Riforma penitenziaria, il parere del Garante sul decreto: “Servono cambiamenti” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 10 agosto 2018 Sono racchiusi in un documento di nove pagine i pareri che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti ha inviato al ministro della Giustizia. Tre le osservazioni di maggior rilievo: la difficoltà a reperire un disegno complessivo, lo scarso riferimento alla condivisione di regole europee e il non aver affrontato il tema del disagio mentale. Sono racchiusi in un documento di nove pagine i pareri che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti ha inviato al ministro della Giustizia in merito allo schema di decreto legislativo relativo alla Legge di delega n.103 del 2017 sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Tre le osservazioni di maggior rilievo: la difficoltà a reperire un disegno complessivo, lo scarso riferimento alla condivisione di regole europee e il non aver affrontato un tema “determinante” come quello del disagio mentale. “Per il resto - spiega il Garante nazionale, Mauro Palma, è chiaro che si leggono alcune scelte politiche, ma nelle singole parti ci sono provvedimenti condivisibili su cui abbiamo dato anche parere favorevole, mentre altri richiedono secondo noi cambiamenti e diverse espressione linguistiche, anche, per come sono espressi. Il Garante - sottolinea Palma - non ha governi amici o governi nemici e, per sua funzione, prende da qualunque provvedimento gli aspetti che possono accrescere la tutela dei diritti delle persone ristrette. Per questo, su alcuni aspetti abbiamo espresso parere positivo, come ad esempio sul fatto che il medico non faccia più parte del consiglio di disciplina, che era un elemento di delega. In generale, comunque, quello che mi colpisce è che non sempre abbiano utilizzato le possibilità della delega”. “Il Garante nazionale - si legge in una nota - prende atto che il Governo ha deciso di non esercitare la delega relativamente alla revisione di modalità e presupposti di accesso alle misure alternative, di revisione delle procedure di accesso alle medesime, di eliminazione di automatismi e preclusioni, di valorizzazione del volontariato, di riconoscimento del diritto all’affettività, nonché di revisione delle misure alternative finalizzate alla tutela del rapporto tra detenute e figli minori. Il Garante nazionale ritiene che gli elementi di delega costituissero nel loro insieme un corpus complessivo volto a ridefinire l’esecuzione penale con l’obiettivo di perseguire un reinserimento sociale che non apra al rischio di esclusione e di conseguente recidiva. Le singole proposte presenti nel nuovo decreto appaiono più rivolte ad affrontare aspetti settoriali che a ridefinire tale corpus complessivo, pur essendo apprezzabili alcuni specifici interventi rispetto ai quali il Garante nazionale ha proposto alcuni emendamenti”. Il parere, dunque, non si esaurisce con un’unica valutazione, ma prende in esame provvedimento su provvedimento, offrendo una serie di suggerimenti “su cose che - sottolinea Palma - secondo noi vanno modificate. Restano quei tre punti che lasciano perplessi, sul problema di fondo. Il primo riguarda l’intervento sul decreto: è chiaro che quando da un provvedimento pensato globalmente si prendono delle parti, si perde parte della logica complessiva, si perde il disegno che in qualche modo c’è dietro. La seconda osservazione riguarda la distanza dalla “questione Europa”. Sembra quasi non si voglia far riferimento alle regole penitenziarie europee. Qui c’è qualche contraddizione perché poi, invece, in alcuni punti della relazione si rinominano, quindi c’è qualcosa che, probabilmente anche per la fretta, non regge benissimo. Il riferimento europeo è importante perché, anche nell’ambito dell’Unione, per costruire uno spazio giuridico europeo che faccia sì che siano possibili i trasferimenti e le estradizioni, bisogna avere regole condivise. Far riferimento alle regole europee è necessario per dare agibilità a tanti progetti che si vogliono portare avanti: incluso - sottolinea il Garante nazionale - quello di trasferire detenuti da una parte all’altra: anche per questo c’è bisogno che l’Europa abbia un sub strato comune”. La terza perplessità espressa nel documento inviato al ministero, riguarda “il fatto - spiega Mauro Palma - che dal provvedimento scompare uno dei problemi più grandi, oggi, in carcere: il disagio e la malattia mentale, psichiatrico più che psicologico. Non c’è nulla su questo argomento e mi auguro che sia così perché si vuole intervenire con un provvedimento autonomo”. “Il Garante nazionale - prosegue la nota - apprezza le disposizioni che tendono a migliorare la quotidianità detentiva e che, peraltro, riprendono alcuni aspetti sui quali aveva già formulato un positivo parere. E, nel porre questo parere, ribadisce la piena disponibilità a cooperare, nel convinto spirito di collaborazione istituzionale, per ogni possibile miglioramento normativo e per la piena attuazione dei processi di evoluzione del sistema di esecuzione penale nel solco della previsione della nostra Carta costituzionale”. “Sì - conclude Mauro Palma - perché le istituzioni devono sempre cooperare. Ho apprezzato che il governo abbia inviato subito il testo e noi, da parte nostra, anche per non creare alcun dubbio, abbiamo bruciato i tempi, formulando in questi tre giorni un parere lungo nove pagine, in uno spirito di cooperazione istituzionale. Le istituzioni non sono mai una contro l’altra. Per i gruppi politici o intellettuali è diverso: le istituzioni devono sempre cooperare e mettere in guardia. Come nel caso del rispetto delle regole europee. Serve armonia, se vogliamo costruire un effettivo spazio anche dell’esecuzione penale comune. E i sistemi di probation sono i sistemi fondamentali nell’Europa attuale”. Delega alle carceri al Sottosegretario Ferraresi penitenziaria.it, 10 agosto 2018 Il Ministro Bonafede gli affida edilizia penitenziaria e trattamento detenuti. Il Sottosegretario Ferraresi ha comunicato via Facebook di aver ricevuto dal Ministro Bonafede, le deleghe per occuparsi di edilizia penitenziaria e trattamento dei detenuti. “Ieri il Ministro Bonafede mi ha conferito la delega sui temi che da sempre sono il cuore della mia attività politica: l’organizzazione giudiziaria, sia per la formazione e direzione del personale che per la direzione del bilancio e della contabilità, l’amministrazione penitenziaria in materia di edilizia carceraria e di direzione e trattamento dei detenuti, ma soprattutto il delicatissimo tema della giustizia minorile e di comunità, sia sul fronte dell’esecuzione penale esterna che di messa alla prova. Sarà quindi mio compito e responsabilità continuare a lavorare nella direzione di una giustizia che sappia assicurare la certezza della pena tenendo sempre presenti le istanze, i bisogni e i diritti di tutti coloro che ne fanno parte, dagli agenti di Polizia Penitenziaria che ogni giorno esercitano il loro lavoro, ai detenuti, ai quali bisogna garantire un reale recupero. Queste deleghe non esauriscono il lavoro che sto facendo e che continuerò a portare avanti sui temi della Giustizia insieme al Ministro Bonafede e a tutto il Governo che, come annunciato questa mattina dal Premier Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi, è in procinto di varare una serie di riforme che andranno nella direzione dell’efficientamento del sistema giustizia in generale, a partire dal pacchetto anticorruzione”. Caso Cucchi. La doppia morte di un cittadino di serie B di Carlo Bonini Venerdì di Repubblica, 10 agosto 2018 Stefano era “un tossico di merda”. Per questo è stato ucciso. Con le botte, appena arrestato. E poi con le bugie e l’omertà nei nove anni di processi non ancora finiti. Ci sono storie che raccontano non solo il destino di chi ne è protagonista. Ma che, per la loro forza simbolica, diventano archetipo, misura di un tempo, termometro dello stato di salute di una democrazia e del suo corpo vivo: i suoi cittadini. E dunque diventano “collettive”. La storia di Stefano Cucchi - giovane geometra romano tossicodipendente, morto nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 2009 dopo soli sei giorni di detenzione nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini in conseguenza delle lesioni subite durante un violentissimo pestaggio di cui era stato vittima da parte dei carabinieri che lo avevano arrestato - è una di queste. Perché Stefano Cucchi è stato ucciso dallo Stato che lo aveva preso in custodia (e alla cui custodia si era affidato senza opporre alcuna resistenza) almeno due volte. Come accade solo agli “ultimi”. Agli uomini e alle donne di cui si è certi che nessuno verrà a reclamare giustizia. Rottami da consegnare a una discarica. Da vivi, o da morti. Stefano Cucchi è stato ucciso una prima volta, in quell’autunno del 2009, dalla violenza dei carabinieri che del suo corpo avrebbero dovuto, al contrario, assicurare l’incolumità e l’intangibilità, nonché dal cinismo dei medici che, avendolo in cura, lo avrebbero lasciato morire in un letto di ospedale senza avere mai contezza che quella che avevano di fronte era l’agonia di un giovane uomo devastato dal dolore di una schiena dalle vertebre spezzate e non l’irragionevole resistenza di un tossico a sottoporsi alle cure. Ed è stato ucciso, una seconda volta, nei nove lunghissimi anni necessari per individuare e portare alla sbarra i responsabili delle violenze su Stefano in un processo che sta ora celebrando il suo primo grado e in cui sono imputati, a diverso titolo, cinque carabinieri per omicidio preterintenzionale, calunnia, falso e abuso. Durante questi nove, lunghissimi anni, solo la resilienza della famiglia Cucchi - Ilaria, la sorella di Stefano, Rita e Giovanni, i suoi genitori - del suo avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, e del perito di parte, Vittorio Fineschi, insieme al lavoro di un giovane e coraggioso pubblico ministero, Giovanni Musarò, sono riusciti infatti a venire a capo della coltre di depistaggi, menzogne, ignavia con cui lo Stato si è mostrato incapace di individuare e punire in modo esemplare chi, in suo nome, aveva tradito il giuramento di fedeltà alla Costituzione come anche quello di Ippocrate. Perché lo Stato, finché ha potuto, non si è lasciato processare e, come lui, non si è lasciata giudicare la corporazione dei medici, la sua “scienza”, che in questa storia ha svolto un ruolo cruciale. Perché improvvisamente balbettante, incerta fino alla reticenza, contraddittoria, nel dare risposta a una semplice domanda: le cause della morte di Stefano. Senza comprendere che la ricerca dell’impunità sarebbe risultata ancor più intollerabile della responsabilità o corresponsabilità, anche soltanto sotto il profilo omissivo, di un omicidio. E tutto questo, per un solo motivo. Stefano Cucchi-come avrebbero testimoniato le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra i carabinieri che lo avevano pestato - è stato consegnato al suo destino dalla ferocia di un senso comune collettivo che, dopo lunghe prove generali, si è fatto oggi maggioritario. E per il quale, di fronte alla legge degli uomini non si è tutti uguali. Ma qualcuno lo è meno. Stefano Cucchi è morto perché era “un drogato di merda”. E come ogni “drogato di merda”, “frocio di merda”, “immigrato di merda”, come ogni cittadino considerato di “serie B”, non ha meritato il rispetto delle garanzie dello Stato di diritto di fronte al quale, al contrario, tutti dovremmo essere uguali. Né ha meritato la compassione e la cura della Medicina. Nei confronti di Stefano, la notte del suo arresto in flagranza per spaccio, la sentenza di condanna e la sua esecuzione per vie brevi, fu assicurata da una “squadretta” di carabinieri abituata - sono ancora gli atti dell’inchiesta a documentarlo - a dare ai malcapitati che finivano nella sua giurisdizione” di quartiere una lezione che altrimenti la giustizia penale non avrebbe dato, secondo il radicato senso comune per cui “a quelli” - ai “drogati e spacciatori di merda” - “nessuno gli fa mai niente”. E nei confronti di Stefano la macchina infernale della giustizia penale per direttissima non ebbe né tempo, né scrupolo di indagare quelli che, il giorno dell’udienza di convalida dell’arresto, già apparivano come i segni di una violenza subìta. Ma nei confronti di Stefano si consumò una seconda e altrettanto decisiva forma di violenza. Nei quattro giorni trascorsi nel reparto ospedaliero di “medicina protetta” (terribile eufemismo per definire una struttura carceraria all’interno di un ospedale che della protezione risultò essere l’antitesi), a Stefano apparve l’altro e altrettanto feroce aspetto del senso comune che aveva armato la mano dei carabinieri. I medici dell’ospedale Pertini di Roma non lo avrebbero infatti mai considerato innanzitutto e prima di tutto un paziente. Ma, innanzitutto e prima di tutto “un tossico detenuto”, “non collaborativo”. Dunque, da abbandonare al suo letto-sudario e alle sue disperate manifestazioni di insofferenza liquidate come pulsioni autolesioniste. Da degnare dello sguardo strettamente necessario a rispettare i protocolli (il primario del reparto non si sarebbe mai affacciato nella cella-stanza di Stefano durante l’intero arco del suo ricovero, neanche quando le sue condizioni sarebbero cominciate a precipitare). E da sedare con robuste dosi di antidolorifici che lo facessero dormire. In un florilegio di annotazioni nelle cartelle cliniche che non avrebbero registrato neppure ciò che era riscontrabile a occhio nudo (l’arrivo di un paziente con catetere e incapace di sostenere la posizione supina). E che, al momento del decesso, avevano fatto sì che la vescica di Stefano fosse ridotta alle dimensioni di un pallone. Non vuole mangiare? Peggio per lui. Non vuole bere? Che sappia che così non va bene e dunque dovremo mettergli una flebo. Dice che si è fatto male cadendo dalle scale? Se lo dice lui. L’importante è che firmi un foglio che faccia stare le carte a posto e in forza del quale se le cose dovessero mettersi male, si potrà sempre dire (come verrà per altro detto nel caso di Stefano) che il ragazzo è morto perché, di fatto, “si è suicidato” rifiutandosi di bere e di mangiare. Per la morte di Stefano, lo Stato ha processato in tre gradi di giudizio, assolvendoli in via definitiva, gli agenti di polizia penitenziaria che lo avevano avuto in custodia nei sotterranei del Palazzo di Giustizia il giorno dell’udienza del suo processo per direttissima. E per anni, nella percezione dell’opinione pubblica, sono stati loro i colpevoli, senza tuttavia esserlo. Calunniati dai carabinieri che del pestaggio erano i responsabili e che dunque li sapevano innocenti. Quegli stessi carabinieri su cui l’occhio strabico delle indagini non avrebbe mai posato lo sguardo fino a quando non sarebbero arrivate le decisive testimonianze di chi, detenuto come lui, durante la sola notte trascorsa in carcere a Regina Coeli, aveva raccolto le confidenze di Stefano su chi lo avesse ridotto in quelle condizioni. E di chi, carabiniere come i carnefici di Stefano, si sarebbe ribellato all’omertà del Corpo, raccontando ciò che aveva visto la notte dell’arresto e ciò che aveva sentito nei giorni successivi alla sua morte, quando quello di Cucchi era diventato “un caso”. In una micidiale inversione dei ruoli, per nove anni, a essere processati sono state le vittime. La famiglia Cucchi (a cominciare da Ilaria), e lo stesso Stefano, che non poteva più difendersi. A loro è stato ferocemente chiesto conto di cosa andassero cercando. Peggio, quale risarcimento pretendessero, essendo Stefano un tossico dal destino segnato. E tutto questo, mentre i carabinieri, nell’ombra, manomettevano le prove della loro responsabilità. E i medici del Pertini conoscevano una sorte giudiziaria che la dice lunga sul disonore con cui la corporazione medica comunque uscirà da questa vicenda. Forti dell’incredibile asserzione, figlia di perizie contrastanti, che era stato impossibile accertare le cause della morte di Stefano, che non era possibile stabilire un nesso tra le vertebre spezzate e l’arresto del cuore di Stefano, i medici del Pertini, dopo una condanna in primo grado, sono stati infatti per due volte assolti in appello e per tre volte rimandati a giudizio da una Corte di Cassazione, coraggiosa nel non arrendersi all’indecenza di una scienza medica incapace di stabilire, una volta per tutte, se cure diverse o adeguate nel reparto di “medicina protetta” avrebbero salvato la vita a Stefano (il terzo processo di appello ai medici è cominciato in aprile). Ammesso ce ne fosse bisogno, tutto questo è la dimostrazione di quanto intollerabili siano e continuino ad essere le domande che il corpo di quel ragazzo, il suo volto ridotto a teschio tumefatto, continuano a porre da quell’ottobre di nove anni fa. E di come la storia di Stefano parli e continui a parlare a ciascuno di noi. Al fondo limaccioso della coscienza del Paese. Alla mancanza di coraggio dei suoi apparati, ai suoi vigliacchi tartufismi, alle nuove e antiche parole d’ordine che in questi anni hanno provato a riscrivere anche la storia di Stefano Cucchi imprigionandola in un’intollerabile quanto miserabile antitesi: “stare con l’Arma”, “stare con i tossici”. Una parola d’ordine buona ieri per Stefano. E oggi, per tanti altri “di serie B” come lui. Italiani e non. Il piano Bonafede: agente sotto copertura e Daspo ai corrotti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 10 agosto 2018 Il Guardasigilli ha annunciato i primi provvedimenti. “All’inizio di settembre porteremo in Consiglio dei ministri un disegno di legge che permetterà all’Italia di diventare leader in Europa e nel mondo nella lotta alla corruzione”. Lo ha dichiarato ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Saranno introdotti due strumenti fondamentali: l’agente sotto copertura e il Daspo ai corrotti”, ha ricordato. Nel primo caso “si tratta di uno strumento che esiste solo per reati di terrorismo e traffico di stupefacenti ma non per la corruzione”. Non vi è traccia “tra l’altro in nessuno paese d’Europa”, dunque l’Italia con l’introduzione di tale strumento “sarà all’avanguardia”. Quanto al Daspo avrà indubbiamente “un’efficacia deterrente nella pubblica amministrazione”. Il contrasto ai fenomeni corruttivi sarà, quindi, il primo serio banco di prova per il governo gialloverde in materia di giustizia. Ad oggi, infatti, tranne il decreto sul Tribunale di Bari e la modifica della legittima difesa, nessun testo risultava calendarizzato in Commissione giustizia di Camera e Senato. Bonafede ha dunque deciso di iniziare da un tema da sempre molto caro ai pentastellati. Nei giorni scorsi ha incontrato i rappresentanti di Transparency International Italia e Riparte il futuro, associazioni impegnate nella lotta contro la corruzione e a favore della trasparenza. “Il contributo delle associazioni, in questa fase preparatoria, è molto importante - ha dichiarato - e ci permette di avere proposte, critiche e suggerimenti utili per migliorare e arricchire il lavoro: il dovere delle istituzioni è anche quello di ascoltare i cittadini, essere ricettivi e aperti al confronto con chi da anni è protagonista di battaglie importanti, per poi assumersi, infine, la responsabilità della decisione”. La conferma che il Governo voglia imprimere un’accelerazione sul fronte del contrasto alla corruzione è venuta dallo stesso vice premier e ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio. In una intervista, Di Maio, aveva infatti assicurato che il Guardasigilli è già al lavoro su un testo che preveda anche “un aumento di poteri per le Forze dell’ordine nelle indagini contro i fenomeni corruttivi”. Sul punto si segnala l’intervento del ministro della Funzione pubblica, Giulia Bongiorno, che ha garantito un importante piano di investimenti in termini di risorse umane, indispensabile per realizzare le riforme volute da Bonafede. A stretto giro, la replica delle opposizioni. Per Pierantonio Zanettin (Fi), componente della Commissione giustizia della Camera, “prima di esprimere un giudizio serio bisognerà leggere nel dettaglio il testo della proposta di legge. Per ora Bonafede si è limitato a lanciare degli slogan. Registro comunque con favore il fatto che non si parla più di agente provocatore come si ipotizzava nell’originario programma elettorale del Movimento 5 Stelle, ma più semplicemente di agente sotto copertura”. Per l’ex componente del Csm, “se è relativamente facile comprendere il ruolo di questo agente, quando si tratta di sgominare organizzazioni terroristiche o dedite al traffico di stupefacenti, meno agevole appare l’individuazione delle sue modalità operative, quando il reato da reprimere è la corruzione, fattispecie astratta che non presuppone una stabile ed articolata organizzazione”. Bocciatura preventiva, invece, per il Daspo. “Nel nostro ordinamento - ha affermato Zanettin - il Daspo (divieto di accedere alle manifestazioni sportive) è un provvedimento amministrativo irrogato dal Questore nei confronti dei tifosi violenti. Sarebbe molto grave se il ministro intendesse introdurre nell’ordinamento un nuovo provvedimento amministrativo, privo delle necessarie garanzie di difesa ai danni di chi è semplicemente accusato di corruzione. Se invece il ministro intende riferirsi ad una sanzione penale accessoria, conseguente alla condanna per corruzione, ricordo che l’art 32 quater del codice penale prevede già per il corrotto il divieto di contrattare con la Pa”. Non usiamo la lotta alla mafia contro lo stato di diritto di Domenico Gozzo* Il Foglio, 10 agosto 2018 Da magistrato vi spiego perché gli avvocati dei mafiosi non vanno demonizzati. Leggo sui giornali di una polemica relativamente mente alla indicazione, quale membro di un comitato legato alla commissione antimafia lombarda, di un avvocato, che sarebbe non degno di rivestire questo incarico perché ha difeso mafiosi. Tra questi, viene indicato come principale “capo di imputazione” l’ex capo di Cosa Nostra Salvatore Lo Piccolo. Premetto che non conosco l’avvocato in questione, ma essendo una questione di principio, penso di potermi ugualmente esprimere. Del resto, visto che il principale capo di incolpazione è la difesa di Lo Piccolo, io che Lo Piccolo ho contribuito a catturarlo il 5 novembre 2007, penso di avere quantomeno diritto di intervenire su di una questione che a mio personale avviso, rischia di fatto (al di là delle buone intenzioni di chi la pone) di gettare un’ombra sinistra sulle istituzioni antimafia di questo paese. Mi pare ovvio che l’antimafia non è e non può essere solo una questione di magistrati, parenti delle vittime e avvocati di collaboratori o parti civili... l’anti mafia ha bisogno di tutti, e di tutti gli operatori del diritto, avvocati in primis, e deve essere una “precondizione” politica: non può e non deve esistere una forza politica che non abbia nel suo Dna l’antimafia. Questo è quello cui tutti dobbiamo tendere. Non un’antimafia solo dei duri e puri, ma un’antimafia di tutti. Ed è importante che la lotta alla mafia non diventi un pretesto per rinunziare, o per sottovalutate, concetti e diritti fondamentali: ho sentito tante volte, sui giornali ma anche sul web, sostenere che per i mafiosi il diritto non dovrebbe valere, che si dovrebbero uccidere tutti, che non hanno diritto alla salute e devono rimanere in carcere anche se gravemente malati, ed altre assurdità del genere. Dobbiamo stare molto attenti: perché da una idea giusta, senza il rispetto della legge e del diritto, può nascere anche una dittatura. È chiaro che il sentimento anti-mafioso è di per se giusto. La mafia, come diceva Peppino Impastato, “è una montagna di merda”. La violenza insita nei comportamenti mafiosi, la sopraffazione del forte sul debole, la straziante storia delle nostre Stragi, tutto ci porta ad essere convintamente anti-mafiosi. Ma qualsiasi idea deve inserirsi in un quadro di principi: i principi della nostra Costituzione, più volte riaffermati anche nel voto come giusti dal popolo italiano. Tra questi principi, ci sono anche quelli dello stato di diritto: il diritto ad una difesa, ad una giusta e chiara imputazione, ad un processo equo, alla salute (anche e soprattutto in carcere) etc... Il difensore è sempre architrave dello stato di diritto. I romani dicevano che il processo è un atto di tre persone, giudice, attore e convenuto, e cioè, nel processo penale, giudice, pm ed avvocato difensore. Senza una di queste persone, il processo non è equo. Il processo non può stare in piedi. Non c’è giustizia. Trovo buffo che una persona sia parte essenziale del processo, l’atto più alto della giustizia, e che non possa essere parte di una commissione antimafia. Ha difeso mafiosi? Li ha difesi, appunto. Non è mafioso per proprietà transitiva. Si dice in maniera sprezzante “avvocato di mafia”: ed allora ci sono anche gli “avvocati di corruzione”, quelli “di truffa”, etc.? È molto difficile fare l’avvocato di mafiosi. Il mafioso è abituato ad usare la violenza e vorrebbe utilizzarla anche nei confronti dell’avvocato. Vorrebbe che l’avvocato si piegasse ai suoi voleri. Se si fa bene l’avvocato, e la stragrande maggioranza dei difensori - vi assicuro da pm - lo fa, si rischia anche in prima persona. Questo lo sa chiunque le aule di giustizia le frequenta. Se poi, invece, si cede alle richieste dei mafiosi, non è più una questione di fare parte o meno di una commissione antimafia: si arriva alla possibile responsabilità penale. E questo vale per tutti, non solo per gli avvocati. Ma nessuno, nel caso di specie, ha richiamato una ipotesi del genere. Per questo, pur stimando Nando Dalla Chiesa, non posso condividere la sua campagna contro un avvocato, che, si badi bene, non è “di mafia”, ma “solo” un avvocato. E con la sua esperienza di difensore può portare, a mio avviso, armi in più per la comprensione del fenomeno mafioso, che possono veramente arricchire una commissione antimafia. *Sostituto procuratore generale di Palermo L’esercito dei pentiti di mafia: sono più dei boss in cella di Errico Novi Il Dubbio, 10 agosto 2018 In attesa della relazione di Salvini. 1.300 “collaboratori” per 700 “capi” al 41bis. Sarà interessante sentire Matteo Salvini alla sua prima relazione sui pentiti. Tecnicamente, la “Relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione”. L’ultima l’ha presentata Marco Minniti. Il nuovo ministro dell’Interno non ha ancora esordito su tale terreno. Sappiamo solo che vuole “togliere anche le mutande, ai bastardi mafiosi”. Ma come? Attraverso le confessioni dei collaboratori di giustizia? Non che tocchi a lui, certo, la prima linea della lotta alla mafia, presidiata da magistrati e forze di polizia. Eppure spetta al Capo del Viminale riflettere sulle decisioni della Commissione centrale, che decide se e a chi applicare i programmi di protezione. È al ministro dell’Interno che è giusto chiedere conto dell’efficacia del sistema. Ed eventualmente, di predisporre modifiche alle norme. A oggi le collaborazioni sono regolate dalla legge 82 del 91 così come modificata dalla legge Amato, la 45 del 2001. Naturalmente sono decisive le azioni e le valutazioni dei magistrati, compresi quelli della Direzione nazionale Antimafia, che presentano relazioni e pareri su ciascun aspirante pentito. Ma sarà Salvini a dover riflettere su due dati: il numero totale dei collaboratori di giustizia, che secondo l’ultima statistica disponibile, quella presentata appunto dal predecessore Minniti nel giugno 2017, è di 1.277 unità; l’altro dato è il numero dei boss in carcere, che si può desumere semplicemente dai detenuti in regime di 41bis: in tutto, 730 persone. I secondi, cioè i capimafia, sono poco più della metà di chi è “beneficiato” e protetto affinché aiuti a scovare nuovi boss. Ha senso tutto questo? Il regime speciale di detenzione resta uno dei vulnus giuridici più gravi, in Italia, ed è stato scientificamente liquidato come incostituzionale dall’ultima commissione Diritti umani del Senato. Ma qui interessa ragionare sul meccanismo che consente di decapitare le cosche. E chiedersi se i collaboratori di giustizia siano davvero ancora utili allo scopo. La domanda, peraltro, viene suggerita da una fonte riservata dello stesso ministero dell’Interno: “I programmi di protezione sono costosi. Sono anche una scelta giudiziaria. Negli ultimi anni l’impegno complessivo dello Stato su questo fronte non è mai sceso al di sotto degli 80 milioni di euro. E se si considera il costo degli immobili messi a disposizione dei pentiti, si arriva sicuramente ai 100 milioni annui. Adesso”, continua la fonte, “i collaboratori di giustizia propriamente detti dovrebbero aver superato quota 1.300. Ma se un magistrato riconosce il valore delle dichiarazioni di un mafioso, o di un camorrista, e se riferisce alla Commissione centrale che quel soggetto va ammesso al programma, ritiene che l’aspirante pentito possa servire ad accertare la verità. Ecco, per esempio, dovrebbe consentire di portare al 41bis almeno un paio di soggetti di spessore. Non può limitarsi ad additare qualche gregario, né ad attribuire il novantesimo omicidio a Riina, cioè a chi tanto è già al 41bis o è morto”. È chiaro che se al 41bis c’è un numero di criminali pari a poco più della metà di chi si pente, i conti non tornano. “E forse le direzioni distrettuali antimafia su questo dovrebbero riflettere”, chiosa l’interlocutore del Viminale. Da una delle Dda più impegnate quanto a collaboratori di giustizia, quella di Napoli, viene poi fatto notare l’altro aspetto del problema: “Molti di coloro che sono ammessi al programma di protezione sono ormai figure di bassissimo spessore. Piccoli criminali che non hanno capacità di direzione strategica. Vanno protetti, ma non sono in grado di dare informazioni di peso. Ciononostante portano dietro costi enormi”. Quello di Napoli è il distretto di Corte d’appello che produce più pentiti. Sui 1.277 totali, quasi 800 vengono da lì. I “collaboratori” dell’area che fa capo al capoluogo campano hanno famiglie numerosissime. Da proteggere a loro volta. Non solo mogli (le donne pentite restano pochissime, 63 in tutta Italia conto 1.214 uomini). Spesso si aggiungono le nuove compagne, magari con rispettivi figli nati da precedenti relazioni. Delle comunità complesse, diciamo così, che fanno lievitare in modo impressionante l’altro dato significativo dell’affare “collaboratori”: i congiunti a cui si estende il programma. A livello nazionale sfiorano l’astronomica cifra delle 5.000 unità: sono, precisamente, 4.915. C’è solo un’annata, nella cronologia del pentitismo, in cui si è andati oltre: il 1996. L’apice di una fase del tutto particolare, descritta dal libro di Paolo Cirino Pomicino La Repubblica delle giovani marmotte di cui diamo ampia “rilettura” in queste pagine. Ventidue anni fa si registrò il picco delle persone protette: se nell’ultimo score disponibile se ne contano 6.525, nel 1996 si arrivò a 7.020 persone. Grazie soprattutto al record dei familiari dei pentiti, 5.747, mentre i collaboratori veri e propri restarono comunque di poco al di sotto del primato recente: se ne contarono 1.214 (alla somma vanno aggiunti i testimoni di giustizia, poche decine). Ma si era nel pieno della rivincita da parte dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, in particolare siciliana. Parliamo degli anni in cui furono acquisite collaborazioni come quella di Giovanni Brusca. Oggi non si riesce a individuare più pentiti di quel “calibro”. Ed ecco perché nella lotta alla mafia, il governo, prima di ogni altra ambizione, dovrebbe coltivare quella di riconsiderare il sistema della protezione. Privacy protetta da sanzioni penali di Giusella Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2018 È giunto finalmente al termine il percorso di adeguamento della normativa italiana a quella europea in materia di protezione dei dati personali. Il Consiglio dei ministri di mercoledì sera ha infatti approvato il testo definitivo del “decreto legislativo recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento europeo (Ue) 2016/679”. La normativa scritta vent’anni fa è stata riscritta. Il decreto appena approvato ha l’obiettivo di coordinare la normativa italiana con quella europea, dopo avere effettuato una verifica di compatibilità. Le nuove disposizioni sostanziali sono state dettate dal legislatore europeo: ove il regolamento detta nuove norme, le previgenti norme italiane sono sostituite. E il decreto dichiara la sostituzione e l’abrogazione. Per esempio, con riguardo alle disposizioni concernenti l’informativa, il consenso, la sicurezza. Alcune norme italiane sono state modificate, per adeguarle alla nuova disciplina europea. Ad esempio, non essendo più richiesto il consenso per il trattamento dei dati sanitari per finalità di cura, sono state modificate le disposizioni in materia di sanità che lo prevedevano. Il regolamento europeo ha riscritto la normativa sulla protezione dei dati personali: ha abrogato la direttiva madre e sostanzialmente anche il Codice per la protezione dei dati personali italiano. Il legislatore italiano alla fine ha scelto di mantenere la veste esteriore del Codice per la protezione dei dati personali italiano, che molto poco ha ormai dell’organicità che un codice dovrebbe avere. Molte disposizioni sono state abrogate perché sostituite da quelle del regolamento europeo e molte altre sono state modificate per adeguarle a quelle del regolamento. La tecnica normativa scelta non aiuta certamente la leggibilità che, di per sé, dovrebbe rappresentare un valore. Il legislatore italiano ha scelto alla fine di inasprire il quadro sanzionatorio penale, nonostante le severe sanzioni amministrative previste dal regolamento europeo (fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato mondiale annuale lordo), di natura sostanzialmente penale. Molto resta da fare al Garante per la protezione dei dati personali, che dovrà verificare la compatibilità delle autorizzazioni generali già emanate con il Gdpr ed aggiornarle. Dovrà inoltre promuovere l’emanazione delle regole deontologiche concernenti il trattamento dei dati personali in alcuni settori, quali ad esempio, lavoro, giornalismo, statistica e ricerca scientifica, coinvolgendo i soggetti interessati ed effettuando una consultazione pubblica. Molto resta da fare anche agli operatori che dovranno promuovere l’emanazione di codici di settore in sostituzione del vigente codice di deontologia per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in materia di crediti al consumo e del vigente codice per il trattamento dei dati effettuato a fini di informazione commerciale. Addio caporalato, 5 proposte italiane contro la schiavitù moderna di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 10 agosto 2018 Dopo la tragedia dei braccianti morti a Foggia si torna a parlare di caporalato. Ma una filiera etica per il pomodoro è possibile. Ecco 5 idee innovative che lo dimostrano. La prima si chiama Funky Tomato. La società campana assume direttamente i braccianti agricoli, migranti provenienti da Ghana, Gambia, Burkina Faso con un contratto regolare, li forma e li alloca sui terreni di agricoltori. Ma solo dopo la firma di un contratto di rete in cui si prevede la sottoscrizione di un disciplinare etico. In questo modo i caporali vengono tagliati fuori e ai braccianti vengono garantite condizioni lavorative dignitose. L’obiettivo della società è trasformare in futuro Funky Tomato in una sorta di ente di certificazione etica della filiera, che svolga anche attività di formazione per le persone svantaggiate, italiane o straniere. Lavoro e “Diritti a Sud” - Controllo della filiera e garanzie per i lavoratori. Sono questi gli obiettivi dell’associazione “Diritti a Sud” che grazie al progetto “Sfruttazero” sta provando a contrastare lo sfruttamento. Come? Favorendo l’inserimento lavorativo di migranti e proponendo al contempo un modello di economia etico e alternativo a quello tradizionale. L’iniziativa è partita in collaborazione con l’associazione “Solidaria di Bari” nel 2015 e consiste nella produzione di salsa di pomodoro ad opera di migranti, ma anche precari e disoccupati italiani. La fase di avviamento della produzione è stata sostenuta grazie al crowdfunding. Diritti a Sud controlla l’intera filiera produttiva e cura tutte le fasi di lavoro: dalla scelta del terreno alla raccolta dei pomodori fino alla distribuzione della salsa fuori dai circuiti della grande distribuzione organizzata. Le passate sono vendute nei Gas, gruppi di acquisto solidali, alle fiere o nelle botteghe equo-solidali oltre che ai privati. Sos Rosarno - Sos Rosarno si batte contro lo sfruttamento dei lavoratori di origine straniera impiegati nella raccolta di arance e mandarini. Dove prima c’era caporalato e lavoro nero ora ci sono contratti in regola; e dignità. Banca Etica ha finanziato l’avvio di questa coraggiosa attività che sta dando ottimi frutti, anche grazie alla vendita diretta dei prodotti ai Gruppi di Acquisto Solidale (Gas) che sottrae la filiera ai ricatti della grande distribuzione. La Fiammante - “Un’altra agricoltura è possibile, doverosa, necessaria. Facciamo filiera, insieme”. Così si legge sulla pagina Facebook de “La Fiammante”, storica azienda campana con 50 anni di esperienza e riconosciuta da enti certificatori nazionali e internazionali. La società tutela il valore del lavoro contadino attraverso accordi diretti che garantiscono il giusto prezzo (concordato in largo anticipo sulla campagna) e il necessario sostegno agli agricoltori lungo le diverse fasi di produzione. Pietra di scarto - La Cooperativa Sociale “Pietra di Scarto” nasce nel 1996 a Cerignola con l’obiettivo di realizzare l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà. Oggi si occupa di produrre conserve e sughi garantiti, realizzati “con pomodori liberi dal caporalato nel pieno rispetto dei lavoratori e dell’ambiente”. Il progetto è stato realizzato grazie a una raccolta fondi che, con l’aiuto di Banca Etica, è arrivata a 8mila euro. Per combattere il caporalato a volte basta il Codice della strada di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2018 Mentre la politica dibatte sull’applicazione della recente legge anti-caporalato e su un problematico potenziamento dei controlli da parte degli ispettori del lavoro, una sola, vecchia norma potrebbe contribuire a debellare il fenomeno: il Codice della strada. In fondo, contiene le misure di contrasto più semplici da applicare. Ma di fatto non si può utilizzare bene nemmeno quello: il presidio delle forze di polizia sulle strade finora è stato carente anche nelle principali strade delle zone dove il caporalato è un’emergenza accertata, come Il Sole 24 Ore ha denunciato ieri per il Foggiano. Il Codice della strada può essere già da solo un’arma importante perché il caporalato ha bisogno dei pulmini che trasportano i braccianti. E questi pulmini sono quasi tutti in condizioni pessime o comunque irregolari. Tanto che un semplice controllo su strada, come quelli cui potrebbe venire sottoposto qualunque veicolo in qualunque momento, potrebbe accertare rapidamente violazioni che possono portare al ritiro o alla sospensione della carta di circolazione. Le modifiche ai sedili - L’irregolarità più evidente è lo smontaggio dei sedili, sostituiti da panchette o addirittura semplici assi di legno per aumentare la capienza del mezzo. Operazione che peraltro rende impossibile utilizzare le cinture di sicurezza. È così che si spiega la morte di 12 braccianti nell’incidente dell’altro ieri a Lesina, su un mezzo che legalmente ne può trasportare nove (conducente compreso). L’articolo 78 del Codice della strada punisce con una multa di 422 euro e il ritiro della carta di circolazione tutte le modifiche non autorizzate alle caratteristiche tecniche del mezzo. Il ritiro, che dura fino a quando si dimostra di aver rimesso il veicolo in regola, esclude che si possa continuare a circolare. Visto che spesso i pulmini hanno targa estera (nel Foggiano, soprattutto bulgara), i 422 euro vanno pagati subito (anche solo a titolo di cauzione), pena il fermo amministrativo del mezzo. Peraltro, i caporali tendono a non farsi trovare con molti soldi in tasca o con moneta elettronica, per cui è molto probabile che si concretizzano le condizioni per procedere al fermo. L’uso diverso - Meno semplice è contestare un’altra infrazione prevista dal Codice, all’articolo 82: l’adibizione del veicolo a un uso diverso da quello per il quale è stato immatricolato. Sostanzialmente, i caporali portano i braccianti sui campi di lavoro trattenendosi una somma per il “servizio” di trasporto loro reso. Così si può argomentare che il veicolo venga impiegato per un’attività a fine di lucro, cosa che sarebbe esclusa per i mezzi immatricolati “a uso proprio”. L’uso diverso è punito con una multa di 85 euro e la sospensione della carta di circolazione per un periodo da uno a sei mesi (decide il Prefetto, che verosimilmente per i casi di sospetto caporalato si avvicinerà al massimo previsto). Per i recidivi, la sospensione è da sei a 12 mesi. Contro chi circola lo stesso - Naturalmente i caporali, tanto più in zone dove la legalità è bassa, potrebbero infischiarsene del ritiro e della sospensione della carta di circolazione. Ma dovrebbero comunque passare alle solite ore dalle solite strade, note alle forze dell’ordine. Appostamenti costanti, oltre a dimostrare la reale volontà dello Stato di combattere il caporalato, potrebbero portare ad accertare la circolazione con documenti ritirati, che può portare a sottrarre il veicolo a chi lo usa. L’articolo 216 del Codice della strada punisce la circolazione con documenti ritirati con una multa da 2.006 a 8.025 euro (decide il Prefetto) e il fermo amministrativo per tre mesi. Per i recidivi c’è la confisca. Spesso queste procedure si rivelano macchinose da espletare. Tanto più da parte di corpi di polizia che non hanno organici sufficienti per seguire tutte le pratiche e sono alle prese con trasgressori consci dei problemi di applicazione delle norme. Ma forse le norme anti-caporalato sono ancora più difficili da utilizzare. La targa estera - Spesso i caporali preferiscono usare veicoli con targa dell’Est, per rendere più difficili i controlli e risparmiare, evitare le multe stradali irrogate senza fermare subito il trasgressore e risparmiare sulle spese di bollo e assicurazione pagandoli nel Paese d’immatricolazione (ammesso che si pongano il problema di pagare). Se si controllasse il territorio più assiduamente e con sistemi di videosorveglianza “intelligenti”, forse si riuscirebbe anche a dimostrare che circolano in Italia abusivamente: emergerebbe che si trovano sul territorio nazionale da più di un anno, limite massimo di permanenza con targa estera stabilito dall’articolo 132 del Codice della strada. Ma la norma non è facile da applicare, perché va incrociata con quelle doganali e con il fatto che molto dipende dallo Stato di residenza del conducente. Restano anche zone d’ombra nelle norme europee sulla libertà di circolazione di persone e beni. Per questo, non di rado le forze di polizia preferiscono non addentrarsi in questioni la cui complessità può anche vanificare il lavoro. Inoltre, le sanzioni previste dall’articolo 132 sono limitate: appena 85 euro di multa. La norma prevede anche “l’interdizione all’accesso sul territorio nazionale”, espressione che dopo l’eliminazione delle frontiere terrestri diventa tanto ambigua da rendere questa misura pressoché inapplicabile. Detenuto ammalato in cella con fumatori: la pena va ridotta di Veronica Manca quotidianogiuridico.it, 10 agosto 2018 Cassazione penale, sezione I, sentenza 22 giugno 2018, n. 29063. Con la pronuncia n. 29063 del 2018, la Prima Sezione della Cassazione è tornata ad occuparsi di un tema già battuto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con riguardo alla tutela del diritto alla salute nel caso di detenuto (affetto da gravi patologie) sottoposto per lunghi periodi alla convivenza in cella con detenuti fumatori. Nel caso in questione, la Cassazione annulla l’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, per omessa valutazione delle istanze difensive oltre che all’assenza di un attento vaglio della situazione concreta. Con la pronuncia in esame, la Prima Sezione della Cassazione è tornata ad occuparsi di un tema molto sentito e dibattuto sia in dottrina (cfr. V. Manca, La Corte dei diritti dell’uomo torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: l’inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell’art. 3 Cedu, 2014) sia in giurisprudenza che ha ad oggetto la tutela del diritto alla salute del detenuto (affetto da gravi patologie, in prevalenza in relazione alle vie respiratorie) sottoposto a lunghi periodi di detenzione in celle condivise con altri detenuti fumatori. In relazione, infatti, alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, i giudici di Strasburgo tendono pacificamente ad individuare una lesione dell’art. 3 Cedu per ipotesi gravi di violazione degli standard minimi igienici. Tra tutte, degna di nota, è senza dubbio, la sentenza Antropov c. Russia, in cui il ricorrente lamentava di essere stato detenuto in una cella completamente invasa da insetti e roditori (cfr. C. eur. uomo, 29 gennaio 2009, Antropov c. Russia, ric. n. 22107/03). Ancora, da menzionare sicuramente le pronunce della Corte rispetto a situazioni dei detenuti che denunciavano di aver contratto proprio in carcere malattie infettive e contagiose (come l’epatite o l’Hiv). Con riguardo, nello specifico, al problema del fumo passivo, sono ormai casi di cronaca, le violazioni denunciate in relazione all’art. 3 Cedu per detenuti sottoposti durante il periodo di detenzione al fumo passivo: basta pensare al caso del detenuto recluso in una cella di 55 metri quadri con 110 detenuti, di cui molti fumatori (cfr. C. eur. dir. uomo, 14 settembre 2010, Mariana Marinescu c. Romania, ric. N. 36110/03). Vi sono casi in cui il detenuto lamentava di essere stato sottoposto a fumo passivo sia in cella sia in ospedale (C. eur. uomo, 14 settembre 2010, Florea c. Romania, ric. n. 37186/03). La Corte, in svariate occasioni, ha inoltre rammentato come costituisca un obbligo dello Stato in relazione alla piena attuazione dell’art. 1 Cedu (obbligazioni positive) l’adozione di tutte le misure necessarie per proteggere un detenuto contro gli effetti nocivi del fumo passivo, quando, sulla base degli esami medici e delle prescrizioni dei sanitari, ciò sia necessario per motivi di salute (nel caso de quo, il ricorrente soffriva di problemi respiratori, aggravatisi per la mancata adozione di quelle misure). Nel caso in esame della Cassazione, il detenuto V.D., della provincia di Reggio Calabria lamentava di essere asmatico. Nonostante la sua patologia, era stato recluso in cella con altri detenuti fumatori. Si doleva, in particolar modo, di aver subìto tale trattamento sia nell’istituto penitenziario di Genova sia in quello di La Spezia. Contestava inoltre di essere stato sottoposto a periodi di detenzione in strutture non conformi agli standard europei di tutela, (carceri di Ascoli Piceno e di Livorno). A fronte di tale situazione soggettiva, il Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, in parziale accoglimento del reclamo avanzato dal detenuto avverso l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza dell’Aquila, aveva riconosciuto a favore dello stesso a titolo di risarcimento del danno (ex art. 35-ter O.P.), la riduzione della pena detentiva da espiare in misura di giorni 33, su complessivi 334 giorni di pena, perché non conformi al disposto dell’art. 3 Cedu. Il Tribunale di Sorveglianza, quindi, valutato come non conformi alla Convenzione, i periodi di pena scontati dal detenuto presso le strutture penitenziarie di Ascoli Piceno e di Livorno, rigettava l’istanza con riguardo agli altri periodi di detenzione sofferti dal medesimo presso le carceri di Genova e La Spezia. Contro l’ordinanza de qua, limitatamente alla parte oggetto di diniego, il detenuto proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo come il Tribunale di Sorveglianza non solo non avesse tenuto conto delle argomentazioni difensive, ma non avesse nemmeno attivato i meccanismi probatori d’ufficio per accertare se effettivamente il detenuto avesse sofferto il periodo di detenzione in condizioni contrarie alla norma convenzionale. Sul punto, la Corte di Cassazione, accogliendo in pieno ricorso del detenuto, ha disposto l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, con rinvio allo stesso per meglio accertare le condizioni di detenzione del ricorrente in relazione ai periodi di detenzione scontati presso le carceri di Ascoli Piceno e di Livorno. Non scatta il favor rei sulle sanzioni per violazioni dei doveri dei sindaci di Giovanni Negri Il Sole 24 ore, 10 agosto 2018 Corte di cassazione, sentenza 9 agosto 2018, n. 20688. No all’applicazione del favor rei per le sanzioni inflitte da Consob ai sindaci. Si tratta infatti di una misura di natura amministrativa, la cui successiva attenuazione non può essere applicata, in assenza di una previsione specifica, a casi puniti sulla base della vecchia disciplina. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza 20688, della Seconda sezione civile, depositata ieri. La Consob aveva contestato la violazione dei doveri di vigilanza, della disciplina sulla trasparenza informativa e l’assenza dei requisiti di indipendenza tra il sindaco ricorrente e l’amministratore delegato. La pronuncia ha respinto il motivo di ricorso imperniato sulla necessità di rideterminazione della sanzione pecuniaria, per effetto dell’approvazione di nuovi, più bassi sia nel minimo sia nel massimo, importi per violazione di alcuni dei principali doveri del collegio sindacale, sintetizzati nell’articolo 193, comma 3 del Tuf. La difesa valorizzava la posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo per la quale, in presenza di sanzioni solo formalmente amministrative, ma di natura afflittiva sostanzialmente penale, deve essere applicata la norma successiva più favorevole. La Cassazione, tuttavia, contesta proprio questa premessa, ricordando l’improprietà del riferimento alla sentenza Grande Stevens della Corte dei diritti dell’uomo: quella infatti riguardava un’ipotesi di manipolazione del mercato e non invece il caso delle sanzioni inflitte ai sindaci. La diversità è sotto una pluralità di aspetti, come la tipologia, la severità e l’incidenza personale e patrimoniale. Non sono per esempio previste sanzioni accessorie e non è stabilita alcuna ipotesi di confisca. Di più, la sentenza sottolinea come la sanzione adottata da Consob è l’esito di un procedimento che prevede nel suo dispiegarsi un sindacato pieno dell’autorità giudiziaria. E allora la Corte non può che riaffermare il carattere strettamente amministrativo dell’illecito contestato ai sindaci. Il che ha come conseguenza la conferma del principio della stessa Cassazione per il quale “in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto di applicazione analogica di cui all’articolo 1, legge 24 novembre 1981 n. 689, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi”. Del resto, sono conclusioni suffragate anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Con un riferimento particolare alla sentenza n. 193 del 2016, che mise in evidenza come nel quadro delle garanzie messo a punto dalla Corte dei diritti dell’uomo, non è affermato un vincolo per l’introduzione nei singoli ordinamenti statali del principio di retroattività della legge più favorevole da tradurre anche nel sistema della sanzioni amministrative. E neppure esiste un vincolo di natura costituzionale, visto che il legislatore, affermò la Consulta, può certo discrezionalmente prevedere la retroattività solo in alcune materie come quella tributaria o valutaria. Nulla l’ordinanza del sindaco che vieta l’affitto di fabbricati per l’accoglienza dei migranti Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2018 Tar Catania - Sentenza 6 agosto 2018 n. 1671. È nulla l’ordinanza contingibile e urgente del sindaco che vieta l’affitto o la cessione di fabbricati per l’accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Lo ha stabilito la sezione IV del Tar Catania con la sentenza 6 agosto 2018 n. 1671. I magistrati amministrativi hanno annullato l’atto emesso dal sindaco di Valguarmera Caropepe e condannato il comune a pagare le spese legali. Il caso - Il sindaco della cittadina in provincia di Enna dopo aver premesso che il comune non aveva aderito al progetto Sprar “per la dichiarata inidoneità del territorio comunale ad accogliere migranti, rifugiati, e richiedenti asilo” ha disposto il divieto di concedere “in locazione e/o comodato ad uso abitativo e/o in vendita, immobili privi dei requisiti previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di agibilità ed abitabilità rilasciati dal Comune di Valguarnera Caropepe, oltre che di inesistenza delle barriere architettoniche e requisiti igienico sanitari che possano costituire danno per la salute e l’incolumità delle persone”. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso la prefettura di Enna per il ministero dell’Interno. La decisione - Il Tar ha ricordato che la ragione del provvedimento è costituita dalla dichiarata inidoneità del territorio comunale urbano ed extraurbano ad assicurare la necessaria accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, a causa dell’asserita assenza di strutture idonee allo scopo. Di conseguenza, la materia disciplinata con l’ordinanza sindacale non è tanto quella igienico-sanitaria, quanto, soprattutto e principalmente, quella della gestione dei migranti, rientrante nella sfera di competenza dello Stato e, più precisamente, del ministero dell’Interno, e non in quella dei Comuni (o dei Sindaci). Non può, dunque, il Sindaco, nella sua qualità di Autorità Locale, intervenire con propri atti per regolamentare il fenomeno migratorio, sebbene nell’ambito del proprio territorio comunale. Partendo da tali presupposti il Tar ha dichiarato nulla l’impugnata ordinanza: a) perché la gestione e la dislocazione dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo sull’intero territorio nazionale è riservata alla competenza esclusiva del Ministero dell’interno e del Prefetto; b) perché la disciplina dell’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti protezione internazionale è à riservata alla competenza esclusiva dello Stato; c) perché vietare la vendita o la concessione in locazione o in comodato di immobili siti nel territorio comunale per assicurare ospitalità a migranti, rifugiati e richiedenti asilo viola il principio di libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’articolo 41, comma 1, della Costituzione e limita la proprietà privata in spregio alla di riserva di legge contemplata dall’articolo 42, comma 2, della Costituzione, disciplinando settori riservati alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in quanto afferenti all’ordinamento civile ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera l),della Costituzione Calabria: in cella si muore anche per lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 agosto 2018 Il due agosto è deceduto in ospedale un detenuto recluso a Paola, in provincia di Cosenza. Un detenuto muore dopo lo sciopero della fame in un carcere Paola in Calabria, nel frattempo a rischio vita un altro e sempre a causa del digiuno protratto da tempo nel penitenziario di Rossano Calabro. A denunciare l’ultimo caso è Emilio Quintieri dei Radicali italiani. Si tratta di Victor Pereshacko, ingegnere Informatico ed Imprenditore nel settore pubblicitario, ex paracadutista dell’Armata Rossa, Forza Armata della Federazione Russa, in espiazione della pena dell’ergastolo per un duplice omicidio commesso - insieme ad un altro connazionale - in Sardegna nel 2005. Quintieri spiega che il detenuto russo aveva accettato di essere trasferito nel suo Paese per scontare la pena residua, ma sono passati 4 anni da allora e ancora la procedura di trasferimento non è stata portata a termine. Per questo motivo ha iniziato lo sciopero della fame. Il militante dei Radicali italiani, da sempre in visita presso le carceri, soprattutto calabresi, per verificare le condizioni dei detenuti, spiega che era andato a trovare Pereshacko il 23 giungo scorso nel carcere di Rossano per pregarlo di interrompere lo sciopero della fame. “Era molto debilitato - spiega Quintieri -, a malapena riuscì a raccontarmi un po’ la sua vicenda dicendomi “grazie per il suo interessamento, ci penserò se smettere lo sciopero”. In realtà però non ha smesso. Quintieri lo ha appreso direttamente da lui, tramite una sua lettera. Gli ha scritto testuali parole: “Ho perso più di 20 chili di peso e come sto potete immaginare. Molti cercano di convincermi di smettere. E perché? Per far tornare il tutto come prima? Qualche anno fa, nel Carcere di San Gimignano, ho avuto il piacere di incontrare Marco Pannella. Ho conosciuto quest’uomo e sempre avuto rispetto per la sua lotta per i diritti civili. Ora però tocca a me, il mio diritto che è stabilito dalle leggi internazionali, è violato e di brutto. La procedura di estradizione dura da anni, io sono sempre qui e non si muove niente. Non ho intenzione di smettere lo sciopero della fame finché non mi venga riconosciuto il diritto ad essere estradato nel mio Paese”. Quintieri spiega che negli Istituti penitenziari della Calabria (come nel resto d’Italia) vi sono altri detenuti stranieri con decreto di espulsione emesso dal magistrato di Sorveglianza che non viene eseguito e tanti altri ancora che vorrebbero essere trasferiti nei loro paesi per espiare la loro pena ed a cui, per svariati motivi, tale diritto viene negato. L’attivista dei Radicali italiani spera che lo Stato italiano definisca al più presto la procedura di trasferimento, soprattutto per evitare che ci scappi ancora un altro morto a causa dello sciopero della fame. Così come accadde, esattamente una settimana fa, al 75enne Gabriele Milito, il ragioniere originario di Sapri accusato di aver ucciso la moglie Antonietta Ciancio mentre dormiva lo scorso 29 aprile, con un colpo di pistola sparato alla nuca. È stato quindi arrestato e in seguito ha avuto accesso agli arresti domiciliari in attesa di essere giudicato. La prima volta è uscito dalla casa ed è andato alla caserma dei carabinieri che lo hanno raccompagnato a casa. La seconda volta è uscito nuovamente, i carabinieri l’hanno visto e riportato in carcere per aver violato la misura cautelare. Siamo al 20 maggio, e nei giorni successivi ha cominciato a rifiutare il cibo. Dopo diversi malori viene ricoverato in ospedale, il pomeriggio del due agosto muore. Napoli: troppi suicidi in cella, ispettori del ministero inviati a Poggioreale Il Mattino, 10 agosto 2018 Di fronte al fenomeno crescente dei suicidi in carcere sono state disposte una serie di ispezioni, a partire da Poggioreale. Desta preoccupazione - si legge infatti in una nota del Ministero - il crescente numero di suicidi che si stanno verificando all’interno delle carceri, un fenomeno che impone un’attenta riflessione sulle cause e sulle origini che stanno alla base di questi gesti. Così il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, hanno disposto l’avvio di una mirata attività ispettiva orientata a raccogliere tutti gli indispensabili elementi informativi - cause, dinamiche e modalità dei fatti - in riferimento ad ogni suicidio avvenuto dal primo gennaio di quest’anno e rispetto ad ogni ulteriore evento futuro. Nelle ultime settimane a Poggioreale si sono tolti la vita tre detenuti. Intanto proprio ieri il Comune di Napoli ha annunciato l’istituzione, su proposta dell’Assessore al Welfare Roberta Gaeta, l’istituzione della figura del Garante dei diritti dei detenuti. Napoli: detenuto dal carcere di Poggioreale “ho bisogno di cure, devo uscire” Il Roma, 10 agosto 2018 Trapiantato di rene, ha i sintomi de! rigetto dell’organo: “Voglio pagare la mia pena, ma devono trasferirmi in una struttura adeguata. Ignorano le mie richieste perché in estate la Giustizia va in vacanza”. Ammette la sua colpa, dice: “Ho sbagliato”, ma chiede di scontare la sua pena ai domiciliari perché ammalato: “I medici mi hanno detto clic ho una crisi di rigetto per il rene che mi hanno trapiantato”. Ma di uscire dal carcere di Poggioreale non se ne parla per Giovanni (nome di fantasia), che scrive al “Roma” per chiedere pubblicamente un trattamento umano in nome della Costituzione, che cita due volte nella sua lettera, ricordando gli articoli 27 e 32. Giovanni dice di essere ammalato anche di epatite B e C. Il detenuto ha 62 anni, scrive di avere cominciato a spacciare droga per pagare i debiti che aveva fatto “giocando”. “Non sono affiliato ad alcun clan”, scrive, vuole scontare quello che deve scontare, ma in condizioni più umane per un uomo ammalato: “Voglio curarmi in strutture adeguate”. Ma il suo appello resta senza risposte perché nel mese di agosto “la giustizia va in ferie”. Poi chiede di non inserire le sue generalità per timore di “ritorsioni”. Quella delle carceri resta un’emergenza. Dopo l’ennesimo suicidio a Napoli, Forza Italia lancia l’allarme. “La drammatica realtà degli istituti di pena italiani e della dolente umanità che vi è ospitata, pare dimenticata dal governo a guida 5 stelle, obnubilato da una miope concezione carceri centrica”, affermano Pierantonio Zanettin e Giusi Bartolozzi, deputati di Forza Italia e componenti della Commissione Giustizia di Montecitorio. “Forza Italia, memore del dettato costituzionale dell ‘articolo 27 della Costituzione, ritiene invece che il tema meriti rispetto ed attenzione. Proprio per questo, nelle scorse settimane, abbiamo chiesto nell’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia di Montecitorio il ripristino del Comitato permanente Carceri, che, in passate legislature, ha svolto un ruolo decisivo per studiare i complessi fenomeni connessi alla tematica della pena detentiva. Ci aspettiamo che la nostra richiesta possa essere evasa con sollecitudine. Il Parlamento non può’ rimanere in-sensibile e inerte di fronte ai drammi vissuti ogni giorno nei carceri italiani”, concludono i parlamentari azzurri. Intanto il Comune di Napoli nomina il garante dei detenuti. È stata approvata la delibera di giunta comunale di proposta al consiglio a firma dell’assessore al Welfare di Napoli, Roberta Gaeta. “Un Paese veramente civile - spiega l’assessore - è quello teso a tutelare e far rispettare i diritti inalienabili di ogni uomo, compresi quelli dei detenuti. Il carcere deve rappresentare uno strumento detentivo di rieducazione, non il luogo in cui l’individuo è alienato: come recita l’articolo 27 della nostra Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’ e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “I valori di uguaglianza e solidarietà guidano l’azione amministrativa - conclude l’assessore - e il Comune di Napoli con l’istituzione del Garante per i diritti dei detenuti vuole dare seguito proprio alla Carta Costituzionale, individuando così una figura che possa contribuire alla salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone incarcerate, garantendone la dignità ed eliminando ogni forma di marginalità sociale”. Caltanissetta: i detenuti potranno svolgere servizi di pubblica utilità caltanissettalive.it, 10 agosto 2018 È stata siglata giovedì 9 agosto la convenzione tra Comune di Caltanissetta, Casa circondariale di Caltanissetta e Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe), per l’impiego di cittadini detenuti o in fase di esecuzione alternativa delle pene, in attività di pubblica utilità. A siglare la convenzione sono stati il sindaco, Giovanni Ruvolo, il direttore della Casa circondariale di Caltanissetta, Francesca Fioria, il direttore dell’ufficio esecuzione penale esterna di Caltanissetta ed Enna, Rosanna Provenzano. Presente al tavolo Beatrice Sciarrone, responsabile area trattamento della Casa circondariale di Caltanissetta. La convenzione è finalizzata al reinserimento sociale di persone in esecuzione di pena attraverso attività di volontariato. “Rappresenta il punto d’incontro tra istituzioni diverse su un elemento condiviso: il rispetto della dignità persona. La pena deve avere finalità rieducativa e dare occasioni di riabilitazione”, ha detto il sindaco, Giovanni Ruvolo. Per il direttore della Casa circondariale nissena, Francesca Fioria “quella di oggi è una tappa importante di un percorso che ha visto la Casa circondariale aprirsi all’esterno, facendo collaborare i detenuti in servizi di pubblica utilità”. “Non basta far uscire il detenuto all’esterno per affermare che sono rispettati i principi di rieducazione della pena - ha spiegato Fioria - è necessario che vi sia una maturazione. Per questo è importante che il primo cittadino firmi questa convenzione, perché fornisce un esempio sul fatto che la società può aprirsi al carcere”. Rosanna Provenzano, direttore Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe di Caltanissetta ed Enna) presiede le procedure riguardanti le misure alternative alla detenzione. “Sono in atto più di 80 convenzioni e questa con il Comune è molto importante - ha spiegato. C’è un passaggio culturale che ci porta dentro il paradigma della giustizia riparativa. In Italia ci sono 50 mila persone che usufruiscono della pena alternativa, noi seguiamo gli aspetti di riabilitazione e inclusione sociale”. I lavori di pubblica utilità possono consistere nella cura di aiuole e giardini pubblici, nella cura del cimitero e vengono svolti a titolo di volontariato. Gli interventi saranno definiti anche con le parrocchie ed i comitati di quartiere. “Sostenere la dignità di ogni singola persona, al di là dell’esperienza che essa attraversa in un determinato momento, rappresenta l’opportunità per il detenuto di sentirsi parte di una comunità nei luoghi in cui essa vive”, ha aggiunto il sindaco. La convenzione ha la finalità di promuovere azioni di sensibilizzazione sul reinserimento di persone in esecuzione penale; promuovere attività riparative; favorire una rete che accolga i soggetti in esecuzione di pena. L’Istituto penitenziario e l’Uepe segnaleranno i nominativi dei soggetti con le indicazioni relative al tempo che possono dedicare all’attività e la qualifica. Parteciperanno inoltre alle verifiche periodiche sull’inserimento. Il Comune si impegna a individuare gli ambiti di impiego, assumere l’onere dell’assicurazione, individuare un referente che affianchi la persona nel suo inserimento, comunicare all’Uepe e alla Casa circondariale le presenze mensili, rilasciare un attestato a fine attività. Chieti: disabili e detenuti uniti per superare le fragilità di Stefano Pasta Avvenire, 10 agosto 2018 Per chi passa dall’Abruzzo, l’invito è visitare la Fattoria Vita Felice di Casalbordino (Ch), inaugurata il 21 luglio alla presenza dei vescovi di Chieti e di Trivento, Bruno Forte e Claudio Palumbo. Vi attendono cene in compagnia, momenti di vita all’aperto, cavalcate, visite agli animali e passeggiate con l’asinello. “Soprattutto - dice don Silvio Santovito - è l’occasione per riscoprire la grandezza dell’uomo anche di fronte alle debolezze e alle fragilità”. La parrocchia di Casalbordino è stata l’anima di questa fattoria sociale: “Abbiamo voluto - continua il parroco - rispondere a due esigenze delle persone che abitano il nostro territorio. Da un lato i disabili psichici, spesso ragazzi divenuti adulti, che rischiano di rimanere chiusi in casa. Dall’altro i detenuti della casa lavoro di Vasto”. Si tratta di un carcere speciale per “internati” - è questo il nome ufficiale - che hanno ripetuto più volte lo stesso reato, condannati quindi a pene di lungo periodo. “Presso la fattoria - continua don Silvio - scontano ore premio, licenze e si riabituano alla vita fuori in vista della fine della detenzione”. Disabili e internati lavorano insieme in cascina (durante l’anno frequentata dalle scolaresche per visite didattiche), a contatto con natura e animali. All’inaugurazione di luglio ha preso la parola la tesoriera dell’associazione Titti Magnarapa, 91 anni e volto storico della San Vincenzo abruzzese. “Ringrazio il Signore - ha detto - per avermi dato nell’ultimo periodo della mia lunga vita la possibilità di condividere tutto con persone che mi mostrano quotidianamente il loro amore”. Roma: carcere di Rebibbia, le detenute “salvano la faccia” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 agosto 2018 Il progetto ha coinvolto 60 donne e ne è nato anche un corto realizzato da Giulia Merenda. Donne che salvano le donne: potrebbe essere questa la sintesi del progetto “Salviamo la faccia”, nato qualche tempo fa nella Casa Circondariale Femminile diretta da Ida Del Grosso e nella sezione delle transessuali del Nuovo Complesso di Rebibbia a Roma, diretto da Rossella Santoro, che hanno fortemente voluto questa iniziativa con Gabriella Stramaccioni, Garante delle persone prive di libertà di Roma Capitale. Il progetto a cura del Centro provinciale Istruzione Adulti n. 1 di Roma e dall’associazione “Ossigeno per l’informazione”, e promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, ha visto 60 detenute confrontarsi con diverse attività laboratoriali: scrittura creativa, teatro (a cura dell’associazione Per Ananke), serigrafia (di Made in jail), erboristeria, campagna fotografica e prodotto audiovisivo. La formazione didattica a cura dell’associazione “Ossigeno per l’informazione” si è concentrata sui principi- base della Costituzione italiana. Inoltre, si sono ripercorse le normative costruite sulle basi costituzionali: la legge Mancino, la violenza di genere, lo stalking (l’avvocato Giulia Masi ha prodotto un vademecum). Oltre al tema dell’empowerment, al rafforzamento dell’identità femminile, (di cui si è occupata l’esperta Simona Lanzoni) il progetto si è soffermato anche sul lavoro, sulle start- up di impresa, sulle cooperative, su quali siano i modelli organizzativi e la capacità di lavorare in gruppo (a cura del sociologo del lavoro Gianni Costa). Ne è nato anche un cortometraggio realizzato dalla film- maker e docente di scuola carceraria, Giulia Merenda, con le riprese di Giovanni Piperno, il montaggio di Simona Paggi, e le musiche a cura di Alessandra Castellano. La pellicola, scritta e interpretata dalle donne che stanno “dentro” per le donne che stanno fuori, ha per protagoniste recluse diverse per età e provenienza geografica, tutte “marchiate” da violenze subite. E sono loro stesse a raccontare come in passato non si sono “salvate la faccia” subendo soprusi e di come invece oggi se la salvano conquistando consapevolezza, solidarietà e forza. Quest’anno il corto verrà diffuso in festival, rassegne nazionali e internazionali dalla distribuzione Premiere. E proprio il carcere femminile di Como sarà il primo istituto di pena a proiettarlo, con l’auspicio che anche altre case di reclusione possano mostrarlo, e ad intraprendere il percorso didattico già sperimentato a Rebibbia. Come ci racconta Giulia Merenda le protagoniste del corto “sono donne in un laboratorio d’erboristeria, che, attraverso piante e fiori, curano le ferite del corpo e dell’anima. Vengono dall’Africa, dall’Europa dell’Est, dall’America Latina, ma anche da Ostia, e parlano di una vita vissuta duramente per risvegliare le donne normali, che stanno fuori: lo fanno come se fossero in una fiaba, con le mani in pasta a mescolare intrugli colorati per creare maschere di bellezza, riparandosi dal sole sotto cappelloni di carta di giornale, nei pressi di uno stagno con i fiori di loto”. Nell’ambito del progetto contro la violenza sulle donne, le detenute hanno anche risposto in forma anonima ad un questionario con lo scopo di riscontrare se queste donne si trovino in un istituto di pena per proteggere qualcuno - essendosi addossate colpe, magari, di una figura maschile, come un figlio, un marito, un fratello - o se siano state violate della propria libertà e di conseguenza costrette a svolgere azioni, che hanno comportato la loro carcerazione. Da esso è emerso che la maggior parte di loro si trova in carcere perché costrette all’illegalità da figure maschili del loro ambiente di provenienza: appunto mariti, figli, fratelli, ecc. Molte hanno subito violenza almeno una volta nella loro vita da parte di un uomo. Non per tutte è stato facile parlarne e solo alcune hanno deciso di raccontarlo pubblicamente. Per molte è viva la paura e il senso di colpa e la cultura di origine è prevalente. “Tuttavia - prosegue Giulia Merenda - la riflessione, il confronto, il riconoscimento, l’espressione orale o teatrale, il contatto con la natura e il proprio corpo nel laboratorio di erboristeria, l’elaborazione di slogan come riaffermazione identitaria, sono sicuramente segno di un cambiamento all’interno del vissuto di queste donne”. “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini. La Repubblica, 10 agosto 2018 Sulla pelle di Stefano Cucchi, dall’arresto per spaccio alla morte. Un film diretto da Alessio Cremonini, che aprirà la sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia, racconta gli ultimi tragici giorni del giovane morto nove anni fa. Protagonista uno straordinario Alessandro Borghi. Dall’arresto per spaccio a Roma del 15 ottobre 2009 alla morte al reparto di “medicina protetta” dell’ospedale Pertini nella notte tra il 21 e il 22 ottobre. Racconta questi pochi, tragici, giorni il film “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini che aprirà il concorso della sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia. Sul Venerdì in edicola oggi l’attore Alessandro Borghi racconta ad Angelo Carotenuto come si è calato nei panni di Stefano Cucchi. “Ho perso 18 chili in meno di tre mesi. Il fisico è stato l’ostacolo più grande. Sono arrivato a una privazione di cibo che mi ha reso insopportabile, ma mi costringeva alla concentrazione. Quando allo specchio ho visto l’ombra di Stefano, mi sono detto che era fatta e avrei dovuto seguire il cuore”. Il film, per la prima volta in Italia, uscirà contemporaneamente il 12 settembre sia in sala che su Netflix, disponibile in 190 Paesi del mondo. Per costruire il personaggio Borghi si è affidato a brevissime registrazioni audio e video. “Quando è arrivato il momento di far vedere il film alla sorella Ilaria, ero ansioso. “Non so come hai fatto” sono state le sue parole “ma sei uguale a lui”“. Lo sceneggiatore e regista Cremonini, intervistato da Marco Romani, racconta come ogni battuta del film derivi dalle testimonianze processuali. “Il problema è che in quelle carte molte ricostruzioni sono piene di omissioni, di contraddizioni e di bugie. Il lavoro più difficile è stato vagliare ciò che sembrava più verosimile”. A chiudere la storia di copertina dedicata a Sulla mia pelle è un articolo di Carlo Bonini sulla “doppia morte” di Cucchi, ucciso una prima volta delle percosse dei carabinieri e dalle mancate cure dei medici e una seconda volta dai nove anni di processi che non hanno ancora assicurato alla giustizia i responsabili dell’omicidio. Migranti. Parole in libertà che banalizzano persino Marcinelle di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 10 agosto 2018 È offensivo per i 136 morti italiani di Marcinelle, come ha fatto il vice presidente del Consiglio Di Maio, liquidarli con una puerile tautologia: non bisognava e non bisogna partire. Nel novero, ormai grottesco ed estenuante, delle parole in libertà buttate là dai politici, si aggiunge il pensierino del ministro del Lavoro Luigi Di Maio a proposito della catastrofe di Marcinelle dell’8 agosto 1956. Tra le “riflessioni” che azzarda il vice presidente del Consiglio c’è questa: la tragedia di Marcinelle “insegna che non bisogna partire”. Lega e Fratelli d’Italia si sono ben guardati dal commentare questa frase infelice. In compenso hanno urlato all’”offesa” dopo la dichiarazione del ministro degli Esteri Enzo Moavero, che ha ragionevolmente invitato a non dimenticare l’emigrazione dei nostri padri e dei nostri nonni in un’epoca in cui si producono tante tragedie di migrazione. In pratica segnalando un’affinità tra la miseria italiana di ieri e la miseria che costringe molte popolazioni, in questi anni, a partire all’estero rischiando la vita. E non si vede proprio dove sia l’”offesa”: a meno che non si ritenga che i nostri morti abbiamo più valore e più dignità dei morti altrui. È grave, semmai, fare della memoria un esercizio puramente celebrativo, inerte e autoconsolatorio. Ed è, piuttosto, offensivo (senza virgolette) per i 136 morti italiani di Marcinelle, partiti in Belgio in cambio di carbone, esattamente come per i migranti morti oggi in Italia e in Europa, liquidarli con una puerile tautologia: non bisognava e non bisogna partire. Quasi che non sia proprio il “bisogno” ad averli spinti a partire e che allora, come oggi, si trattasse di scegliere. Ministro Di Maio, provi a dirlo alle vedove, agli orfani e ai sopravvissuti di Marcinelle che dal 1946 sono saliti sui treni per Charleroi per andare ad abitare nelle baracche degli ex prigionieri di guerra. Non si è mai trattato di scegliere: le migrazioni per povertà (e tanto più per le guerre o per le persecuzioni) si sottraggono al facile auspicio del “non bisogna”, sono una condanna che nessuno vorrebbe mai vivere, uno sradicamento che procura sofferenza e talvolta morte. Tragedie su cui bisognerebbe (anzi, assolutamente bisogna) calibrare le parole evitando di affidarsi al primo pensierino che le banalizza e perciò, appunto, le offende. Migranti. Calais, Ong denunciano le violenze della polizia sui volontari di Francesco Ditaranto Il Manifesto, 10 agosto 2018 Insulti, minacce, violenza fisica e psicologica. È questo il quadro, desolante, denunciato in un rapporto redatto da alcune associazioni umanitarie che lavorano a Calais, che punta il dito contro l’operato delle forze dell’ordine nella città francese che si affaccia sulla Manica, da sempre approdo per quei migranti che vogliono raggiungere con ogni mezzo la Gran Bretagna. Di certo questo non è il primo studio realizzato sull’argomento ma, questa volta, sotto la lente d’ingrandimento non ci sono gli abusi subiti dai migranti, ma quelli cui sono stati sottoposti i volontari delle associazioni. La relazione, dettagliata, è stata resa pubblica e consegnata martedì scorso al Difensore dei Diritti (un’autorità indipendente francese che si occupa di garantire il rispetto dei diritti dei cittadini) e contiene un elenco di 646 casi di abusi recensiti tra il novembre 2017 e il luglio 2018. Le associazioni Utopia 56, Auberge des Migrants, Help Refugees e Refugees Infobus accusano direttamente le forze dell’ordine di comportamenti illegittimi ai danni dei volontari che lavorano sul campo con i migranti. Le fattispecie di abuso raccolte nel documento sono state divise in grandi categorie. Si va dall’impedimento fisico alle attività di sostegno agli espatriati ai controlli ripetuti e immotivati dei documenti dei volontari, fino alle minacce e alla violenza. Il rapporto prende le mosse dalle testimonianze di 33 operatori che hanno raccontato un quotidiano fatto di intimidazioni e violazioni dei diritti e della deontologia professionale da parte dei membri delle forze dell’ordine. Che l’obiettivo delle violazioni sia quello di scoraggiare ogni tipo di aiuto ai migranti risulta, secondo le associazioni umanitarie, abbastanza chiaro. In effetti, basta leggere alcuni dati presentati nel testo per capire come i controlli e le perquisizioni costanti ai danni dei volontari abbiano un carattere che va molto oltre la normalità del contesto francese. È il caso delle perquisizioni corporali per palpazione. La stragrande maggioranza delle volte questo tipo di controlli ha riguardato volontarie di sesso femminile ed è stato spesso effettuato da poliziotti o gendarmi di sesso maschile, si denuncia nel rapporto. Un modo evidente per intimidire gli operatori, contravvenendo a ogni protocollo. Ma non è solo nell’ostacolo alla distribuzione dei pasti e dei vestiti ai migranti o nei controlli ossessivi e ingiustificati, che si declina il tentativo delle autorità francesi di impedire il lavoro degli umanitari in quella che era la giungla di Calais. Alle decine di casi di minacce, abuso d’autorità e insulti, si aggiungono i casi, 37 quelli recensiti nel rapporto, di violenza fisica da parte delle forze dell’ordine. Tutti gli abusi di questo genere hanno un comune denominatore: impedire che i volontari assistano o, peggio, filmino i comportamenti tenuti dalle forze di polizia. E allora, quando le intimidazioni, o le minacce, non sortiscono l’effetto desiderato, si legge nel rapporto, si passa alle tecniche violente di immobilizzazione o all’uso del gas urticante. Le reazioni politiche alla pubblicazione del report sono state improntate al diniego, soprattutto da parte delle autorità locali. La tesi delle istituzioni si basa sul fatto che nessuna denuncia circostanziata circa eventuali abusi subiti dagli operatori umanitari sia stata presentata davanti all’autorità che controlla l’operato delle forze dell’ordine (l’Igpn, o, come è volgarmente definita in Francia, la polizia delle polizie). Le associazioni rispondono, invece, che la consegna del rapporto al difensore dei diritti nasce proprio dal bisogno di coinvolgere e mettere a conoscenza un’autorità indipendente di quanto avviene a Calais, anche in virtù del silenzio della procura competente di Boulogne sur Mer e dell’estrema difficoltà, provata dai fatti, di far giudicare un membro delle forze dell’ordine per gli abusi commessi. Soltanto un anno fa, sempre in un rapporto delle associazioni umanitarie, si denunciavano con forza gli abusi della polizia sui migranti a Calais. Lo studio pubblicato martedì apre un nuovo capitolo in questa vicenda. Droghe. Stretta in arrivo sui negozi di marijuana legale di Alberto Mattioli La Stampa, 10 agosto 2018 Il ministro Fontana vuole rivedere le regole sulla vendita dei derivati della canapa. “Ne fa uso uno studente su quattro”. La tolleranza zero sul fronte della droga l’aveva anticipata in un’intervista a “La Stampa”, insieme alla notizia che la relativa delega sarebbe toccata a lui, ministro per la Famiglia. Adesso il leghista Lorenzo Fontana passa dalle parole ai fatti. L’occasione è il maxi sequestro di 20 tonnellate di hashish su una nave, a Palermo. Il bersaglio, i “cannabis shop”, negozi che smerciano prodotti a base di canapa e che si stanno diffondendo velocemente in tutta Italia (per inciso, ce n’è uno anche davanti a Palazzo Chigi, l’ufficio di Fontana). Il ministro annuncia che farà verificare “i presupposti giuridici in base ai quali certi prodotti a base di cannabis sono venduti al pubblico in assenza di una specifica regolamentazione”, insomma vuol fare chiarezza su quella che ritiene una “zona grigia” di regole incerte, e forse volutamente tali. Poi Fontana spiega il suo progetto: “Vogliamo innanzitutto verificare, sotto il profilo tecnico, che la diffusione dei cosiddetti “grow shop” sia coerente con la normativa vigente. La norma, infatti, nata due anni fa per consentire la produzione di canapa per uso industriale, ha finito per “legittimare” la commercializzazione al dettaglio della cannabis “light”, usata per altri fini. Fini, sottolineo, che il Consiglio superiore di Sanità non esclude possano essere pericolosi. Da qui le ragioni della nostra prudenza”. Appare quindi possibile, anzi probabile un giro di vite anche sul fronte dell’ormai popolare cannabis “light”. Fontana cita anche la Relazione annuale della Direzione centrale dei Servizi antidroga, secondo la quale un ragazzo su quattro fa uso di cannabis e uno su dieci delle nuove sostanze psicoattive. “Nella popolazione studentesca (tra i 15 e 19 anni) - scrive Fontana su Facebook, ormai diventato la bacheca del governo - ci preoccupa, ma allo stesso tempo ci stimola a intervenire efficacemente e precocemente, il dato che il 25,8% faccia uso di cannabis, il 10 di nuove sostanze psicoattive, l’1,9 di cocaina e lo 0,8 di eroina. Puntiamo al potenziamento della prevenzione e alla sensibilizzazione delle famiglie - annuncia il ministro - al consolidamento del rapporto con le scuole e allo sviluppo di progetti comuni oltre che al potenziamento dei flussi informativi e del sistema di allerta precoce del Dipartimento Politiche antidroga”. “Violenze ai migranti. In Libia clima di impunità” di Nello Scavo Avvenire, 10 agosto 2018 La procura dell’Aia accusa anche le autorità: “Stupri, rapimenti, estorsioni, schiavitù”. “Preparativi per nuove richieste d’arresto”. Lo scrive la Procura internazionale dell’Aia nel suo ultimo resoconto sulla Libia. E per la prima volta un gruppo di investigatori si è potuto recare a Tripoli affrontando pericoli per documentare, fra le altre, le gravi violazioni dei diritti umani sui migranti, alla base dell’inchiesta che coinvolge anche appartenenti alla Guardia costiera libica. A fine marzo l’ufficio della procuratrice Fatou Bensouda aveva confermato ad Avvenire l’esistenza di una indagine fondata principalmente su prove fornite dall’Unsmil, la missione speciale della Nazioni Unite per Tripoli. In quegli stessi giorni era in corso una operazione coperta dal segreto: “Nonostante la continua insicurezza, una squadra dell’ufficio del procuratore è stata in grado di recarsi in Libia per svolgere attività investigative”. Nel fascicolo d’indagine sono confluite migliaia di segnalazioni. Il contenuto resta riservato, ma l’Aia nel suo ultimo rapporto (il quindicesimo dal 2011, concluso il 30 maggio) lascia intendere di avere in mano molte nuove informazioni. “L’Ufficio del procuratore rimane preoccupato per le notizie secondo cui i migranti sono sottoposti a detenzione arbitraria, torture, stupri e altre forme di violenza sessuale”, oltre che a “estorsioni, rapimenti a scopo di estorsione, lavori forzati e uccisioni illegali”. Inoltre, “ci sono report riguardo le aste degli schiavi”. Non sarà facile arrivare in fondo, perché le connessioni tra trafficanti di uomini, scafisti, esponenti delle forze dell’ordine ed emissari della politica locale sono molto strette, tanto che “in Libia prevale un clima di impunità”. Le violenze su cui è aperta l’inchiesta riguardano sia migranti che libici finiti nella morsa delle milizie, reati che “continuano ad essere ampiamente riportati, compre - sa l’esecuzione sommaria di persone detenute, rapimenti, detenzioni arbitrarie, torture, vari crimini commessi contro i migranti in transito”. Lo scorso aprile era stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ad affidare al consiglio di sicurezza un dossier nel quale veniva accusata di violazioni dei diritti umani anche la Guardia costiera libica. La relazione venne acquisita dall’Aja insieme ad alcuni reportage giornalistici, tra cui quelli di Avvenire. E nel giugno 2017 era stata la procuratrice Bensouda a denunciare, ancora una volta davanti al Consiglio di sicurezza a New York quali, fossero le condizioni dei migranti rinchiusi nei lager degli scafisti e nelle prigioni clandestine. A distanza di tempo sono stati compiuti pochi passi avanti. Un Paese, la Libia, con cui l’Italia ha stretto accordi, vale la pena ricordarlo, proprio con l’obiettivo di contenere i flussi migratori. Nel suo dossier Guterres scriveva che la missione internazionale su mandato Onu (Unsimil) ha continuato a documentare “la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e/ o intercettazioni in mare”. La Libia non ha aderito alle convenzioni per la giurisdizione internazionale dell’Aia, ma la Corte penale può intervenire anche a carico di Paesi non membri se a richiederlo, come in questo caso, è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che nel febbraio 2011 incaricò la magistratura dell’Aia. Da allora sono stati emessi cinque mandati di cattura, che le autorità di Tripoli non hanno ancora eseguito. “L’Ufficio è preoccupato che l’attuale clima di impunità stia instaurando instabilità e insicurezza e ribadisce - si legge ancora nel rapporto della procura-il suo impegno a dare priorità alla situazione in Libia e destinare risorse alle sue indagini”. Tuttavia, segnala l’Aia, “l’ufficio del procuratore generale libico sta compiendo sforzi per combattere questa impunità”. Molto dipenderà dalla comunità internazionale, che specie negli ultimi mesi starebbe facendo mancare anche il necessario sostegno economico alle investigazioni, pregiudicando il lavoro della procura internazionale. All’Aia è arrivato anche il dossier di Amnesty International, diffuso la settimana scorsa. Nel mirino dell’organizzazione per i diritti umani ci sono soprattutto le politiche contro le ong portate avanti da Roma e LaValletta, ma con il placet dell’Ue, che nell’ultimo Consiglio ha stabilito il loro obbligo di non interferire con le attività in mare dei libici. Questa interdizione, secondo Amnesty, ha portato ad un “impoverimento di asset vitali dedicati al salvataggio”, per privilegiare una politica di contenimento delle partenze. E quindi, la nuova ondata di vittime nel Mediterraneo “non può essere liquidata come una sfortuna inevitabile”. Per i profughi che sopravvivono, c’è poi lo spettro dei maltrattamenti. Proprio nei giorni scorsi a Roma il parlamento ha sbloccato l’invio di nuove motovedette ai libici. Il premier Giuseppe Conte ha rivendicato l’operato del governo, ricordando che gli sbarchi sono stati ridotti dell’85% e rilevando che questo dato equivale anche a “meno rischi” per coloro che attraversano il Mediterraneo. Secondo Amnesty, al contrario, abbandonare i migranti nelle mani della Guardia Costiera di Tripoli equivale ad esporli a violenze e violazioni dei diritti umani, una volta che vengono riportati a terra: oltre diecimila persone sono rinchiuse in venti centri di detenzione in condizioni estreme, tra cui il sovraffollamento e il caldo soffocante. Una cifra più che raddoppiata rispetto ai 4.400 registrati da marzo. Un’ipotesi, questa, che sembra trovare conferma nelle difficili indagini del tribunale penale internazionale. Mauritania. Arrestato il leader anti-schiavitù Biram Dah Abeid di Andrea Scutellà La Repubblica, 10 agosto 2018 Ha vinto il premio per i diritti umani delle Nazioni Unite per la sua battaglia abolizionista nel 2013. Le manette sono scattate il giorno in cui un comitato indipendente avrebbe dovuto convalidare la sua candidatura per le elezioni del 2019 contro il presidente uscente Mohamed Abdel Aziz. Noury (Amnesty): “Arresto non casuale”. Il Mandela mauritano è di nuovo in carcere. Biram Dah Abeid, leader del movimento antischiavista del Paese nordafricano e vincitore del Premio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2013, è stato prelevato dalla polizia in casa sua intorno alle 5.30 della mattina del 7 agosto. Il fermo inizialmente non è stato motivato, poi la polizia mauritana ha parlato della denuncia di un giornalista per minacce. Accuse respinte con forza da Dah Abeid - che ha rifiutato di rispondere alle domande degli agenti senza la presenza di un legale - e dallo stesso giornalista, stando alle notizie diffuse dal suo comitato elettorale. La strana tempistica dell’arresto. Lo studio di avvocati che assiste l’uomo a Parigi e i militanti dell’associazione che guida, l’Iniziativa per la resurrezione del movimento abolizionista (Ira) in Mauritania, hanno notato la strana tempistica dell’arresto. Il 7 agosto, infatti, è il giorno in cui la commissione elettorale indipendente avrebbe dovuto dare il via libera alle candidature per le elezioni presidenziali del 2019. Dah Abeid è tra i principali sfidanti del presidente uscente, Mohamed Abdel Aziz. Due anni in carcere per aver manifestato contro la schiavitù. Non è la prima volta che il leader della lotta antischiavista viene imprigionato. L’ultima è rimasto in carcere per quasi due anni: da novembre 2014 a maggio 2016, in condizioni di salute gravi nella prigione di Aleg, che i mauritani paragonano a Guantánamo per le condizioni igienico-sanitarie e il gran caldo. Era stato arrestato per aver organizzato una manifestazione definita non autorizzata dal governo: la carovana contro la schiavitù in Mauritania. Il razzismo al potere. Una volta libero, Dah Abeid ha girato l’Europa per raccontare la storia della schiavitù nel suo Paese. Nonostante sia stata ufficialmente abolita nel 1981, con un inasprimento delle pene negli ultimi anni, nel maggio 2018, durante un incontro organizzato da Amnesty International in Italia, il Mandela mauritano denunciava ancora: “Da noi c’è un sistema di apartheid organizzato da parte dell’estrema destra. Schiavisti, razzisti, xenofobi, oscurantisti, anti-neri sono personificati dall’attuale regime di Mohamed Abdel Aziz, il generale che sta facendo di tutto per mantenere in vita, attraverso la repressione, l’èlite arabo-berbera che si giova della schiavitù e del razzismo. Gli arabo-berberi scelgono gli schiavi più abili per i lavori domestici e per la cura degli animali, gli altri vengono allontananti verso il fiume Senegal, dove c’è da coltivare la terra. Sono trattati esattamente come oggetti. Anche i figli degli schiavi vengono venduti o regalati a seconda dell’occasione o della necessità”. Amnesty: “Arresto non casuale”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia, era seduto accanto a Dah Abeid durante quell’incontro. “Evidentemente il collegamento tra il periodo dell’arresto e le imminenti presidenziali non è casuale - nota. Il fatto è che Biram vuole essere un leader di governo. E se così fosse, i diritti umani in Mauritania migliorerebbero, non solo per gli attivisti anti-schiavitù ma anche per i blogger e tutti gli altri, visto che le persecuzioni dei difensori diritti umani vivono un momento drammatico”. Le manifestazioni degli attivisti. Gli attivisti dell’Ira Mauritania, però, non si danno per vinti. Hanno iniziato a manifestare sin dal 7 agosto per la liberazione del loro leader nella capitale Nouakchott, davanti il commissariato in cui è detenuto, e in tutte le altre principali città mauritane. Sud Sudan. Buio sulla prigionia di Ajak, attivista per la pace improntalaquila.com, 10 agosto 2018 L’ong Human Rights Watch e numerose missioni diplomatiche in Sud Sudan hanno chiesto la liberazione di Peter Biar Ajak, attivista e dottorando all’università di Cambridge, arrestato il 28 luglio scorso all’aeroporto di Juba. Ajak, scrivono in un comunicato dell’Ong, stava volando a Londra per unirsi a una manifestazione della Red Army Foundation, un’associazione di veterani. Da allora, lo studente è detenuto in una cella di isolamento senza che siano state fornite motivazioni ufficiali per la sua incarcerazione. Secondo la ricostruzione della stampa africana, l’uomo è stato fortemente critico verso le politiche del governo e in particolare dei negoziati di pace, che aveva contestato chiedendo che fosse dato maggiore spazio ad attori politici giovani. Ajak ha fondato il “South Sudan Young Leaders Forum”, un gruppo costituito, secondo quanto si legge sul suo stesso sito, per “la costruzione della pace, dello Stato e per la riconciliazione”. All’appello di Human Rights Watch, secondo una nota diffusa dalla locale Radio Tamazuj, si sono uniti i capi delle missioni diplomatiche a Khartoum di Canada, Ue, Francia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti. La guerra civile in Sud Sudan ha ucciso decine di migliaia di persone e costretto - secondo stime Onu - 4 milioni di uomini, donne e bambini a lasciare le loro case. Il conflitto è esploso nel 2013, quando il presidente Salva Kiir ha accusato il suo ex vice Machar di un tentativo di colpo di Stato.