Il sovraffollamento che preoccupa l’Europa di Giovanni Augello Redattore Sociale, 9 settembre 2017 Pubblicato ieri il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sulla visita alle carceri fatta nell’aprile 2016. Positivo il giudizio sulla chiusura degli Opg. Antigone: "Necessario riprendere le riforme". Preoccupazione per il ritorno del sovraffollamento nelle carceri italiane, per le carenze strutturali e la mancanza di interventi di ristrutturazione, per i casi di violenza dei detenuti e per le persone in custodia della polizia che non sempre beneficiano dei loro diritti. È quanto esprime il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) pubblicato oggi sul web dopo che alcuni suoi membri hanno visitato alcune carceri italiane e altri luoghi di privazione della libertà tra l’8 e il 21 aprile 2016. Un rapporto che sottolinea l’importanza delle riforme avviate nel periodo successivo alla sentenza Torreggiani con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti. Un periodo che in breve tempo aveva portato ad avere nei penitenziari italiani circa 11 mila detenuti in meno e recuperare 2.500 posti. Una diminuzione che si è interrotta nel 2016 per vedere poi il trend tornare a crescere. A riassumere i contenuti del rapporto è l’associazione Antigone che in una nota sottolinea anche la critica da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sul parametro dei metri quadri per persona. "Attualmente il 16 per cento della popolazione vive in meno di 4 mq, non lontano dal parametro minimo che è fissato a 3 mq - spiega la nota di Antigone. Proprio su questo parametro il Cpt critica l’Italia, rea di utilizzare lo stesso come elemento centrale delle proprie politiche, quando è nettamente al di sotto degli standard che lo stesso Comitato indica". Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura denuncia anche l’assenza di attività, con meno del 20 per cento dei detenuti impegnati in attività lavorative, e l’utilizzo eccessivo del regime dell’isolamento, soprattutto per persone con tendenze suicide e autolesionistiche. Nel dossier non mancano gli aspetti positivi. Tra questi il regime della sorveglianza dinamica che si applica ormai in molte carceri nei reparti di media sicurezza e la nomina del Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Anche la riforma della sanità con il passaggio alle Asl è vista con favore dal Comitato, aggiunge Antigone, pur permanendo alcune situazioni critiche. Positivo anche il miglioramento della condizione degli internati dopo il passaggio dagli Opg alle Rems, spiga Antigone, "pur rimanendo alcune situazioni critiche come l’utilizzo della contenzione meccanica e di trattamenti medici per prevenire disordini, e altre da migliorare, come quella relativa alla libera circolazione interna delle persone che lì vengono trattenute, cosa che non sempre avviene" Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, dal report emerge un complesso e in alcuni casi preoccupante. "Già nei nostri ultimi rapporti abbiamo indicato una condizione delle carceri che sta lentamente, ma inesorabilmente, tornando a peggiorare - spiega Gonnella - con tassi si sovraffollamento in continua crescita ed un numero di detenuti che, ad agosto, ha superato nuovamente le 57 mila unità". Secondo Gonnella, sulle criticità evidenziate dal rapporto bisogna intervenire "attraverso la ripresa delle riforme, partendo da quella dell’ordinamento penitenziario il cui lavoro è ora in mano ad alcune commissioni di esperti, nominate dal ministro della Giustizia, con le quali abbiamo voluto dialogare attraverso venti nostre proposte nelle quali abbiamo indicato, come punti prioritari da affrontare, alcune delle situazioni su cui il Comitato ha voluto soffermarsi: tra queste quelli relativi all’isolamento, alla formazione dello staff penitenziario, al lavoro, alla salute e più in generale ad un miglioramento della dignità e dei diritti delle persone detenute". "Carceri sovraffollate e forze dell’ordine violente". Le accuse di Strasburgo all’Italia La Stampa, 9 settembre 2017 Dopo lo sciopero dei detenuti del carcere di San Vittore a Milano che protestano contro il sovraffollamento, arriva anche la denuncia di Strasburgo. A richiamare l’attenzione sulla questione è il Cpt, comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, nel rapporto sulla visita condotta nel 2016, che mette in guardia le autorità anche sui casi di maltrattamenti di arrestati, fermati, detenuti e pazienti psichiatrici da parte di chi li ha in custodia. E questi non sono i soli rilievi indicati, soprattutto per quanto concerne questure e stazioni dei Carabinieri visitate: c’è, ad esempio, anche il problema dell’immediato mancato accesso all’avvocato. Mentre è una situazione luci e ombre quella di carceri ed ex ospedali psichiatrici giudiziari (Otg), ora in gran parte sostituiti dalle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Il Cpt non esprime solo preoccupazioni ma anche pareri favorevoli su alcune misure introdotte, per esempio la riforma sanitaria. Sul sovraffollamento carcerario il Cpt indica che il numero dei detenuti, sceso notevolmente dopo le misure prese dal governo in seguito alla condanna Torreggiani della Corte di Strasburgo, è risalito all’inizio del 2016. Il comitato contesta la posizione delle autorità italiane secondo cui basta garantire in cella a ogni detenuto 3 metri quadrati, soglia sotto la quale la Corte di Strasburgo riscontrerebbe una violazione per trattamenti inumani e degradanti. Nel rapporto ribadisce che il Paese deve invece rispettare gli standard fissati dal comitato: lo spazio vitale, esclusi i sanitari, in cella singola deve essere di 6 metri quadrati e 4 in una cella con più occupanti. Per quanto riguarda i maltrattamenti, il Cpt, pur denunciando il problema, non lo considera generalizzato. Ad esempio, non ha riscontrato alcun caso di maltrattamento ad Ascoli Piceno. Ma in tutti gli altri visitati (Como, Genova Marassi, Ivrea, Sassari, Torino) ha ricevuto denunce di violenze, anche su persone che hanno tentato il suicidio o atti di autolesionismo. Mentre nel carcere di Genova Marassi e Como molti dei detenuti maltrattati hanno detto di aver subito violenze da guardie carcerarie "chiaramente sotto l’effetto dell’alcool". Il Cpt denuncia anche le violenze commesse da alcuni membri, soprattutto di Polizia e Carabinieri, durante e dopo l’arresto o il fermo, anche quando la persona è ammanettata e già sotto controllo. Il comitato evidenzia che se non si dà una risposta "immediata ed efficace" a questi casi, si può indurre altri a credere che tali atti non verranno puniti. Strasburgo all’Italia: "Stop alle violenze commesse dalle forze dell’ordine" di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 settembre 2017 Monito del Comitato per la prevenzione della tortura contro il sovraffollamento carcerario e "tutte le forme di maltrattamento fisico" da parte della polizia, che sono "inaccettabili" e dovranno essere "perseguite e sanzionate di conseguenza". Malgrado le riforme, l’istituzione di un Garante nazionale dei detenuti e delle persone private di libertà e l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, lo Stato italiano è ancora ben lungi dall’essere completamente legale, di fronte al consesso europeo ed internazionale, nel campo dei diritti umani. È ciò che si evince dal rapporto pubblicato ieri dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa che bacchetta nuovamente l’Italia e si dice "preoccupato" "per le accuse di maltrattamento fisico delle persone private della libertà da parte delle forze dell’ordine o in prigione". La visita del Cpt nei luoghi di detenzione italiana risale all’aprile 2016, ma la notizia arrivata da Strasburgo va a corredare tristemente quella che giunge da Firenze sulla brutalità di uomini che gettano fango sulle stesse divise che indossano. "Le persone sotto custodia della polizia non sempre beneficiano delle garanzie loro concesse dalla legge", scrive nel report il Cpt che reputa anche "insufficienti le condizioni delle camere di sicurezza di alcune stazioni della Polizia di Stato e dei Carabinieri" e ricorda di aver "effettuato un’osservazione immediata sulle persistenti misere condizioni di detenzione" riscontrate "ancora una volta durante la visita alla Questura di Firenze". E così il Consiglio d’Europa punta il dito contro il sovraffollamento delle carceri italiane che "non è stato risolto perché molti istituti di pena operano ancora al di sopra della loro capacità", malgrado le misure prese dopo la cosiddetta "sentenza Torreggiani" con la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva nel 2013 condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti. Anche perché, come ricorda l’associazione Antigone, "ad agosto il numero di detenuti ha superato nuovamente le 57.000 unità e attualmente il 16% della popolazione vive in meno di 4 mq, non lontano dal parametro minimo che è fissato a 3 mq. Proprio su questo parametro il Cpt critica l’Italia, rea di utilizzare lo stesso come elemento centrale delle proprie politiche, quando è nettamente al di sotto degli standard che lo stesso Comitato indica". Non solo. Strasburgo critica anche il carcere duro del "41-bis", le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che dovrebbero sostituire gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) in via di smantellamento e dove in alcuni casi, come a Castiglione delle Stiviere, vengono ancora usati metodi quali "l’isolamento", gli "strumenti di contenzione meccanici" e i "farmaci neurolettici". In poche parole, pratiche che "potrebbero essere considerate inumane e degradanti". Ma c’è di più: casi come ad esempio quello del detenuto incontrato nel carcere di Ivrea che ha riferito ai membri del Cpt (tra i quali c’è per l’Italia la radicale Elisabetta Zamparutti) di essere stato "preso a calci e pugni da un gruppo di Carabinieri mentre era ammanettato nella cella a Chivasso" e ha poi dimostrato di aver ricevuto assistenza medica presso l’ospedale della città piemontese, preoccupano Strasburgo che riguardo l’introduzione del reato di tortura di due mesi fa, "esprime i propri dubbi sulla formulazione delle disposizioni di legge, che ritiene contrarie alle raccomandazioni precedenti del Cpt, alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e alla Convenzione dell’Onu sulla tortura del 1984". Il monito di Strasburgo arriva in concomitanza con gli avvenimenti di Firenze, che destano orrore pur se sulle due studentesse statunitensi non fosse stato perpetrato alcuno stupro da parte dei carabinieri, due uomini comunque in divisa e che agivano durante l’esercizio delle proprie funzioni. Elisabetta Zamparutti invece, come fa anche il Partito Radicale Transnazionale e Transpartito, pone l’accento piuttosto sulle problematiche strutturali del sistema penitenziario italiano e in generale su quello della giustizia: "È importante che questo rapporto - sottolinea Zamparutti - sia uscito in questo momento quando è in fase di riforma l’ordinamento penitenziario. C’è da augurarsi che in sede di preparazione dei decreti attuativi si tenga conto delle indicazioni del Comitato europeo". Il governo italiano ha già risposto al Consiglio d’Europa elencando le riforme degli ultimi due anni nell’ambito del sistema giudiziario e per migliorare la condizione dei detenuti. Ma quello che il Cpt chiede alle autorità italiane, al più alto livello politico, è "un messaggio chiaro ai funzionari di polizia" per contrastare la pretesa di impunibilità e ricordare loro che "tutte le forme di maltrattamento fisico sono inaccettabili e saranno perseguite e sanzionate di conseguenza". Strasburgo bacchetta l’Italia ma la riforma delle carceri è in dirittura d’arrivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2017 Rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura. Rinnovato l’invito a modificare il 41bis. Il Governo ha risposto alle osservazioni con un documento del Ministero degli esteri. Maltrattamenti, privazione di garanzie, sovraffollamento e 41 bis inumano e degradante. Il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa torna nuovamente a bacchettare l’Italia non solo per il sovraffollamento. In una relazione pubblicata ieri, dopo la sua visita periodica in Italia (8- 21 aprile 2016), il Cpt del consiglio d’Europa solleva le proprie preoccupazioni per le accuse di maltrattamento fisico nei confronti di alcune persone private della loro libertà da parte degli agenti penitenziari e forze dell’ordine. Inoltre denuncia che le persone finite in custodia non sempre beneficiano delle garanzie offerte dalla legge. La grande maggioranza delle persone detenute incontrate dalla delegazione del Cpt ha indicato che erano state trattate correttamente dai funzionari della polizia. Tuttavia, hanno riscontrato una serie di accuse da parte di alcuni detenuti sull’uso eccessivo della forza nel momento dell’arresto, in particolare dai membri della polizia e dei carabinieri. Per quanto riguarda le garanzie, diverse persone hanno affermato di aver subito dei ritardi di notifica per la loro detenzione e anche nell’avere a disposizione un avvocato prima della loro audizione. Inoltre, alcuni cittadini stranieri privati della loro libertà non hanno ricevuto informazioni sui loro diritti in una lingua che potevano comprendere. Il Comitato europeo ha anche potuto osservare le camere di sicurezza utilizzate dalle questure: quelle di Firenze risultano inaccettabili e ha consigliato di riqualificarle, altre ancora non risultavano adatte per un periodo prolungato di detenzione. Per quanto riguarda la prigione vera e propria, il Comitato ha potuto verificare che in alcuni casi si verificano dei trattamenti disumani. In particolar moto l’utilizzo delle celle di isolamento. In alcuni casi, l’isolamento consisteva con l’utilizzo di pugni, schiaffi e calci da parte di alcuni operatori penitenziari. Inoltre, un certo numero di detenuti hanno affermato di essere stati sistemati in camere di isolamento solo con la loro biancheria intima e occasionalmente immobilizzati al letto con le manette. Il Comitato europeo ha anche denunciato il problema dei detenuti psichiatrici negli ex Opg, ma va ricordato che si riferisce comunque nell’ aprile del 2016 quando ancora non erano del tutti chiusi. Ha comunque potuto verificare il miglioramento della condizione degli internati dopo il passaggio dagli Opg alle Rems, pur rimanendo alcune situazioni critiche come l’utilizzo della contenzione meccanica e dell’abuso degli psicofarmaci. Un capitolo della relazione è dedicato esclusivamente al 41 bis. In maniera particolare la delegazione ha visitato le sezioni del regime duro del carcere di Ascoli Piceno e di Sassari. Oltre a riscontrare alcune problematicità come ad esempio a Sassari. dove entra poca luce a c’è poca ventilazione, il Comitato europeo rinnova l’invito a modificare il 41 bis e prendere accorgimenti per renderlo più attinente all’articolo 27 comma 3 della nostra Costituzione. Il rapporto dice di prendere in considerazione le proposte avanzate dalla commissione del Senato presieduta dal senatore Luigi Manconi. Il governo ha risposto alle osservazioni del Cpt con un documento del ministero degli Esteri. In merito alle camere di sicurezza utilizzate dalle questure, il ministero ha risposto che sono state realizzate in conformità con i criteri stabili dalla circolare del 2001. Per quanto riguarda quelle della questura di Firenze, risultano non in uso perché in attesa di essere rinnovate. Sulle violenze da parte delle forze dell’ordine, il governo ha risposto che le procure competenti, in molti casi, non hanno aperto nessun procedimento penale nonostante le denunce avanzate dalle stesse vittime. In tanti altri casi c’è il problema delle lungaggini dei processi. Come quello relativo al vice sovrintendente della polizia penitenziaria accusato nel 2012 di aver violentemente colpito un detenuto del carcere di Ivrea: le prime audizioni in tribunale si sono svolte a marzo di quest’anno e l’esito giudiziario è ancora in alto mare per poter avviare le eventuali sanzioni disciplinari. Su alcune situazioni critiche delle carceri il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta correndo ai ripari, come la sollecitazione dei procedimenti disciplinari nei confronti di chi è stato accusato di aver commesso eventuali abusi. Sul fronte del sovraffollamento, il governo ha promesso di puntare sull’utilizzo frequente delle misure alternative al carcere. "Quello che in Italia molti non vogliono vedere o riconoscere come trattamento inumano o degradante viene visto e riconosciuto come tale dagli organismi sovranazionali, come il Cpt. Il Governo ascolti e metta in pratica le sue raccomandazioni per una affermazione dello Stato di Diritto", chiedono gli esponenti radicali di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale, Rita Bernardini, Antonella Casu, Sergio d’Elia e Maurizio Turco, per i quali "le raccomandazioni contenute nel rapporto saranno il punto di riferimento delle nostre attività rivolte ai luoghi di privazione della libertà personale". Per l’associazione Antigone quello che "emerge dal report appena pubblicato - dichiara il presidente Patrizio Gonnella - è un quadro complesso e in alcuni casi preoccupante. Già nei nostri ultimi rapporti abbiamo indicato una condizione delle carceri che sta lentamente, ma inesorabilmente, tornando a peggiorare con tassi si sovraffollamento in continua crescita ed un numero di detenuti che, ad agosto, ha superato nuovamente le 57.000 unità". Gonnella prosegue spiegando che è necessaria la ripresa delle riforme partendo da quella dell’ordinamento penitenziario il cui lavoro è ora in mano ad alcune commissioni di esperti, nominate dal ministro della Giustizia, con le quali Antigone ha voluto dialogare attraverso delle proposte nelle quali indicano, come punti prioritari da affrontare, alcune delle situazioni su cui il Comitato europeo ha voluto soffermarsi: tra queste quelli relativi all’isolamento, alla formazione dello staff penitenziario, al lavoro, alla salute e più in generale ad un miglioramento della dignità e dei diritti delle persone detenute. A tal proposito è bene ricordare che il ministro della Giustizia Andrea Orlando si è impegnato a portare a termine la riforma, con i primi decreti attuativi che saranno pronti a fine mese. Il sovraffollamento sintomo dell’inefficienza del sistema giustizia di Francesca Parodi Tempi, 9 settembre 2017 Servono nuovi modelli differenziati di carcere, ma soprattutto bisogna rivedere il processo penale nel suo funzionamento e nelle tempistiche. Intervista a Riccardo Arena, di Radio Carcere. Dall’inizio dell’anno 40 carcerati si sono tolti la vita nei penitenziari italiani. L’escalation di suicidi si lega soprattutto alla grande emergenza del sovraffollamento delle carceri, il cui tasso è al 113,2 per cento: a fronte di una capienza regolamentari di 46 mila posti (a cui vanno detratti 5 mila posti inutilizzati), a fine luglio il numero di carcerati è salito a 56.766. Gli istituti più affollati sono concentrati soprattutto in Lombardia, come Como (con un tasso del 186,6 per cento) e Busto Arsizio (174,2 per cento). In alcune prigioni lo spazio minimo per detenuto torna a scendere addirittura sotto i 3 metri quadrati, la soglia stabilita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che negli ultimi 20 anni ha più volte condannato l’Italia per il "trattamento inumano e degradante" nelle sue carceri. Al generale malessere nelle carceri contribuiscono anche una serie di altri fattori: la carenza di docce nelle celle (nel 68 per cento degli istituti), la cattiva gestione della salute dovuta anche all’assenze di cartelle cliniche informatizzate, la scarsità di educatori e la mancata attivazione di corsi scolastici o di formazione professionale. Nuovi modelli. "Da mesi denunciamo questo crescente fenomeno del sovraffollamento" dice a tempi.it Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere su Radio Radicale. "E non siamo i soli: ad aprile dello scorso anno anche il capo del Dap aveva emesso una circolare per allertare i direttori dei vari istituti ed esortarli a incrementare misure alternative. Il problema però è che in Italia non si fa mai prevenzione, si aspetta sempre l’insorgere dell’emergenza per intervenire in maniera sempre inadeguata". Radio Carcere aveva già evidenziato il gap esistente tra la capienza regolamentare delle carceri e il numero reale di detenuti e aveva invitato innanzitutto ad un ricalcolo dei posti disponibili. "Dopo di che, serve ripensare nuovi modelli di carcere che siano diversificati in base alla tipologia dei detenuti: il tossicodipendente e il soggetto sotto misura cautelare vivono situazioni molto diverse, dunque necessitano di strutture differenziate. È una follia accomunarli dentro lo stesso edificio" dice Arena. "Abbiamo bisogno di un sistema penitenziario che non sia statico come quello attuale, bensì dinamico ed elastico, in grado di adattarsi alle diverse tipologie di persone detenute". Abuso della custodia cautelare. Il problema del sovraffollamento però non si risolverà mai definitivamente, secondo Arena, se prima non si affronterà il nodo centrale, ovvero la questione giustizia. "Ad esempio, l’abuso della misura cautelare è strettamente collegato alla lentezza del processo penale". In effetti, il 34 per cento del totale di reclusi italiani (cioè 19.308) è oggetto di misura di custodia cautelare, in attesa della sentenza definitiva, e di questi il 16 per cento (cioè 9.261) sono ancora in attesa del primo giudizio. "Altro aspetto riguarda il sistema delle pene. Ad esempio, oggi il giudice può applicare solo due sanzioni: il carcere e l’ammenda. Mentre sono anni che gli esperti invocano una riforma del sistema che diversifichi le pene: non solo la detenzione, ma anche lavori socialmente utili o altre forme di sanzioni". Sospensione della pena. La riflessione del problema carceri deve quindi ampliarsi a 360 gradi e impone una piena revisione del processo penale perché sia in grado di dare una risposta di giustizia non solo giusta, ma anche in tempi ragionevoli. "Ciò che manca oggi, in definitiva, è la certezza del diritto". Un’altra anomalia è la sospensione della pena. Ad esempio oggi un condannato che ha commesso reati sanzionabili sotto i due anni spesso vede la propria pena sospesa dal giudice. Questo istituto viene applicato in maniera quasi automatica ma, proprio a causa della lentezza del processo penale, presenta più svantaggi che vantaggi. "Per fare un esempio, un diciottenne di Scampia che commette una serie di piccoli crimini ma non viene immediatamente punito rischia, con la sospensione della pena, di dover scontare l’intera pena a distanza di anni, quando magari, ormai cresciuto, si è rifatto una vita onesta" spiega Arena. "Moltissimi detenuti oggi si trovano in carcere per scontare delle pene che risalgono a decenni fa. Io li chiamo "le vittime della sospensione della pena"". Più che sospendere la pena, secondo Arena sarebbe utile "sanzionare subito la condotta illegittima magari con sanzioni diverse dal carcere. In questo senso, sarebbe più razionale non solo fornire al giudice di primo grado pene diverse dal carcere, ma anche prevedere una sentenza di primo grado che sia esecutiva, anche se non definitiva". Giustizia giusta. Alla luce di questo quadro, è evidente che "in Italia non solo c’è il problema delle carceri, ma è anche venuta meno la tenuta dello stato di diritto, in quanto il processo non riesce più a garantire un’adeguata risposta di giustizia. Per queste ragioni, se si vuole rimettere in piedi il paese, già afflitto dalla crisi economica, la prima cosa da fare è ripartire dalla Giustizia. Una questione che chiaramente comprende l’emergenza delle carceri e che chiama in causa la responsabilità della politica". Più difficile usare le intercettazioni come un randello di Errico Novi Il Dubbio, 9 settembre 2017 I limiti previsti a tutela della privacy nella bozza orlando: virgolettati solo in allegato. In realtà, salvo ricomposizioni diplomatiche dell’ultim’ora, mancherà sicuramente la Federazione nazionale della stampa. Il sindacato dei giornalisti dichiara, in una nota, di "non condividere in alcun modo il metodo seguito" e di non voler accettare "un’audizione di mezz’ora, in cui ci si chiederà un parere su un testo già definito". Della bozza in questione, Repubblica ieri ha anticipato alcuni contenuti. Da quanto si apprende, il documento inviato in forma riservatissima ai rappresentanti dell’avvocatura (Cnf e Ucpi), della magistratura (Anm e procuratori della Repubblica), dell’informazione e dell’accademia è presentato appunto come ipotesi di lavoro. Viene chiarito che si terrà conto dei "contributi" proposti dalle parti in causa. E una nota del ministero ribadisce che non c’è "alcun testo definitivo né ufficiale". In ogni caso l’orientamento seguito fin qui dall’ufficio legislativo di via Arenula avrebbe obbedito a un principio di coerenza con la delega contenuta all’interno del ddl penale, già di per sé molto dettagliata. Le frasi? In allegato - Secondo quanto emerso, la necessità di assicurare la privacy delle persone solo casualmente intercettate e degli stessi indagati sarà assicurata con un sistema già messo nel mirino dai Cinque Stelle ("vogliono bloccare Consip") ma in effetti in grado di ripristinare almeno parzialmente un principio di civiltà: niente più virgolettati delle telefonate negli atti di Pm, Gip e Riesame, il contenuto delle conversazioni rilevanti sarà indicato solo per riassunto. Il che non vuol dire che le trascrizioni saranno segrete per gli stessi magistrati. Semplicemente verranno allegate agli atti in forma separata. Si tratta di una cautela minima, evidentemente, perché il pubblico ufficiale (Gip, Pm, cancelliere o agente di polizia giudiziaria che sia) intenzionato a diffondere a mezzo stampa il contenuto testuale delle telefonate potrebbe provarci comunque. Ma viene posto almeno un limite alla più clamorosa e discutibile delle prassi: il cosiddetto copia e incolla che i giudici per le indagini preliminari compiono tra le richieste ricevute dalle Procure e le ordinanze per le misure cautelari. Visto che le prime conterranno solo il riassunto dei passaggi più rilevanti, non potrà più avvenire che telefonate con persone estranee all’inchiesta e senza rilievo penale possano arrivare, attraverso la richiesta degli inquirenti, dritte nelle ordinanze dei giudici. Uno snodo finora carico di risvolti paradossali: gli atti del gip infatti sono a disposizione dalla difesa, il che oggi permette ai giornali di scaricare, implicitamente, proprio sugli avvocati la responsabilità del danno procurato ai loro assistiti o, peggio, a persone estranee all’indagine. Archivio controllato - Sarebbe prevista una forma particolarmente rigida di controllo per le conversazioni irrilevanti e in grado di ledere la privacy: non potranno neppure essere trascritte. Finirebbero in un archivio digitale riservato. Al quale avrebbero comunque accesso, oltre ai magistrati della Procura, "giudice e difensori, oltre agli ausiliari autorizzati dal pm". Non proprio segreto, insomma. Diciamo "controllato", dal momento che, nella versione della bozza citata dall’Ansa, l’articolo 269 del codice di procedura penale verrebbe modificato anche con la seguente dicitura: "Ogni accesso è annotato in apposito registro, con indicazione della data, dell’ora iniziale e finale dell’accesso e degli atti consultati". Basterà? Certo sarebbe un significativo deterrente alla divulgazione dei brogliacci. Ma certo non si può parlare di limite all’uso dello strumento investigativo. È vero che il divieto di trascrizione riguarderebbe persino le "comunicazioni o conversazioni" riguardanti "dati personali definiti sensibili dalla legge". Ma è vero anche che il pm può disporre "con decreto motivato" la trascrizione di tutte quelle conversazioni "sensibili" o apparse penalmente irrilevanti agli stessi agenti, qualora ne valuti invece "la rilevanza per i fatti oggetto di prova". Colloqui dei difensori - Una disciplina di protezione un po’ più rigorosa sembrerebbe poter essere assicurata, finalmente, alle conversazioni tra difensore e assistito. Attualmente l’articolo 103 del codice di procedura definisce inutilizzabili tali colloqui. Con la disciplina introdotta dal decreto abbozzato a via Arenula, si preciserebbe che anche i file di queste comunicazioni, se comunque venissero captate, dovrebbero essere indicati nei verbali solo relativamente a data, ora e dispositivo, e custoditi nell’archivio digitale riservato. Il che sembrerebbe non impedire neppure in termini formali che il pm possa ascoltare e scoprire la strategia difensiva della controparte. Ma almeno non potrà più verificarsi quanto avvenuto con la telefonata tra Tiziano Renzi e il proprio avvocato Federico Bagattini, di cui alcuni quotidiani segnalarono il contenuto. Troverebbe così accoglimento l’esortazione a una maggiore vigilanza sul tema che il presidente del Cnf Andrea Mascherin aveva rivolto anche a Sergio Mattarella, in un incontro con il consigliere giuridico del Capo dello stato, Stefano Erbani. Diventa reato punibile con pena fino a 4 anni rendere pubbliche (se non nel processo) riprese audio- video effettuate in modo fraudolento e per recare danno all’immagine altrui. Con gli ulteriori affinamenti che il ministro Orlando si prepara a compiere sul testo dopo gli incontri di lunedì e martedì, potrebbe essere invece rovesciato il limite per l’uso dei trojan nei reati di corruzione: a parte i vincoli autorizzativi validi per qualunque captazione, i virus- spia potranno essere attivati per i reati associativi contro la pubblica amministrazione nella stessa abitazione degli indagati anche quando non vi siano elementi per prevedere il compiersi dell’attività criminosa. Intercettazioni. Retromarcia del ministro Orlando: "via il divieto di frasi integrali" di Liana Milella La Repubblica, 9 settembre 2017 Il Guardasigilli a Repubblica: "Quella circolata è una bozza, dovevo pur dare un punto di partenza. E c’è tempo fino al 3 novembre per trovare l’intesa". "Di una cosa sono sicuro, non sarà questo il testo finale della riforma delle intercettazioni". Parola di Andrea Orlando che da New York, dove si trova per una breve vacanza, legge Repubblica, e piglia le distanze dal decreto che pure, tra lunedì e martedì, resterà la base di discussione tra lui stesso, i capi delle maggiori procure italiane (Greco, Spataro, Creazzo, Pignatone, Melillo, Lo Voi), le Camere penali, la Fnsi (se alla fine accetterà di esserci), e noti giuristi. Un testo sottoscritto dall’ufficio legislativo di via Arenula, inviato ufficialmente ai protagonisti dei prossimi incontri, ma di cui il ministro della Giustizia dice: "Voglio essere chiaro su questo punto, questo è un testo di cui non riconosco la paternità". Anche se la lettera di accompagnamento portava in calce proprio la sua firma, Orlando - raggiunto per tutta la giornata dagli echi delle polemiche - la spiega così: "Da un punto di partenza dovevo pur cominciare, ma alla fine la riforma delle intercettazioni non sarà quella contenuta in quelle pagine". Neppure la disposizione più contestata e allarmante sia per il diritto di cronaca che per il lavoro stesso delle toghe, l’obbligo di non citare letteralmente e tra virgolette le intercettazioni, ma riportandone solo "il contenuto"? Anche su questo Orlando fa retromarcia rispetto alla bozza: "È un punto che sicuramente potrà cambiare". Sono le 18, le 12 a N.Y, quando la voce di Orlando risuona conoscibilissima al telefono. Pronto a spiegare, chiarire, evitare una polemica sulle intercettazioni, di certo la legge più sensibile per il comparto della giustizia. Prima del governo Gentiloni, sulla riforma degli ascolti, si sono arenati Prodi e Berlusconi, si sono dovuti arrendere ministri pur politicamente e/o tecnicamente agguerriti come Flick, Castelli, Mastella, Alfano. Una presidente della commissione Giustizia come Giulia Bongiorno ha fatto da baluardo all’aggressione distruttiva dell’ex Cavaliere. Ma Orlando invece non vuole perdere l’occasione di cambiare le regole. È proprio convinto, ministro, di voler portare a casa la riforma? Lui ci prova, incurante degli attacchi e delle polemiche di M5S che già gli piovono addosso: "La legge sul processo penale (che contiene la delega al governo per cambiare le intercettazioni, ndr) mi dà tempo fino al 3 novembre. Entro quella data io devo presentare il testo in consiglio dei ministri. Poi, certo, sarà Gentiloni a decidere". Una sfida dunque, come quella sullo stesso processo penale approvato il 23 giugno ed entrato in vigore il 4 agosto, che contiene norme contestate come la prescrizione. Ora tocca alle intercettazioni e all’annosa battaglia tra privacy e verità processuale, ai Trojan horse, captatori informatici che trasformano uno smartphone in una microspia, al carcere fino a 4 anni per chi registra fraudolentemente un colloquio tra privati. Orlando si dichiara pronto alla battaglia. E vuole scansare la prima mina, quella bozza che già gli ha messo contro magistrati - molti agitano già lo spauracchio dell’incostituzionalità sull’obbligo del riassunto - e giornalisti. Nel corso della telefonata ripete più volte: "Alla fine il testo non sarà quello della formulazione iniziale, ma da un punto dovevo pur partire. Nel presentarlo durante le audizioni sarò chiaro nel dire che le opzioni sono tutte aperte perché quello che si apre è un confronto serio e vero, né finto, né fittizio ". Il Guardasigilli poi si rivolge ai magistrati: "Vorrei che anche le procure si assumessero la paternità del testo finale". Sicuramente una questione da superare è quel riassunto che già allarma più di una toga. Ma Orlando lo considera superabile e vede come più impegnativi altri nodi. "In quel testo ci sono problemi molto più seri, in primo luogo l’udienza stralcio. Perché, se la si rende obbligatoria, la procedura rallenta inevitabilmente l’inchiesta. Ma se non si fa, si attribuisce solo al giudice la delicata incombenza di decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no". Il ministro intravvede una soluzione: "Si potrebbe non renderla obbligatoria, ma farla solo su richiesta delle parti". Delicato anche il punto dell’archivio riservato, la futura cassaforte di tutte le intercettazioni che nessuno potrà né conoscere né pubblicare: "Qui bisogna avere delle certezze, e una può essere quella di affidare al capo della procura l’obbligo della vigilanza". Nodi antichi e intricati. Non pensa, ministro, che sarebbe stato meglio fare una commissione? Orlando è scettico e chiude così il colloquio con Repubblica: "Ero pronto a farla, ma i tempi si sarebbero dilatati rispetto alla scadenza del 3 novembre. E poi non sono affatto certo che le polemiche non sarebbero state anche maggiori". Riforma delle intercettazioni. Carcere per riprese fraudolente audio e video giornalistitalia.it, 9 settembre 2017 Il Ministero della Giustizia parla di bozza provvisoria. La Fnsi diserterà l’incontro. Stop alla "diffusione di riprese audiovisive e registrazioni di comunicazioni effettuate fraudolentemente": lo prevede la bozza di decreto legislativo in materia di intercettazioni su cui sta lavorando il Ministero della Giustizia. "Chiunque - si legge nella bozza - al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza o alle quali comunque partecipa, effettuate fraudolentemente, è punito con la reclusione fino a 4 anni". Il testo prevede anche che verbali e registrazioni siano conservati integralmente presso l’ufficio del pm che ha disposto l’intercettazione e che l’archivio sia "tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica". L’accesso è consentito solo a giudici e difensori, oltre che agli ausiliari autorizzati dal pm. "Allo stato attuale - precisa il Ministero guidato da Andrea Orlando - non esiste alcun testo né definitivo né ufficiale. Stiamo lavorando alla stesura del testo per dare doverosamente seguito nei termini e nei tempi prescritti alla legge delega 23 giugno 2017, numero 103 "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario" il cui contenuto terrà conto anche del confronto prezioso e del contributo significativo di esponenti della giurisdizione, dell’avvocatura, della stampa e del mondo accademico che il ministro incontrerà, come già previsto, nei prossimi giorni". "Il governo - commenta il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso - pensa di limitarsi a chiederci un parere su un testo già definito. Ma noi non andremo a un’audizione di mezz’ora, ci limiteremo, per una questione di buona educazione e di garbo istituzionale, a far avere delle nostre valutazioni". Preso atto delle anticipazioni sul decreto in materia di intercettazioni, e delle successive precisazioni del ministero della Giustizia, Lorusso pone in evidenza "una questione di metodo, che - rileva - non condividiamo in alcun modo". "Ci era stato garantito - spiega il segretario della Fnsi - che avremmo potuto dire la nostra sulla definizione di normativa e regole, e che sarebbe stato costituito un tavolo ad hoc, al quale avremmo partecipato con un esperto scelto da noi. Scopriamo ora che non è così, che siamo al punto più basso del rapporto di interlocuzione". Per Lorusso, inoltre, si tratta della ulteriore dimostrazione della scarsa considerazione in cui il governo tiene i problemi dell’informazione, un episodio che si aggiunge a tutta una serie di questioni irrisolte: "Che fine ha fatto la convocazione promessa sulle querele temerarie, che ormai rappresentano una forma di bavaglio e di minaccia che sta dilagando? Senza dimenticare il pasticcio delle agenzie di stampa: il bando avrebbe dovuto risolvere ogni cosa e invece la questione è ancora aperta, con testate fuori dalle convenzioni". In sostanza, secondo la Fnsi "il governo, al di là dei proclami e delle buone intenzioni formulate dal premier Paolo Gentiloni e dal ministro Luca Lotti, continua a non prendere in considerazione temi chiave come l’occupazione, la tutela dei posti di lavoro, la lotta al precariato che per un settore nevralgico come quello dell’informazione ha una rilevanza particolare. Ecco perché non andremo in audizione". Cantone rompe il tabù: "riformiamo l’abuso d’ufficio, reato troppo vago" Il Dubbio, 9 settembre 2017 Fermi tutti, l’abuso d’ufficio è un reato troppo generico: andrebbe rivisto per circoscrivere le condotte punibili. A lanciare l’allarme non è uno scudiero della casta ma Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, l’uomo che vigila sulla corretta attività delle pubbliche amministrazioni. "Si può intervenire sulla norma per individuare una fattispecie di reato meglio calibrata", ha detto due giorni fa il capo dell’Authority, durante la presentazione del master in "Compliance e prevenzione della corruzione" della Luiss. "Non parlo di una depenalizzazione, ma di una restrizione delle condotte punibili, che individui in modo più puntuale quelle che perseguono interessi personali o determinano ingiusti vantaggi attraverso atti illegittimi nella pubblica amministrazione". L’obiettivo è superare la cosiddetta "paura della firma" che costringe spesso gli amministratori locali a evitare di sottoscrivere atti passibili di contestazione. "Molti amministratori sono effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta", ha argomentato Cantone. "Si può intervenire focalizzando meglio le condotte da perseguire individuando i casi di conflitto di interesse e ingiusto vantaggio". La necessità della riforma del reato, per il presidente dell’Anac, è sollecitata anche dall’esito giudiziario di buona parte dei procedimenti intentati a carico di sindaci e presidenti di Regione. "C’è uno iato tra il numero di procedimenti aperti dalle procure fino a una sentenza di condanna", spiega. "La maggior parte delle inchieste si conclude con archiviazioni, proscioglimenti o assoluzioni. È un’anomalia che può portare a una migliore definizione del reato". Cantone espone il suo punto di vista al fianco del rettore dell’università romana: Paola Severino, ex ministro della Giustizia, per ironia della sorte firmataria della legge che per abuso d’ufficio e i fascicoli che effettivamente prescrive la sospensione dall’incarico anche per gli amministratori condannati per abuso d’ufficio, fosse solo in primo grado. Ed è proprio per paura di essere disarcionati durante lo svolgimento del mandato che alcuni sindaci preferiscono l’immobilismo di cui parla Cantone a un atto potenzialmente illegittimo. Eppure, per porre rimedio all’anomalia rilevata dal capo dell’Anac una soluzione ci sarebbe. Dal novembre del 2014 in un cassetto del Parlamento riposa una proposta di legge firmata dal deputato dem Marco Di Lello che chiede l’abrogazione dell’abuso d’ufficio dalla lista dei reati che comportano incandidabilità, sospensione e decadenza. Certo, non si tratta della riforma auspicata da Cantone, ma almeno libererebbe alcuni amministratori dal terrore di una spada perennemente puntata. "Posso essere solo contento per questa presa di posizione di Cantone. Chissà, ora che un magistrato del suo calibro si è detto favorevole a rivedere quantomeno il reato magari qualcuno troverà il coraggio anche in Parlamento", dice Di Lello al Dubbio. "Resta l’amarezza per la mancanza di slancio da parte della politica, sempre ansiosa di inseguire la magistratura". Un’ansia da cui non è immune neanche il Pd, spesso succube della retorica populista, ammette il deputato dem. "Ci si lascia talmente condizionare da arrivare ad abolire i vitalizi e il finanziamento pubblico ai partiti. Provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con la visione di un grande partito riformista", spiega. "Qualcuno vive dei complessi da cui non riesce a liberarsi. Ma su questo c’è una responsabilità precisa anche di chi forma l’opinione pubblica: i media che in questi anni hanno lavorato per indebolire la politica". E in un clima del genere, denuncia Di Lello, è complicato proporre riforme non in linea col vento anti-casta. "Le mie proposte per modificare la Severino giacciono in un cassetto da tre anni. Purtroppo sono state assegnate alla Commissione Affari Costituzionali, dove, tra legge elettorale e poca voglia di impelagarsi in una vicenda che secondo alcuni potrebbe alienare consensi, rischiano di fare le ragnatele", insiste il deputato Pd. "Ho presentato parecchi solleciti formali in questi anni per provare a far ripartire l’iter ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Una parte della politica ha soggezione della magistratura e questo per me è inaccettabile". Ma finché non si interverrà non si potranno "biasimare i sindaci che preferiscono l’immobilismo". Lombardia: risse e aggressioni dietro le sbarre, carceri come polveriere di Federico Magni Il Giorno, 9 settembre 2017 Viaggio nelle strutture, il Consiglio d’Europa: "Situazione peggiorata". Sovraffollamento, difficile convivenza fra detenuti provenienti da diversi paesi del mondo, senza la presenza di mediatori, e problemi strutturali stanno trasformando le carceri lombarde in polveriere. A questo si aggiunge l’inquietante fenomeno della radicalizzazione nelle celle in seguito a infiltrazioni islamiste. Un quadro preoccupante, soprattutto in seguito alle ultime violenze avvenute recentemente nel carcere del Bassone di Como, a Opera, Cremona, Monza, Pavia e al Beccaria di Milano. A confronto l’ultima aggressione di Renato Vallanzasca, che ha scagliato una borsa contro un agente della polizia penitenziaria, sembra una bravata. "In questi ultimi tempi il ritmo è di una rissa al giorno", commenta Davide Brianza, segretario del Coordinamento nazionale della Polizia Penitenziaria, dopo che un detenuto transessuale brasiliano nella Casa circondariale di Como ha picchiato quattro agenti mandandoli tutti all’ospedale malconci". A far scattare liti, che si trasformano presto in pestaggi, sono i motivi più banali oltre a un’endemica incapacità di convivenza fra gruppi di detenuti provenienti da diversi paesi. Come ad esempio gli "Est europei" con i magrebini. Nelle strutture lombarde sono circa 8.000 i detenuti, con gli stranieri saliti quasi al 46% del totale contro una media nazionale del 34%. Ma è il 127% in più di detenuti, rispetto ai posti disponibili, a sottolineare le evidenti difficoltà che si registrano. In un anno, secondo uno studio del sindacato Uil Polizia Penitenziaria, nelle 19 case circondariali della Lombardia si sono registrate 780 risse e 948 atti di autolesionismo. Difficoltà anche fra detenuti minorenni, come al Beccaria, dove qualche settimana fa sono state lanciate bottiglie di plastica infuocate che hanno finito per intossicare quattro agenti. Come se non bastassero gli incendi al Beccaria è solo di qualche giorno fa la notizia di un topo che si è rosicchiato dei cavi provocando un black out mettendo a nudo gli evidenti problemi strutturali dell’unico carcere che ospita una popolazione carceraria di minorenni. In alcune strutture, come San Vittore, ci sono detenuti che non parlano né italiano né inglese con i quali gli agenti sono costretti addirittura a comunicare a gesti per farsi capire. Tra il personale delle strutture lombarde, ad esempio, non c’è nessuno che parli l’arabo o che abbia conoscenze sufficienti delle culture islamiche per evitare contatti pericolosi e spesso si deve improvvisare. A tutto ciò si aggiungono i suicidi di detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Calabria: presentata proposta di legge per Garante regionale dei detenuti ildispaccio.it, 9 settembre 2017 Il presidente della Prima Commissione regionale Franco Sergio ha presentato una proposta di legge per l’istituzione del "Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e dell’Osservatorio Regionale per le Politiche Penitenziarie". Sergio, è scritto in una nota, "parte dal presupposto che la Calabria è una delle poche regioni priva della figura di tale Garante, uno strumento democratico ad alta valenza sociale, essenziale per contribuire ad affrontare con senso di umanità e giustizia le continue emergenze del settore carcerario e per garantire condizioni detentive dignitose; oggi purtroppo inaccettabili. La Calabria presenta, oltre ai centri per minori, ai centri d’identificazione ed espulsione ed alle strutture sanitarie per trattamenti obbligatori, 12 strutture penitenziarie attive (di cui 10 Case Circondariali e 2 di Reclusione). Di esse ben 5, secondo i dati aggiornati al 31 luglio 2014 del Ministero della Giustizia, presentano popolazione detentiva in eccesso rispetto ai posti disponibili (sovraffollamento tra il 105% e il 140%). Ancora, secondo l’XI Rapporto sulla Detenzione, del 17 marzo 2015 dell’Associazione Antigone, risulta al 6° posto nella graduatoria regionale per residenza delle persone detenute (5,73%), mentre è al 3° per nascita della popolazione carceraria (6,96%, unitamente alla Puglia)". "Il Garante - prosegue la nota - dovrà svolgere un ruolo di promozione e diffusione del rispetto e della tutela dei diritti delle persone in stato detentivo ovvero limitativo della libertà personale, assumendo ogni iniziativa per assicurare i diritti alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all’istruzione, all’assistenza religiosa, alla formazione professionale, alla mediazione culturale e linguistica per stranieri. Può inoltre effettuare visite ispettive per controllare le condizioni di vita dei detenuti, sulla conformità del trattamento ad umanità e sul rispetto della loro dignità. Va ricordato che ogni iniziativa in grado di umanizzare il carcere, è un contributo essenziale alla funzione risocializzante e rieducativa che la Costituzione assegna alla pena, con effetti positivi per l’individuo e la società. La proposta prevede, inoltre, l’istituzione di un Osservatorio Regionale per le Politiche Penitenziarie con l’obiettivo di affiancare e qualificare attività di studio, ricerca e promozione culturale assegnata al Garante, mediante il coinvolgimento di espressioni qualificate dell’associazionismo, professionale e non, del mondo accademico, giuridico, sanitario e sociale della Calabria". "È prevista - conclude la nota - durata quinquennale al pari della Legislatura e la non immediata possibilità di rielezione, per impedire il consolidamento di posizioni e, favorire così, un ricambio proficuo". Ancona: quinta branda in cella, esplode la protesta dei detenuti di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 9 settembre 2017 È una tensione costante che non accenna a diminuire quella che si respira nel carcere di Montacuto dallo scorso 25 agosto quando è esplosa la protesta di un centinaio di detenuti, che hanno gettato i letti nei corridoi rifiutandosi di entrare nelle celle. Il motivo? Dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria era arrivata la direttiva di inserire un quinto posto letto in una ventina di celle. Un modo per rispondere, almeno temporaneamente, all’allarme sovraffollamento tornato a livelli di guardia nella casa circondariale della periferia sud di Ancona. Lì dove ad oggi si contano 250 detenuti sorvegliati da 160 agenti di Polizia Penitenziaria, di cui 56 non operativi per distaccamento o per malattia grave. Dunque da 2 settimane nel carcere dorico si vive in un clima di ansia. Anche perché lì non ci sarebbe solo un problema di carenza di personale, ma anche di organizzazione del lavoro che vacilla per due motivi: in primis, a livello regionale, le carceri sono gestite da un Provveditore pro tempore impegnato anche in Emilia Romagna e nel Triveneto, secondo, in particolare a Montacuto, il direttore è assente da mesi ed é sostituito dalla sostituta direttrice Eleonora Consoli che fisicamente si trova a guidare il carcere di Camerino. È successo tutto venerdì 25 agosto quando, all’interno di una ventina di celle, era stata aggiunta una branda per creare un quinto posto letto dove era già stato raggiunto il limite di 4, in relazione ai metri quadrati delle camere detentive. Una scelta dettata dall’aumento della popolazione carceraria dove negli ultimi mesi sono aumentati numeri e complessità dei casi tra tossicodipendenti e uomini con problemi psichiatrici. Fatto sta che quando alle 20 i detenuti sono rientrati, quelli che si sono ritrovati la branda in aggiunta si sono rifiutati di entrare e sono rimasti fuori urlando e protestando. Tensione altissima, gestita dal comandante della Polizia Penitenziaria e del funzionario del reparto che, in coordinamento con il direttore del carcere di Camerino, hanno tranquillizzato i detenuti, rassicurati sul fatto che sarebbero stati rispettati i parametri di vivibilità. Ma il malessere resta all’interno di un carcere, quello di Montacuto appunto, dove ogni giorno si percepisce l’insofferenza di detenuti e poliziotti. Non è un caso che, nelle ultime 2 settimane, si sono registrati gesti di autolesionismo dalla parte dei detenuti che chiedono dignità e aggressioni ad agenti di polizia che, dal canto loro, ormai non si sentono più nelle condizioni di garantire adeguata sicurezza. Venezia: non può telefonare alla famiglia, detenuto si cuce la bocca con ago e filo Il Gazzettino, 9 settembre 2017 Si cuce la bocca con ago e filo perché non gli viene concessa la telefonata settimanale ai familiari. È accaduto sabato scorso nel carcere di Santa Maria Maggiore dove un detenuto straniero ha deciso di mettere in atto la clamorosa e dolorosa protesta perché gli era stato impedito di godere di un suo diritto. "L’episodio è avvenuto nel terzo braccio del carcere - racconta Leonardo Angiulli, Segretario Regionale della Uil Polizia Penitenziaria del Triveneto - e alla clamorosa protesta del detenuto che si è cucito la bocca con ago e filo è seguita una mezzora di battitura sulle sbarre della cella degli altri detenuti sempre per protestare contro l’impossibilità di fare telefonate perché non c’era il dirigente che si occupa del servizio". La clamorosa protesta è solo la punta dell’iceberg di una situazione divenuta ormai insostenibile all’interno della casa circondariale. Ieri mattina lo stesso Angiulli ha effettuato un sopralluogo all’interno del carcere lagunare. "Le criticità sono tante, dalla salubrità dei luoghi di servizio del personale all’organico che è ben al di sotto dei numeri che servirebbero per gestire una struttura vecchia e difficile come quella di Venezia. La sala operativa, per esempio, è priva di servizi e l’operatore deve venire sostituito solo per andare ai servizi. Con il restauro hanno realizzato una stanza con porta blindata per accogliere i nuovi detenuti ma viene usata come magazzino e per farla sono stati spesi 20mila euro". Questione personale. Altro tasto dolente per il sindacato. "Assegnati alla struttura dovrebbero esserci 184 agenti: ce ne sono 125 persone e di questi 10 unità sono destinate a compiti non di polizia penitenziaria ma per sopperire esigenze della ragioneria - aggiunge Angiulli. Manca un economo e c’è una che arriva da Padova in distaccamento. Al personale in servizio va il mio apprezzamento: c’è chi fa 50 ore di straordinario che poi non vengono pagati, non vengono concessi riposi. E capita che agenti vengano richiamati dalla ferie per sopperire alle assenze". Soluzioni? "Serve una nuova struttura in terraferma come era già stato auspicato a livello ministeriale e poi chiedo al sindaco di Venezia di fare come quello di Gorizia: si rechi anche lui all’interno delle due strutture, sia maschile che femminile e si renda conto di come stanno le cose. Serve anche la mano della politica locale per trovare una soluzione a tutto questo". Documentario racconta l’Ex Opg di Napoli. "Io, ex detenuto ricordo il mio inferno" di Rossella Grasso Il Mattino, 9 settembre 2017 Gli abitanti di Materdei raccontano che quando l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant’Eframo Nuovo era ancora aperto si sentivano le urla dei detenuti. Oggi da lì provengono musica e risate dei ragazzi che svolgono attività aperte a tutti. Un documentario racconta la storia vecchia e nuova di quel luogo imponente, uno dei più grandi di Napoli. Il titolo è "Je so’ Pazzo", firmato da Andrea Canova e prodotto da Inbilico Teatro e Film. La sua è una realizzazione dal basso, mediante crowdfounding e una troupe ridotta all’osso. "L’unica esigenza - ha detto Ramona Tripodi, produttrice - è stata quella di rispettare l’urgenza di chi sente il bisogno di raccontare un passato non troppo lontano ma caduto in oblio e un presente radioso". Il documentario sarà proiettato in anteprima proprio nel luogo in cui è nato venerdì 8 settembre alle ore 20.30 (Via Matteo Renato Imbriani 218, Napoli). La proiezione si svolge in occasione della seconda edizione di "Je so’ Pazzo Festival 2017. Potere al Popolo", la quattro giorni di dibattiti, workshop, cene sociali, mostre, stand, teatro e concerti, dal 7 al 10 settembre. La narrazione parte dai ricordi di Michele Fragna, poeta ed ex detenuto dell’OPG. "Questo luogo non era così- racconta Michele in una delle scene del film - non dava luogo alle stesse emozioni, non c’erano i murales, era tutto grigio. E il puzzo la caratteristica del posto". Aveva 22 anni Michele quando è stato recluso nell’OPG. Era affetto da delirio persecutorio e durante una delle sue crisi ha ucciso una persona. Ha trascorso 5 anni dentro le piccole celle roventi d’estate e gelide d’inverno. "Poi sono uscito da quell’inferno e adesso torno qui da uomo libero con un lavoro e una vita". Mi chele ha trovato sollievo nella scrittura in quegli anni e oggi è un poeta. Ha scritto alcuni versi tra cui "Io sogno che gli O.P.G. scompaiano" ed altri racchiusi nel libro "Il re burlone". La sua storia fa riflettere sulla malattia mentale e sulla possibilità di ritornare a vivere dignitosamente dopo un percorso ben lungi dalle barbare inumanità che accadevano in quelle strutture obsolete come l’OPG di Sant’Eframo Nuovo. "A 39 anni - ha detto Andrea Canova - dall’approvazione della legge Basaglia, che sancì la chiusura dei manicomi civili, e a pochi mesi dalla definitiva applicazione della legge n.81 del 2014, che decretava la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e la loro sostituzione con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive (Rems), ci è sembrato particolarmente significativo mettere insieme la nostra testimonianza del caso dell’ex O.P.G. Je so’ Pazzo Sant’Eframo. Quello che oggi è stato creato in quella struttura è certamente un’avanguardia nel novero delle nuove esperienze di cittadinanza e recupero degli spazi urbani che anima Napoli da qualche anno". Su Raitre il corto "La legge del numero uno", di Alessandro D’Alatri ilvelino.it, 9 settembre 2017 "La legge del numero uno" è la storia di tre uomini che non hanno niente in comune, ripongono in un colloquio con un magistrato l’unica chance di riottenere per qualche giorno una libertà sognata ogni momento. Andrà in onda il 10 settembre su Raitre, in doppia collocazione alle 20.05 e alle 23.20, il cortometraggio "La legge del numero uno" di Alessandro D’Alatri, nell’ambito del premio "I Corti del premio Goliarda Sapienza", il riconoscimento letterario nazionale dedicato ai detenuti delle carceri italiane. "La legge del numero uno" è la storia di tre uomini che non hanno niente in comune, ripongono in un colloquio con un magistrato l’unica chance di riottenere per qualche giorno una libertà sognata ogni momento. Un faccendiere, un ruvido malavitoso romano, un cittadino dell’Est specializzato in traffici illeciti. Qualcosa in comune ce l’hanno: la convinzione, infondata, che solo il primo che andrà al colloquio otterrà il permesso premio. In una cella d’attesa i tre uomini si trovano coinvolti in una partita senza esclusione di colpi per garantirsi il primo posto al colloquio. "L’esperienza maturata in questi anni di collaborazione con il Premio Goliarda Sapienza mi ha educato a comprendere i "racconti dal carcere". Sono frammenti di dolorose realtà: storie di uomini e donne che riempiono lo scorrere del tempo interrogandosi sugli errori commessi e le pene da scontare", ha commentato D’Alatri. "In questo spazio temporale protagonista è l’attesa: quella di un permesso premio, dei domiciliari, di uno sconto di pena o di una revisione del processo. Questo cortometraggio è stata l’occasione per raccontare l’aspetto centrale di quelle attese: il colloquio con il magistrato. In una camera di sicurezza tre detenuti, provenienti dalle realtà più diverse, si confrontano con una delle tante leggende carcerarie: La legge del numero uno. Vera? Falsa? Chi può dirlo. Nel vuoto temporale della detenzione tutto diventa probabile". "L’ordine delle cose", di Andrea Segre. Non sono straniero, sono "stranero" di Damiano Tavoliere Il Manifesto, 9 settembre 2017 Si attenua l’ecatombe nel Mediterraneo, crescono i lager libici: barbarie e ipocrisia della civilissima Europa e della codina Italia. Al Senato, nella splendida sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, è stato presentato il film L’ordine delle cose di Andrea Segre, un’opera sui travagli di un diplomatico lacerato nella coscienza dal dramma dei migranti in cerca di salvezza e futuro. Con politici del calibro di Emma Bonino o Luigi Manconi - presidente della Commissione diritti umani - e con l’ammiraglio Vincenzo Melone, comandante generale della Guardia Costiera, che ha ricevuto un applauso lungo quanto la fila dei disperati soccorsi nei nostri mari. Insieme al parterre di numerose Ong che al tema dedicano cuore ed energie: fra esse Amnesty International, Medu (medici per i diritti umani), Msf (medici senza frontiere), Naga onlus. Nel film, il diplomatico Corrado (l’attore Pierobon) è un funzionario del Ministero degli Interni incaricato di combattere "l’immigrazione irregolare", obbligato per mestiere a non considerare persone i migranti, ma semplici numeri, incombenti e ingombranti. Senonché, i suoi occhi incontrano quelli imploranti di una somala internata nei lager libici. Ma Corrado ha un ménage familiare tranquillo e appagante, perché mai turbarlo?, e il suo dovere di poliziotto istituzionale va salvaguardato dalle leggi non scritte di amore, soccorso, solidarietà… Antigone non ha più casa qui da noi. L’Europa non vuole mettere a disposizione neppure un tugurio, l’Italia vi si adegua mettendo in mostra la sua malcelata faccia reazionaria. Il vecchio continente dà soldi e vomita retorica, ma non vuole fastidi. È il traffico della crudeltà, il "business della sofferenza", secondo le parole di madame Joanne Liu, responsabile mondiale di Msf, che da Bruxelles giovedì 8 settembre denuncia il "cinismo oltranzista" degli europei, "complici di una crudeltà umana estrema" Ed il flusso epocale di chi scappa dalla vita negata oggi si concentra nei Centri di detenzione libici, apocalisse odierna di violenze stupri denutrizioni malattie estorsioni schiavismo e morte, luoghi di abusi saputi e risaputi, gestiti in abituale ferocia da milizie incontrollate e ras sanguinari, gli stessi coi quali le civili diplomazie europee concordano dazioni monetarie e patti di contenimento repressivo. Senza che nell’anticamera dei loro cervelli passi l’accenno di una visione meno corta delle cose, della situazione, delle prospettive. "Sono oggi quattrocentomila -denuncia Manconi- le esistenze violate" nei campi di concentramento: un passaggio rapidissimo dai 258 mila detenuti di poche settimane fa, prima delle misure adottate dal ministro degli Interni Minniti. Mentre è di questi giorni la denuncia di una giornalista Rai che in una corrispondenza dal Cairo dice chiaro e tondo che a pattugliare, respingere e arrestare i disperati sono le stesse milizie che gestiscono i lager, e fino a ieri partecipavano al traffico di umani in combutta con la criminalità organizzata, pronti a riprendere le pratiche ante Minniti non appena la loro soddisfazione finanziaria verrà disattesa. Soddisfazione che non dev’essere inferiore ai lauti guadagni lucrati sulle vittime per portarle sui gommoni o gettarle in mare o imprigionarle nei lager o riportarle e abbandonarle nel deserto se impossibilitate a cedere a una catena di ricatti estesi a parenti lontani. Minniti e sodali, in Italia e in Europa, si muovono in un clima di "acre rivalsa" e "cupo rancore" lamenta il senatore Manconi. Incalza Bonino: "stiamo mandando all’inferno nostri simili, diamo soldi alle milizie aiutando così i più forti invece dei più deboli; come si può credere alla bufala che l’Europa si preoccupa della sorte dei profughi in un paese come la Libia dove non sono al sicuro neppure i diplomatici?". I patti coi criminali "salteranno e quando scopriremo le fosse comuni" verranno altresì affossate "ipocrisia e retorica oggi in atto… perché la verità è che stiamo appaltando sevizie inimmaginabili che non ammettiamo più entro i nostri confini". La storica radicale conclude sulla campagna (appena promossa insieme ad Acli, Arci ed altri) titolata Ero straniero, per la quale il video di un ragazzo coloratissimo dichiara "io non sono straniero, sono stranero". Le bugie europee sono paradossali, come nell’accontentarsi di visitare saltuariamente i pochi lager dichiarati a fronte dei tanti segreti: il giorno di visita (prestabilita) gli aguzzini ripuliscono ambienti, minacciano gli internati, occultano prove e indizi. ù L’Italia non ha alcun peso sul piano internazionale, anzi è supina e manifesta sudditanza verso chiunque: solo nelle ultime settimane, allo squallido cedimento verso le bande libiche (dove la criminalità - mentre incamera il denaro versatole - apre altre rotte migratorie verso il continente) si somma il ritorno dell’ambasciatore al Cairo dopo l’assassinio Regeni, auto-scippandosi "l’unico strumento di pressione residuale" (sostengono gli osservatori più accreditati). Motivi consueti: opportunismo economico e tornaconto elettorale. Dimenticando la dignità umana e la dignità italiana. L’Onu: "L’accordo Ue-Libia viola i diritti umani dei migranti" di Leo Lancari Il Manifesto, 9 settembre 2017 Dopo la denuncia di Msf, critiche alla politica italiana in Libia anche dalle Nazioni unite. "Riportare le persone in centri di detenzione in cui vengono trattenute arbitrariamente e torturate è una chiara violazione del principio di non respingimento previsto dal diritto internazionale". A bocciare senza appello la decisione dell’Europa di riconsegnare i migranti nelle mani dei libici è l’alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad al Hussein che ieri si è detto "disgustato dal cinismo europeo". Dopo la denuncia di Medici senza frontiere sulle condizioni in cui sono costretti i migranti in Libia, nuove critiche alla politica messa in atto dall’Italia - e avallata dall’Ue - per fermare i flussi arrivano adesso anche dalla Nazioni unite. E svelano ancora una volta tutta l’ipocrisia con cui l’Europa da anni gestisce l’emergenza migranti, annunciando di combattere i trafficanti di uomini ma in realtà mettendo in atto solo politiche di contrasto a quanti fuggono da guerre e miseria. "L’Ue, e l’Italia in particolare, - denuncia al Hussein - sono impegnate a sostenere la Guardia costiera libica, una Guardia costiera che ha sparato a barche di Ong che provano a salvare migranti a rischio di annegare, con il risultato che adesso le Ong devono operare ancora più lontano". Al Hussein punta il dito su un altro dei punti forti della politica voluta dal ministro degli Interni Marco Minniti e che oggi rischia di trasformarsi nel segno della schizofrenia con cui il governo gestisce l’emergenza migranti. Dopo aver costretto di fatto le Ong ad abbandonare l’opera di salvataggio dei migranti (è di pochi giorni fa l’annuncio della maltese Moas di aver sospeso i soccorsi proprio per non consegnare i migranti ai libici), adesso si pensa di coinvolgere le stesse Ong nella gestione dei campi profughi che verranno allestiti nel paese nordafricano. A proporlo è il viceministro degli Esteri Mario Giro che due giorni fa ha incontrato una ventina di Ong alla Farnesina. "Non vogliamo abbandonare queste persone all’inferno", ha spiegato Giro riferendosi alle centinaia di uomini, donne e bambini richiuse ne centri di detenzione libici. "Senza aspettare che l’Unhcr o l’Oim siano realmente presenti, abbiamo già messo risorse a disposizione". Sei milioni di euro sarebbero stati investiti nel progetto, più altri tre per un accordo con i sindaci del territorio libici. Nelle intenzioni della Farnesina le Ong sarebbero almeno una ventina, dalla stessa Msf a Terre des Hommes, all’Elis legata all’Opus Dei. Apprezzamento per la proposta di Giro è stato espresso dal ministero della Difesa Roberta Pinotti, mentre da parte sua il ministro Minniti ha annunciato di voler incontrare le organizzazioni umanitarie la prossima settimana. "Sarebbe molto bello se ogni Ong italiana potesse adottarne una libica. La mia ambizione sarebbe quella di arrivare a costruire una rete di giovani libici impegnati per il rispetto dei diritti umani nel loro Paese", ha spiegato Minniti. Dubbi all’operazione arrivano però dalle stesse Ong. In un’intervista all’Huffington post Marco Bertotto, responsabile advocacy di Msf, si dice contrario anche all’idea di ricevere fondi governativi. "dal 2016 noi non accettiamo fondi da alcun governo europeo o dall’Unione europa in polemica con le politiche di contenimento dell’immigrazione adottate dalla Ue". Insieme all’Unhcr (che opera attraverso partner locali) e all’Oim, Msf è una delle tre organizzazioni internazionali che opera in Libia. Nonostante questo - o forse proprio per questo - l’idea di operare sotto il cappello governativo non piace. "C’è il rischio - spiega infatti Bertotto - che questa idea di dare alle Ong la gestione dei centri in Libia appaia come una strumentalizzazione dell’azione umanitaria e del lavoro delle Ong da parte di un governo che ha contribuito a creare una condizione di intrappolamento delle persone in Libia". Migranti e scafisti, cosa accade davvero in Libia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 settembre 2017 Nel covo di zio Dabbashi. Così il principe degli scafisti ha schierato le sue milizie per fermare i migranti. Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato all’aperto. Uno di quelli che si presta per lavoretti a ore di ogni tipo, trasporta le cassette della frutta, scarica i camion e aiuta anche nei traslochi, con il padre impiegato all’ufficio postale di Sabratha e i fratelli ancora bambini che giocano a pallone per la strada. "Un poveraccio a cui non avresti dato un soldo. "Ammu, mi regaleresti una sigaretta?", chiedeva strascicato a quelli che incontrava. Così diceva, "ammu", che in arabo significa zio. E per tutti era diventato "Al Ammu" lo zio. Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza, che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?". Sono le parole di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. E rispecchiano fedelmente ciò che a Sabratha e dintorni è oggi il parere più comune: Al Ammu, l’ex facchino, ha fatto fortuna. Di ciò che era rimane solo il soprannome. Per il resto, ha prosperato nel caos seguito alla rivoluzione "assistita" dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi. Tanto che ora è una delle figure più famose, ma anche temute e controverse, della Tripolitania occidentale. Noi siamo venuti a cercarlo direttamente nel suo "regno": Sabratha, il cuore pulsante degli scafisti e dei trafficanti, dove criminalità organizzata e persino jihadismo militante spesso trovano territori comuni, ma soprattutto meta agognata per centinaia di migliaia di disperati in arrivo dall’Africa sub-sahariana pronti a tutto pur di imbarcarsi verso le coste italiane. La "riconversione" - A fine agosto gli uffici locali della Reuters e della Associated Press sono stati i primi a rivelare la sua recente "riconversione" da principe degli scafisti a collaboratore di primo piano con il progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Il servizio di intelligence della polizia locale ci dice "che ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj". Una vicenda che racconta tanto della Libia contemporanea, dove chiunque voglia cercare di cambiare le cose deve comunque confrontarsi con un Paese tenuto volutamente allo stato tribale per quasi mezzo secolo nella logica del divide et impera di Muammar Gheddafi e adesso lacerato da una miriade di lotte e divisioni interne senza fine. "Personalmente posso capire che gli accordi del governo Sarraj con Dabbashi abbiano aspetti ambigui. In Occidente potete anche pensare che siano poco morali. Ma questa è la realtà della Libia. Chi vuole intervenire fa i conti con le forze che dominano sul campo, che spesso sono poco pulite, ambigue, persino criminali. Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito. Presto ne vedremo i risultati positivi", ci dice con tono realista il 43enne Hussein Dhwadi, da tre anni sindaco di Sabratha. Questi afferma di "non escludere, ma non sapere, se davvero gli italiani hanno pagato Dabbashi e in quale forma". Cosa del resto già nettamente negata sia dalla Farnesina che dall’ambasciata italiana a Tripoli. Tuttavia, nella stessa Sabratha non mancano i nemici feroci di Dabbashi ben contenti d’investigare. "È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato", dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. Gli argomenti più forti arrivano dai responsabili dei servizi di intelligence della polizia urbana, con cui abbiamo parlato per due ore. Ma chiedono di non essere identificati nel timore di vendette contro di loro e le famiglie. Su Ahmad Dabbashi e il suo clan hanno interi dossier, alcuni dei quali ci sono anche stati mostrati: hanno iniziato infatti a seguirlo già un paio d’anni dopo il linciaggio mortale di Gheddafi a Sirte nell’ottobre 2011. Da tempo "Al Ammu" aveva scoperto che poteva far soldi occupandosi dell’ordine pubblico. Uccise "quasi per caso" un miliziano di Zintan che insidiava alcune ragazze su una spiaggia locale. Diventa allora un piccolo eroe, per qualche mese gestisce gli accessi alla spiaggia, poi si avvicina al Libyan Fight Group, il fronte jihadista libico che simpatizza per Al Qaeda. Con il latitare delle vecchie autorità gheddafiane il campo religioso guadagna punti. La gente gli dà credito, lo paga per garantirsi sicurezza. Lui assolda fratelli e cugini. Poi, il salto di qualità: ruba 250.000 dinari a un commerciante locale, comincia a trafficare in droga e petrolio. Adesso può pagare i suoi uomini, si procura le Toyota blindate montanti mitragliatrici pesanti. Oggi ne possiede a decine utilizzate da centinaia di miliziani, forse oltre 300 ai suoi ordini diretti. Tanti raccolti dalla strada, dai luoghi della sua giovinezza. Affari di famiglia - La sua struttura si militarizza nel 2014. Al Ammu comanda adesso la "Brigata Anis Dabbashi", intitolata a uno dei cugini morti in uno scontro a fuoco. Un’altra Brigata, la "48", è invece diretta dal fratello più giovane, Mehemmed chiamato "al Bushmenka", con la partecipazione attiva dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 impongono il monopolio sui movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. Non però verso Tripoli, perché qui domina violenta la potente tribù dei Warshafanna, ex sostenitori di Gheddafi oggi propensi a stare con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Sempre secondo le stesse fonti, è in questo periodo che "Al Ammu" si assicura anche una parte dei servizi di protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: dunque, indirettamente, delle attività Eni nel Paese. "Probabilmente è allora che lui ha i primi contatti con gli 007 italiani. Rapporti che poi si approfondiscono ai tempi del rapimento dei quattro tecnici italiani della Bonatti proprio diretti dalla Tunisia a Mellitah (di cui poi due tragicamente assassinati, ndr.)", aggiungono. Il capo del clan Dabbashi però è un ricercato, per lui è difficile viaggiare, specie all’estero. Tocca allora a Yihab, il fratello giovane più fidato, fungere da negoziatore e businessman del gruppo. Sulla rete difende il buon nome dei Dabbashi, oggi li rilancia come gruppo legittimo e garante della legge. "Yihab ha trattato per conto del fratello anche l’accordo sui migranti. Abbiamo le tracce dei suoi movimenti recenti. Sappiamo che tra fine luglio e fine agosto è volato a Malta con la compagnia privata Medavia. Di recente è stato a Istanbul, in Germania e in altre due nazioni europee. Con gli agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuni hotel di Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarraj e gli italiani si sono assicurati la sua collaborazione in cambio di almeno 5 milioni di euro e la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti e le loro milizie saranno legalizzate", leggono dai loro documenti i capi dell’intelligence. Il blocco - I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Porti vuoti, spiagge deserte dove prima ogni notte estiva con il mare calmo imperava l’affanno delle partenze, niente barconi, nessun gommone all’orizzonte. Il traffico dalla Libia è praticamente fermo. I Dabbashi sono una garanzia. "Quanto erano efficienti nel traffico di esseri umani, tanto oggi sono bravi nel bloccarlo. Sino ai primi del luglio scorso si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan presso gli africani era che si doveva pagare tanto, almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. Crediamo avessero contatti anche con organizzazioni criminali italiane. Oggi sono attenti ad attuare i blocchi delle partenze già a terra, il lavoro dei guardiacoste libici serve ormai a poco o nulla", afferma Algrabli. Vedere per credere. La notizia che non è più possibile (o diventa molto difficile) prendere la via del mare dalla Libia si sta spargendo a macchia d’olio. "Oltre 30.000 persone sono bloccate nella nostra regione. Stiamo cercando di spostarle su Tripoli, da dove potranno tornare più facilmente ai loro Paesi di origine grazie all’Onu e alle loro ambasciate. Sono per lo più nigeriani, eritrei, sudanesi, tanti del Ciad, della Costa d’Avorio e del Mali. Il fatto positivo è che sono nel frattempo diminuiti anche gli arrivi dal deserto sub-sahariano, solo il 30% rispetto ai primi di luglio. Ciò significa che la Libia per loro non è più un punto di transito valido. Lo verificheremo con certezza all’arrivo dei dati di fine settembre", dice ancora il sindaco di Sabratha. I "prigionieri" - La nuova situazione si manifesta amplificata a Triqsiqqa, che con i suoi ben oltre 1.000 migranti incarcerati (di cui al momento 120 donne) è oggi uno dei campi più vasti nella capitale. Si stima siano circa 600.000 gli "imprigionati" nell’imbuto libico. "Siamo in una prigione senza speranza. Io sono stato arrestato tre mesi fa. E adesso sono ben consapevole che via mare non si parte più", dice tra i tanti il diciottenne Hani Henessey, un ragazzino dai tratti fini e l’inglese quasi oxfordiano. Suo padre dentista lo condusse da bambino con la famiglia dal Sud Sudan a Londra. Ma di recente sono stati espulsi per lo scadere del visto. Hani dice però di essere gay e in quanto tale perseguitato in Africa. Vorrebbe tornare in Europa. E non sa come fare. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano. Joe Solomon, nigeriano di 24 anni, dice di essere stato rapito da un gruppo di contadini libici. "Volevano 700 dollari per liberarmi. Quando ho spiegato che né io, né la mia famiglia, né i miei amici potevamo pagare, mi hanno tenuto come schiavo a lavorare nei loro campi per quattro mesi", ricorda. Sono vicende di razzismo antico, rimandano ai tempi della tratta araba degli schiavi dall’Africa alle coste del Mediterraneo. Viene persino da pensare che per quanto qui le condizioni siano orribili, con migliaia di persone chiuse al caldo nello sporco dietro le sbarre, fuori alla mercé dei libici incattiviti da guerra e povertà possa essere anche peggio. Ma va anche aggiunto che l’intera zona costiera è disseminata di campi per migranti, molti senza alcun controllo e mai visti da giornalisti o umanitari. Mentre visitiamo il campo l’ambasciata sudanese manda due funzionari che organizzano i rientri di 200 connazionali. Anche l’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom) e lo Unhcr stanno intervenendo. "Ma sono ancora gocce nel mare. Perché le Ong internazionali non ci aiutano? Voi italiani, che avete qui anche un’ambasciata, perché non siete presenti, non siete mai venuti a visitarci?", protesta Abdul Nasser Azzam, il direttore del centro. E Al Ammu? Come si muove colui che appare tra i maggiori artefici di tali epocali cambiamenti? Ancora a Sabratha raccontano che vorrebbe controllare lui stesso alcuni campi destinati al rimpatrio dei migranti grazie agli aiuti finanziari internazionali. Ma a noi non ha rilasciato commenti. "Se volete un incontro dovete avere il permesso delle autorità di Tripoli", ci fa dire, più formale e legale che mai. Francia. E la ghigliottina fece rotolare l’ultima testa di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 9 settembre 2017 40 anni fa veniva giustiziato Hamida Djandoubi. Il 10 settembre 1977 alle 4 e 40 il 27enne tunisino Hamida Djandoubi viene decapitato in un braccio della prigione di Baumettes, a Marsiglia per l’omicidio della sua compagna. È l’ultima vittima della ghigliottina in Francia e nel mondo. La prima il 25 aprile 1792, un ladro comune giustiziato a Parigi sulla pubblica piazza con il nuovo strumento di morte tra la delusione della folla che fischia il boia perché l’esecuzione era stata poco spettacolare. Gli ultimi istanti di Djandoubi vivono nelle trascrizioni di Monique Mabelly, una magistrata della procura marsigliese dell’epoca chiamata a raccogliere le eventuali dichiarazioni del condannato, tre pagine fitte di dettagli raggelanti ma anche di sorprendente umanità, quasi un manifesto antiretorico contro il castigo di Stato. Lo scorso dicembre davanti gli allievi della scuola nazionale della magistratura, l’avvocato Robert Badinter (il ministro della giustizia di Mitterrand che nel 1981 abolì la pena capitale) ha per la prima volta reso pubbliche le trascrizioni di Mabelly, molto accurata nel descrivere gli scarni passaggi della "cerimonia". L’apertura della cella dove Djandoubi viene "preparato", una fase particolarmente penosa visto che anni prima aveva subito l’amputazione di una gamba, sostituita da una protesi di plastica. Lungo il percorso le guardie hanno steso delle coperte per attutire il rumore dei passi. "A metà della strada un secondino fa sedere il condannato su una sedia - ha le manette strette ai polsi - e gli offre una sigaretta, lui inizia ad aspirare senza dire nulla. Il viso è bello, i tratti regolari ma il colorito livido, ha delle grandi occhiaie. Non sembra per niente stupido, ma neanche un assassino o un bruto, è un bel ragazzo, fuma e si lamenta perché le manette gli fanno male, una guardia si avvicina e le allenta un po’, lui chiede un’altra sigaretta". L’entrata in scena del boia è uno squarcio sulla sobria crudeltà del rituale di morte: ha un tono gentile, chiede che vengano tolte le manette poi si rivolge direttamente al condannato: "Lo vede? Ora lei è un uomo libero". Mabelly è scossa dalla macabra ironia del boia ("mi ha dato i brividi"), ma lo è ancor di più dallo sguardo di Djandoubi sempre più consapevole del suo imminente destino: "In quel momento si è reso conto che era davvero finita, che non poteva più scappare, ha le mani libere e fuma molto lentamente, il tempo che gli resta da vivere durerà come quella sigaretta. Sta per morire ma è lucido, non può far altro che ritardare la fine di qualche minuto. È come il capriccio di un bambino che cerca di ritardare l’ora di andare a letto. Un bambino consapevole che nessuno avrà alcuna benevolenza nei suoi confronti". Quando il condannato chiede un’ultima sigaretta il boia cambia tono di voce: "Siamo stati molto benevoli e umani, ora facciamola finita". Niente da fare, gli permettono di bere un goccio di alcol. "Questo negoziato sull’ultima sigaretta restituisce la sua realtà, la sua "identità" al tempo che sta per finire. Nei venti minuti che gli sono stati concessi è stato padrone del suo tempo, era la sua cosa. Ora glielo abbiamo ripreso". La ghigliottina appare come un angelo sterminatore, la "machine", la chiama Mebelly riprendendo il titolo di un film del cineasta Paul Vecchiali uscito nelle sale francesi due settimane dopo l’esecuzione di Hamida Djandoubi. Al lato della ghigliottina è riposto un paniere di vimini bruno, è lì che rotolerà la testa del condannato. Il racconto di Mabelly diventa quasi insostenibile: "Tutto si consuma in fretta, gli assistenti tagliano con una forbice la camicia blu e lo lasciano praticamente a torso nudo, le mani gli vengono legate dietro la schiena con una cordicella. Lo fanno inginocchiare, la pancia tocca quasi in terra, io volto lo sguardo, non per timore di impressionarmi ma per una sorta di pudore istintivo, viscerale. Sento un rumore sordo: mi giro è vedo sangue, sangue ovunque, in un secondo una vita è stata falciata. L’uomo che parlava meno di un minuto fa non è più che un pigiama blu rovesciato in un paniere. Una guardia pulisce le tracce del crimine con un getto d’acqua. Ho un senso di nausea che riesco a controllare ma sento crescere in me un freddo sentimento di rivolta". Israele. 212 prigionieri palestinesi morti nelle carceri dal 1967 infopal.it, 9 settembre 2017 Quds Press e PIC. Dal 1967, 212 prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri israeliane a seguito di torture o a causa di negligenza medica, oltre ai casi di decessi per ferite da proiettili israeliani. Secondo uno studio statistico condotto dal sito web The Intifada, il numero di vittime nelle carceri israeliane ha raggiunto le 212 con la morte del prigioniero Raed al-Salhi, avvenuta alcuni giorni fa, a causa di negligenza medica, in un ospedale israeliano. Il sito ha affermato che 71 detenuti sono morti a seguito di torture, mentre 60 a causa di negligenza medica. Circa 74 sono stati uccisi immediatamente dopo essere stati arrestati, 7 sono morti a causa delle loro ferite dopo essere stati colpiti con proiettili dai soldati israeliani mentre si trovavano in prigione. Il numero comprende 119 Palestinesi della Cisgiordania, 63 della Striscia di Gaza, 81 di Gerusalemme occupata, 3 dai Territori occupate nel 1948 (Israele) e 8 dai Paesi arabi vicini, in aggiunta ad un detenuto in possesso di passaporto greco. Le autorità d’occupazione mantengono in detenzione oltre mille prigionieri palestinesi malati. Questi soffrono per gli effetti delle politiche di negligenza medica, così come per le torture e i maltrattamenti. Oltre 25 detenuti palestinesi hanno il cancro e altri due l’epatite. In aggiunta, ci sono oltre 34 prigionieri che soffrono di invalidità e malattie psicologiche, mentre 17 altri hanno patologie cardiache. Egitto. Hrw denuncia le torture nelle carceri, le autorità le chiudono il sito Reuters, 9 settembre 2017 L’altro ieri, 7 settembre, l’Egitto ha bloccato il sito di Human Rights Watch, dopo che l’organizzazione ha pubblicato una relazione sulla tortura sistematica nelle carceri del Paese. "Le autorità egiziane continuano a insistere sul fatto che le torture siano un crimini isolati perpetrate da cattivi funzionari che agiscono da soli, ma il rapporto Human Rights Watch dimostra una realtà diversa", ha detto Giovedi Stork, vice direttore del Medio Oriente di Human Rights Watch. La relazione, basata sui racconti di 19 ex detenuti e della famiglia di un altro, sostiene che le autorità egiziane continuano a fare ricorso ad arresti arbitrari, sconfitte e torture.