un successo di Haftar permetterebbe alla Francia di ridurre l’influenza in Libia riguadagnata dall’Italia almeno da quando Enrico Mattei, estraendo petrolio e pagandolo agli arabi più dei concorrenti occidentali, consolidò il nostro ruolo in Africa e Medio Oriente dopo la fine del colonialismo. Nello sconsigliare elezioni secondo le indicazioni della conferenza di maggio, Salvini è stato non meno esplicito di Perrone: “Se a Parigi hanno fissato una data elettorale per dicembre senza sapere se a dicembre la Libia sarà pronta per votare, hanno fatto un passo troppo veloce dal nostro punto di vista”, ha dichiarato. Facile intuire qual è la principale posta in gioco. La Libia è il nono Paese al mondo per riserve di petrolio, il ventiduesimo per quelle di gas. I proventi del greggio vengono redistribuiti tra libici dalla banca centrale che fa capo a Tripoli. Insoddisfatto dalla quota riservata alla Cirenaica, Haftar in giugno ha bloccato quattro terminal petroliferi della Libia orientale, facendo crollare di oltre la metà la produzione nazionale. Pressioni di Stati Uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna lo hanno convinto a rinunciare al blocco, non all’ambizione di ottenere più danaro di quanto la sua regione ne riceve. Occorrono sforzi accorti per favorire la riconciliazione tra i libici. Le quattro milizie che si contendono il potere a Tripoli influenzano in via indiretta l’embrione di governo guidato da al Serraj. Altre decine di bande armate, se non centinaia, controllano il resto del Paese. Con realismo, la comunità internazionale dovrebbe contribuire a isolare le fazioni più estreme e offrire ai potentati modi legali di procurarsi danaro in cambio di un disarmo delle milizie e di progressi nella riconciliazione nazionale. È dannoso che Italia e Francia non riescano a definire una strategia comune. Motivo in più per misurare i passi. A cominciare dall’evitare un errore: non far trattare con i libici troppe voci a nome dell’Italia. A Tripoli sono stati finora Salvini, Moavero e la ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Si eviti di strafare: in Libia non sfugge che il governo Conte teme riprese degli sbarchi di migranti e profughi, diminuiti da quando l’ex titolare del Viminale Marco Minniti negoziò con tribù e milizie. Minniti ottenne risultati grazie alla sua esperienza di ex autorità delegata sui servizi segreti. Adesso è il caso che la regia rimanga alla Farnesina e che le voci italiane non siano dissonanti. Altrimenti qualcuno avrà più servizi nei telegiornali. Ma a Tripoli il prezzo della collaborazione salirà. Romania. Le proteste contro la corruzione continuano di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 13 agosto 2018 Governo sotto pressione. Polizia travolta dalle polemiche per gli scontri di venerdì notte con il bilancio di oltre 400 feriti. Ma la piazza torna a riempirsi contro la corruzione. Bucarest si è risvegliata confusa dopo una giornata di proteste per dire basta alla corruzione. Il presidente romeno Klaus Iohannis è stato uno dei primi a reagire: “Condanno con fermezza l’intervento brutale della polizia e l’uso sproporzionato della forza nei confronti della maggioranza dei manifestanti in piazza”. “Il ministero dell’Interno è chiamato a spiegare urgentemente il modo in cui è stata gestita la situazione”, ha poi aggiunto l’ex-sindaco di Sibiu, nonché esponente del Partito Nazionale Liberale (Pnl). Nell’ultimo periodo Iohannis è stato costretto a una difficile coabitazione con il governo del Partito Social Democratico (Psd) della prima ministra Viorica Dancila. La Jandarmeria, la polizia militare romena, è sotto accusa per le violenze di venerdì sera nella capitale che restituiscono un bilancio di oltre 400 feriti. Non si sono invece registrati episodi di tensione nelle altre città: Cluj-Napoca, Galati, Iasi e Timisoara, quest’ultima epicentro di quella rivoluzione del 1989 che portò alla caduta del regime di Nicolae Ceausescu. Secondo gli organizzatori venerdì sono scese in piazza quasi centomila persone in tutto il paese, soprattutto romeni della diaspora. Ma la protesta non si ferma, anche ieri sera una folla numerosa è tornata a radunarsi davanti al palazzo del governo. A far precipitare ancora di più la situazione di venerdì, l’inatteso sgombero di piazza Victoria cominciato alle undici di sera, a pochi passi dall’omonimo palazzo sede del gabinetto di Dancila. Le forze dell’ordine hanno evacuato la piazza a colpi di cannone ad acqua. L’uso di gas lacrimogeni non ha fatto altro che aumentare il caos tra le decine di migliaia di romeni residenti all’estero accorsi a Bucarest per la manifestazione. Sono stati loro i protagonisti indiscussi della mobilitazione. “È stata una protesta piena di emozioni forti ma pacifica. L’evacuazione forzata della piazza non era assolutamente necessaria e ha fatto crescere la rabbia dei manifestanti. Speriamo soltanto che la situazione non degeneri nei prossimi giorni”, racconta Andreea, una esponente della diaspora romena che ha lasciato il suo paese 7 anni fa. I canali vicini al governo del Psd come Antena 3 e Romania tv hanno preferito mostrare le immagini di una poliziotta in assetto antisommossa circondata e pestata da alcuni teppisti. Le altre reti invece hanno scelto di dare rilievo alle manganellate distribuite alla rinfusa dalla jandarmeria. Nel pomeriggio di ieri la ministra dell’Interno Carmen Dan ha negato ogni coinvolgimento del suo dicastero nella decisione di sgomberare piazza Victoria, scaricando così la responsabilità sul prefetto. “Quello che è successo l’altra notte resta grave ma non possiamo accusare la jandarmeria che ha applicato la legge”, ha spiegato all’Agerpres, la principale agenzia di stampa romena. Dan si è anche affrettata a chiarire che il numero uno del Psd e presidente della camera bassa, Liviu Dragnea, non ha avuto alcuna influenza nella gestione della situazione. Ma secondo molti analisti, Dragnea resta l’eminenza grigia della maggioranza e il burattinaio che muove i fili del paese, nonostante la condanna per reato di frode elettorale che lo rende ormai inadatto a ricoprire altre cariche politiche. Mai come ora i cittadini romeni sono consapevoli che sarà difficile fare piazza pulita della corruzione. Un sentimento accresciuto dalla recente rimozione di Laura Kovesi dalla Direzione Nazionale Anti-Corruzione (Dna), una decisione confermata il mese scorso dallo stesso Iohannis in seguito ad una sentenza della Corte Costituzionale. Difficile prevedere se le proteste possano portare ad elezioni anticipate, obiettivo dichiarato dei manifestanti. Ma la società civile ha ancora dei buoni motivi per sperare: le spettacolari proteste invernali del 2017 avevano costretto il Psd a rinunciare a un provvedimento che mirava a depenalizzare alcuni reati di corruzione, a tutto vantaggio dei politici locali. Nonostante il forte impegno della Dna durante il mandato di Kovesi, la trasparenza politica resta ancora un miraggio a Bucarest: secondo i dati raccolti da Rand Europa su incarico del Parlamento europeo la Romania è infatti il paese più corrotto in Europa. Egitto. Due processi contro Amal, per intimidire chi si occupa di diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 agosto 2018 L'altro ieri, sabato 11, presso il tribunale per i crimini minori di Maadi (a sud del Cairo, la capitale egiziana) si è svolta la prima udienza del processo del cosiddetto “caso 7991” a carico di Amal Fathy, attivista per i diritti umani di lunga data. Il processo, riguardante contenuti e commenti di un video pubblicato su Facebook, è stato rinviato all’8 settembre. Nel video, per il quale è stata arrestata la notte tra il 10 e l’11 maggio, Amal denunciava la diffusione delle molestie sessuali in Egitto e criticava l’incapacità del governo di proteggere le donne. Nei 12 minuti della sua durata, non c’è la minima apologia della violenza né istigazione a compiere atti violenti. Un secondo processo a carico di Amal, per il “caso 621”, si apre domani, lunedì 13, di fronte al tribunale per la sicurezza dello stato di Maadi. Le accuse sono di “adesione a un gruppo terrorista”, “diffusione di notizie false e dicerie per danneggiare la sicurezza pubblica e gli interessi nazionali” e “uso di Internet per istigare a compiere atti di terrorismo”. Le autorità egiziane da tempo usano queste accuse contro le voci critiche e i giornalisti nel tentativo di ridurli al silenzio. Non è mai cortese identificare una persona come “la moglie di”. Ma questo è il caso. Amal è la moglie di Mohamed Lofty, già ricercatore di Amnesty International e attualmente direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’organizzazione per i diritti umani che fornisce consulenza legale alla famiglia Regeni e che per questo ha subito intimidazioni e arresti di suoi esponenti. La notte tra il 10 e l’11 maggio, infatti, vennero arrestati insieme ad Amal anche Mohamed e il loro bambino di tre anni, poi rilasciati perché in possesso di cittadinanza svizzera. Secondo Amnesty International, Amal è una prigioniera di coscienza. Le accuse nei suoi confronti sono ridicole e infondate. I tre mesi di detenzione preventiva e i due processi contro di lei rappresentano un ulteriore tentativo di colpire un’attivista ma anche, attraverso di lei, coloro che in Egitto cercano di contribuire al raggiungimento della verità per Giulio Regeni. In Italia proseguono le iniziative di solidarietà per Amal e gli appelli per chiedere al governo egiziano la sua scarcerazione. Nicaragua. Manifestazioni per libertà detenuti politici Reuters, 13 agosto 2018 Migliaia di nicaraguensi, appartenenti a movimenti della società civile e alla chiesa cattolica, hanno marciato ieri pomeriggio a Managua e in altre città del Nicaragua per sollecitare la libertà “dei nostri prigionieri politici”. Oltre che nella capitale, i militanti, caratterizzati dai colori bianco e azzurro della bandiera nazionale, sono scesi in strada esigendo la liberazione degli oppositori in carcere e gridando slogan antigovernativi anche a León, Estelí, Matagalpa e Bluefields. Secondo i dimostranti il governo del presidente Daniel Ortega ha incarcerato fra 140 e 200 persone per reprimere le proteste degli ultimi mesi. Si tratta per lo più di giovani che hanno apertamente manifestato contro il “regime” nicaraguense del presidente Daniel Ortega e della moglie Rosario Murillo. Si tratta, ha dichiarato Sandra Ramos, avvocato e membro della “Alianza Civica por la Justicia y la Democracia”, “di una marcia in cui abbiamo voluto alzare la voce a sostegno dei nostri prigionieri politici, incarcerati ingiustamente in base a processo inventati e prove prefabbricate”. La principale manifestazione di Managua è partita all'inizio del pomeriggio dalla rotonda Jean Paul Genie ed ha attraversato, senza che si registrassero incidenti, il centro cittadino per raggiungere il punto di arrivo fissato sulla rotonda Rubén Darío. Qui i partecipanti, prima di allontanarsi, hanno intonato insieme l'inno nazionale. Il Dialogo nazionale con la chiesa e le forze sociali e politiche nicaraguensi, con cui si è cercato di trovare una soluzione alla crisi, è sospeso dal 16 giugno. Ortega, fortemente criticato a livello internazionale oltre che interno, cerca di riproporlo in altri termini, col proposito di ridimensionare in esso il ruolo della chiesa e coinvolgere l'Onu ed altri organismi internazionali.