Emergenza suicidi in carcere, l’ispezione annunciata e quella necessaria di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 12 agosto 2018 Dopo la denuncia del Garante nazionale delle persone private della libertà il ministro della Giustizia e il capo dell’amministrazione penitenziaria hanno annunciato un’ispezione che faccia luce sui 35 suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. I suicidi in carcere non vanno genericamente strumentalizzati. Sarebbe ingiusto nei confronti di chi fa una scelta così tragica e di chi lavora in prigione. Una persona in carcere è nelle mani dei suoi custodi legali. Non perde però la sua libertà interiore. Molto spesso accade che dopo un suicidio parta la caccia ingiusta al responsabile, spesso identificato nel poliziotto di sezione. Nelle carceri la prevenzione dei suicidi è spesso intesa in senso meccanico. Una volta identificata la persona a rischio le si toglie, non l’intenzione, ma ogni oggetto con cui possa ammazzarsi: lenzuola, asciugamani, cinture. Capita che si lasci quella persona semi-nuda o semi-vestita in cella. Il controllo visivo viene reso asfissiante. Tutto questo accade perché le inchieste giudiziarie sui suicidi sono sempre state dirette a identificare i responsabili del mancato controllo piuttosto che le cause più profonde dello stesso, così alimentando un circolo vizioso che rende la vita del detenuto ancora più difficile. I suicidi in carcere vanno indagati sempre a livello amministrativo, oltre che giudiziario. Un’indagine non formale che ad esempio accerti se il detenuto ritenuto a rischio di suicidio sia stato ascoltato, sia stato trattato non come un numero, ma come una persona, con un nome, un cognome, una biografia. In carcere operano direttori, poliziotti penitenziari, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, cappellani e tante altre figure, alcune delle quali a titolo volontario. Molti di loro fanno un lavoro straordinario di prevenzione quotidiana. Lo fanno nonostante turni massacranti. Un direttore spesso non è nelle condizioni di conoscere i detenuti che deve custodire in quanto è costretto a dirigere a volte anche due-tre istituti. Da oltre vent’anni non si assumono nuovi funzionari. Così il sistema, invecchiato e in burn-out, muore insieme ai detenuti che si tolgono la vita. Sarebbe importante che l’inchiesta ministeriale evidenzi se vi sono state concause, oltre alla disperazione individuale: se la persona suicidatasi era stata ascoltata da esperti psicologi o educatori; quale fosse l’origine del suo disagio; se aveva già tentato di farsi del male; se aveva subito rapporti disciplinari; se era stata punita, messa in isolamento o in qualche reparto particolare; se aveva denunciato episodi di sopraffazione o violenza nei suoi confronti o di altri compagni; se ci sono stati più suicidi in quello stesso carcere (come avvenuto a Napoli Poggioreale o a Viterbo). È meno importante verificare se il controllo visivo dell’agente di sezione, che troppo spesso diventa il capro espiatorio di turno, sia avvenuto con regolarità svizzera. Spesso si è discusso su come prevenire i suicidi. È banale dirlo ma la migliore forma di prevenzione passa da una vita penitenziaria non violenta, che non sprofondi nell’ozio forzato e che non produca una cesura con il mondo esterno. Due cose si dovrebbero fare subito: 1) per tutti quei detenuti che la magistratura non sottopone a forme particolari di controllo prevedere una ben più ampia liberalizzazione delle telefonate con i propri cari. In Italia i detenuti possono telefonare una volta a settimana per soli dieci minuti. In tantissimi altri paesi non ci sono questi vincoli così rigidi. Una telefonata a un figlio o a un genitore o a un amico, in un momento di disperazione, potrebbe salvare una vita. 2) Chiudere tutti i reparti e repartini di isolamento. Sia quelli formalmente destinati a tale scopo che quelli sostanzialmente utilizzati per trattare persone considerate difficili. L’isolamento è un luogo oscuro dove possono accadere i fatti più truci, dove i pensieri di morte possono diventare ossessivi. *Presidente Associazione Antigone Teatro in carcere, la Toscana si prepara ad ospitare la rassegna nazionale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 12 agosto 2018 In programma dal 13 al 15 dicembre a Firenze e Lastra a Signa, il progetto è promosso in rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento nazionale che conta oltre 50 esperienze in 15 Regioni italiane. Vito Minoia: “Saranno ospitati spettacoli, conferenze, proiezioni, video laboratori e una sezione speciale dedicata al Teatro nel settore penale minorile”. Stanno partendo in questi giorni, diretti a tutti i penitenziari italiani che ospitano esperienze di teatro in carcere, gli inviti a partecipare alla selezione per la Quinta edizione della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere “Destini incrociati”, in programma dal 13 al 15 dicembre a Firenze e Lastra a Signa. La Rassegna si inquadra nell’ambito dell’omonimo Progetto Nazionale di Teatro in Carcere realizzato per il triennio 2018-2020 con il contributo del ministero dei Beni e Attività culturali, Direzione generale Spettacolo, e in collaborazione con il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità e l’Università RomaTre. “Il progetto - spiega il presidente del coordinamento nazionale Teatro in carcere, Vito Minoia - è promosso in rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento che conta oltre 50 esperienze in 15 Regioni italiane e che ha come soggetto capofila l’Associazione Teatro Aenigma”. Anche per la quinta edizione della rassegna, così come accaduto nelle precedenti (Firenze 2012, Pesaro 2015, Genova 2016, Roma 2017), agli spettacoli, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, si alterneranno conferenze, mostre e dimostrazioni di lavoro. In questo modo verrà restituito un panorama ampio delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che da anni lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento. “Nella tre giorni - racconta Vito Minoia - la Rassegna ospiterà spettacoli, conferenze, proiezioni, video laboratori e una sezione particolare dedicata al Teatro nel settore penale minorile. Saranno ospitati 6 allestimenti frutto di laboratori produttivi realizzati all’interno di altrettanti istituti italiani e verrà allestita una sezione interamente dedicata alla proiezione di video selezionati e scelti dalla direzione artistica dell’intera Rassegna nella quale sarò impegnato insieme a Ivana Conte, Valeria Ottolenghi e Gianfranco Pedullà. L’audiovisivo è uno strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, in grado di restituire la ricchezza, l’articolazione e la diffusione ormai capillare di questo importante settore del teatro italiano, che ha evidenti ricadute sulla funzione di riabilitazione che il carcere deve istituzionalmente sviluppare”. In programma anche laboratori di accompagnamento alla visione degli spettacoli destinati ai detenuti e agli spettatori della Rassegna, curati da Agita (associazione nazionale e agenzia formativa) e di critica teatrale, in collaborazione con l’Anct (Associazione nazionale dei Critici di teatro). Inoltre la rassegna ospiterà sezioni di studio, convegni e conferenze. “La diversità di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato - racconta il Presidente - non appare come una moda teatrale ma come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale, con una forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva, una zona pratica della scena contemporanea ricca di implicazioni sociali e civili. Tra gli altri spicca il dato della sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere: dal 65 al 6%”. Per informazioni si può scrivere a teatrocarcereitalia@libero.it. Gli interessati potranno inviare le proposte di partecipazione entro il 15 settembre 2018 per la Rassegna Teatrale ed entro il 30 settembre 2018 per la Rassegna Video. Lombardia: sgravi fiscali per chi assume detenuti, il vademecum di Unioncamere bcc-lavoce.it, 12 agosto 2018 Per le aziende ci sono sgravi fiscali e contributivi messi a disposizione dalla legge, ma anche la consapevolezza di avere aiutato delle persone. Lavorare nel carcere e con il carcere è possibile. Lo dimostrano le diverse esperienze positive di imprese e cooperative che, soprattutto negli ultimi anni, hanno avviato attività produttive all’interno degli istituti di pena lombardi. Unioncamere Lombardia ha pubblicato un vademecum, che si rivolge sia a operatori del mondo profit sia alle cooperative, vuole essere uno strumento pratico e agile per orientare coloro che volessero assumere persone in esecuzione penale. L’obiettivo è illustrare quali sono gli sgravi fiscali e contributivi previsti dalle normative in vi- gore per assumere persone in esecuzione penale, ma anche spiegare quali sono i benefici d’immagine per l’impresa. I benefici per le aziende non si limitano solo agli sgravi fiscali e contributivi messi a disposizione dalla legge. Offrire a cittadini in esecuzione penale un lavoro rende l’impresa “socialmente responsabile”, in quanto supporta concretamente una fascia svantaggiata di persone, contribuendo anche ad aumentare la sicurezza dell’intera comunità locale. Per i detenuti avere un lavoro nel periodo di esecuzione penale significa sentirsi meno emarginati, ma soprattutto avere una prospettiva di reinserimento sociale, che può ripartire proprio dal lavoro e dalle competenze professionali maturate. L’impresa che fornisce lavoro a cittadini detenuti vedrà sicuramente migliorata la propria immagine e otterrà consenso, appoggio e riconoscimento sociale maggiori da parte della comunità locale. I benefici per chi assume un detenuto: la riduzione dell’80% degli oneri contributivi per il datore di lavoro relativamente alla retribuzione di detenuti e internati assunti a tempo determinato purché per un periodo non inferiore a trenta giorni. Le agevolazioni proseguono per ulteriori sei mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione, se in quel periodo il lavoratore conserva l’assunzione un credito d’imposta di 516,46 euro mensili proporzionalmente ridotto in base alle ore prestate per ogni lavoratore assunto per un periodo non inferiore ai trenta giorni. Il credito d’imposta spetta anche per i sei mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione, se in quel periodo il lavoratore conserva l’assunzione. Lo sgravio è ancora più consistente per le cooperative che assumono detenuti in articolo 21. Per esempio, assumendo come riferimento il Ccnl della cooperazione sociale, il costo orario per l’assunzione di un centralinista (livello A2) passa da 10,81 euro a 6,68 euro; per un operaio non qualificato (livello B1) da 12,51 a 7,18 euro. Infine, per assumere un operaio qualificato (livello C1) si passa da 13,48 euro all’ora a 8,03 euro all’ora. Il credito d’imposta spetta anche per i sei mesi successivi alla scarcerazione se, in tale periodo, il lavoratore conserva l’assunzione. Per i lavoratori assunti a tempo parziale il credito d’imposta spetta in misura proporzionale alle ore prestate. Perché lavorare con le persone detenute - Le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. La Costituzione (articolo 27) indica chiaramente quale debba essere il risultato da raggiungere al termine di una condanna penale: il reinserimento della persona che esce dal carcere quando ha finito di scontare la sua pena. Perché il cittadino che torna alla vita libera al termine di una condanna e che riesce a ritrovare il proprio posto nella società più difficilmente commetterà nuovi reati, abbassando così i tassi di recidiva. E questo è tanto più vero nei casi in cui i percorsi di reinserimento sociale (attraverso corsi di formazione, attività lavorative e culturali) vengono avviati durante gli anni trascorsi in carcere. Ma in che modo e con quali strumenti si può ottenere il reinserimento sociale? La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario (numero 354, del 26 luglio 1975) ha reso effettivo il dettato costituzionale dell’articolo 27 indicando gli strumenti utili ad avviare, già durante gli anni della condanna, il precorso di reinserimento sociale del detenuto: l’istruzione, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, i rapporti con la famiglia e con il mondo esterno e il lavoro. Proprio il lavoro si è dimostrato il mezzo più efficace per abbassare i tassi di recidiva: chi esce dal carcere con la possibilità di avviare o continuare un percorso lavorativo ha basi più solide su cui realizzare percorsi di sviluppo individuale e di reinserimento. In questo modo chi ha sbagliato ha la possibilità di ripartire grazie all’apporto complessivo della comunità sociale. Tuttavia oggi sono poche le persone in esecuzione penale che possono godere di questa possibilità: su un totale di 68mila detenuti presenti nelle carceri italiane (dati aggiornati al 30 giugno 2010, ndr) solo 2.058 sono stati assunti da imprese e cooperative, 598 solo in Lombardia. Anche se lavorare in carcere non è semplice, è possibile avviare un’attività produttiva trovando, all’interno dell’Istituto penitenziario, il punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i ritmi di una attività produttiva che deve fare i conti con fornitori, clienti, scadenze. È possibile, quindi, rafforzare i timidi risultati finora ottenuti attribuibili a diversi elementi fra i quali, in particolare, la poca conoscenza del mondo imprenditoriale (sicuramente abbattuta nell’ambito cooperativistico) delle opportunità offerte dal lavoro penitenziario dentro e fuori dal carcere, cui si aggiunge l’alto valore etico che ciò rappresenta in termini di responsabilità sociale d’impresa. Le varie esperienze attive all’interno degli istituti di pena lombardi dimostrano che, malgrado le difficoltà, il connubio carcere-impresa non solo è possibile, ma può essere virtuoso. Napoli: “troppi detenuti nelle celle”. l’allarme del Garante dopo i suicidi a Poggioreale di Irene De Arcangeli La Repubblica, 12 agosto 2018 Ciambriello: bene l’ispezione del ministro dopo i suicidi in cella, ma la vera emergenza è il sovraffollamento. Otto suicidi dallo scorso gennaio nel carcere di Poggioreale, di questi ben tre dallo scorso 25 luglio. Tutti detenuti italiani che si tolgono la vita in cella sempre allo stesso modo: l’impiccagione con le lenzuola. La loro storia finisce nel calderone dei dati nazionali: dal 2000 i suicidi in carcere in Italia sono stati ben 1.021. Cifre allarmanti, che fanno disporre al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede una serie di ispezioni a cominciare proprio dal carcere considerato maggiormente a rischio: Poggioreale. “Il ministero fa il suo dovere - commenta il Garante regionale delle persone prive di libertà, Samuele Ciambriello. Anche io come Garante, quando noto una criticità, chiedo di essere informato su modalità e risultati delle autopsie per sapere esattamente come sono andati i fatti”. Allarme carceri, che “servono a levare la libertà, non la vita”, sono le amare parole di Ciambriello che punta il dito “soprattutto sul sovraffollamento” e fa, ancora una volta, l’esempio di Poggioreale dove, dice “sono attualmente rinchiuse 2.256 persone a fronte di una capienza di 1.659”. Quasi seicento persone in più. Una piaga che riguarda comunque tutte le carceri della Campania, con quattordici strutture più quella di custodia attenuata femminile a Lauro (Avellino) e quella militare di Santa Maria Capua Vetere. “Un’altra situazione imbarazzante, quella di Santa Maria Capua Vetere - spiega Ciambriello - dove non ancora siamo riusciti a far arrivare l’acqua potabile. Come è noto, il carcere (con annesse aule bunker a servizio del Tribunale) non è servito dalla rete idrica e l’approvvigionamento di acqua è assicurato mediante l’utilizzo di acque di falda e un impianto di potabilizzazione, spesso mal funzionante. Questo problema, che è congenito alla costruzione del carcere e che si protrae da molti anni, sembrava potersi risolvere quando nell’agosto 2016 la Regione Campania ha stanziato 2 milioni 190 mila euro per la costruzione della condotta destinati al Comune di Santa Maria Capua Vetere. Sono trascorsi due anni e ancora, nonostante le risorse siano state assegnate, il Comune non è stato in grado di realizzare l’opera”. Una regione che conta in totale 7.410 detenuti su una capienza complessiva di 6.161. Tra le cause principali dell’alto tasso di suicidi, continua Ciambriello “il degrado e il sovraffollamento, ma anche la mancanza di comunicazione. Va rafforzato il sistema di prevenzione del ministero del 2016 e bisogna agire con una maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria e l’area educativa per prevenire, intuire il disagio che poi porta al suicidio; ed è anche necessario il supporto di figure come gli psicologi e gli assistenti sociali, anche se la cronaca ha dimostrato, con i 140 suicidi sventati dalla polizia penitenziaria o dai compagni di cella, che nel carcere la solidarietà c’è, e il carcere sa essere meno Caino della società esterna. Per questo chiedo a tuttti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Per parte mia rafforzerò gli uffici del garante e sarò presente a Poggioreale il 15 agosto. Bisogna sconfiggere insieme l’indifferenza a questo stato di cose”. Dunque il coinvolgimento di istituzioni e parti sociali. “Come ha sottolineato il Garante nazionale Mauro Palma - ricorda Ciambriello - il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire in carcere ma “richiama alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione e dell’amministrazione centrale e locale perché la perdita di giovani vite a un ritmo più che settimanale sia assunta nella sua drammaticità come tema di effettiva riflessione e di elaborazione di una diversa attenzione alle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce”“. Intanto dall’Unione sindacati di polizia penitenziaria arriva un nuovo allarme: un detenuto ventenne egiziano è evaso dal carcere di Airola (Benevento). Aveva un permesso per lavorare e non è più rientrato. Mentre nel carcere di Carinola (Caserta) un detenuto libico colto da un raptus ha distrutto tutto quello che c’era nella sua cella. Napoli: emergenza carcere di Poggioreale, presto nomina Garante comunale dei detenuti di Dario De Martino Il Roma, 12 agosto 2018 Tre suicidi nelle ultime settimane a Poggioreale, l’ultimo il 29 luglio. Il tema delle condizioni di vita dietro le sbarre del carcere napoletano, e non sono, torna prepotente. I numeri dicono che il problema c’è e anche le istituzioni iniziano ad attivarsi. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato che farà partire le ispezioni ai carceri proprio da quello di Poggioreale, E in questi giorni pure il Comune di Napoli è intervenuto sulla questione, approvando in Giunta l’istituzione della figura del Garante dei diritti dei detenuti. La nuova figura istituzionale che metterà la lente di ingrandimento sulle condizioni di vita dei detenuti è stata proposta dall’assessore al Welfare Roberta Gaeta che ha spiegato il fondamento politico dell’istituzione: “Un Paese veramente civile è quello teso a tutelare e far rispettare i diritti inalienabili di ogni uomo, compresi quelli dei detenuti. Il carcere deve rappresentare uno strumento detentivo di rieducazione, non il luogo in cui l’individuo è alienato. I valori dì uguaglianza e solidarietà guidano l’azione amministrativa. Con l’istituzione del Garante per i diritti dei detenuti - prosegue la Gela - l’amministrazione vuole dare seguito alla Costituzione, individuando così una figura che possa contribuire alla salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone incarcerate, garantendone la dignità ed eliminando ogni forma di marginalità sociale”. A questo proposito, però, la consigliera comunale di DemA Laura Bismuto, che con la Gaeta non ha certamente rapporti idilliaci, chiede attenzione sulla scelta della persona che svolgerà il ruolo di garante: “Spero che la figura che l’amministrazione andrà ad individuare avrà le caratteristiche, le competenze, la passione e la voglia di contribuire realmente al miglioramento delle condizioni dei detenuti”. La Bismuto è comunque soddisfatta dalla misura presa dall’amministrazione: “Finalmente, dopo tanti incontri e sollecitazioni, è stata istituita questa figura. Non può avere senso la reclusione line a se stessa. Lo stato ha il dovere, morale e politico, di fornire strumenti di recupero. Ha il dovere di offrire una seconda possibilità a chi la prima non se l’è giocata bene, magari perché non ha avuto nemmeno le carte per giocare”. Intanto, rispetto alle ispezioni che ha intenzione di avviare il guardasigilli Bonafede. il segretario regionale dell’Uspp Ciro Auricchio oppone: “Servono più agenti e più operatori, non ispezioni. Per debellare questa terribile piaga sono necessari educatori e psicologi. E questa la direzione il ministro della Giustizia deve prendere”. E non solo Auricchio invita pure il ministro a rivedere la legge 117/2014 affinché “i detenuti maggiorenni vengano tolti dagli istituti penali minorili. Ieri sera - racconta - un detenuto ventenne di nazionalità egiziana è evaso da Airola: aveva un permesso per lavorare e non è più rientrato”. Roma: Partito Radicale a Ferragosto in visita a Rebibbia e il 16 a Regina Coeli Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2018 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha autorizzato le visite a Rebibbia Nuovo Complesso e a Regina Coeli di una delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini (coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale) e composta da Valter Cara (Responsabile della campagna raccolta firme per la separazione delle carriere Camera Penale di Tivoli) e dagli attivisti del Partito Radicale Maria Laura Turco, Ilaria Saltarelli, Barbara Rosati, Bachisio Maureddu. Le visite avranno inizio alle ore 10:30 di mercoledì 15 agosto a Rebibbia (Nuovo Complesso) e di giovedì 16 agosto a Regina Coeli. Dichiarazione di Rita Bernardini: Verificheremo anche a ferragosto quali siano le condizioni di detenzione nei due istituti penitenziari romani, cronicamente caratterizzati da un forte sovraffollamento (*). È attività che il Partito Radicale svolge durante tutto l’anno in tutta Italia e che è tanto più necessaria nel rovente periodo ferragostano e in questo particolare momento politico, contrassegnato da un pericoloso arretramento riformatore nel campo della legalità costituzionale dell’esecuzione penale. È situazione disperante per tutta la comunità penitenziaria e finora le uniche risposte che lasciano spazio ad un minimo di speranza sono venute dalla Corte costituzionale e dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, giurisdizioni superiori alle quali come Partito Radicale guardiamo con la fiducia che nel tempo l’una e l’altra hanno certamente dimostrato di meritarsi. (*) Al 31 luglio 2018 a Rebibbia erano ristretti 1.481 detenuti in 1.178 posti regolamentari, con un sovraffollamento del 126%; a Regina Coeli i detenuti erano 954 a fronte di una capienza regolamentare di 617 posti, con un sovraffollamento pari al 155%. Catanzaro: a Ferragosto visita nel carcere di Crotone per i Radicali Corriere della Calabria, 12 agosto 2018 Candido e Ruffa annunciano la visita nel penitenziario della città pitagorica: “I suic idi continuano. Serve la nomina del Garante”. “Bene il ministro Bonafede che annuncia ispezioni a tappeto dopo l’ennesimo suicidio in carcere. Noi, come ci ha insegnato a fare Marco Pannella, non finiamo di occuparci di giustizia e di carcere continuando ad effettuare visite ispettive volte a verificare le condizioni di detenzione, proseguendo nel chiedere che venga subito nominato il Garante regionale dei diritti dei detenuti”. Lo affermano, in una nota con giunta, Giuseppe Candido, segretario dell’associazione radicale nonviolenta “Abolire la miseria - 19 maggio” e Rocco Ruffa, tesoriere della stessa associazione e componente del Comitato nazionale di Radicali Italiani. “Nonostante le rassicurazioni del presidente della I commissione permanente, Franco Sergio forniteci lo scorso 5 luglio, sul fatto che, entro l’autunno, sarà finalmente eletto il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà - proseguono Candido e Ruffa - i suicidi continuano anche nelle carceri calabresi come dimostra l’ultimo del 2 agosto di un detenuto nel carcere di Paola, e la calura estiva rende la detenzione ancora più insopportabile”. “Dopo la visita di Pasqua fatta ai detenuti del carcere di Vibo Valentia e quella effettuata il 17 giugno scorso, in occasione dell’anniversario della morte di Enzo Tortora, ai detenuti del carcere di Catanzaro - sostengono ancora Candido e Ruffa - mercoledì 15 agosto, una delegazione del Partito Radicale Nonviolento, autorizzata dal Dap, si recherà in visita alla casa circondariale di Crotone”. Venezia: lavori forzati sì, ma con umanità, il narcotrafficante non va estradato di Angela Pederiva Il Gazzettino, 12 agosto 2018 La Corte d’Appello dovrà svolgere un terzo esame sul rischio che l’uomo, filo-russo, subisca atti degradanti. Per due volte la Corte d’Appello di Venezia ha provato a far estradare in Ucraina un detenuto nel carcere di Padova per traffico di stupefacenti. Ma per due volte la Cassazione ha bloccato la consegna per il rischio che l’uomo, di nazionalità moldava e di madre russa, possa essere sottoposto “a trattamenti disumani e degradanti”, anche a causa della guerra del Donbass in corso. Questo è il timore ribadito nell’ultimo pronunciamento degli ermellini, che hanno rinviato il fascicolo in laguna per un terzo esame, il quale però non dovrà più occuparsi della possibile condanna ai lavori forzati: è stato infatti verificato che, nel caso, quell’attività sarebbe regolarmente contrattualizzata e retribuita. Protagonista della vicenda è Maxim Diuligher, recluso al Due Palazzi da tre anni. Nell’agosto del 2015 la polizia aveva effettuato un controllo in un parco pubblico alla Guizza: già noto alle forze dell’ordine per una serie di reati contro il patrimonio risalenti al periodo 2009-2010 e in Italia senza fissa dimora, il giovane era risultato destinatario di un mandato di cattura, emesso sette mesi prima da un Tribunale ucraino per un giro di oppioidi, accusa che da quelle parti potrebbe costargli fino a dieci anni di prigione. Da allora, tuttavia, l’estradizione reclamata da Kiev non è mai avvenuta. Il 18 febbraio 2016 i giudici di Appello aveva dichiarato sussistenti le condizioni per accogliere la domanda, ma il 28 giugno la Cassazione aveva annullato quella sentenza. Non che la Suprema Corte ritenesse infondato il requisito dei gravi indizi di colpevolezza, anzi. Il punto era che i magistrati veneziani non avevano “valutato l’eventualità che il ricorrente, di nazionalità moldava ma di madre russa, ed egli stesso filo-russo, anche in forza dell’attuale conflitto russo-ucraino potesse essere sottoposto, in sede di esecuzione della pena, a trattamenti disumani e degradanti, ovvero a forme di lavoro forzato, come pure avevano dato conto i rapporti annuali di organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch”. Per questo era stato disposto lo svolgimento di “un’indagine mirata”. Nel corso dell’approfondimento, la Corte d’Appello aveva acquisito un rapporto sui pronunciamenti della Corte europea per i diritti dell’uomo “con riferimento a torture da parte delle forze dell’ordine e condizioni di detenzione degradanti”; 13 sentenze integrali della stessa Cedu su casi di reclusione disumana; altre 11 per maltrattamenti durante gli interrogatori; report di Amnesty International e Onu. Inoltre i magistrati lagunari avevano chiesto alle autorità ucraine informazioni su tempi, luoghi e condizioni della detenzione. Dopo aver ricevuto risposta, il 18 maggio 2017 era così stata nuovamente accolta la richiesta di estradizione. Diuligher, assistito dall’avvocato Vittorio Manfio, ha però fatto nuovamente ricorso. E per la seconda volta la Cassazione l’ha accolto, disponendo di verificare in particolare due aspetti: se il 35enne “possa essere sottoposto ai metodi di violenza finalizzati all’accertamento della sua responsabilità” e quale incidenza di rischio possa rivestire il suo essere “filo-russo”. Quanto invece ai lavori forzati, la Suprema Corte ha escluso che possano esserci pericoli, stando ai riscontri: “I detenuti vengono coinvolti in lavori retribuiti, di regola, nelle fabbriche o in imprese di proprietà del governo con contratti di lavoro a tempo determinato conclusi tra gli stessi detenuti e la colonia penitenziale, a condizione di garantire loro una custodia ed un isolamento adeguati”. Busto Arsizio: il Garante dei detenuti “qui non si sta proprio al fresco” di Angela Grassi La Prealpina, 12 agosto 2018 Il Garante Matteo Tosi: caldo insopportabile per detenuti e agenti. A chi gli chiede come si viva in queste giornate di super caldo estivo all’interno del carcere bustese, il garante dei detenuti Matteo Tosi risponde così. Con una battuta dal sapore amaro. In via per Cassano, dove il sovraffollamento rimane una costante, è già difficile affrontare le giornate, quando ci si mette di mezzo anche l’afa allora le condizioni peggiorano notevolmente. Non ci sono lamentele, si sa che è così, ma è evidente che dietro i cancelli e le alte mura di cemento non passino giorni sereni né i reclusi né gli agenti della polizia penitenziaria. “Migliorare le cose è una questione di tempo non di volontà - spiega Tosi, esponente di Busto Grande che ha accettato l’incarico di farsi portavoce delle istanze dei detenuti. Ci troviamo in una zona affiancata da un aeroporto internazionale: i reati si moltiplicano e i carcerati aumentano facilmente. Siamo sempre sopra quota 400, è impossibile rientrare in numeri sensati. Anche perché la soglia corretta per le dimensioni di questa sede sarebbe inferiore alle trecento unità. In ogni caso, siamo fuori limite massimo”. Da anni si tollera una condizione che non pare avere alternative. “Il dato paradossale rispetto a questo sovraffollamento è che non è colpa di nessuno, se non del sistema. L’aria condizionata manca per i detenuti come per chi lì dentro lavora. Non c’è negli uffici, né in caserma, né in altre parti del carcere”. Tosi fa notare che i picchi di caldo e afa dei giorni scorsi sono risultati insopportabili “per chi lavora e deve indossare una divisa, non può girare liberamente con calzonicini e canotta, come i detenuti”. Nelle guardiole e nei gabbiotti, resistere alla calura appare davvero una sfida. “I lavori per migliorare lo stato delle cose sono sempre in corso, si cerca di cambiare ma non è semplice - dichiara il garante. Non è che non si faccia nulla, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è al corrente della situazione ma deve fare i conti con i fondi a disposizione e con le energie disponibili. Va considerato, ad esempio, che quando cinque detenuti stanno lavorando alla sistemazione delle docce, devono esserci alcuni agenti a controllarli, visto che hanno a disposizione attrezzi che potrebbero essere usati per aggredire. I problemi che gli agenti devono affrontare sono tantissimi, in questi tempi di ferie estive si sentono ancora di più: manca personale per far fronte a ogni esigenza, gli agenti scarseggiano abitualmente. In agosto la cosa è maggiormente evidente”. La tensione si fa sentire? “La tensione c’è sempre, il caldo fa impazzire la gente che vive liberamente, figuriamoci là dentro. Gli ultimi casi di suicidio hanno dato parecchio da pensare a tutti quanti”. In aprile, un giovane di 19 anni si tolse la vita mentre faceva la doccia. Qualche giorno dopo ci fu un secondo episodio. Che clima si respira? “Purtroppo vi è un uso sconsiderato della carcerazione preventiva. Agli stranieri viene chiesto un numero di telefono per contattare la famiglia, ma loro non possono chiamare a casa finché non arriva il via libera dal consolato, che ha tempo un mese per questo passaggio (deve controllare che i numeri corrispondano). Spesso e volentieri il mese trascorre invano. Quel giovane nordafricano si sentiva da solo, voleva parlare con la madre e non poteva farlo. In carcere qualcuno è filibustiere, qualcuno è un semplice ladro di polli. C’è il duro che magari non ha paura di nulla e c’è il ragazzino o comunque la persona più debole, a ogni età. Le regole sono comprensibili, perché una chiamata in arabo all’estero va controllata rispetto a possibili risvolti terroristici, ma ci sono persone che non reggono a restare troppo tempo senza contatti con i familiari. Le regole hanno senso, il problema è sempre la loro applicazione”. Busto Arsizio: bombolette, manette e magliette, una t-shit per il recupero dei detenuti malpensa24.it, 12 agosto 2018 Bombolette, manette e magliette. Il nuovo murales di piazza mercato non era ancora finito quanto all’associazione culturale Brughiera CàDaMat di Matteo Tosi e all’artista ReFreshInk - Giovanni Magnoli è venuta l’idea di creare una t-short celebrativa dell’evento a sostegno dei progetti di recupero e reinserimento sociale dei detenuti. Doppia la finalità di dare vita a a questo piccolo progetto artistico: da una lato contribuire a sostenere i laboratori e le attività dei carcerati e dall’altro lanciare un messaggio sociale sulla libertà e sul concetto di muro. “Il bello di gettarsi in certe imprese - spiega Matteo Tosi, presidente di Brughiera CàDaMat - è che incontri gente così, che si impegna per fare il proprio al meglio, e si mette anche a disposizione per dare un valore aggiunto alle tue cose. Giovanni ci ha permesso non solo di usare la sua “storica” margherita, ma anche di contaminarla con le nostre manette, inaugurando così una nuova linea di magliette “freedom dreamers”, che speriamo di allargare insieme ad altri writers che raccoglieranno i nostri inviti di venire a colorare Busto”. Contento di essere stato il primo a inaugurare le coloratissime t-shirt dal valore sociale anche il writer: “È sempre bello avere un muro su cui potermi esprimere liberamente. In questa mia performance artistica a Busto poi è nata anche l’occasione di contribuire al reinserimento di alcuni detenuti e di puntare l’obiettivo, tramite l’arte è il colore, sulle grigie condizioni di vita di molti di loro. Sono davvero contento di essere stato chiamato a inaugurare questo progetto e di vedere il mio logo al centro di questo nuovo esperimento”. Sassari: il Candeliere di San Sebastiano balla con i detenuti sassarinotizie.com, 12 agosto 2018 Ha ballato ieri mattina presso la Casa circondariale “Giovanni Bacchiddu” il Candeliere di San Sebastiano, un nuovo candeliere realizzato nell’ambito del progetto “Tradizioni senza barriere”, organizzato dall’Intergremio Città di Sassari in collaborazione con il Comune di Sassari e la Casa circondariale. L’iniziativa, promossa dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mario Dossoni, ha visto il coinvolgimento di circa 40 detenuti del carcere di Bancali. Fulcro del progetto, che ha preso il via nel mese di marzo, il laboratorio di falegnameria tenuto dall’architetto Giovanni Andrea Pasca. Gli ospiti della Casa Circondariale hanno partecipato a tutte le fasi di realizzazione dell’opera, sia quella lignea che quella decorativa, coadiuvati da alcuni artigiani del Gremio dei Fabbri. Altri due laboratori hanno, invece, portato alla realizzazione di un tamburo, costruito con materiali tradizionali, e alla creazione degli addobbi del candeliere e delle divise dei portatori. Le attività di creazione dello strumento sono state coordinate da Francesco Simola, quelle di sartoria da Tonino Spada e tutte le attività dell’Intergremio dal presidente Salvatore Spada. Il percorso formativo, che è stato arricchito anche da alcune lezioni sui gremi e i candelieri, è stato documentato da Luciano Sodini, che ha ripreso tutte le fasi di lavorazione. Il progetto, coordinato da Gianfranco La Robina, ha visto il coinvolgimento delle educatrici e degli educatori dell’istituto penitenziario. Il nuovo Candeliere di San Sebastiano, consegnato alla direttrice della Casa Circondariale Patrizia Incollu, ballerà lunedì 13 agosto durante la cerimonia di consegna del Candeliere d’oro, d’argento, di bronzo e speciale. Razzismo. Bonafede: “serve prevenzione nelle scuole, noi stiamo intervenendo” di Gisella Ruccia Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2018 “I fatti di Pistoia, dove due 13enni hanno sparato a un giovane gambiano, e le baby gang a Napoli? C’è sicuramente un problema di responsabilità genitoriale e purtroppo non posso intervenire. Però stiamo intervenendo con percorsi negli istituti minorili e nelle scuole con il ministero dell’Istruzione”. Sono le parole del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, rispondendo a una domanda di un radioascoltatore di “Ma cos’è questa estate” (Radio24). E spiega: “Siccome finora la giustizia è sempre stata interpretata come un qualcosa con cui uno ha a che fare solo in età adulta, sto avviando nelle scuole un percorso in cui la giustizia agisca in via preventiva come messaggio di legalità. Questo, credetemi, è fondamentale. I primi magistrati antimafia li ho incontrati quando andavo a scuola a Mazara del Vallo, dove i magistrati venivano nelle scuole e ci spiegavano quanto fosse importante essere servitori dello Stato”. Bonafede, poi, si dichiara in sintonia con l’idea di Salvini, secondo cui bisogna far scontare la pena agli extracomunitari nei Paesi di provenienza: “I rientri dei detenuti stranieri nei Paesi di origine costano molto di meno rispetto alla loro reclusione in Italia. Questa è una delle politiche su cui sto investendo. A settembre farò quattro incontri coi ministri della Giustizia dei Paesi aventi le più alte percentuali di detenuti nelle nostre carceri”. Il Guardasigilli sottolinea l’importanza delle attività culturali nelle carceri: “Il nuovo schema di decreto, che noi abbiamo già approvato in Consiglio dei Ministri, insiste sull’importanza della mediazione culturale coi detenuti. Il carcere finora è stato anche un luogo di reclutamento della criminalità organizzata, un luogo in cui purtroppo è facile la radicalizzazione di estremismi. L’opera dei mediatori culturali all’interno delle carceri è fondamentale non solo per andare incontro alle esigenze religiose e culturali dei detenuti, soprattutto dei minori su cui stiamo investendo tantissimo, ma anche per la sicurezza della collettività”. Caporalato, la guerra è tra poveri di Matteo Collura Il Messaggero, 12 agosto 2018 È stupefacente constatare come le notizie che riguardano le ignominie del caporalato, in Puglia come in Sicilia, trovino i rappresentanti delle istituzioni non soltanto impreparati, ma - a loro dire - anche non abbastanza informati sull’argomento (in alcuni casi come se venissero a sapere “qui e ora” del ripugnante fenomeno). Un modo, questo, di tenersi al largo dalla realtà e di non sollecitare troppo le coscienze. Ma non è di questo che qui vorrei occuparmi, anche se dell’infame attività del caporalato si tratta. Ed ecco: trovandomi in questi giorni in Sicilia, ho appreso che nel territorio ragusano, specie nel tratto compreso tra Vittoria e Acate, dove più fitte sorgono le serre per le coltivazioni agricole, gli extracomunitari dalla pelle nera non riescono a trovare lavoro (chiamiamolo pure così) come raccoglitori, perché scalzati dalla “irresistibile” concorrenza dei romeni. Disperati contro disperati, quelli provenienti dalla Romania riescono ad avere il sopravvento sui magrebini e sugli altri africani, perché, oltretutto, non soggetti ai complicati permessi per stare in Italia. In provincia di Ragusa, dunque, non africani in fuga dalle guerre e dalla fame, ma disperati provenienti dall’Europa dell’Est. Ad accoglierli, loro connazionali disposti a tutto. E così le cronache ci dicono di romeni (ma anche albanesi) arrestati per caporalato, associazione a delinquere, traffico di esseri umani, sfruttamento della prostituzione (in qualche caso anche minorile). Non soltanto i neri delle sfortunate regioni africane, dunque, si rivelano essere, oggi, figli di un dio minore, ma cittadini europei, costretti a vivere in condizioni inumane, a pagare l’acqua e la luce per averla nelle stalle in cui sono tenuti; costretti anche a togliere dal salario da schiavi il costo del trasporto dalle loro tane alle serre, il doppio se chiedono di essere accompagnati in un supermercato o in un centro medico. Possibile? Si chiedono stupiti, cadendo dalle nuvole, rappresentanti delle istituzioni, uomini di chiesa, giornalisti, persino. Migranti. Calo degli sbarchi, cambiano le rotte: l’emergenza si sposta in Spagna di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2018 L’emergenza sbarchi si sposta in Spagna. Dall’inizio dell’anno, in base ai dati dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), su oltre 59mila migranti arrivati in Europa via mare, la prima destinazione è stata la Spagna, con 23.700 sbarchi (il triplo rispetto allo stesso periodo del 2017). Il trend, ormai consolidato, evidenzia che l’Italia ha registrato finora un crollo degli arrivi: poco meno di 19mila, con un calo dell’80% rispetto agli oltre 96mila dello stesso periodo del 2017 (se si guarda ai 13mila arrivi dalla sola Libia il calo è stato dell’87%), seguiti dai 16mila sbarchi in Grecia, e poche centinaia a Malta e Cipro. Anche se il Mediterraneo centrale, ossia la rotta del Canale di Sicilia, resta il tratto più pericoloso: oltre 1.100 i morti quest’anno rispetto al totale di 1.500. Non si mettono in viaggio soltanto i cosiddetti migranti economici, diverse migliaia hanno sulla carta la possibilità di ottenere il diritto d’asilo. L’Unhcr, ad esempio, ha stimato che il 13,5% degli arrivi in Europa è rappresentato da siriani. Nei porti italiani, tra le nazionalità dichiarate all’arrivo, al primo posto restano i tunisini (3.548), seguiti da eritrei (2.859), sudanese (1.595) e nigeriani (1.248). Ismu: calano gli sbarchi e le richiesta d’asilo in Italia - I trafficanti studiano anche modalità alternative per le traversate in mare. Con la rotta libica pattugliata dalla Guardia Costiera di Tripoli e la riduzione delle navi delle Ong, si preferisce puntare su barconi di legno piuttosto che sui gommoni, per coprire tratti più lunghi. Oppure imbarcazioni con pochi migranti a bordo (10-20 persone), nella speranza di sfuggire ai controlli. Inoltre, lungo la rotta orientale, quella che parte dalla Turchia, spuntano persino barche a vela, sempre più utilizzate da scafisti ucraini e russi. Con costi molto più alti, per i migranti che possono permetterselo. Migranti. La Spagna chiede aiuto. Merkel: rivedere il patto di Dublino di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 12 agosto 2018 Intesa tra la cancelliera e il premier Sanchez: ripartire equamente chi arriva. Il vertice in Andalusia sabato. Previsto un sostegno a Tunisia e Marocco. È nato ieri in Andalusia un inedito asse Berlino-Madrid contro il razzismo. Due governi di segno diverso (popolare e socialista) che collaborano è già quasi una novità per l’Europa delle famiglie politiche. Lo è ancora di più quando Angela Merkel, leader indiscussa dei conservatori europei, si allinea sulle posizioni più tipiche della sinistra. Il fattore unificante, questa volta, è l’opposizione “al razzismo crescente in Europa”, come ha detto la stessa cancelliera, e il prossimo obbiettivo è di “approfondire l’intesa anche con Portogallo e Francia”, non a caso tra i pochi Paesi dell’Ue rimasti immuni dall’ondata di rigetto dei migranti. “Ormai sembra che dare dell’essere umano a un migrante sia intollerabile per alcuni settori” ha detto ancora la leader tedesca. “L’Ue si fonda su valori chiari e tra questi c’è la dignità umana. Per questo dobbiamo lottare in modo radicale contro il razzismo”. Accompagnati dai rispettivi consorti, la Merkel e il premier spagnolo Pedro Sanchez hanno trasformato l’incontro di ieri in Andalusia, a Sanlucar de Barrameda, nel parco nazionale della Doñana, in un mini vertice. La cancelliera ha ringraziato la Spagna per la decisione di riaccogliere i migranti sbarcati e registrati nel Paese e poi “comparsi” in Germania. In compenso Sanchez ha ottenuto da Angela l’impegno per aiutare il Marocco a controllare meglio le sue stesse frontiere. Se la Turchia ha bloccato la rotta orientale con i miliardi dell’Ue, se l’Italia chiede più fondi per la Libia perché chiuda la rotta centrale, la Spagna fa lo stesso con il Marocco per fermare la rotta orientale. Fonti di Madrid parlano di 130 milioni tedeschi pronti ad arrivare in Marocco. Merkel affronta così il problema dei cosiddetti “movimenti secondari” che tanto hanno preoccupato il suo ministro dell’Interno Horst Seehofer arrivato a un passo dalla rottura del governo. Nelle scorse settimane Seehofer aveva minacciato la chiusura della frontiera con l’Austria per respingere i migranti in arrivo dall’Italia. La crisi si era poi sopita con l’istituzione di “centri di ancoraggio” per accelerare le verifiche dei documenti. Il problema per Berlino è che, anche se uno straniero risulta irregolare perché già registrato in Grecia, Italia o Spagna, nessuno di questi Paesi era disposto a riprenderlo. Sabato il via spagnolo alle riammissioni. Merkel spera di ottenere lo stesso impegno anche dalla Grecia, sempre a fronte di una contropartita economica. Più difficile che ottenga lo stesso via libera dal governo italiano. “Se gli accordi di Dublino che regolano l’accoglienza all’interno dell’Ue funzionassero - ha detto Merkel - in Germania non dovrebbero proprio esserci migranti. È invece evidente che non funzionano e che sia necessario trovare soluzioni collegiali. I migranti che hanno diritto di restare in Europa devono essere equamente ridistribuiti”. Norvegia. Eroina gratis ai tossicodipendenti, per ridurre le morti da overdose di Andrea Cuomo Il Giornale, 12 agosto 2018 Una scelta controversa quella presa dalla direzione nazionale per la salute e gli affari sociali, convinta così di ridurre il numero morti di overdose, che costituiscono una grave piaga per il Paese scandinavo, al terzo posto mondiale di questa triste classifica con 81 morti l’anno ogni milione di abitanti dopo l’Estonia (132) e la Svezia (88). Va detto che una dose di droga in Norvegia costa molto poco, soprattutto se paragonato ad esempio al costo di un bicchiere di vino o delle sigarette. Il progetto, che ricalca quello in uso con un certo successo da 25 anni in Svizzera e che attualmente è nella sua fase sperimentale e dovrebbe partire nel 2020, interesserà almeno nella sua fase iniziale un panel di pazienti che saranno considerati i più adatti. Secondo il quotidiano di Oslo Aftenposten, che cita fonti ministeriali, i tossicodipendenti che “beneficeranno” della terapia all’eroina saranno 400. “Speriamo in questo modo che questa soluzione fornisca ai tossicodipendenti una migliore qualità della vita”, ha scritto su Facebook il ministro della salute, Bente Hoie. Lo scopo del progetto però è anche quello di ridurre i costi economici e sociali associati al diffondersi delle tossicodipendenze, come ad esempio l’impennata della criminalità. Il progetto segue alla svolta avvenuta a Oslo qualche mese, fa, a dicembre 2017, quando il parlamento norvegese, su proposta dei partiti della sinistra ma con voto bipartisan, ha chiesto al governo di depenalizzare i consumi di droghe, rompendo così con la tradizione proibizionistica dei Paesi nordici. Si sono accavallate le dichiarazione politiche a sostegno della svolta, che pone in primo piano il trattamento delle tossicodipendenze rispetto alla repressione penale. “È importante sottolineare - aveva detto all’epoca al giornale norvegese VG Sveinung Stensland, vicepresidente della commissione Salute del Parlamento - che non legalizziamo la cannabis e altri farmaci, ma decriminalizziamo solo. Il cambiamento richiederà del tempo, ma ciò significa una visione diversa: chi ha un problema di abuso di sostanze dovrebbe essere trattato come malato, e non come criminale con sanzioni classiche come multe e reclusione”. Da qui però a fornire gratuitamente l’eroina ai tossicodipendenti il passo è decisamente lungo. Stati Uniti. Hate crime, in aumento ma “invisibili” nell’era Trump di Guido Caldiron Il Manifesto, 12 agosto 2018 La denuncia del Southern Poverty Law Center derll’Alabama. “Dopo Charlottesville, il vero problema è che le idee della alt-right e del suprematismo bianco contro immigrati e musulmani si sono banalizzate. Molti le considerano parte di un normale dibattito pubblico e non il segno della la presenza nel Paese di gruppi estremisti e violenti”. Per Heidi Beirich non ci sono dubbi. Ad un anno dalla tragica adunata dell’estrema destra in Virginia, la più grande della recente storia americana, la minaccia che incombe sugli Usa riguarda la “legittimità” che le idee e la violenza razzista stanno conoscendo all’ombra della presidenza Trump. Non a caso, le parole della responsabile del Southern Poverty Law Center, la Ong dell’Alabama che monitora gli hate crime e le azioni dei suprematisti, servono a presentare l’ultimo numero della rivista Intelligence report e il rapporto sullo “stato dell’unione” dal punto di vista dei crimini razziali che contiene. Se, alla fine del 2016, l’elezione di The Donald alla Casa Bianca era stata accompagnata da un drammatico aumento degli atti di razzismo, oltre il 25% in più, la situazione si è ora “stabilizzata” intorno ad una crescita del 12% rispetto all’era Obama. Con però delle punte inquietanti, come il caso della città californiana di San Jose, dove dal 2016 ad oggi si sono registrate circa 50 violenze razziali l’anno, pari ad una crescita del 132%. Quanto ai numeri, solo nelle prime 10 metropoli del Paese, si calcola siano avvenuti un migliaio di hate crime l’anno, 1093 nella solo California negli ultimi 12 mesi: oltre 6mila in tutto il Paese. Il cambiamento non riguarda però solo i dati. “Sempre più spesso accade che le vittime di atti di razzismo, ingiurie ma anche vere e proprie violenze fisiche ritengano che denunciare i loro aggressori non serva a niente, visto il clima generale che circonda molto spesso questi atti”, sottolinea Beirich. Per questo, i ricercatori del Splc hanno parlato, inizialmente a proposito degli atti violenti contro i disabili per poi estendere questa riflessione alle altre vittime, di Invisible Hate Crime: quel razzismo che nell’America di Trump non si vuole neppure vedere. Del resto, “invece di cercare di riconciliare il paese - conclude l’esponente del Splc, nell’ultimo anno il presidente ha raddoppiato la propria retorica tossica, alimentando la sua politica di paura e xenofobia”. Stati Uniti. Indagini sulla morte di una bambina in un Centro di detenzione per migranti globalist.it, 12 agosto 2018 La bimba, di cui non si conosce né l’età e né la nazionalità, sarebbe stata “detenuta in condizioni insalubri nel centro di Dilley, nel Texas Meridionale”. Indagine in Texas sulla morte di una bambina migrante trattenuta in un centro di detenzione in presunte “condizioni antigieniche”. Gli avvocati della madre della vittima hanno dichiarato che la piccola è “morta tragicamente dopo essere stato detenuta in condizioni insalubri”. “Al momento stiamo valutando il caso e non abbiamo ulteriori commenti”, ha aggiunto lo studio Arnold & Porter, i legali della famiglia della bimba, in una nota. Né le autorità né gli avvocati hanno fornito dettagli come il sesso (anche se parlano sempre di “lei” riguardo questo caso), la nazionalità o la causa del decesso. Si sa solo che il minore era stato detenuto in una struttura di Dilley, nel Texas meridionale, uno dei tre centri dell’Ice, la xenofoba norma voluta da Trump, che ospitano famiglie di immigrati. A luglio, i tre centri di questo tipo detenevano un totale di 1.437 persone. Il numero totale di immigrati detenuti in tutte le strutture Ice negli Stati Uniti ammontava, il 16 luglio scorso, a 44.210. Il direttore delle relazioni con i media Patrick Crimmins del Dipartimento per i servizi familiari del Texas ha detto a Fox News: “Sappiamo il nome del bambino e abbiamo aperto un’indagine su eventuali abusi o negligenze”. Il centro di detenzione di Dilley è il più grande dei tre impianti di questo tipo. Può contenere circa 2.400 persone. Il Dilley Pro Bono Project, un gruppo di aiuto agli immigrati, sostiene che il centro “è inadeguato per il livello di assistenza fornito agli immigrati in detenzione”. Il direttore della struttura Daniel Bible, ha detto che il centro conforme agli standard federali e statali: “È un luogo pulito, controllato dal dipartimento medico, le condizioni igieniche sono ottime”, ha detto. Ma la questione sta rimbalzando in tutti i media americani tra grandi polemiche e clamore. Arabia Saudita. Diritti civili, lo strano braccio di ferro diplomatico con il Canada di Marco Valsania Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2018 Su un lato della barricata il primo ministro occidentale con le carte in regola del progressista, che ha fatto dei diritti umani e delle donne una bandiera della sua politica estera e una scommessa per la sua popolarità domestica. Affiancato da un ministro degli Esteri che ha un passato di illustre giornalista e critica di plutocrazie e oligarchie (a Est come a Ovest). Dall’altro lato l’erede d’una monarchia mediorientale tra le più ricche, influenti e allo stesso tempo retrograde al mondo. Che ha promesso di modernizzare il suo paese economicamente e con qualche apertura sociale. Mantenendo tuttavia il pugno di ferro politico-religioso, compresa la crescente incarcerazione e repressione di dissidenti. È la miscela che ha fatto esplodere una delle crisi diplomatiche - quella tra Canada e Arabia Saudita, tra Justin Trudeau, Chrystia Freeland e Mohammad bin Salman - più sorprendenti, violente e finora intrattabili persino su un palcoscenico internazionale oggi dominato dall’imprevedibilità di Donald Trump, il presidente della superpotenza statunitense che del ribaltamento di tradizioni e norme, in nome dell’unilateralismo di “America First”, ha fatto la sua bussola. Una crisi che ha visto Riad rompere i rapporti bilaterali - diplomatici, economici e nell’istruzione - domandando a Trudeau scuse formali per aver condannato l’arresto di militanti sauditi - soprattutto donne - che si battono a favore dell’emancipazione. E che non accenna a ricomporsi: Trudeau negli ultimi giorni ha indicato di volere buoni rapporti ma non ha fatto passi indietro. “Continueremo a difendere i valori canadesi e universali, i diritti umani, in ogni occasione”. Il Canada “sa ciò che deve fare”, ha replicato a distanza Riad alludendo alla richiesta di “correggere l’errore”, cioè le “interferenze” in questioni di “sicurezza nazionale”. L’”assenza” dell’arbitro Usa - Lo scontro è diventato ancor più drammatico proprio perché, sullo sfondo, vede un ritiro americano da ruoli globali, di regista di squadra. Un tempo Washington avrebbe indossato i panni di grande mediatore in simili battaglie. Non oggi, pare. Oggi si limita a riaffermare che entrambe le nazioni sono alleati e a invitare alla calma. Anzi, forse Riad sta più a cuore di Ottawa: la dichiarata equivalenza tra i due partner è una stoccata a Ottawa e sono freschi i dazi commerciali contro il Canada e il braccio di ferro tra Trump e Trudeau al G7. Una retromarcia americana che evidenzia, semmai, tutti i rischi di vuoti di leadership per le democrazie transatlantiche, tanto più dopo che Londra e la Ue hanno a loro volta emesso comunicati molto prudenti. Un passo indietro è in realtà necessario per comprendere uno scontro solo all’apparenza strano. Il Canada si è schierato contro l’arresto in Arabia Saudita di due attiviste, Samar Badawi e Nassima al-Sadah. Un tweet di Freeland, venerdì scorso, ha invitato al rilascio di “militanti pacifici” dei diritti umani, una domanda tipica per Ottawa e già rivolta in passato. Badawi è oltretutto sorella di Raif Badawi, noto blogger in carcere dal 2012 per apostasia, tradimento e offesa alla religione islamica. Sua moglie e tre figli si sono rifugiati in Canada dal 2015. Ma fin da domenica la Casa di Saud che regna a Riad ha deciso che questa volta, forse per la diffusione così pubblica del tweet canadese, le critiche erano troppe: ha replicato con il richiamo dell’ambasciatore saudita e l’espulsione di quello canadese. La messa al bando di nuovi accordi commerciale o di business, l’ordine di dimissioni di asset e investimenti, la cancellazione di voli e il richiamo di migliaia di giovani sauditi che studiano presso istituti canadesi come di pazienti in ospedali del Paese. Freeland, per tutta risposta, ha ribadito che “il Canada difenderà sempre i diritti umani e diritti delle donne sono diritti umani”. La realpolitik dietro l’escalation - C’è, con ogni probabilità, anche un calcolo di realpolitik alle spalle dell’escalation. La posta in gioco immediata in cifre sembra bassa per entrambi: un interscambio bilaterale da circa 2,5 miliardi di dollari quest’anno, 1,5 miliardi di import canadese e un miliardo in direzione opposta. Gli investimenti sauditi in Canada ammontano a 6 miliardi dal 2006 a oggi. E uno dei contratti pluriennali più ingenti è già uno dei più controversi: la vendita da 12 miliardi a Riad di 900 veicoli corazzati made in Canada, utilizzabili anche per repressione interna. Potrebbero dunque prevalere gli obiettivi cercati. La monarchia saudita ha la preoccupazione di riformare il paese, diversificando la sua economia, senza alienare l’élite ultra-religiosa né perdere il controllo - nel caso delle donne va bene la patente purché restino condannate alla ferrea tutela di “protettori” maschi. Trudeau, da parte sua, nell’ottobre 2019 ha un appuntamento incerto con le urne e il desiderio di tener fede a promesse e rafforzare la sua immagine. Le incognite sono però sotto gli occhi di tutti: ogni incrinatura, nel difficile clima per relazioni internazionali e consessi multilaterali, minaccia di trasformarsi in pericoloso crepaccio. Trudeau, temono alcuni osservatori nella stessa Ottawa, potrebbe aver sottovalutato i nervi delicati di Riad e il proprio isolamento, ottenendo alla fine poco. Ma i rischi sono elevati anche per la “dura” oligarchia saudita: il sogno economico di bin Salman, già sospettato di eccessive purghe contro il mondo degli affari, è predicato sulla fiducia di investitori globali che potrebbero giudicare il suo nuovo atto, la guerra al Canada sui diritti umani e delle donne, una dimostrazione, più che visione, di volatilità, scarsa credibilità e in, ultima analisi, fragilità. Cina. L’Onu accusa: “cittadini uiguri rinchiusi in campi di internamento” di Filippo Santelli La Repubblica, 12 agosto 2018 La denuncia della comunità internazionale sul trattamento di un milione di cittadini appartenenti alla minoranza musulmana. Lo Xinjiang, la provincia più occidentale della Cina abitata da una numerosa minoranza musulmana, è diventata “un enorme campo di internamento avvolto dal segreto”, una “zona senza diritti”. A denunciare la repressione di Pechino nei confronti dei cittadini di islamici di etnia uigura e kazaka ora non sono più solo attivisti o organizzazioni umanitarie, a lungo voci inascoltate, ma le Nazioni Unite. Il comitato di esperti per l’Eliminazione della discriminazione razziale, riunito in queste ore a Ginevra per la periodica revisione della situazione in Cina, giudica “credibili” i rapporti ricevuti secondo cui un milione di cittadini sarebbero richiusi nei centri di rieducazione senza alcuna accusa né assistenza legale, sottoposti per il solo fatto di essere musulmani a un lavaggio del cervello nazionalistico. Alcuni stime avevano quantificato il numero di internati tra i 200 mila e il milione: gli esperti dell’Onu danno credito alla versione più tragica, che vedrebbe coinvolto circa il 10% della popolazione musulmana adulta. Finora Pechino ha sempre negato l’esistenza dei campi di rieducazione. Tra le minoranze dello Xinjiang sono presenti dei nuclei indipendentisti, in passato protagonisti di attacchi alla polizia e atti di terrorismo. La campagna anti-estremismo lanciata da Xi Jinping però si è trasformata mese dopo mese in qualcosa di radicalmente diverso. Il territorio dello Xinjiang è stato militarizzato e messo sotto il controllo di un apparato di sorveglianza di massa che comprende telecamere, software spia nei cellulari e schedatura dei cittadini attraverso il prelievo di campioni biologici. La libertà di culto è stata limitata, mentre il numero di arresti è cresciuto a dismisura: l’anno scorso il 21% di tutte le detenzioni in Cina è stato registrato qui, dove vive meno dell’1,5% della popolazione del Paese. Nel frattempo, secondo la testimonianza di attivisti o musulmani scappati all’estero, si sono moltiplicati i centri di rieducazione, vere e proprie strutture detentive dove i musulmani vengono rinchiusi e indottrinati all’amore per la Cina e il Partito. Adem yoq, “se ne sono andati tutti”, è la frase con cui gli uiguri descrivono la sparizione di parenti o amici di cui non hanno più notizie. Finora l’unico Paese a puntare il dito contro le autorità comuniste, per bocca del vice presidente Mike Pence, sono stati gli Stati Uniti, aprendo un fronte in più nella sfida sempre più a tutto campo con la Cina. La riunione del comitato Onu contro la discriminazione razziale, che proseguirà lunedì, è diventata così la prima occasione di confronto ufficiale sulla repressione in corso nello Xinjiang. A presentare il rapporto che accusa Pechino è stata l’americana Gay McDougall, vice presidente del comitato e tra i maggiori esperti al mondo di diritti delle minoranze; la delegazione statunitense alle Nazioni Unite ha già chiesto alla Cina di liberare i cittadini detenuti in maniera arbitraria. Finora la numerosa squadra cinese presente a Ginevra si è trincerata in un ermetico silenzio, ma lunedì al termine dei lavori potrà mettere a verbale una risposta ufficiale. In cui dovrebbe ribadire la sua versione: in Xinjiang le libertà dei musulmani, personali e religiose, sono del tutto garantite. Cuba. Osservatorio diritti umani denuncia governo per arresto leader dell’opposizione Nova, 12 agosto 2018 L’Osservatorio cubano per i diritti umani ha presentato una denuncia all’Onu contro il governo del presidente Miguel Diaz-Canel per l’arresto del leader di opposizione José Daniel Ferrer e del dissidente Ebert Hidalgo. Il portavoce dell’Unione patriottica cubana (Unpacu) Carlos Amel Oliva ha detto che i due sono accusati di “tentato omicidio”, e detenuti in carcere preventivo in attesa che il caso sia esaminato dal ministero degli Interni. Secondo l’Osservatorio, “è evidente che si tratta di un arresto e di un processo fabbricato per impedire l’esercizio dei diritti politici di questi due cittadini”, si legge nella nota inviata al Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite per le detenzioni arbitrarie. I firmatari chiedono all’Onu di “dichiarare arbitraria la detenzione dei due e di richiederne l’immediata liberazione”. I fatti sono l’attuazione di un “modus operandi” conosciuto, continua l’Osservatorio, “consistente nell’intentare cause o processi amministrativi o penali sotto l’apparenza di processi comuni”. Ferrer è uno delle guide principali della dissidenza cubana. Ha fatto parte dei 75 oppositori che furono detenuti nel 2003 durante la Primavera Negra. Fu condannato a 25 anni di carcere, poi liberato nel 2011 come parte del processo di scarcerazione mediato dalla Spagna e dalla Chiesa cattolica.