Suicidi e oblio, l’agosto nero delle carceri italiane di Fulvio Fulvi Avvenire, 11 agosto 2018 Da inizio anno sono stati registrati 34 suicidi, dal 2000 se ne contano 1.021. Attendiamo l’attuazione del “contratto di governo” che prevede un piano per l’edilizia penitenziaria. Su ottantuno morti accertati dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane, trentaquattro sono suicidi. Storie di disperazione dove spesso, oltre alla depressione e alla rabbia per una condizione disumana, c’entra anche la droga. Gli ultimi cinque suicidi sono stati registrati solo nel mese di agosto, sette a luglio. Mercoledì scorso a togliersi la vita è stato un giovane che scontava la sua pena a Poggioreale, Napoli: aveva 29 anni, si è impiccato con un lenzuolo alle inferriate mentre i suoi compagni di cella passeggiavano in cortile durante l’ora d’aria. Venti giorni prima altri due reclusi si erano tolti la vita, in momenti diversi, nei padiglioni del carcere partenopeo dove attualmente sono stipati più di 2.250 detenuti (capienza massima 1.500). Ma l’emergenza suicidi riguarda altri istituti penitenziari, come quello di La Spezia, nel quale il 5 agosto si è ucciso un egiziano di 60 anni, o di Genova Marassi nel quale ha deciso di farla finita un trentenne senegalese che pure era stato messo sotto sorveglianza dalla direzione perché ritenuto dagli psichiatri capace di atti di autolesionismo. Nella Casa Circondariale di Paola, in provincia di Cosenza, un ragioniere campano di 75 anni è morto perché rifiutava il cibo: da mesi era in attesa di giudizio per aver ucciso la moglie (delitto che aveva confessato). Dal 2000 ad oggi i carcerati che hanno perso la vita, per ragioni diverse, all’interno di un istituto penitenziario, sono stati 2.815. Sull’allarmante incremento delle morti in carcere è intervenuto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Francesco Minisci il quale ha sottolineato come nei penitenziari italiani vengano anche sventati centinaia di tentativi di suicidio: “I principi di certezza della pena e della sua funzione rieducativa possono considerarsi davvero effettivi - commenta il magistrato - solo se per le pene detentive nelle carceri (ma lo stesso vale per le misure cautelari) sono garantite condizioni di dignità e umanità, principi costituzionali imprescindibili”. Intanto, il ministero della Giustizia annuncia che, su iniziativa del ministro Alfonso Bonafede e del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, sarà avviata “una mirata attività ispettiva orientata a raccogliere tutti gli indispensabili elementi informativi in riferimento ad ogni suicidio avvenuto dal 1° gennaio e rispetto ad ogni ulteriore evento futuro della stessa natura”. Attendiamo di sapere dunque cause, dinamiche e modalità dei fatti. Ma anche l’applicazione del capitolo del “contratto di governo” che prevede un “piano per l’edilizia penitenziaria per la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento e ammodernamento delle attuali”. Un impegno gravoso al quale si aggiunge quello per un “piano straordinario di assunzioni”. E, in tema di sovraffollamento delle carceri, “l’attivazione di accordi bilaterali di cooperazione giudiziaria con gli Stati di provenienza”, per “consentire al maggior numero di detenuti stranieri di scontare la propria condanna nel Paese d’origine”. Intanto gli episodi di degrado e incuria nelle strutture “storiche” continuano. A Marassi nei giorni scorsi il Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ha segnalato condizioni igieniche “indecenti e vergognose”: un grosso ratto è stato visto correre nei corridoi tra le celle dei detenuti. Suicidi in carcere. Malinteso tra la certezza della pena e la certezza della galera di Samuele Ciambriello* Cronache di Napoli, 11 agosto 2018 Nelle ultime settimane Giovanni, Michele e Vincenzo hanno deciso di togliersi la vita all’interno del carcere di Poggioreale, mentre fuori da quelle mura continua il malinteso tra certezza della pena e certezza della galera. La clausura uccide. Questo elenco di morte, già denso di dolore, si allunga se vi aggiungiamo altri 3 decessi a partire da giugno per malattia, avvenuti nel carcere di SMCV, Napoli Secondigliano e Napoli Poggioreale. Morire d’estate insieme alla mancata riforma penitenziaria, sembra purtroppo un vero titolo giornalistico. Occorrono percorsi di reinserimento e di pene alternative, allontanandosi dall’inutile centralità del carcere. Vi è quindi la necessità di discutere, senza demagogia. delle forme e dei modi della decarcerizzazione. Questi ultimi tre drammatici suicidi avvenuti nel carcere di Poggioreale. nel quale sono ristrette 2.256 persone a fronte di una capienza di 1.659 posti, sono un campanello d’allarme che rischia di diventare ancora più pericoloso nei periodi estivi. Per questo motivo, attiverò i miei uffici e tutti i volontari a fare il maggior sforzo possibile per monitorare anche nel mese di agosto le condizioni negli istituti di pena campani, rese ancora più dure dal caldo implacabile di questi giorni. Mi preme però precisare che occorre coinvolgere figure sociali di sostegno quali: psicologi, psichiatri, assistenti sociali. Ma cosa manca, più di tutto in carcere? In verità quello che manca è amore. E manca nella società, nella famiglia, nei luoghi di vita abituale, nei quartieri e nelle scuole. Il carcere è lo specchio della società ma a volte, paradossalmente riesce a essere meno caino della società stessa. Ogni suicidio in carcere e una sconfitta per questa società. È una nostra sconfitta. Alla persona che “si mette in carcere” tu gli lasci la vita ma purtroppo gli alieni la mente a causa del degrado e del sovraffollamento, gli strappi gli affetti familiari non gli fai vivere le emozioni. Non si possono condurre ad un’unica matrice i suicidi in carcere, occorre sia rafforzare il sistema di prevenzione sia fare rete tra le diverse istituzioni anche mettendo in campo più formazione specifica per gli agenti penitenziari, per i volontari e l’area educativa, che operano all’interno del carcere. *Garante campano delle persone private della libertà personale Il Garante dei detenuti: “fragilità e angoscia, l’allarme per i suicidi è concreto” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 11 agosto 2018 Mauro Palma: “Un terzo dei reclusi assume psicofarmaci. E c’è delusione per la mancata riforma”. Il pacchetto del nuovo governo? “Ha buchi”. L’agghiacciante ritmo di queste tragedie sta accelerando durante l’estate. Ormai siamo a 34 suicidi dall’inizio dell’anno, più di uno a settimana. È allarmante e non si può farne ricadere la responsabilità solo sul sistema penitenziario. Ci sono tanti vuoti, tante assenze nella società, nei percorsi di vita che sfociano in un suicidio dietro le sbarre”. Dal 2016, Mauro Palma guida il collegio (composto anche da Emilia Rossi e Daniela de Robert) del Garante nazionale per i diritti dei detenuti e delle persone private di libertà. Professor Palma, a suo parere cosa sta determinando quest’ondata di suicidi? La decisione di togliersi la vita è sempre qualcosa di indecifrabile, ma analizzando le biografie di chi si suicida in carcere, si possono capire alcune cose. Un tempo, molti suicidi si erano macchiati di qualche “reato infamante”. Oggi invece, aumentano le persone giovani e fragili: pochi giorni fa, a Marassi si è tolto la vita un ragazzo senegalese, senza fissa dimora e con genitori sconosciuti, da poche ore in carcere per il cosiddetto “articolo 73, comma 5”, ossia spaccio di droga di lieve entità. Quante carenze, quanti vuoti sociali stanno dietro alla sua morte? Più in generale, nell’aumento di casi non è escluso che possa aver giocato un ruolo la recente delusione di molti detenuti. A cosa si riferisce? Alla mancata entrata in vigore della riforma Orlando? Mi spiego: si era creata una grande attesa, forse eccessiva, rispetto all’avvento della riforma, immaginata come una specie di panacea. Poi, all’attesa si è sostituita bruscamente la frustrazione per la mancata entrata in vigore, percepita come drammatica dai detenuti. E c’è un’altra cosa. Credo che il linguaggio usato da certa politica negli ultimi mesi possa aver avuto un peso. Cioè? Come si può usare un linguaggio sprezzante rispetto al disagio? Promettere di far “marcire in carcere” qualcuno e “buttar via la chiave” finisce per ingenerare un clima di angoscia in chi sta dietro le sbarre. Non può essere questo il linguaggio delle istituzioni: lo Stato ha il diritto/dovere di punire, ma non quello di farsi interprete di sentimenti di vendetta soggettiva. Insomma, il quadro complessivo è drammatico: la debolezza sociale crescente e la durezza linguistica di certi annunci istituzionali possono creare un contesto che può stritolare le persone più fragili. Cosa pensa del decreto legislativo sulle carceri messo in campo dal nuovo governo? Non credo che sia una controriforma rispetto alla normativa Orlando, ma non è neppure un salto in avanti. Nel nuovo pacchetto non c’è alcuna norma che intacchi le misure alternative al carcere già esistenti, ma neppure qualcuna che dia un senso di accompagnamento e di ritorno al sociale. In questo senso, le prospettive di “apertura” verso l’esterno sono state cancellate. È l’unico neo delle nuovo pacchetto? Ci sono altri “buchi”. Il primo è la totale assenza, nel provvedimento, di un quadro di riferimento europeo. E ciò cosa comporta? Nelle norme di altri Paesi europei (e non solo mediterranei, penso alla Germania) c’è meno detenzione e più probation, ossia misure e pene alternative. Da noi è il contrario e dunque l’esecuzione penale resta sbilanciata sulla detenzione. Inoltre, sono state ignorate le regole penitenziarie europee (che riguardano i 47 Stati aderenti al Consiglio d’Europa) e pure una recente posizione del Parlamento europeo, che invita gli Stati Ue all’armonizzazione delle normative. È un atteggiamento contraddittorio. Non si può dire da un lato: faremo scontare la pena ai detenuti stranieri a casa loro. E poi, dall’altro, non accettare di avere regole condivise con gli altri Stati Ue, per facilitare quei trasferimenti. Ma c’è un problema ancor più immediato. Quale? Aver giustamente abolito gli Ospedali psichiatrici giudiziari non significa aver abolito il problema dei malati psichici in carcere. Cosa sta accadendo? Oggi, nelle Rems vanno le persone in misura di sicurezza (non imputabili al momento del fatto). Ma ci sono molti altri detenuti che hanno sviluppato un disagio psichico dentro il carcere. E quel disagio si acuisce. Quanti detenuti sono in questa situazione? I casi estremi sono quasi un migliaio. Mentre quelli in una fase iniziale del disagio, è arduo quantificarli. Tuttavia, almeno un terzo della popolazione carceraria assume psicofarmaci per alleviare il proprio malessere. Spero, e mi auguro, che il governo abbia in mente su questo problema un provvedimento ad hoc. “Nella riforma manca ancora un’idea complessiva di detenzione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2018 Intervista a Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. “Finché le persone non le sperimenti, e le tieni esclusivamente all’interno di un mondo chiuso e che magari me lo rendi anche bello, non capirai mai come reagiranno al mondo esterno”. Così il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma spiega a Il Dubbio come il nuovo decreto della riforma dell’ordinamento penitenziario sia più rivolto ad affrontare aspetti settoriali che a ridefinire il corpus complessivo della legge delega n. 103 del 2017. Cosa c’è di nuovo con il decreto appena licenziato preliminarmente dall’attuale governo? Partiamo dal principio. La legge delega era stata concepita in parallelo con i tavoli degli Stati generali e c’era in qualche modo una corrispondenza tra i singoli punti, ovvero tutte quelle lettere che stanno nel comma 85 della legge delega. Quei punti si tenevano insieme attorno a una certa visione della detenzione. Con il nuovo testo appena licenziato dal governo, mancando di alcuni punti dove non si è esercitato il potere di delega, si perde il senso complessivo. Fermo restando che alcuni dei provvedimenti introdotti, presi singolarmente, hanno una loro validità, quello che manca è una idea complessiva di detenzione. Ad esempio, il fatto che non ci sia più la parte relativa alle misure alternative e la parte relativa all’abolizione degli automatismi che ne precludevano l’accesso, implica una non fiducia complessiva all’adozione delle pene alternative e quindi non assumerle più come elemento strutturante del trattamento penitenziario. Ovviamente non è un assenza per dimenticanza, ma è una evidente interpretazione delle misure alternative da parte del governo come una attenuazione della pena, anziché di una pena alternativa al carcere finalizzata non solo alla riabilitazione, ma anche per dare alla società elementi di conoscenza rispetto al detenuto che intraprende questo percorso. Quindi è chiaro che se si vuole mandare un messaggio di una detenzione dignitosa, ma ferma, le misure alternative non hanno più senso per il governo. Chiariamoci, le misure alternative rimangono, ma non vengono più prese in considerazione come parte integrante del trattamento. Una posizione cultural politica diversa da quella del governo precedente e sviluppata dagli stati generali. C’è dell’altro? Altro elemento omesso e che mi desta preoccupazione è la mancata considerazione del disagio mentale. Non si aggiorna, ad esempio, l’articolo 147 del codice penale che prevede la sospensione della pena solo per i detenuti con problemi fisici, escludendo quelli con problemi psichici. Così come l’articolo 148 che prevede un invio agli ex Opg ma, dal momento che non ci sono più, i detenuti psichiatrici rischiano di rimanere in carcere. Questa disattenzione al problema psichico che pure non sfugge all’attuale ministro della Giustizia e ai sottosegretari, mi lascia sperare che possa essere una premessa per affrontarlo tramite un altro provvedimento. Avendo dialoghi istituzionali con il ministro della Giustizia Bonafede, lei ha avuto qualche sentore che almeno sul disagio psichico venga preso in considerazione un provvedimento ad hoc? No, non ho avuto sentori. Ma le posso assicurare che conoscono il problema. Quello che voglio dire è che mentre sulla questione delle misure alternative possono avere una posizione ideologica differente, su questi altri temi mi fido del fatto che conoscendo il problema, prima o poi, si voglia intervenire. Altra considerazioni? Altro elemento che ho trovato carente è il mancato riferimento alle regole penitenziarie europee. Le regole condivise sono importanti, perché non ci si può limitare esclusivamente nello spazio giuridico del proprio Paese. Noi discutiamo da anni e anni dell’esecuzione penale in ambito europeo, perché servono per favorire anche le estradizioni e quindi avere una certa fruibilità. La loro scelta di omettere questo riferimento, credo che sia una riposta localistica nei confronti dell’Europa. Togliendo questo riferimento, non cambia tanto il decreto in sé, ma il suo humus culturale. Il governo ha comunque accolto diversi parti del testo originale della riforma... Sì, sui singoli provvedimenti ci sono diversi elementi condivisibili. Certo, alcune delle norme, con qualche piccola correzione, purtroppo finiscono per avere una accezione minimale. Se nel testo originale era indicato un dovere, adesso in alcuni passaggi risulta una possibilità. Quando si passa dall’indicativo presente alle possibilità, le norme perdono di qualità e da adito a diverse interpretazioni. Se io aggiungo ad esempio “anche in questo modo” è chiaro che apro anche alla possibilità che tu non lo faccia. Possiamo dire che in sostanza la riforma rivista, punta esclusivamente alla dignità all’interno delle carceri? Sì, a questioni dignitose, ma che avvengano dentro. Io penso, invece, che finché le persone non le sperimenti, e le tieni esclusivamente all’interno di un mondo chiuso e che magari me lo rendi anche bello, non capirai mai come reagiranno al mondo esterno. Ciò non garantisce, quindi, nemmeno la sicurezza sociale. Poi c’è anche un’altra omissione che mi ha stupito, visto che è un governo anche giovane. Quale? Delle tecnologie non ne vedo traccia nel decreto. Come possiamo pensare, nel 2018, che se teniamo le persone in un tempo avulso dai mutamenti tecnologici, queste poi saranno in grado di inserirsi? La sfida vera è quella di accettare il presente e farlo in maniera controllata. Quindi anche accettare l’utilizzo di Skype per comunicare con i familiari. Farlo in maniera controllata, ma senza negare il mutamento del presente. Il decreto originale della riforma, infatti, prevedeva che tutte le comunicazioni, per mantenere il legami familiari, avvenissero con le varie tecnologie. Lei, nell’ultima relazione, ha definito il 2018 un anno di attesa per quanto riguarda le persone private delle libertà. Ora che la riforma rivisitata sarà definitivamente approvata, che succede? Direi che c’è un pericoloso momento di sospensione, la quale rischia di rifluire in una grande delusione. Mi auguro che vengano inviati dei segnali di attenzione anche attraverso delle visite istituzionali all’interno delle carceri. I segnali possono essere non soltanto sul piano normativo, ma anche su quello dell’ascolto. A dire il vero, anche nel passato - parlo del governo precedente, si era creata un’attesa eccessiva, come se il decreto sarebbe stato salvifico. In fondo non era eccezionale perché non accolse totalmente le linee guida emerse dagli Stati generali, però complessivamente avrebbe rimesso in sesto determinati meccanismi. Quella di adesso, invece, è una rimessa in regola di alcune parti di questi stessi meccanismi. Nel frattempo aumentano i suicidi… Rispetto alla questione suicidi, sono molto contrario quando vengono sempre trovate delle colpe interne. A volte ci possono essere, però in generale non si può chiedere al personale di polizia penitenziaria di assumersi la responsabilità di altre assenze. Loro già lavorano in situazioni molto complesse. Penso al suicidio del giovane senegalese al carcere di Marassi. Era senza casa, povero e solo. Chi l’ha mandato in carcere nonostante la lieve entità del reato e perché era abbandonato? Non possiamo dare la responsabilità a chi gestisce la parte finale di altre trascuratezze. C’è una responsabilità innanzitutto del “sistema sociale”, quello giudiziario e a volte, anche il sistema sanitario in carcere. In sintesi c’è una responsabilità collettiva. Carcere, la ricetta del governo e le controindicazioni della Cedu di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 11 agosto 2018 L’ultimo a togliersi la vita è stato un uomo di trent’anni, nel carcere di Napoli-Poggioreale. Trovato impiccato nella cella dagli altri detenuti dopo l’ora d’aria. Nell’istituto napoletano tre suicidi in pochi giorni, ma il fenomeno attraversa tutto il Paese. Dal mese di luglio ad oggi 11 suicidi: La Spezia (2), Genova, Paola, Udine, Viterbo, Pesaro, Verona. Dall’inizio dell’anno 35 suicidi e 80 morti per malattie. Una tragica e mortificante statistica che trova il picco più alto durante l’estate, quando il caldo si aggiunge alle altre condizioni che rendono la permanenza in carcere insopportabile ed i corpi e le menti decidono di spegnersi. È stato sempre così, da anni. Ma il colpo di spugna che il governo ha voluto dare alla Riforma dell’Ordinamento penitenziario rende gli ultimi drammatici avvenimenti ancora più dolorosi per coloro che rispettano la vita altrui, di tutti, anche degli ultimi. Più carcere, meno misure alternative! Questo lo slogan del ministro della Giustizia, in nome di una “certezza della pena” interpretata senza alcun riferimento reale e sbandierata come vessillo di sicurezza per il Paese. Non importa se la ricetta governativa ha molteplici controindicazioni, più volte evidenziate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, da esperti del settore, da studi statistici e certamente non ultima dalla nostra Corte Costituzionale. La “rieducazione” si fa in carcere! Altro slogan della nuova classe politica, per ammaliare i cittadini e far credere loro che così saranno più sicuri, senza delinquenti che scontano pene in libertà. Ma la seduzione finirebbe presto se all’opinione pubblica si facesse comprendere che il detenuto che deve scontare anni di carcere, un giorno sarà rimesso in libertà e, non a caso, il percorso di reinserimento sociale prevede la possibilità (la decisione della concessione spetta sempre al magistrato) che la parte finale della pena sia scontata in misura alternativa, oggi detta di comunità. L’intera condanna in carcere, non solo è di per sé contro il concetto di “certezza della pena” (principio che deve comprendere un dato quantitativo e uno qualitativo), ma costituisce la base per una recidiva pressoché certa. La misura (sarebbe meglio definirla “pena”) alternativa, altro non è che una modalità di esecuzione della condanna che consente il graduale inserimento del detenuto nella società. Al Governo non si possono addebitare le responsabilità delle morti in carcere, vi è un concorso trasversale che investe tutti i politici, ma certamente vi è la grave colpa di aver voluto eliminare dalla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario la possibilità per il Magistrato di Sorveglianza di consentire, ove possibile, l’esecuzione della pena all’esterno del carcere, senza automatiche preclusioni, che comunque resterebbero per i condannati per delitti di mafia e terrorismo. Errore politico grave che mira al consenso a breve termine, senza alcuna effettiva strategia. Le carceri continuano a sovraffollarsi, le condizioni di vita a peggiorare, i decessi naturali (o meglio innaturali) e i suicidi ad aumentare, mentre il Paese è lasciato nell’illusione che la strada intrapresa è quella giusta, quella del “cambiamento”. *Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane Carceri, l’apertura di Bonafede: “le sentenze saranno scontate vicino casa” Il Messaggero, 11 agosto 2018 Carcere duro e no alle pene alternative. Ma, nello schema di decreto del governo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario verrà considerato preferenziale come luogo dove far scontare la pena a un condannato, la struttura penitenziaria più vicina al luogo dove si trova la famiglia o gli affetti del condannato. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede intervenendo a Radio24 annunciando anche misure per rendere più efficace l’intervento dei mediatori culturali che “svolgono un’opera fondamentale per evitare che fuori dal carcere si creino situazioni rischiose” quando certe persone tornano in libertà. Il ministro ha ricordato la piaga del rischio di radicalizzazione e il reclutamento di manodopera da parte del crimine organizzato, entrambe fenomeni che si sviluppano nelle carceri. Nel decreto del governo, ha aggiunto ancora Bonafede, “c’è una norma che consentirà laddove è possibile di far intervenire i detenuti al processo tramite videoconferenza con l’adattamento tecnico delle carceri”, per evitare inutili e costosi spostamenti dei detenuti. Bonafede ha anche detto di star lavorando insieme al ministro della Cultura per mettere in campo misure di recupero dei minori che delinquono e ha ricordato l’importanza dei messaggi di legalità nelle scuole facendo riferimento a quando era studente a Mazzara del Vallo e i magistrati antimafia andavano a incontrare gli studenti nelle scuole. Fotografia, teatro e cucina. Il recupero passa dalla cultura di Fulvio Fulvi Avvenire, 11 agosto 2018 Da Nord a Sud, tante storie raccontano le possibilità di una rinascita dopo la condanna. Trenta fotografie scattate nel carcere di massima sicurezza di Milano- Opera. Sono ritratti in bianco e nero di persone recluse che devono scontare pene di lunga durata per gravi reati, anche l’ergastolo. Un esempio di come, anche nelle nostre prigioni, si possa invece costruire un’umanità nuova, recuperandola così a una vita apparentemente priva di prospettive. Le fotografie, frutto di un reportage sociale, fanno parte di una mostra autofinanziata che raccoglie materiale accumulato in cinque anni di lavoro. Gli scatti sono di Margherita Lazzati, una professionista della macchina fotografica che dal 2013, ogni sabato, ha frequentato il Laboratorio di scrittura creativa dell’istituto penitenziario milanese e, con il consenso dei detenuti, ha realizzato, un po’ alla volta, una galleria di ritratti. Volti e sguardi spesso enigmatici che mostrano la sofferenza della reclusione, ma anche gli altri stati d’animo che si possono provare durante la detenzione. Ombre e chiaroscuri che traboccano di un’umanità violata, corpi che lasciano intuire insospettabili attitudini della persona. Sono memoria, testimonianza, identità. Ma anche speranza. La mostra, dal titolo “Ritratti in carcere” e curata dalla galleria l’Affiche, è visitabile a Milano nei locali a pianoterra dell’università Bocconi fino al 31 ottobre. Storie positive. Ce ne sono tante, per fortuna, nelle realtà penitenziarie del nostro Paese. A Sulmona, in provincia dell’Aquila, per esempio, per celebrare i duemila anni dalla nascita di Ovidio un gruppo di attori-detenuti ha messo in scena nel febbraio scorso “Le metamorfosi”, opera del poeta sulmonese. Nella Casa di Reclusione di Opera, nel Milanese, è attivo da anni un laboratorio in cui si impara a recitare, cantare e ballare. Tra gli spettacoli prodotti, “Il figliol prodigo”, messo in scena da tredici detenuti di “alta sicurezza” all’interno dell’istituto penitenziario che per l’occasione ha aperto i cancelli a un pubblico esterno, esibendosi sia al Teatro del la Luna di Milano, a Brescia e al Teatro Ariston di Sanremo. Si chiama “Fine pane mai”, la bottega di Rebibbia, a Roma, dove i detenuti preparano, anche per clienti esterni, pizze, dolci e altri prodotti gastronomici. A Lecce, Venezia, Ragusa, Pozzuoli, nel carcere minorile di Palermo e in tanti altri istituti di pena sparsi per l’Italia i detenuti realizzano, anche attraverso la creazione di cooperative, oggetti di design, borse, vestiti, marmellate, birre, formaggi e tanto altro che vengono venduti all’esterno. Progetto Riscatto, infine, è una cooperativa nata all’interno della Casa Circondariale di Verona con la volontà di ridare nuova speranza a chi ha sbagliato e sta scontando la propria pena dietro le sbarre. Bonafede: “Darò più forza al diritto di difesa nelle intercettazioni” di Errico Novi Il Dubbio, 11 agosto 2018 Il Guardasigilli: l’avvocato non dovrà ascoltare settimane di registrazioni. “Sulle intercettazioni ho già ricevuto contributi dalle Procure, così come ne ho chiesto e ottenuto uno dal Consiglio nazionale forense. Lo solleciterò alle associazioni forensi di settore, le Camere penali, che ho già incontrato”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede mostra di aver ben chiara la delicatezza del dossier relativo agli “ascolti”. Lo fa nella lunga diretta di ieri su Radio 24 in cui accetta domande sia da giornalisti che da semplici ascoltatori. Si sofferma anche su prescrizione (“la ragionevole durata del processo deve garantirla lo Stato, non devono pagarla i familiari delle vittime come a Viareggio”) e legittima difesa (“è presto per dire quali articoli del codice toccheremo ma vanno eliminate dalla disciplina le zone d’ombra”). Non mancano passaggi sul carcere - con una pur prudentissima apertura sulle misure alternative, da concedere “dopo accurati controlli e a chi davvero le merita” - e persino sulla produttività delle toghe: “Ho chiesto all’ispettorato del ministero di intensificare il lavoro, è chiaro che anche tra i magistrati possono esserci le mele marce”. Delle molte considerazioni fatte in diretta dal guardasigilli, colpisce l’attenzione riservata alle intercettazioni e in particolare al diritto di difesa. Bonafede mostra di aver ben colto uno degli aspetti cruciali che gli sono stati sottoposti dal Consiglio nazionale forense. In un documento trasmesso lo scorso 6 luglio dal presidente Andrea Mascherin ed elaborato in base ai rilievi fatti insieme con l’Unione Camere penali, il Cnf ha segnalato tra l’altro come nel decreto di Orlando permanessero incertezze interpretative sia sulla possibilità che il difensore possa ottenere copia dei file digitali, sia rispetto all’accessibilità delle vere e proprie trascrizioni, oltre che dei verbali di sintesi delle operazioni di intercettazione. Il che, si ricorda nelle osservazioni dell’avvocatura istituzionale, limita la possibilità di “meglio articolare le difese”, visto che resta esplicitamente ammesso solo “l’ascolto delle comunicazioni registrate”. Ebbene, anche in virtù di una formazione da avvocato, Bonafede assicura ai microfoni della radio di Confindustria che “dovranno sì essere fissate modalità di raccolta delle intercettazioni che consentano di distinguere le parti penalmente rilevanti, ma si deve anche garantire il dirttto alla difesa per gli indagati. I quali”, nota il ministro della Giustizia, “tramite il loro avvocato devono poter accedere a tutto il materiale raccolto”. È un riconoscimento importante. “Con il decreto Orlando il difensore non poteva accedere immediatamente ad atti in cui le conversazioni fossero nero su bianco”. Laddove “il difensore ha bisogno di collocare le frasi del suo assistito nel contesto giusto, per coglierne un significato che possa essere eventualmente utile alla sua posizione. Ma è chiaro che non gli si può lasciare un termine di appena dieci giorni, durante i quali lo stesso difensore dovrebbe correre in una saletta della Procura per mettersi le cuffie e ascoltare le telefonate intercettate magari nel corso di molte settimane. Con il testo del precedente governo, insomma, non si rischiava solo di danneggiare le indagini ma anche il diritto di difesa”. Anche per questo il guardasigilli rivendica “con orgoglio” il “merito” di aver bloccato quella che definisce “una folle riforma delle intercettazioni che, secondo la mia opinione, finiva solo per proteggere i politici”. Bonafede non si sofferma su un altro aspetto specificamente segnalato nel documento del Cnf, e più volte richiamato dall’avvocatura nel corso di questi anni: la necessità di “rafforzare l’effettività del divieto di intercettazione con ogni mezzo - delle comunicazioni e delle conversazioni tra avvocato e cliente”, come si legge nelle osservazioni inviate a via Arenula il 6 luglio. Il Cnf ricorda che sì, la riforma Orlando realizzava “una tutela speciale”, per tali comunicazioni, per le quali veniva sancito, oltre alla già prevista inutilizzabilità, anche il divieto di trascrizione, a cui il pm non poteva derogare in alcun caso, salvo qualora il colloquio “costituisca corpo del reato”. Eppure, ricorda il Cnf, neppure quella disposizione mette al riparo dal rischio che il contenuto di quelle intercettazioni “venga comunque a conoscenza dell’accusa”. Ecco perché servirebbe “l’immediata interruzione” dell’intercettazione e la “immediata distruzione” di quanto comunque acquisito dalla polizia. Una richiesta che il presidente del Cnf Mascherin ha esposto poco più di un anno fa anche al consigliere giuridico del Quirinale Stefano Erbani, e che sarà uno dei fronti più caldi nella discussione col governo sul nuovo testo delle intercettazioni. Intercettazioni, Bonafede: “bloccato folle riforma che proteggeva politici” Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2018 Il guardasigilli torna ad attaccare la nuova legge sugli ascolti telefonici varata dal suo predecessore Andrea Orlando e la cui entrata in vigore è stata prorogata con il decreto Milleproroghe. Poi ha annunciato di aver incaricato l’ispettorato del ministero “di avviare un percorso di monitoraggio dettagliato” sulla produttività dei giudici. La definisce una “folle riforma” che aveva “solo la funzione di proteggere i politici”. Il guardasigilli Alfonso Bonafede torna ad attaccare la nuova legge sulle intercettazioni telefoniche varata dal suo predecessore Andrea Orlando e la cui entrata in vigore è stata prorogata con il decreto Milleproroghe. “Ho bloccato la folle riforma Orlando che aveva solo la funzione di proteggere i politici dalle intercettazioni, e adesso dalle Procure e dal Consiglio nazionale forense ho già ricevuto dei contributi per riscrivere la legge e ho già avuto incontri con le camere penali”, ha detto a Radio 24 il ministro della giustizia del Movimento 5 stelle. “Le intercettazioni sono uno strumento eccezionale - ha aggiunto - ma deve essere garantito il diritto alla privacy ed anche l’interesse della collettività ad avere indagini efficaci. Sarà importante individuare le parti penalmente rilevanti garantendo il diritto di difesa e l’accesso dell’avvocato” al materiale intercettato. Secondo il ministro, infatti, la parte della riforma Orlando in cui si prevedeva di mettere a disposizione degli avvocati solo dieci giorni per ascoltare in cuffia le intercettazioni “danneggiava il diritto alla difesa”. Nel suo intervento radiofonico Bonafede ha poi annunciato di aver incaricato l’ispettorato del ministero “di avviare un percorso di monitoraggio dettagliato” sulla produttività dei magistrati italiani che, ha ricordato, “sono tra i più produttivi d’Europa, ci saranno anche tra loro delle mele marce, ma svolgono una funzione fondamentale e attraverso il monitoraggio si vedrà se c’è qualcuno che lavora male in termini di tempo o gestione del suo lavoro”. Il titolare di via Arenula è intervenuto poi su due delle riforme che dovrebbe varare l’esecutivo dopo l’estate: quella sulla legittima difesa e quella sulla prescrizione. Il primo tema, sostiene il ministro, sarà al centro di un “dialogo tra governo e parlamento” alla ricerca “di un punto di equilibrio per evitare che il cittadino che ha agito per legittima difesa e si trova da solo in giudizio, si trovi ad affrontare un viaggio in mezzo ai cavilli per dimostrare la sua innocenza”. Sulla prescrizione, invece, Bonafede si è limitato a ribadire quanto sostenuto in passato: “Voglio che i termini della prescrizione siano ragionevoli, non è un problema che deve ricadere sulle spalle dei cittadini come per il processo per la strage di Viareggio dove due reati minori sono già caduti in prescrizione e non è possibile dire questa cosa ai familiari delle vittime”. Il ministro della giustizia ha poi annunciato che nello schema di decreto del governo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario verrà considerato preferenziale come luogo dove far scontare la pena a un condannato, la struttura penitenziaria più vicina al luogo dove si trova la famiglia o gli affetti del condannato. Il ministro ha ricordato la piaga del rischio di radicalizzazione e il reclutamento di manodopera da parte del crimine organizzato, entrambe fenomeni che si sviluppano nelle carceri. Nel decreto del governo, ha aggiunto ancora Bonafede, “c’è una norma che consentirà laddove è possibile di far intervenire i detenuti al processo tramite videoconferenza con l’adattamento tecnico delle carceri”. Sul fronte dei dipendenti dei tribunali, invece, Bonafede ha riconosciuto di avere bisogno di ancora un po’ di tempo per studiare la situazione: “Giudici di pace e tirocinanti - ha detto - sono persone che hanno lavorato a nero per il ministro all’interno dei tribunali, per 400 euro al mese e senza garanzie previdenziali. Ho bisogno di due mesi di tempo per capire quali sono i margini per invertire la rotta. Devo correggere questa situazione: precarietà non ce ne sarà più”. “Giudici, controlli sulla produttività” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 11 agosto 2018 Annuncio del guardasigilli Bonafede: monitoraggio avviato. Un tema che fa sempre discutere. Sulla produttività dei magistrati, che ha impegnato negli anni più circolari del Csm, torna il nuovo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Prima della pausa estiva, annuncia di aver incaricato gli uffici dell’ispettorato di “avviare un percorso di monitoraggio dettagliato”. Anche se, precisa il ministro: “I magistrati italiani sono tra i più produttivi d’Europa, ma ci saranno tra loro delle mele marce”. Trovare criteri validi per misurare la produttività dei magistrati non è stato mai semplice. Soprattutto per le diversità di quantità e qualità nell’utenza dei 26 distretti giudiziari e 140 tribunali italiani. Differenze anche negli organici e nelle tipologie di reati e contenziosi. Il Csm, per superare queste differenze, ha creato il concetto di “laboriosità intelligente”. Che ha così definito, in una circolare: “la capacità di trovare, in ogni contesto organizzativo/lavorativo, il metodo migliore di operare”. Tre anni fa, una comparazione sui numeri elaborata dal ministero della Giustizia evidenziava le differenze produttive tra i tribunali. In quelle tabelle, ad esempio, figuravano definiti in media 644 procedimenti a Foggia e 91 a Bolzano. Ma le cifre davano in media 652 processi ultimati per giudice con 622 nuovi fascicoli a magistrato. Ma, da presidente dell’Anm, fu Piercamillo Davigo a tagliare corto: “I magistrati italiani sono i più produttivi tra i loro colleghi europei” disse. E fece riferimento al rapporto Cepej della commissione europea per l’efficacia della giustizia. Un rapporto che dava i magistrati italiani di prima nomina al 15esimo posto per entità di stipendio annuale lordo. Secondo quel rapporto, l’Italia era al secondo posto dopo la Russia per contenziosi civili: due milioni e 400mila. La definizione, invece, veniva calcolata di più 435mi1a rispetto ai nuovi fascicoli. Nel settore penale, invece, all’Italia si attribuiva il record nella capacità dei magistrati di smaltire i processi (un milione e 288.171). Fu polemico con Davigo il quotidiano il Foglio che, in contrasto con le tabelle del Cepej, scrisse: “Che il sistema giudiziario italiano, uno dei più lenti del continente, abbia magistrati che rendono quattro volte più dei tedeschi, produttivi al di là della sostenibilità umana, sembra poco credibile. L’aumento di risorse per la giustizia, stanziate per informatizzare il sistema e aumentarne la produttività, è stato dovuto dall’incremento del costo dei giudici”. L’importanza di individuare criteri di produttività per i magistrati è legata alle singole valutazioni di professionalità. Scrive il centro studi della corrente di Mi, in un suo documento: “La valutazione di professionalità del magistrato sub parametro della produttività deve essere fondata su parametri quantitativi conosciuti prima, tendenzialmente stabili nel tempo e frutto di procedure semplici e immediatamente controllabili dal magistrato”. È il dirigente del singolo ufficio giudiziario a dover pianificare nell’anno la media di produzione provvedimenti, da suddividere tra i magistrati in organico. Partendo da questi dati prefigurati, si dovrebbero poi successivamente dare valutazioni di professionalità e capacità individuali. Ma ha avvertito l’Associazione nazionale magistrati: “Il rischio è quello di trattare in modo identico situazioni profondamente diverse, penalizzando proprio i magistrati che prestano servizio nelle realtà più difficili”. E ancora: “Occorre individuare un range di produttività su base nazionale che possa adeguatamente contemplare le numerose variabili che incidono sulla produttività del magistrato, anche in ragione delle diverse funzioni”. Un campo in cui il Csm è intervenuto più volte con delle circolari e sarà banco di prova anche nella nuova consiliatura da fine settembre. Mentre il ministro annuncia il suo monitoraggio sulla produttività dei magistrati, solo tre mesi fa proprio in via Arenula veniva approvato il documento sulle performance firmato da Simona Rossi. Vi si parla di una diminuzione, dal 2013, di cause civili pendenti (un milione e mezzo in meno rispetto al 2013). Calo del 7,2 per cento di pendenze anche nelle Procure e del 4,3 per cento nei processi penali. Ma, si legge nella relazione, “la prescrizione conserva una rilevante incidenza sulla sorte dei procedimenti con una lieve crescita”. Nel primo semestre del 2017, la prescrizione ha inciso nei processi di appello per il 25 per cento. Da qui i rimedi proposti: “deflazionare tale grado di giudizio, rivedere gli organici in appello, approfondire le situazioni delle corti in particolare sofferenza, come Venezia, Roma, Napoli, Torino, che incidono per oltre il 50 per cento sulle prescrizioni a livello nazionale”. Ingiusta detenzione. L’aquilano Petrilli a Strasburgo per sit-in di protesta abruzzoweb.it, 11 agosto 2018 “In relazione al mio mancato risarcimento dopo sei anni di ingiusta detenzione avevo deciso di arrendermi e non fare più nulla. Ma dopo aver appreso che la corte europea di Strasburgo, in modo del tutto arbitrario, decide a chi dare o non dare il risarcimento, il 4 ottobre prossimo dalle ore dieci davanti la sede della corte, a Strasburgo in Francia, farò un sit-in di lotta e di protesta contro la giustizia dei potenti. Invito tutti a partecipare”. Lo annuncia l’aquilano Giulio Petrilli, che da anni conduce una battaglia per ottenere dallo Stato italiano il risarcimento per ingiusta detenzione, dopo essere stato in carcere per sei anni e alla fine assolto dalla Cassazione. “È notizia di giorni fa che alle Pussy Riot, gruppo punk russo, nonostante condannate a due anni, la corte europea ha obbligato la Russia a risarcirle, sanzionando sia l’esito processuale che la detenzione. Anche un cittadino russo detenuto per più giorni della condanna avuta, verrà risarcito con sentenza della corte europea con più euro di quelli elargiti dalla Russia. A me invece, tempo fa, con giudizio monocratico, una giudice macedone ha deciso che nonostante fossi stato assolto dopo sei anni di carcere (con l’accusa di partecipazione alla banda armata Prima Linea) non andava concesso il risarcimento e mi hanno anche obbligato a pagare le spese processuali. Questo perché la corte europea di Strasburgo usa due pesi e due misure”, scrive in una nota l’aquilano. “Protegge l’Italia che fa parte del blocco atlantico e attacca la Russia sempre! Il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione vale per alcuni e non per altri! Se fossi stato cittadino russo e detenuto li, sarei stato risarcito! Per questo motivo decido di denunciare il tutto, organizzando un sit-in davanti il tribunale di Strasburgo! Questo per affermare il diritto che chiunque venga ingiustamente privato della libertà personale debba essere sempre risarcito. Questo dice la convenzione europea dei diritti dell’uomo”, aggiunge. “Non possono passare sotto silenzio queste ingiustizie della corte europea di Strasburgo e quella dei tribunali italiani che non concedono a molti il risarcimento per ingiusta detenzione per un semplice giudizio morale, “cattive frequentazioni”. Una follia giuridica in antitesi a tutti i trattati internazionali! Il diritto internazionale viene cancellato e la corte europea sta avallando questo! Con il sit-in al quale invito tutti i democratici a partecipare, voglio rompere il silenzio intorno a questa grande ingiustizia!”, conclude Petrilli nella nota. Firenze: carcere di Sollicciano, ora d’aria sospesa per rischio di crolli nove.firenze.it, 11 agosto 2018 “Nel carcere di Sollicciano è stata sospesa l’ora d’aria. Da parecchi giorni, infatti, a causa di un crollo strutturale in uno dei passeggi sono stati chiusi tutti e tredici i passeggi interni” segnala Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze. “Donne e uomini ristretti nel carcere fiorentino sono quindi costretti a rimanere al chiuso delle celle per ventiquattro ore anche nel periodo delle ondate di caldo intenso, senza la possibilità di usufruire delle quattro ore d’aria previste dal regolamento. Dopo il crollo, avvenuto qualche giorno fa e un sopralluogo dei tecnici del Prap, la direzione a titolo precauzionale ha deciso di chiudere tutti i passeggi e non solo quello dove è avvenuto il cedimento strutturale”. “Fonti interne al carcere riferiscono che la situazione sta diventando critica. Il clima oltre che caldo per motivi meteo è intriso d’irritazione e preoccupazione. Una situazione pericolosa in un’istituzione totale come il carcere dove sussiste il controllo operato dall’alto sui soggetti membri e qualsiasi alterazione alla difficile vita quotidiana provoca un’inevitabile reazione. A volte imprevedibile. Già i percorsi di rieducazione e risocializzazione sono difficili nel carcere fiorentino, ma è certo che l’ulteriore aggravamento delle sue condizioni strutturali non aiuta né i detenuti, né la direzione, né il corpo della polizia penitenziaria né gli operatori”. Progetto Firenze ritiene necessario “lanciare un forte allarme e chiedere alle autorità competenti di risolvere con urgenza il problema, ripristinando velocemente la normale procedura di accesso all’ora d’aria nei passeggi. Il carcere è parte della città, e come tale deve essere considerato da tutti, cittadini e autorità competenti. Il carcere per uscire dal ghetto in cui si trova deve essere vissuto insieme”. “Ogni estate per il carcere di Sollicciano è un problema. Un anno dopo se possiamo gioire per il funzionamento dei ventilatori, che lo scorso anno furono donati e che non potevano funzionare per le difficoltà connesse al sistema elettrico della struttura, quest’anno una nuova, e forse ancor peggiore, situazione coinvolge tutte e tutti i detenuti, di ogni sezione: i passeggi, dove alcune ore al giorno potevano uscire, sono stati repentinamente chiusi dopo il crollo in un solo cortile del muro - afferma il Capogruppo di Firenze riparte a sinistra, Tommaso Grassi - Grave la situazione che perdura da qualche settimana, e obbliga a rimanere in cella senza poter uscire”. “Si tratta di condizioni inaccettabili in un carcere che possa definirsi dignitoso. Non si comprende come mai ben consapevoli delle temperature a cui le celle, piccole e sovraffollate, possono arrivare a toccare si sia voluto chiudere tutti i passeggi in via precauzionale. Impossibile non supporre che la permanenza al chiuso di uomini e donne possa avere anche ripercussioni negative sul clima dei rapporti sia di chi è detenuto che verso il personale che ci lavora, sia che questo sia della polizia penitenziaria, che sanitario o educativo. Si tratta quindi di una vera emergenza che non va in alcun modo sottovalutata dalle autorità”. “Chiediamo quindi a Comune, Regione e istituzioni carcerarie di attivarsi immediatamente per risolvere la situazione che stanno vivendo uomini e donne, recluse per i loro reati, ma a cui è riconosciuto il diritto di quattro ore al giorno poter uscire. Al Comune ricordiamo che il carcere è parte del nostro territorio e come tale chi vi è recluso ha diritto all’attenzione dell’amministrazione comunale in questi momenti. Non è certo nuovo il problema strutturale al carcere di Sollicciano, ma non può neppure essere la scusa per paura di non saper gestire adeguatamente la sorveglianza, che già deve subire una drastica riduzione rispetto all’organico e il cui personale risulta minore nel periodo estivo, per sottrarre un diritto ai detenuti e obbligarli a rimanere nei pochi metri quadrati a disposizione nelle celle con questo caldo torrido.” Crescono frustrazione e irritazione, occorre un intervento urgente Ci sono notizie che interessano pochi, specialmente nel periodo delle ferie. Nel carcere di Sollicciano è stata sospesa l’ora d’aria. Da parecchi giorni, infatti, a causa di un crollo strutturale in uno dei passeggi sono stati chiusi tutti e tredici i passeggi interni. Donne e uomini ristretti nel carcere fiorentino sono quindi costretti a rimanere al chiuso delle celle per ventiquattro ore anche nel periodo delle ondate di caldo intenso, senza la possibilità di usufruire delle quattro ore d’aria previste dal regolamento. Dopo il crollo, avvenuto qualche giorno fa e un sopralluogo dei tecnici del Prap, la direzione a titolo precauzionale ha deciso di chiudere tutti i passeggi e non solo quello dove è avvenuto il cedimento strutturale. Fonti interne al carcere riferiscono che la situazione sta diventando critica. Il clima oltre che caldo per motivi meteo è intriso d’irritazione e preoccupazione. Una situazione pericolosa in un’istituzione totale come il carcere dove sussiste il controllo operato dall’alto sui soggetti membri e qualsiasi alterazione alla difficile vita quotidiana provoca un’inevitabile reazione. A volte imprevedibile. Già i percorsi di rieducazione e risocializzazione sono difficili nel carcere fiorentino, ma è certo che l’ulteriore aggravamento delle sue condizioni strutturali non aiuta né i detenuti, né la direzione, né il corpo della polizia penitenziaria né gli operatori. Progetto Firenze ritiene necessario lanciare un forte allarme e chiedere alle autorità competenti di risolvere con urgenza il problema, ripristinando velocemente la normale procedura di accesso all’ora d’aria nei passeggi. Il carcere è parte della città, e come tale deve essere considerato da tutti, cittadini e autorità competenti. Il carcere per uscire dal ghetto in cui si trova deve essere vissuto insieme. Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze Grassi (Frs): condizioni inaccettabili per detenuti e detenute “Comune, Regione e istituzioni carcerarie si attivino per risolvere la situazione”. “Ogni estate per il carcere di Sollicciano è un problema. Un anno dopo se possiamo gioire per il funzionamento dei ventilatori, che lo scorso anno furono donati e che non potevano funzionare per le difficoltà connesse al sistema elettrico della struttura, quest’anno una nuova, e forse ancor peggiore, situazione coinvolge tutte e tutti i detenuti, di ogni sezione: i passeggi, dove alcune ore al giorno potevano uscire, sono stati repentinamente chiusi dopo il crollo in un solo cortile del muro” afferma il Capogruppo di Firenze riparte a sinistra, Tommaso Grassi. “Grave la situazione che perdura da qualche settimana, e obbliga a rimanere in cella senza poter uscire”. “Si tratta di condizioni inaccettabili in un carcere che possa definirsi dignitoso. Non si comprende come mai, ben consapevoli delle temperature a cui le celle, piccole e sovraffollate, possono arrivare a toccare si sia voluto chiudere tutti i passeggi in via precauzionale. Impossibile non supporre - prosegue Grassi - che la permanenza al chiuso di uomini e donne possa avere anche ripercussioni negative sul clima dei rapporti sia di chi è detenuto che verso il personale che ci lavora, sia che questo sia della polizia penitenziaria, che sanitario o educativo. Si tratta quindi di una vera emergenza che non va in alcun modo sottovalutata dalle autorità”. “Chiediamo quindi a Comune, Regione e istituzioni carcerarie - aggiunge Grassi - di attivarsi immediatamente per risolvere la situazione che stanno vivendo uomini e donne, recluse per i loro reati, ma a cui è riconosciuto il diritto di quattro ore al giorno poter uscire. Al Comune ricordiamo che il carcere è parte del nostro territorio e come tale chi vi è recluso ha diritto all’attenzione dell’amministrazione comunale in questi momenti. Non è certo nuovo il problema strutturale al carcere di Sollicciano, ma non può neppure essere la scusa per paura di non saper gestire adeguatamente la sorveglianza, che già deve subire una drastica riduzione rispetto all’organico e il cui personale - conclude Grassi - risulta minore nel periodo estivo, per sottrarre un diritto ai detenuti e obbligarli a rimanere nei pochi metri quadrati a disposizione nelle celle con questo caldo torrido”. Telese Terme (Bn): al via il progetto di integrazione sociale per i detenuti “The Bridge” ntr24.tv, 11 agosto 2018 Il progetto prevede l’espletamento di servizi di utilità collettiva tramite soggetti a rischio di esclusione sociale ed è finanziato dal Fondo Nazionale per le Politiche Sociali. Sarà gestito dalla Cooperativa Sociale Benessere di Benevento. Si chiama “The Bridge” il progetto di integrazione sociale attivato dal Comune di Telese Terme a favore di soggetti detenuti o sottoposti ad altri provvedimenti restrittivi della libertà personale” in collaborazione con l’Ambito Sociale B04 (con Comune capofila Cerreto Sannita) e con l’ Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Benevento. Il progetto, che prevede l’espletamento di servizi di utilità collettiva tramite soggetti a rischio di esclusione sociale, anche quest’anno fortemente voluto dal sindaco di Telese Terme, Pasquale Carofano e dal consigliere delegato alle Politiche Sociali, Gianluca Serafini, è finanziato dal Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e la gestione è stata affidata alla Cooperativa Sociale Benessere di Benevento. Un intervento, questo, volto alla promozione dell’autonomia e del benessere psicologico di persone detenute, ex detenute o sottoposte a misure alternative, e per la solidarietà e la sensibilizzazione della comunità locale. Sono quattro gli operatori impiegati dalla Cooperativa Sociale Benessere come operai addetti a lavori socialmente utili, ognuno dislocato in un paese diverso dell’Ambito Sociale B04 ovvero Telese Terme, Amorosi, San Salvatore Telesino e San Lorenzo Maggiore. Le prestazioni svolte prevedono la pulizia di marciapiedi e strade, la manutenzione degli spazi verdi comunali, piccole riparazioni, servizi di pulizia dei locali pubblici cittadini, la piantumazione di alberi e arbusti. Il servizio, della durata di cinque mesi, rappresenta un contributo reale e concreto in quanto, oltre a salvaguardare la bellezza del patrimonio, dà un sostegno alle categorie di soggetti svantaggiati e alle loro famiglie: valorizzare gli interventi di reinserimento nel tessuto sociale significa contrastare la marginalizzazione. Orvieto (Pg): riattivare protocollo per l’impiego dei detenuti nei lavori socialmente utili orvietonews.it, 11 agosto 2018 Ha per oggetto la riattivazione del protocollo stipulato nel 2014 per l’impiego dei detenuti nei lavori socialmente utili, la mozione presentata dal capogruppo del Gruppo Misto Andrea Sacripanti. Di seguito l’atto in forma integrale: Il Consiglio Comunale di Orvieto, premesso che: nel 2014 è stato stipulato un protocollo d’intesa tra il Comune di Orvieto, l’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto e la Casa di Reclusione di Orvieto che prevedeva l’impiego dei detenuti per le attività inerenti ai cc.dd. lavori socialmente utili. Da quella data ad oggi, almeno a quanto risulta al Consigliere proponente, sono stati impiegati per un breve lasso di tempo soltanto due detenuti nelle attività in questione, nonostante i problemi legati alla tutela ambientale - quali pulizia e restituzione al decoro di, cimiteri, parchi pubblici e aree verdi - siano particolarmente stringenti tanto nel Centro Storico quanto nei quartieri del nostro Comune. Appare evidente che l’utilizzo delle persone detenute nella Casa di Reclusione di Orvieto, oltre a rappresentare una concreta opportunità per l’intera Comunità, stanti le esigue risorse, economiche e umane, di cui dispone l’Amministrazione, tenderebbe a favorire la loro reintegrazione sociale e lavorativa attraverso la partecipazione a progetti di utilità sociale dando attuazione al principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione secondo il quale il trattamento rieducativo dei soggetti privati della libertà personale deve tendere al reinserimento sociale degli stessi. L’idea dell’accordo stipulato nel 2014, in buona sostanza, era che lo svolgimento di un’attività lavorativa a beneficio della Comunità potesse costituire un efficace strumento di “reintegrazione” per le persone detenute che potevano così essere impiegate in progetti utili per la Città. Al riguardo, si evidenzia che è notizia di questi giorni la presentazione del progetto promosso da Roma Capitale denominato “Mi riscatto per Roma” che prevede l’impiego di quindici detenuti addirittura nella manutenzione delle strade della Capitale e dell’area metropolitana. Dunque, dopo aver sperimentato con successo l’utilizzo di persone detenute per attività riguardanti la tutela del patrimonio ambientale, il Comune di Roma Capitale si è spinto ben oltre: in virtù del nuovo protocollo sottoscritto anche con Autostrade per l’Italia, ben quindici detenuti, selezionati tra quelli a bassa pericolosità e pene ridotte, verranno formati in carcere e da Autostrade per l’Italia per due mesi e mezzo, al termine dei quali otterranno un attestato professionale e poi potranno mettersi al lavoro per la manutenzione delle strade dove svolgeranno interventi di pulizia delle caditoie, riparazione delle buche a caldo e ripasso delle strisce pedonali; Ciò sta a significare come questi progetti, se sostenuti in modo serio ed efficace, possano riguardare vari settori di competenza del Comune così da perseguire il duplice obiettivo di curare gli interessi collettivi legati alla custodia dei beni pubblici e quelli più strettamente privati relativi al verosimile reinserimento nella Società di ogni singolo detenuto che, sentendosi valorizzato durante la detenzione ed anche attraverso una adeguata formazione, potrà più facilmente trovare un riscatto personale al di fuori del carcere; La validità di questi progetti è altresì testimoniata anche dall’intervento durante la presentazione del progetto “Mi riscatto per Roma” del Ministro della Giustizia Bonafede il quale ha dichiarato di voler estendere questo tipo di iniziative anche in altri Comuni italiani; Tutto ciò premesso, alla luce dei persistenti problemi legati all’incuria di Cimiteri, aree verdi, strade, ecc., testimoniati con sempre maggiore frequenza da foto scattate dai Cittadini, ed attese le scarse risorse economiche ed umane di cui dispone l’Amministrazione per fare fronte a questo tipo di incombenze, il Consiglio comunale, riconoscendo per le ragioni esposte in premessa il valore sociale dell’impiego di detenuti nei lavori di pubblica utilità, impegna il Sindaco di Orvieto a: - riattivare, o nel caso rinnovare, la convenzione già stipulata nel corso del 2014 tra il Comune, l’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto e la Casa di Reclusione di Orvieto, al fine di predisporre progetti che prevedano l’impiego, a titolo di volontariato, di persone detenute nel carcere di Orvieto nei lavori di pubblica utilità riguardanti la manutenzione dei Cimiteri, la cura delle aree verdi e di tutto il patrimonio ambientale cittadino; - considerare l’opportunità, alla luce di quanto realizzato da Roma Capitale, di stipulare ulteriori convenzioni con altri Enti, quali i proprietari/gestori delle strade statali, regionali e comunali, al fine di poter utilizzare, sempre in forma di volontariato e successivamente ad un loro adeguato periodo di formazione, le persone detenute per la manutenzione delle strade insistenti sul nostro territorio comunale. Vale la pena sottolineare, da ultimo, come un rinnovato impulso di accordi che prevedano il coinvolgimento di detenuti in lavori socialmente utili, favorendone il reinserimento nella Società, sia del tutto coerente con la tipologia del carcere di Orvieto che è un Istituto a Custodia Attenuata, peraltro l’unico presente nella Regione Umbria, che già di per sé prevede un regime penitenziario differenziato dove la funzione rieducativa della pena assume maggiore importanza rispetto a quella retributiva. La custodia attenuata, infatti, offre maggiori opportunità al detenuto di riabilitarsi. Carinola (Ce): “Zero confini”, intervento di rieducazione e reinserimento per i detenuti carinola.net, 11 agosto 2018 Akira, associazione di promozione sociale da anni attiva sul territorio della provincia casertana, ha strutturato un intervento di rieducazione e reinserimento sociale per i detenuti della struttura carceraria “G. B. Novelli” di Carinola (Ce). “La nostra associazione, spiega la dott.ssa Tiziana Fiorentino - Presidente di Akira APS, e partita dall’ esperienza di precedenti interventi svolti nella stessa Casa di Reclusione, ed ha progettato le attività considerando i bisogni riscontrati durante ii confronto con i detenuti, in primis la necessità di essere riconosciuti come “persone” attraverso un’ esperienza formativa, lavorativa e personale, trasformando quindi la detenzione da esperienza passiva a momento di riflessione e di crescita dal punto di vista umano e conseguentemente sociale”. L’intervento, coordinato dalla referente del progetto Dr.ssa De Felice Maria Assunta, prevede tre azioni: Gruppo di Playback Theatre, una forma originale di improvvisazione teatrale in cui i partecipanti raccontano eventi reali significativi della propria vita che vengono rielaborati attraverso una rappresentazione scenica. I laboratori saranno condotti da esperti Psicologi/Psicoterapeuti/Psicodrammisti e si svolgeranno nella sala Teatro della struttura penitenziaria. Corso di Formazione professionale per Animatore Turistico, al fine di fornire ai detenuti l’opportunità di acquisire abilita specifiche da poter utilizzar e in ambito lavorativo al di fuori del contesto carcerario, con la prospettiva di restituire loro un ruolo produttivo all’interno della società e della famiglia. Spazio di sostegno psicologico e un servizio rivolto alla comprensione di un disagio espresso dall’ individuo ed alla ricerca di opportune strategie di intervento per fronteggiare in modo adeguato le problematiche presentate ed accrescere ii benessere. I colloqui clinici si svolgeranno all’interno di un setting protetto messo a disposizione dalla struttura e sarà condotto da psicologi/psicoterapeuti. Fondamentale si e rivelato nell’ occasione il lavoro di rete; la Direzione della Casa di Reclusione ha reso possibile la realizzazione delle attività mettendo a disposizione spazi e personale di sorveglianza; l’Associazione Arti in Movimento di Teano e la Cooperativa sociale Osiride, oltre ai professionisti che con la loro esperienza decennale condurranno le attività in parola, tra cui la Dr.ssa Giuseppina Penna ed il Dr. Giovanni De Stefano, hanno arricchito di contenuti ii percorso trattamentale. Il carcere diventa, quindi, luogo di reinserimento, “istituzione sociale”, che accoglie ed educa, piuttosto che escludere ed emarginare. I funzionari dell’Area giuridico Pedagogica della Casa Reclusione Carinola Padre Alex Zanotelli: dalle missioni in Africa al rione Sanità di Napoli di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera, 11 agosto 2018 “Dono la mia pensione, vivo di offerte. Voto, ma è una sofferenza. Quando Andreotti e Craxi mi fecero cacciare da Nigrizia”. Padre Alex Zanotelli non festeggia i compleanni, quindi l’unico regalo che si aspetta per i suoi 80 anni - fra due settimane, il 26 agosto - è un “campo biblico”, che non so cosa sia ma di sicuro non sembra una torta con le candeline. Dopo una vita trascorsa in Africa, dal 2004 fa il missionario al rione Sanità di Napoli, più noto per la camorra che per aver dato i natali a Totò. Il comboniano abita in un bugigattolo annesso al campanile della basilica di Santa Maria della Sanità, tre stanze di 6 metri quadrati, una sopra l’altra, collegate da una scala a chiocciola ripida e stretta. Non ha né tv né telefonino: a tenerlo in contatto con il mondo provvede Felicetta Parisi, una pediatra in pensione. “Il cellulare sarebbe utile, lo ammetto. Ma poi passi il tempo a parlare con chi non vedi. È la fine delle relazioni umane”. In più per costruirlo serve il coltan. “Minerale insanguinato. In Congo la lotta per accaparrarselo ha ucciso almeno 4 milioni di persone. Ora è cominciata la guerra del cobalto, indispensabile per le batterie delle auto elettriche”. Dall’Africa al rione Sanità. Perché? “Si combatte anche qui. Non c’è un asilo comunale, non c’è una scuola media, non c’è lo Stato. L’unico istituto superiore, l’alberghiero Caracciolo, l’anno scorso ha perso la metà degli allievi e nel primo biennio 74 su 100 sono stati bocciati. Siamo la più grande piazza d’Europa per lo spaccio di droga. I giovani entrano nelle paranze e si esercitano con le stese, sparatorie a scopo intimidatorio. Ragazzini dai 12 ai 15 anni ti attaccano di giorno armati di coltello, senza motivo, animati da una rabbia incontenibile. Stiamo assistendo a una violenza senza precedenti, dice Patrizia Esposito, presidente del tribunale per i minorenni”. Spaventoso. “Ho pregato il comandante della polizia municipale: metta due vigili fissi alla Sanità, per dare un segno che la legalità non è morta. Sa che cosa mi ha risposto? “E vabbé, padre, ma lei deve promettermi che chiederà al comandante dell’Arma di mandare due carabinieri a proteggerli”“. Sembra una barzelletta. “Qui i bambini pensano che chi si alza alle 7 per andare al lavoro sia uno sfigato, che l’onesto sia uno stupido, che la vita valga zero. Trent’anni di televisori sintonizzati tutto il giorno su Rete 4 e Canale 5 hanno distrutto ogni valore”. Mi perdoni, ma non capisco il nesso. “Vedono fin da piccoli un tipo di vita che non potranno mai avere. Padre Ernesto Balducci mi raccontò che quando nel 1960 propose a don Lorenzo Milani di portare la televisione a Barbiana, fu sbattuto fuori dalla porta con queste parole: “La tv non puoi controllarla. Sarebbe come combattere la prostituzione infilando una prostituta nel letto di un uomo”. E lei che infanzia ha avuto? “Bella. A Livo, alta Val di Non, 150 anime includendo le galline. Mio padre era un antifascista. Gli squadristi gli spararono, ma scampò. Fino alla morte gli è rimasta nel braccio destro una pallottola. Sette figli. Io sono il primo. Si figuri lo smarrimento di un povero falegname quando gli dissi che volevo farmi prete, anziché aiutarlo a bottega”. A che età entrò in seminario? “A 11 anni, dai comboniani a Trento. Ero uno zuccone. Mi mandarono a studiare teologia negli Stati Uniti, a Cincinnati. Fu uno choc: Babilonia affascina. Poi il primo incontro con l’Africa, in Sudan, a El Obeid”. Perché si fece prete? “Se la vita la tieni per te, muori. Se la dai per gli altri, vivi. Ha ragione Eric Fromm: le nostre società sono necrofile, capaci solo di guardarsi l’ombelico”. Le manca Korogocho, la bidonville di Nairobi dove ha trascorso 11 anni? “Molto. Nella capitale del Kenya 3 milioni di abitanti su 4 vivono di spazzatura in 200 baraccopoli. Era impensabile che io volessi stare in mezzo a loro. Korogocho significa caos. Appeni arrivi, perdi subito i 20 chili di sovrappeso degli occidentali. Ti salta la testa. Sei tentato di pensare che anche Dio sia solo una balla. Sono stato convertito dai miserabili”. Che cosa cercano gli africani che approdano in Italia? “Fuggono dalla fame e dalle guerre. L’Europa non capisce che entro il 2050 avremo anche 250 milioni di rifugiati climatici, 50 milioni dalla sola Africa, che per tre quarti diventerà inabitabile a causa del riscaldamento globale”. Se lei fosse il ministro dell’Interno, come affronterebbe l’emergenza? “Non terrei i disperati lontani dai porti: è contro le leggi del mare. Ma qui è la Ue stessa che si è chiusa, la Germania per prima. L’Onu ha riconosciuto 65 milioni di rifugiati. L’86 per cento di loro ha trovato riparo nel Sud del mondo. È mai possibile che il restante 14 per cento metta in crisi l’Europa? Questo è egoismo retto a sistema. Il Libano ha 6 milioni di abitanti e ha accolto 1,5 milioni di siriani fuggiti dalla guerra. Ebbene, nel 2017 in Italia sono arrivati 130.119 profughi. Mi rivolgo agli industriali: gli italiani non fanno figli, vi serviranno ogni anno 250.000 nuovi lavoratori. Chi piegherà la schiena nelle concerie vicentine?”. Lei ha invocato la disobbedienza civile contro il governo, citando il pastore luterano Kaj Munk, ucciso nel 1944, che disse: “Quello che a noi manca è una santa collera!”. Gli italiani non sembrano in collera con Matteo Salvini. “No, non lo sono. È uscito fuori il nostro razzismo. Se io chiedo soldi per le adozioni a distanza, ne raccolgo a palate. Ma per quelle ravvicinate, nulla. Mi meraviglio che i vescovi non abbiamo mai stilato un documento sulla Lega. “Avevo fame, avevo sete, ero forestiero...”. Il giudizio finale sarà su questo”. Porte aperte, anzi porti, alle Ong? “Salvano vite. Bloccarle è da criminali. L’Italia è sotto accusa davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia per la violazione dei diritti dei migranti. Come si fa ad abbandonarli in Libia? I libici non si sentono africani. I neri li considerano abids, schiavi. Li massacrano”. Però nella prefazione del libro “L’industria della carità” lei scrisse di avere l’impressione che le Ong servissero “più a noi che non agli impoveriti”. “Confermo. Le organizzazioni umanitarie dell’Onu bruciano l’80 per cento delle risorse per il loro mantenimento. Il personale dell’Alto commissariato per i rifugiati sverna in hotel di lusso accanto ai campi profughi. Gli otto uomini più ricchi del pianeta, con in testa Jeff Bezos di Amazon, posseggono quanto 3,6 miliardi di poveri e fanno tanta carità, a condizione che non si tocchi il sistema”. So di un privato che intasca 3,5 milioni l’anno, netti ed esentasse, ospitando i richiedenti asilo in edifici fatiscenti. “Contesto questo tipo di accoglienza. È un business. Come quello degli hotel decrepiti riaperti per loro a Napoli”. Chi le tolse la direzione di “Nigrizia”? “Il Vaticano, dietro pressioni di Andreotti, Craxi e soprattutto Spadolini, ministro della Difesa. Il motivo scatenante fu lo scandalo sulla cooperazione italiana in Africa. Flaminio Piccoli, presidente della Dc, mi ricoprì d’insulti al telefono: “Mai avrei pensato d’essere pugnalato alle spalle da un mio conterraneo”“. L’hanno definita manicheo, antiamericano, diffidente, pauperista e semplicistico, che è sempre meglio di semplicione. Si riconosce? “Manicheo neanche nei tacchi. Anti Usa lo accetto: ho visto che cosa ha fatto in Africa il sogno americano. Pauperista e semplice sì, me lo chiede il Vangelo”. “Il Foglio” l’ha anche qualificata come “missionario presbiteriano”? “La prima che sento. Che significa? Non seguo molto i giornali. Verso sera ascolto solo Radio 24, l’emittente del nemico”. “La Zanzara” di Giuseppe Cruciani? “No, per carità. M’interessano i focus sulle dinamiche della finanza”. Quanto spende per campare? “La mia pensione di anzianità va ai comboniani. Vivo di offerte”. Vota? “Sì, e non mi chieda per chi. Ogni volta è una sofferenza indicibile”. Che cosa pensa del M5S? “È un grande guazzabuglio. Deve decidere da che parte stare. Tra Roberto Fico e Luigi Di Maio c’è un abisso. Il primo è cresciuto con noi”. Beppe Grillo ha detto che Walter Veltroni ha capito che cos’è l’Africa dopo essere venuto a trovarla a Korogocho. “Veltroni è un uomo onesto, a volte ingenuo come politico. Nella baraccopoli pianse”. Però quando lei lo supplicò di cancellare la Coca-Cola dagli sponsor del Comune di Roma, non la accontentò. “È vero. Queste sono le scelte concrete. In Campania stiamo lottando per l’acqua pubblica. Ho incontrato Luca Lanzalone, il manager messo dai 5 Stelle alla presidenza dell’Acea, partner della Gori, che gestisce gli acquedotti vesuviani. Mamma mia! Un uomo così sprezzante... Mi rivolgerò a Virginia Raggi, gli ho detto. E lui: “Il sindaco non conta nulla, decido io”“. Adesso mi parli di Dio, padre Alex. “Karl Marx si sbagliava, la religione non è l’oppio dei popoli. Senza spiritualità, non resta nulla. Dio è profondamente radicato nei poveri. Ma non è il Dio tappabuchi di noi occidentali. È il Dio di Florence”. Chi è Florence? “Una ragazza bellissima di Korogocho, prostituta a 11 anni, morta di Aids a 17, abbandonata anche dalla madre. Era in agonia. Accorsi di notte nella sua baracca. Non c’era la luce, non la vedevo. Pregava così: “Mungu mi mama”, Dio è mamma. Allora le chiesi che volto avesse l’Altissimo. Restò in silenzio per cinque minuti. Alla fine esalò: “Alex, sono io il volto di Dio”“. In Serbia tra i migranti che sognano l’Europa di Franca Giansoldati Il Messaggero, 11 agosto 2018 “La rotta balcanica? Non si è mai fermata” È inutile, tanto il sogno europeo è più forte di tutto. Del filo spinato, della paura di viaggiare come fantasmi, dei cani addestrati per scovare i clandestini che tentano la sorte. La rotta balcanica alla fine è come una maglia che - nonostante gli sforzi fatti per sigillarne i confini e impedire gli ingressi indesiderati - si può ancora aprire, basta un pertugio, in questo caso un confine secondario, in mezzo alle vigne, tra piantagioni di granturco. Proprio come accade tra Serbia e Croazia con il Danubio che scorre pacifico a qualche chilometro, un nastro d’argento che per secoli è stato un formidabile moltiplicatore di culture. Chi sogna l’Europa cerca di arrivare in Croazia tra queste colline, procedendo nascosto tra le vigne di chardonnay, sperando di non essere rintracciato dalle pattuglie della polizia, vicino al valico di Juba, un transito secondario e poco frequentato dove si arriva da una viuzza di campagna, pittoresca e verdissima. Lo stesso accade poco più in là, a Sid, stavolta una frontiera più attrezzata, quotidianamente battuta da tir e mezzi pesanti dove i doganieri fermano ciclicamente siriani, iracheni, afghani, iraniani nascosti. Per bloccare i clandestini l’Europa ha appena regalato alla polizia di frontiera serba equipaggiamenti e supporti tecnici per rafforzare i controlli frontalieri. Binocoli, riflettori, telecamere di ultima generazione ma anche caschi e scudi. Ma la rotta balcanica si mantiene ricca di sorprese e sperimenta continuamente vie alternative. Soprattutto dimostrando che non è vero che è stata chiusa ermeticamente perché i flussi, sebbene diminuiti, continuano eccome. Bosnia, Serbia, Croazia, Bulgaria. In Serbia dal mese di maggio, tanto per fare un esempio, è aumentato il numero dei migranti e dei profughi che provengono dalla Bulgaria. Lo dice il Commissariato nazionale per i migranti. Il governo di Belgrado ha allestito 18 centri, soprattutto nel Sud del paese, per fare fronte agli arrivi in cui vivono circa 3 mila persone. A garantire ogni servizio, il buon funzionamento e le cure primarie a questa gente che arriva soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, ma ci sono pure iraniani, iracheni e siriani (solo in 78 finora hanno presentato domanda di asilo) sono le grandi organizzazioni umanitarie cristiane che lavorano congiuntamente, cattolici e ortodossi, Philantrophia e la Caritas sperimentando sul campo quella straordinaria unione tanto attesa che a livello teologico fatica ad arrivare. “La Serbia per i migranti resta un punto di passaggio. I migranti non vogliono restare qui e fanno in modo di non essere registrati. Loro desiderano il nord Europa, la Germania e la Svezia” spiega don Ivica Damjanovic, direttore della Caritas serba. Il fatto è che i muri non hanno mai fermato i flussi migratori, li hanno solo deviati. Così a dare grattacapi a Bruxelles ora c’è anche l’ingresso degli iraniani che cominciano ad arrivare in aereo a Belgrado poiché da qualche mese non hanno più bisogno del visto grazie ad un accordo tra Serbia e Iran. Entrano come turisti per un periodo inferiore a 30 giorni, poi si volatilizzano. Chi lascia l’Iran lo fa anche per sfuggire alle persecuzioni perché omosessuale. L’Unhcr nel suo ultimo rapporto “Serbia uptade” indica che quasi un terzo dei nuovi arrivi è di origine iraniana. E il numero potrebbe essere destinato a crescere. Dal mese di marzo è stato riavviato un collegamento aereo diretto tra l’Iran e la Serbia dopo 27 anni di assenza. Il ministero del Commercio di Belgrado nell’ultimo anno ha registrato l’arrivo di circa 7 mila persone; di queste 485 hanno presentato domanda di asilo. Ma a sentire gli esperti la Serbia è una zona di transito, un passaggio sicuro e a buon prezzo in direzione dell’Europa occidentale. La rotta balcanica ufficialmente è stata chiusa nella primavera del 2016 con l’accordo siglato tra l’Unione europea e la Turchia ma il corridoio che ha permesso il passaggio di centinaia di migliaia di persone tra il 2015 e il 2016 continua in realtà ad essere percorso ogni giorno da centinaia di migranti. Il sogno dell’Europa resta più forte di ogni barriera. Violazione dei diritti umani in Libia. L’Aja prepara le richieste d’arresto di Adriana Pollice Il Manifesto, 11 agosto 2018 “Preparativi per nuove richieste d’arresto” sarebbero in corso presso la Procura internazionale dell’Aja, riguardano l’inchiesta sulla violazione dei diritti umani in Libia. A dare la notizia è Avvenire, che racconta anche di un gruppo di investigatori che, per la prima volta, si è potuto recare a Tripoli per documentare il trattamento a cui sono sottoposti i migranti. L’indagine va avanti da mesi e coinvolge anche appartenenti alla Guardia costiera libica. Il punto di partenza è il report stilato lo scorso febbraio dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, frutto della missione Unsimil su mandato Onu. Nel fascicolo sono poi confluite migliaia di segnalazioni, incluse quelle che riguardano le aste di schiavi e il dossier di Amnesty International che accusa Italia, Malta ed Europa di essere “collusione con i libici” usando come “moneta di scambio le vite dei migranti”: i paesi dell’Ue starebbero cospirando per contenere rifugiati e migranti in Libia, dove sono esposti a torture e abusi. La magistratura dell’Aja indaga dal 2011, cinque mandati di cattura già emessi ma le autorità di Tripoli non hanno mai dato seguito. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, insiste nel sostenere che la Libia è uno stato sovrano nonché un porto sicuro. Il report Unsimil racconta una realtà differente: “I conflitti in corso continuano a provocare vittime civili. Le principali cause di morte includono scontri a fuoco, attacchi aerei, esplosivi rimasti dalla guerra civile, ordigni esplosivi improvvisati e bombardamenti”. Nel mirino anche le strutture sanitarie come a Bengasi, Misurata, Sabratah e Sirte. Non c’è sicurezza per le strade ma va molto peggio ai migranti. Il report racconta “la condotta spericolata e violenta” della Guardia costiera di Tripoli, quella a cui il governo ha appena fornito 12 motovedette: “Il 6 novembre 2017 picchiano i migranti con una corda e puntano armi da fuoco nella loro direzione durante un’operazione in mare”. Nel dossier si legge anche di “uso di forza letale eccessiva e illegale da parte dei funzionari del Dipartimento per la Lotta alla migrazione illegale. Il 19 novembre, membri dei gruppi Tajura e Janzur, affiliati al Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale, hanno aperto il fuoco sui migranti senza fornire qualsiasi avvertimento verbale”. Le donne hanno riferito di essere state “sottoposte a stupro, prostituzione forzata e violenza sessuale per mano di funzionari statali, membri di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti”. Gravi violazioni anche contro i minori “compreso l’uccisione, la mutilazione e il rapimento di bambini”. Libia. Tripoli, altri sos disperati dalle celle di Paolo Lambruschi Avvenire, 11 agosto 2018 Un altro sos da un folto gruppo di profughi allo stremo in un centro di detenzione libico. Si tratta di 150 eritrei, etiopi e somali fuggiti il 23 maggio 2018 dalla prigione dei trafficanti a Beni Walid, dove per Medici senza frontiere si pratica la tortura. Una storia emblematica del Paese “sicuro”. Derubati e abbandonati da due trafficanti eritrei in questo snodo sulla rotta migratoria dal Sudan a 150 km da Tripoli e a 130 da Misurata, sono stati catturati dai miliziani mercanti di esseri umani che chiedevano 5.000 dollari a testa per liberarli. Soldi che nessuno aveva e, di fronte alla prospettiva di venire venduti, quella sera di maggio i migranti sono fuggiti in massa. I banditi hanno sparato uccidendo 15 persone, altre 25 sono state ferite. I sopravvissuti al massacro si sono rifugiati in una moschea protetti dai cittadini. Il giorno successivo la polizia li ha trasferiti in un centro governativo a Tripoli da dove non sono più usciti. Eppure persino la Libia, in base a un accordo sottoscritto con l’Unione africana, riconosce a queste nazionalità lo status di rifugiati e, secondo i medici di Msf che li hanno visitati, molti dei profughi e richiedenti asilo arrestati presentavano ferite di arma da fuoco, altri segni di tortura. Ma nel caos libico chi non cade nelle mani dei trafficanti finisce nei centri di detenzione ufficiali, perlopiù vecchie galere di Gheddafi o capannoni in disuso dove le autorità libiche ammassano i prigionieri. Per i 150 sopravvissuti non si è fatta eccezione nonostante fossero vittime di criminali. Un rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni conferma gli orrori di Bani Walid. Nella zona da dicembre sono stati trovati almeno 100 corpi di profughi. Secondo Msf molti cadaveri erano ai margini delle piste o delle strade nel deserto, lasciati morire dopo essere caduti da camion o pick-up. Altri avevano ferite da arma da fuoco o segni di torture. Da Qasr Bin Ghashir, nell’area della capitale i 150 sopravvissuti sono riusciti a mandare segnali con uno smart-phone. Chiedono aiuto con disperati messaggi sui social domandando dove sia l’Acnur. Sono allo stremo per le condizioni in cui si trovano e i maltrattamenti arbitrari inflitti dai secondini, ex trafficanti che dopo gli accordi con Italia e Ue indossano una divisa. Secondo l’Oim vi sono rinchiusi circa 530 detenuti (310 eritrei, 150 sudanesi, il resto somali, etiopi e nigerini, tra cui 90 donne) in condizioni igienico sanitarie precarie. Tensione aggravata dalla mancata registrazione di molti ospiti da parte dell’Onu. Sta invece leggermente migliorando la situazione nel campo tripolino di Tarek al Matar. Dopo le denunce dei profughi sui tentativi di sequestro di alcune guardie rilanciati da questo giornale e la rivolta duramente repressa domenica scorsa, l’Onu prosegue nell’identificazione dei profughi in vista di una evacuazione umanitaria dei più vulnerabili in Niger. Il centro ha catturato l’attenzione di alcuni media internazionali e il rischio di sparizioni, grazie all’intensificarsi dei controlli dell’Acnur, ora è basso. Le persone trasferite arbitrariamente che stavano per essere vendute sono state rintracciate, ma è pericoloso, confermano i prigionieri, svolgere lavori all’esterno. Come ha scritto ieri Avvenire, la Corte dell’AIA ha aperto un’inchiesta sulle galere libiche. La tregua di Gaza è finita prima di iniziare. Chi negozia tra missili e raid di Rolla Scolari Il Foglio, 11 agosto 2018 È durata poche ore la tregua tra Hamas e Israele. L’esercito israeliano ha annunciato nella serata di ieri di aver colpito con l’artiglieria una postazione del movimento islamista che controlla Gaza dopo che dal confine - dove da mesi il venerdì continuano le proteste - è stato lanciato materiale esplosivo contro i soldati oltre la barriera di separazione. Negli scontri, due palestinesi, tra cui un paramedico, sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco, oltre 240 persone sono rimaste ferite, secondo fonti mediche locali. Hamas ha chiesto ai cittadini di tornare a manifestare venerdì mattina, dopo che fonti egiziane avevano annunciato il raggiungimento di una tregua, non confermata ufficialmente dalle parti. Nella notte tra giovedì e venerdì era cessato il lancio di missili da Gaza, e i jet israeliani erano rimasti a terra, in seguito a due giorni di violenze. Da quando a marzo sono iniziate proteste e scontri settimanali tra palestinesi ed esercito israeliano lungo il confine, la situazione rischia ciclicamente di precipitare. Soltanto quando un intervento di terra israeliano sembra imminente, con trattative in corso mentre volano missili e cadono bombe, torna la calma, che dura pochi giorni o, come accaduto ieri, poche ore. Si tratta di “deterrenza reciproca”, spiega al Foglio Efraim Halevy, che è stato direttore del Mossad: “Né Hamas né Israele vogliono un conflitto totale, ma neppure mostrarsi deboli davanti all’opinione pubblica interna”, e quindi portano avanti lo scontro fino all’ultimo, quando lasciano spazio alla diplomazia. E la diplomazia ha in queste ore un nome. Nickolay Mladenov, 47 anni, ex ministro degli Esteri bulgaro, è Coordinatore speciale dell’Onu per il medio oriente. Sarebbe a lui, rivela il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, che telefonano i leader di Hamas per inviare messaggi a Israele. E il governo israeliano, solitamente tiepido con i funzionari dell’Onu, organizzazione che per molti politici locali sarebbe troppo favorevole ai palestinesi, apprezza il suo operato. Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre dal 2008, e i mediatori finora sono stati altri, come Qatar e Turchia. È anche in assenza di questi poteri regionali, investiti nel frattempo da crisi politiche o economiche, che si rafforza l’operato di un funzionario con abilità come Mladenov, spiega una fonte diplomatica al Foglio. L’Egitto del rais Abdel Fattah al Sisi è al momento l’unico paese straniero con diretti interessi nella calma a Gaza: in guerra contro gruppi jihadisti nel vicino Sinai non può permettersi instabilità nella Striscia. E proprio attraverso l’operato del capo dell’intelligence del Cairo, Abbas Kamel, e dell’inviato dell’Onu, starebbero emergendo i contorni di un’intesa su Gaza da sottoporre alle parti. I giornali arabi parlano già di “accordo dei cinque anni”: durata di un ipotetico cessate il fuoco. Gli scontri di ieri però raccontano una realtà diversa. In Israele, scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano liberai Haaretz, Benjamin Netanyahu è già - non ufficialmente - in campagna elettorale, e per lui Gaza rappresenta una debolezza. Ogni soluzione possibile porta con sé un rischio politico. Un’operazione di terra causerebbe vittime civili palestinesi e la morte di soldati israeliani. Il tentativo di mantenere lo status quo lungo la Striscia. Un possibile accordo di tregua esporrebbe Netanyahu alle critiche degli alleati-avversari della destra più radicale, che preferirebbero un atteggiamento muscolare. Lo stesso potrebbe accadere al leader di Hamas, Yahya Sinwar, che però, a differenza di suoi predecessori, spiega al Foglio Tareq Baconi, autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance, è un leader con una forte credibilità all’interno sia dell’ala politica sia militare del gruppo e avrebbe il sostegno necessario per far passare un’intesa e le concessioni a essa legate. Turchia. Finiti in galera 80mila oppositori, così Ankara calpesta i diritti umani di Costantino Leoni Libero, 11 agosto 2018 “Se un sultano fa tagliare teste a capriccio rischia di perdere la propria”. Era il 1816 quando Napoleone Bonaparte, ormai in esilio a Sant’Elena, dettò queste parole a Emmanuel de las Cases. Duecento anni dopo, un nuovo sultano rischia di essere decapitato dalla propria sfrontatezza, trascinando con sé, sul patibolo, una Nazione intera. La crisi della lira turca sta mettendo in subbuglio le banche di mezzo mondo. Erdogan sa che la sua politica doppiogiochista - fra la fedeltà atlantica agli Stati Uniti da una parte e le sirene eurasiatiche della Russia dall’altra - prima o poi gli avrebbe causato più di un grattacapo, ma è andato comunque avanti per la sua strada incurante delle conseguenze. Membro della Nato e fedele alleato degli USA fino a quella sera del 15 luglio di due anni fa, quando il fallito golpe fece tremare i palazzi di Ankara. Da allora nulla è stato più lo stesso. Più di 80.000 oppositori politici, o presunti tali, sono stati arrestati. Funzionari statali, attivisti filo-curdi, poliziotti, militari, insegnanti e giornalisti; nessuno è scampato alla furia del sultano. Lo stato di emergenza, evocato all’indomani dell’attentato, è stato rinnovato per ben sette volte fino al 20 luglio di quest’anno. Il Parlamento turco ha però approvato un nuovo pacchetto di norme che non cambieranno di molto la sostanza delle cose. Per legge la polizia potrà ora continuare ad arrestare individui sospetti senza alcuna accusa. Tra i nomi eccellenti degli arrestati della prima ora c’è anche un cittadino americano. Si tratta del pastore evangelico Andrew Brunson accusato di avere avuto rapporti con l’imam Fetullah Giilen, l’ideatore (secondo il governo turco) del fallito golpe ai danni di Erdogan. Qualcuno ipotizza che gli Stati Uniti abbiano imposto dazi e sanzioni per indurre la Turchia a liberare il religioso e allentare la stretta sugli oppositori politici, nella speranza di ricondurre la mezzaluna anatolica nell’alveo della democrazia. È chiaro però che l’obiettivo è un altro e neanche troppo nascosto. Trump, con il consenso di Israele e dei Sauditi, sta cercando di spezzare definitivamente l’asse che lega Ankara con Mosca e Teheran. In questo senso vanno lette le sanzioni inflitte all’Iran: per riuscire a sconfiggere Putin bisogna isolarlo, e l’economia è il nervo scoperto dei suoi alleati turchi e persiani. Più che le politiche interne degne più di una teocrazia che di uno stato di diritto, Erdogan paga le scelte dissennate in politica estera, i troppi voltafaccia e le decisioni affrettate prese senza consultare l’alleato di turno, una pretesa autonomia basata più sul ricatto che su una reale potenza (il crollo delle banche ne è una chiara dimostrazione). Se la strategia di Trump dovesse avere successo, il sultano verrebbe spazzato via dal malcontento del proprio popolo; quello stesso popolo che la notte di due anni fa, sfidando i carri armati, scese in piazza per difenderlo. Il conflitto tra Ucraina e Russia. La battaglia in cella di Oleg, stremato per la Crimea di Pietro Del Re La Repubblica, 11 agosto 2018 Allarme per la salute del cineasta ucraino in sciopero della fame al confino in Siberia dopo la condanna-farsa. Poeti, attori e intellettuali russi ed europei si stanno mobilitando per scongiurare la morte imminente di Oleg Sentsov, il regista. ucraino catturato in Crimea dopo l’invasione di Mosca del 2015, e condannato per attività terroristiche a 20 anni di carcere da scontare nel grande nord della Siberia. Dal 14 maggio scorso Sentsov non tocca cibo per chiedere la scarcerazione di settanta suoi connazionali, anch’essi imprigionati per motivi politici in Russia. Il suo avvocato, che ha potuto visitarlo tre giorni fa, racconta che le condizioni del regista si sono spaventosamente aggravate: dopo novanta giorni di sciopero della fame ha infatti perso 30 chili, il suo ritmo cardiaco raggiunge appena -10 battiti al minuto e il suo tasso di emoglobina nel sangue è ormai ridotto a livelli preoccupanti. Per evitare che i suoi secondini lo nutrano a forza con una sonda gastrica, da un paio di settimane Oleg Sentsov accetta di ingoiare tre cucchiai di un composto nutritivo e di bere tre litri d’acqua al giorno, ma alcune foto scattale nella sua cella giovedì scorso, e diffuse ieri dall’Alto commissarialo per i diritti umani in Russia, mostrano un uomo ormai moribondo, sebbene le autorità penitenziarie sostengano che le condizioni del regista quarantaduenne siano ancora “soddisfacenti”, sua cugina Natalia Kaplan racconta di aver ricevuto una sua lettera tre giorni fa in cui parla “della sua prossima fine”, dicendo “che non riesce più ad alzarsi dalla branda”. Dopo “l’annessione” della Crimea, Sentsov si rifiutò di prendere la cittadinanza russa, ma gli venne tolta automaticamente quella ucraina. Svanì quindi sul nascere la proposta di Kiev di scambiarlo con prigionieri russi, poiché per Mosca è anche lui un cittadino russo. Del resto, se Putin dovesse piegarsi davanti alle numerose richieste di grazia e accettasse di liberare soltanto lui, per il regista sarebbe comunque un fallimento poiché ha legato il proprio destino agli altri detenuti politici ucraini, tra i quali Olek-sandr Koltchenko. Con quest’ultimo, al termine di un processo definito da Amnesty International “una farsa dell’era staliniana”, Sentsov è stato condannato, senza lo straccio d’una prova, per “partecipazione a un’attività terroristica”. In molti, dallo scrittore Stephen King, all’attore Johnny Depp e al presidente francese Emmanuel Macron, hanno già chiesto a Putin un gesto di clemenza. Scontrandosi tutti con la durezza e l’insensibilità del Cremlino. Egitto. In carcere chi denuncia le molestie sessuali di Silvestro Montanaro raiawadunia.com, 11 agosto 2018 Amnesty International condanna, come uno scioccante caso di ingiustizia, il rinvio a processo di Amal Fathy, l’attivista egiziana arrestata per aver condiviso online un video di denuncia sulle molestie sessuali. “Amal Fathy ha mostrato coraggio parlando della sua esperienza di molestie sessuali e per questo dovrebbe essere lodata, non sottoposta a processo”, ha detto Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del nord di Amnesty International. “Invece di perseguire i responsabili della violenza contro le donne, le autorità egiziane se la sono presa con lei. È un’ingiustizia scioccante. È una difensora dei diritti umani che ha dichiarato la sua verità al mondo per portare attenzione sulla questione cruciale della sicurezza delle donne in Egitto. Non è una criminale”. “Ancora una volta, chiediamo alle autorità egiziane il rilascio incondizionato di Amal Fathy. La sua reclusione, così come il rinvio a processo per aver espresso pacificamente le sue opinioni, è un affronto alla libertà di espressione garantita dalla stessa costituzione egiziana, oltre che alle ripetute dichiarazioni di impegno, da parte dell’Egitto, a combattere le molestie sessuali”, ha aggiunto. La prima udienza per Amal Fathy è fissata per l’11 agosto, di fronte al tribunale per i reati minori di Maadi, al Cairo. Non è ancora chiaro di cosa sia accusata. Durante le indagini preliminari, era indagata per “pubblicazione di un video in cui incitava a rovesciare il regime”, “diffusione di voci false che mettono in pericolo la sicurezza dello stato” e “uso abusivo di internet”. Le autorità egiziane da tempo usano queste accuse contro le voci critiche e i giornalisti nel tentativo di ridurli al silenzio. Il 9 maggio, Amal Fathy pubblicò un video sulla sua pagina Facebook in cui parlava della diffusione delle molestie sessuali in Egitto e criticava il fallimento del governo nella protezione delle donne. Criticava anche il governo per la situazione dei diritti umani, le condizioni socioeconomiche e i servizi pubblici. Il giorno seguente, mezzi di informazione di proprietà dello stato diffusero articoli che parlavano del video, identificando Amal come un’attivista del Movimento 6 aprile, un movimento politico giovanile egiziano, e la accusavano di insultare l’Egitto e le istituzioni egiziane. In seguito a ciò, è stata ulteriormente bersaglio di molestie e minacce sui social media. Le forze di polizia egiziane arrestarono Amal nelle prime ore dell’11 maggio, insieme a suo marito, Mohamed Lofty, già ricercatore di Amnesty International e attualmente direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’organizzazione per i diritti umani che fornisce consulenza legale alla famiglia Regeni e che per questo ha subito intimidazioni e arresti di suoi esponenti. La polizia ha fatto irruzione nella loro casa e li ha portati nella stazione di polizia di Maadi, insieme al loro bambino di tre anni. Amnesty International ha esaminato il video di 12 minuti e ha rilevato che non contiene alcuna forma di incitamento ad alcunché, e per questo è tutelato dalla libertà di espressione. Amnesty International considera Amal Fathy una prigioniera di coscienza, imprigionata solamente per aver espresso pacificamente le sue opinioni.