Intercettazioni, giro di vite: solo riassunti e niente frasi virgolettate, privacy fuori dagli atti di Liana Milella La Repubblica, 8 settembre 2017 Pronta la legge: arriva stretta sugli ascolti nelle inchieste che limita la libertà di stampa. Vietato a pm e giudici riportare passaggi integrali. Decreto legislativo a sorpresa del ministro della Giustizia Andrea Orlando sulle intercettazioni. Dai provvedimenti della magistratura - a partire dalle ordinanze di custodia cautelare - scompariranno le intercettazioni integrali, pubblicate tra virgolette. Il decreto impone infatti a pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari e giudici del tribunale del riesame di riassumere i testi delle intercettazioni. Nessuna pubblicazione integrale sarà più possibile, e anche gli avvocati dovranno aspettare l’udienza stralcio per ascoltare e vedere le intercettazioni sotto forma di colloquio. Sul decreto legislativo - frutto della delega contenuta nella legge sul processo penale in vigore dal 4 agosto - il Guardasigilli aprirà una rapida consultazione con i capi delle più importanti procure, le Camere penali, la Fnsi. Orlando ha ancora due mesi di tempo per esercitare la delega. Il decreto disciplina anche l’uso dei Trojan horse, cantatori informatici attivabili a distanza. Novità anche sulla corruzione, in quanto si amplia la possibilità di fare intercettazioni, anche se l’uso dei Trojan viene escluso. Sette pagine di testo e altrettante per la relazione illustrativa. Precedute da una lettera di convocazione per la prossima settimana in via Arenula. Firmata dal Guardasigilli Orlando. Che accelera sulla riforma delle intercettazioni e vuole rispettare i tempi - solo tre mesi - imposti dalla legge sul processo penale entrata in vigore il 4 agosto. Per questo il ministro "sacrifica" l’idea di una commissione di esperti e lancia un suo testo su cui ascolterà velocemente il parere dei capi delle procure, gli stessi che si erano già dotati di un codice di autoregolamentazione. Ma - ed è questa la notizia a sorpresa - Orlando va oltre quei codici e punta a spazzare via dai provvedimenti dei magistrati i testi stessi delle intercettazioni. Sostituiti, come ordina la delega, solo da riassunti. Recita l’articolo 3 del decreto: "È fatto divieto di riproduzione integrale nella richiesta (del pubblico ministero, ndr) delle comunicazioni e conversazioni intercettate, ed è consentito soltanto il richiamo al loro contenuto". La stessa frase viene ripetuta per le ordinanze del gip e per quelle del tribunale del riesame. Addio alle virgolette - Una svolta radicale. Che si affaccia per la prima volta nella lunga discussione sulle intercettazioni che ha attraversato questa legislatura. Segnata da dure frizioni, proprio sull’uso e la pubblicità delle telefonate, tra l’ex premier Matteo Renzi e la magistratura. Della riforma si parla dal 30 giugno 2014, quando Renzi e Orlando annunciarono i 12 punti della giustizia. Il testo della delega, spesso finito sotto accusa per la sua genericità, mirava a garantire la privacy delle registrazioni di chi finisce casualmente in un’indagine, i famosi "terzi", e soprattutto i riferimenti alla vita privata. Ma Orlando va oltre e interviene drasticamente sull’uso stesso delle intercettazioni. Eccesso di delega? Il decreto legislativo, prima del via libera del solo Consiglio dei ministri, passerà il vaglio consultivo delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Da lì potranno arrivare critiche su un possibile eccesso di delega, perché con un decreto legislativo, e non con una legge, si tocca un meccanismo delicato della dinamica processuale. In mezza pagina, citando i relativi articoli del codice, il Guardasigilli cambia le attuali regole nell’uso delle intercettazioni che oggi vengono ampiamente citate nelle misure della magistratura. D’ora in avanti non sarà più così. Il decreto dispone "soltanto il richiamo al loro contenuto". Avvocati protetti - Ma ci sono intercettazioni che non leggeremo mai più perché non saranno neppure trascritte e finiranno in un archivio riservato di cui il pm sarà responsabile. Della telefonata tra avvocato e assistito il decreto dice: "Non può essere oggetto di trascrizione, anche sommaria, e nel verbale sono indicate solo la data e l’ora". Privacy totale - Stessa regola per "le comunicazioni o conversazioni i cui contenuti non hanno rilevanza ai fini delle indagini, nonché di quelle riguardanti dati personali definiti sensibili dalla legge". Un’eccezione però è ammessa, "quando il pm ne valuta la rilevanza per i fatti oggetto di prova". Solo in quel caso "con decreto motivato" il pm "può disporre la trascrizione". Quando la discovery? - Un’udienza stralcio, collocata dopo le eventuali misure cautelari o comunque al momento della chiusura delle indagini, consentirà ai difensori di prendere cognizione del materiale raccolto, "di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni", di farne copia. Sarà quello il momento in cui la difesa potrà far valere i suoi diritti e dire quali colloqui ritiene rilevanti e da includere nel fascicolo processuale. Norma D’Addario - Prende il nome da Patrizia D’Addario, la escort che registrò le serate con Berlusconi a via del Plebiscito. Prevede una pena fino a 4 anni per chi, "al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine", riprende o registra un colloquio privato. Punibilità esclusa per il diritto di cronaca e se il colloquio serve "a fini giudiziari". Limiti ai trojan horse - Sono i captatori informatici che permettono di "entrare" in un cellulare e utilizzarlo come un registratore in movimento. Ma il decreto Orlando ne limita l’uso, ai soli reati più gravi, tra cui delitti di mafia e di terrorismo. Esclusi, invece, i reati di corruzione. I Trojan dovranno seguire le stesse regole rigide che regolano l’autorizzazione delle intercettazioni. Il magistrato dovrà motivare le "ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice". Le prove raccolte dal Trojan non potranno "essere utilizzate per la prova di reati, anche connessi, diversi da quelli per cui è stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza". Regole rigide anche per le frasi catturate "nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico e i dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto di autorizzazione". Corrotti più intercettabili - Un piccolo passo avanti per la corruzione. "Anche se non vi è motivo di ritenere che in quel luogo si stia svolgendo l’attività criminosa" la registrazione diventa possibile. La privacy usata come scudo per ridurre l’informazione di Caludio Tito La Repubblica, 8 settembre 2017 Nel decreto del governo che intende disciplinare l’uso e la pubblicazione delle intercettazioni si nasconde una grande ipocrisia. Sintetizzata in una delle frasi con cui si apre la relazione che illustra il provvedimento: "La delega è volta a garantire la riservatezza delle comunicazioni". Come se il nucleo più profondo di una questione così delicata fosse banalmente il diritto alla privacy. Non è così. Anzi si tratta di una mistificazione, di un paravento. Perché l’effetto è tutt’altro: stampa silenziata e opinione pubblica disarmata. Solo così può essere accolto il tentativo di far prevalere la riservatezza su altri diritti fondamentali, a partire da quello di informare i cittadini. Intendiamoci: nessuno nasconde l’esigenza di vietare alcuni abusi e di dare una nuova organizzazione a una materia che lo sviluppo tecnologico ha radicalmente trasformato. Nel decreto del ministro della Giustizia, però, questa necessità deborda e assesta un vero e proprio colpo alla libertà di stampa. Vietare la pubblicazione delle intercettazioni consentendone solo la sintesi fatta da un magistrato equivale a privare non i giornali o i giornalisti ma l’opinione pubblica del diritto di sapere. Va poi sfatato un mito che spesso si materializza quando si affronta questo tema. In discussione non ci sono le conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine o quelle privatissime tra due soggetti. Non si tratta di non prestare le dovute garanzie a chi è estraneo alle indagini o viene coinvolto solo incidentalmente. È evidente che tutto questo debba essere stralciato dal processo e anche dai giornali. In questo caso, però, si discute di colloqui che i magistrati hanno già dichiarato rilevanti. Dialoghi che gli inquirenti hanno valutato come decisivi per la prosecuzione del processo. Prove da utilizzare per dimostrare la colpevolezza di un indagato. Circostanze che un giudice ha reputato significative per descrivere il contesto losco o delittuoso in cui si muoveva l’imputato. E allora come è possibile che l’opinione pubblica ne debba essere tenuta all’oscuro? La rilevanza rimarcata in un atto giudiziario da un pm può diluirsi nell’irrilevanza quando si avvicina ai lettori? L’interrogativo ha una sola risposta: in gioco non c’è la privacy. L’obiettivo è semmai quello di arginare la stampa e i cittadini. Una scelta che sempre più assomiglia a un’ultima ondata che lascia con la risacca i detriti di una stantia difesa di chi è già forte. Perché bisogna essere chiari: la riservatezza su cui si fonda il decreto non riguarda i semplici cittadini. I giornali pubblicano le intercettazioni dei personaggi pubblici, di chi ha un ruolo importante nella società. E chi chiede i voti agli elettori, guida delle grandi aziende, svolge un ruolo capace di impattare sui concittadini, ha necessariamente diritto a una privacy attenuata, inferiore a tutti gli altri. Non prendere atto di questa ordinaria osservazione - confermata di recente anche dalla Corte di Strasburgo - equivale a voler difendere chi è già potente. Alimentando il sospetto di una corsa all’auto-tutela e provocando quei sentimenti "anti-casta" che costituiscono il primo carburante del populismo. Per questo esistono un "interesse giudiziario" e un "interesse pubblico": non possono essere sovrapposti e soprattutto non possono scomparire. Ma l’intervento del ministro Orlando riesce a ottenere il risultato opposto. Per risolvere il problema, basterebbe semplicemente affermare che il magistrato elimina dagli atti tutto quello che considera irrilevante ai fini dell’inchiesta. Una norma, peraltro, che già esiste nel codice di procedura penale (articolo 269). Questo governo è allora davvero sicuro di voler correre il rischio di indebolire così tanto la nostra democrazia? Davvero crede sia giusto che l’opinione pubblica debba venire a piena conoscenza dei delitti commessi in questo Paese solo con estremo ritardo? Sarebbe stato giusto, ad esempio, non riportare con completezza quella frase ("c’è lavoro per i prossimi dieci anni") pronunciata nel 2009 da un imprenditore subito dopo il terribile terremoto dell’Aquila? Ci sono poi altri due aspetti che non si possono sottovalutare. Il primo riguarda il calendario della politica. Mancano sei mesi alle elezioni nazionali. Una classe dirigente responsabile non può lanciare un messaggio del genere in vista di un appuntamento così importante. Al momento, tra l’altro, il sistema di voto prevede le preferenze. E un elettore non può vedersi potenzialmente negare il diritto di sapere tutto quello che riguarda il candidato prescelto. E poi esiste una questione procedurale. Un provvedimento che investe una questione tanto vitale per una società non può essere adottato con un decreto delegato. Ossia con un testo che non deve essere sottoposto all’esame del Parlamento. Le Camere, certo, hanno consegnato all’esecutivo una delega. Sta di fatto, però, che si arriva a stabilire una nuova disciplina delle intercettazioni con una legge che non ha bisogno di altre verifiche e con l’ombra - visti i contenuti - di un eccesso di delega. Il Consiglio dei ministri può vararlo - ma può anche evitare di farlo - entro il prossimo 3 novembre. La Camera e il Senato si trovano nella condizione di esprimere solo un parere, niente di più. Un percorso del genere non può che suscitare ulteriori dubbi sul merito del decreto. Che rischia, in questi termini, di cucirsi addosso la forma del bavaglio. Furio Colombo: "il linguaggio dell’odio va sconfitto, bene l’iniziativa del Cnf" di Simona Musco Il Dubbio, 8 settembre 2017 Secondo Furio Colombo l’odio condiziona pesantemente la realtà ed espone la nostra società a grandi rischi. "Eventi come quello promosso dal Consiglio nazionale forense sono importanti e sono un buon inizio per trovare una soluzione alle derive del linguaggio dell’odio. Mi auguro che ciò che verrà fuori dall’incontro possa contribuire a evitarlo in futuro". Furio Colombo è un giornalista sensibile al tema che verrà affrontato dal G7 dell’avvocatura. Da sempre lo analizza e si batte contro odio e razzismo. Ma oggi sembra molto preoccupato, soprattutto per lo stato del giornalismo italiano. Quando e come nasce l’odio in Italia? L’odio in politica, nel nostro Paese, è stato inventato nel dopoguerra, da quelle forze che, con la loro scorta giornalistica, hanno capito che produceva attenzione e militanza. I primi a farne strumento politico sono stati i leghisti, nati come Lega per l’indipendenza della Padania, un partito secessionista, un atteggiamento che porta sempre se non odio un forte rancore, co- me dimostra la Brexit. Ed è il rancore ciò che ha caratterizzato l’esordio dei leghisti, diventato abbastanza rapidamente chiazzato di odio. Sarebbe ingiusto dire che il successo politico che hanno avuto e la quantità di voti notevole, sin dall’inizio, fosse dedicato all’odio. Ma dedicati all’odio erano molti dirigenti. Mario Borghezio ha compiuto il primo importante gesto di odio nella politica degli ultimi 20 anni, andando ad incendiare i giacigli degli extracomunitari sotto il ponte della Dora a Torino. L’imputazione indicava danni anche fisici alle persone ed è stato condannato definitivamente per aggressione e atti di violenza. Andare in giro con le fiaccole e con le ronde e poi usare quelle fiaccole come ha fatto Borghezio per incendiare la roba di chi viveva sotto il ponte, non di chi aveva occupato un palazzo, è stato l’inizio di tutto. Quell’episodio avrebbe dovuto portare l’opinione pubblica ad una stigmatizzazione della violenza. Le cose non andarono così? Il gesto venne immediatamente bollato dalla stampa, condannato, con la giusta porzione di indignazione. Ma la persona che l’ha compiuto è diventata una celebrità della vita pubblica italiana. Quando io denunciavo in aula una mascalzonata dell’una e dell’altra parte politica uno di loro si alzava per chiamarmi "faccia da culo". Il fatto che il presidente della Camera non abbia sospeso la seduta ed espulso dall’aula chi mi aveva aggredito rappresenta il punto di debolezza di un Paese che è entrato in una galleria troppo stretta per sperare di uscirne. Nessun giornale ne fece uno scandalo eppure era una bella notizia ed un fatto utile da raccontare. Questo avveniva molto prima dell’incattivimento successivo, che è stato molto più grave, ma poteva essere un segnale utile che non è stato colto. Quindi i giornali non hanno ostacolato in alcun modo l’imbarbarimento dei linguaggi? La Stampa, giornale che apprezzo molto e al quale sono molto legato, ha raccontato con assoluta celerità quell’evento ma le persone che se ne sono rese protagoniste sono rimaste intatte, rispettabili, intervistate, quindi la passavano liscia sempre. Un po’ di tensione la creava Repubblica, allora. Fece più opposizione di ogni altro giornale, se si esclude il manifesto. E l’Unità, quando ne ero io il direttore, che non ne lasciava passare nemmeno una. E infatti era un giornale mal visto dal potere, ma molto amato dai lettori. Questo significa che il giornalismo italiano, nella maggior parte dei casi, preferisce adeguarsi? Basti pensare che se il Papa parla dello Ius soli, in ogni tg italiano a rispondere è Salvini, come se avesse le qualità e la statura per replicargli. Ma avviene ogni volta. A furia di parlare così al Paese, il Paese diventa ciò che si racconta. E non si tratta di una questione di audience: credo che lo facciano per non stare troppo lontani dal potere, anche se è sgradevole. La Lega, infatti, per molti anni, ha avuto un dominio notevole sulle cose italiane, perché ha avuto un ministro dell’Interno per due legislature targate Berlusconi e bisognerebbe lodare la nostra Polizia per non aver ceduto agli impulsi distruttivi di Maroni. Ma se oggi non sappiamo dove mettere i migranti è proprio perché Maroni, confidando nel trattato con la Libia - una delle cose più spaventose che l’Italia abbia fatto negli ultimi due decenni ha distrutto tutte le strutture di accoglienza che il governo Prodi aveva in qualche modo creato, bene o male, perché non possiamo dire che abbia fatto meraviglie ma almeno aveva risolto il problema. A me è accaduto di andare a Lampedusa, dopo un naufragio grave, insieme al deputato Andrea Sarubbi, del Pd cattolico, l’unico insieme a me ad aver votato contro il trattato con la Libia, e abbiamo trovato i sopravvissuti aggrappati agli scogli fuori dal porto, perché in città era stata smantellata tutta la struttura di accoglienza, per quanto povera che fosse. Maroni ci ha impedito, contravvenendo alla Costituzione, di visitare le rovine del centro d’accoglienza. Con grande imbarazzo dei carabinieri, che non sapevano come dirci che era stato chiesto loro di trasgredire la legge. Eppure Maroni ha sempre avuto, e ha tuttora, l’immagine di uno statista. Ed è chiaro che da lì non possono nascere grandi cose. Un titolo molto forte è quello di "Libero" di mercoledì, che parla degli immigrati come dei responsabili della morte per malaria di una bimba di 4 anni. Cosa ne pensa? Si tratta di pura falsità e pure di odio. Perché dopo questo ci si può aspettare che i pugni e gli omicidi in discoteca possano all’improvviso diffondersi nei confronti degli extracomunitari, come i virus. Li vedi e li ammazzi, perché portano la malaria ai tuoi bambini. Quindi la cattiva informazione tenta, con argomenti vaghi, gli umori dei lettori. Gli esperti dicono che la zanzara che ha trasmesso il virus che ha ucciso la bambina potrebbe essere arrivata con una valigia. Ma raramente un immigrato arriva con la valigia. È la valigia di un turista, di un personaggio abbiente che stava in un albergo e le zanzare non hanno certo problemi ad entrare in un hotel a 5 stelle. Con i barconi invece è più difficile. Allora dico che si tratta di invenzioni dell’odio e la storia ci ha insegnato che l’odio è una scuola. Fai la scuola dell’odio e ne esci capace di odiare. Il G7 dell’avvocatura può costituire un punto di partenza per una lezione alternativa? Eventi come quello promosso dal Cnf sono importanti e un buon inizio per trovare una soluzione alle derive del linguaggio dell’odio. Mi auguro che ciò che verrà fuori dall’incontro possa contribuire ad evitarlo in futuro. Pensare ad una strategia comune di fronte ai rischi della violenza verbale è una cosa civile, importante e utile. A livello politico, invece, ci sono gli sforzi di infinito buon senso di persone come Emma Bonino, che tenta disperatamente di raccogliere le firme per la legge "Io ero straniero". Ma questo odio generato dallo straniero, in un Paese come il nostro che è composto da stranieri e ha vissuto il fascismo, va avanti. Ha cominciato la Lega, che disprezzava l’Italia al punto da voler mettere il tricolore nel cesso, chiedendo che non fossero ammessi insegnanti meridionali ad insegnare nelle scuole venete. Sono partiti con l’odio da vicino, poi il crescere del fenomeno dell’immigrazione ha dato uno sfogo per un odio molto più grande. Un odio che ormai riguarda tutto lo schieramento politico italiano, da destra a sinistra, tranne i Radicali. I 5 stelle, ad esempio, hanno inventato il gommone come taxi in mare e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato folle. Come può essere clandestino uno che si presenta per forza con un gommone che a malapena si riesce a salvare e poi lo tocchi, lo fotografi e non lo identifichi? Gli italiani non fanno nessuno sforzo per identificarlo, perché non vogliono che resti in Italia e allora i nostri amici europei ci chiudono le frontiere. Così abbiamo i gendarmi a Ventimiglia e l’esercito al Brennero. Questo è odio. E invece di ritirare gli ambasciatori ci siamo messi a dare la caccia insieme ai poliziotti dell’altro paese. E poi ci lamentiamo che il numero cresce. L’odio è trasversale, dunque. Il Presidente della Repubblica potrebbe fare qualcosa? Le parole del Quirinale sono troppo rare e generiche, mentre ritengo che una lezione andava data, per salvarci, perché siamo un popolo in pericolo di essere preda dell’odio. E l’odio è una bestia spaventosa che divora chi odia dopo aver divorato gli odiati. Ma a combattere questo linguaggio ci sono solo due poli, uno laico, quello dei Radicali, e uno religioso, quello del Papa. Ed è triste che un piccolo partito sia il solo a farsi carico di questa cosa, mentre il Papa certamente non è seguito da tutta la Chiesa e da tutti i parroci. Il Pd ha avuto questa idea dello Ius soli, che è piena di limiti ma vorrei passasse, anche se lo dubito, ma a parte questo, con le decisioni sulla Libia, ha abbandonato tutti quelli che ci credevano ancora, quelli che avevano visto la resistenza e ne amavano ancora i valori. La stampa ha speranze? Siamo al peggio. È difficile odiare più di quanto l’Italia stia facendo in questo momento. Tutti quelli che partecipano ai dibattiti, e vale anche per la rete, sono contro e ansiosi di dire parole d’odio. La storia ci insegna che si può risalire dal fondo, dopo aver sofferto molto. Non so se ce la caveremo in meno di qualche anno, perché la situazione è davvero brutta. Sono pessimista perché sono circondato, spesso sono il solo a dire le cose. Questa è la nostra malaria e il vettore è stata una stampa infinitamente tollerante con chiunque avesse potere. "Avvocati, non difendete chi stupra". Sul web attacco alla Costituzione di Errico Novi Il Dubbio, 8 settembre 2017 Onida: "prima certi improperi si sentivano al bar, ora li si può mettere per iscritto in rete e si diffonde una costituzione rovesciata". "Vado a incontrare i genitori di due degli indagati per le violenze di Rimini, due stranieri minorenni. E questa è una parte molto difficile del mio mandato". La voce al telefono è di Paolo Ghiselli, difensore dei due fratelli marocchini che, con gli altri due arrestati, hanno confessato gli stupri avvenuti lo scorso 26 agosto nella città romagnola. Ghiselli ha subìto qualche incursione sui social: "Nulla di rilevante", dice. Ai colleghi Ilaria Perruzza e Mario Scarpa è andata peggio. E su Facebook, anche al di fuori delle bacheche personali dei professionisti, sono arrivate frasi ai limiti dell’irripetibile. Ma oltre agli insulti, spiega la presidente dell’Ordine degli avvocati di Rimini Giovanna Ollà, "colpiscono considerazioni che riflettono comunque un’idea del tutto distorta del diritto alla difesa e quindi dei principi sanciti dalla Costituzione: mi riferisco a chi ci invita a esercitare il patrocinio nella maniera meno efficace possibile. È questo, tra le tante cose che leggo sui social, a sembrare più preoccupante: si chiede di assicurare la difesa come mero simulacro, di non impegnarsi nel cercare elementi che possano essere comunque utili a tutelare la posizione dell’assistito". Ghiselli a sua volta tiene a non drammatizzare, racconta del "contesto sociale molto difficile in cui si trovano le famiglie dei due giovani che assisto" e del fatto che la difficoltà nell’esercitare il mandato in questa vicenda derivi assai più da quel disagio che dalle eventuali minacce via web. E in effetti il riflesso più preoccupante di questa giustizia parallela della rete è nel diffondersi di una "pedagogia incostituzionale", come la definisce il professor Valerio Onida. "In realtà la gravità dei commenti che sentiamo su vicende come quella di Rimini, l’auspicio per esempio che all’avvocato di un violentatore capiti un’esperienza analoga a quella della vittima, fa parte di un linguaggio tutt’altro che nuovo. Solo che prima lo ascoltavamo nei bar, adesso si scrive su un social network. E questo", spiega il costituzionalista, "produce davvero un effetto paradossale: il semplice fatto che quelle affermazioni prive di raziocinio vengano messe per iscritto finisce per assegnare loro una valenza, un peso e una diffusione prima inimmaginabili. Cosicché anche considerazioni insensate sulla difesa depotenziata da assicurare agli autori di gravi reati vengono prese sul serio e possono favorire il diffondersi di un’idea distorta dei principi basilari del vivere civile. Rappresentano una Costituzione apocrifa e capovolta". Il web come moltiplicatore dell’odio ma anche come megafono di una diseducazione civica senza controllo: Onida individua un problema di quelli che hanno spinto le avvocature dei G7 a riunirsi per la prima volta nell’incontro di giovedì prossimo a Roma. "L’iniziativa promossa dal Cnf è positiva", spiega il presidente emerito della Consulta, "eppure temo che ai più prevenuti la mobilitazione degli avvocati possa apparire sollecitata solo da interessi di categoria, anziché da un impegno civile". La reazione negativa e il sospetto condizionano in modo totalizzante ormai una parte dell’opinione pubblica. "Se gli indagati per un grave delitto vengono assolti, non si pensa hanno preso un innocente, meno male che è emersa la verità, ma che si tratta di un fallimento della giustizia", nota ancora la presidente Ollà. Eppure la repressione penale dei reati sa dimostrare rapidità ed efficacia: il caso di Rimini ne è un esempio, e ne danno conferma gli ultimi sviluppi delle indagini condotte dalla Procura. Nelle ultime ore si è aggravata la posizione di Guerlin Butungu, il 20enne congolese individuato come capo del "branco": a suo carico sono emersi altri episodi di violenza, alcuni dei quali riferiti proprio dai due fratelli marocchini. Tra le altre, una tentata aggressione a una ragazza davanti a un locale di Pesaro, sventata da altri giovani del gruppo. Ma a promuovere un’idea di giustizia vendicativa sono spesso le istituzioni. A volte con venature razziste, come nel caso dell’amministrazione leghista di Cascina che, oltre a distribuire gratuitamente alle donne bombolette spray al peperoncino, ha deciso di installare in ogni ufficio comunale aperto al pubblico un cartello con la scritta "l’Amministrazione ripudia ogni forma di violenza sulle donne, trattale anche tu con rispetto". Perfetto, se non fosse per la velenosa malizia della dicitura bilingue: in italiano e in arabo. Un cortocircuito in cui le istituzioni o sono additate come manipolatrici della realtà oppure favoriscono il diffondersi dell’odio. C’è poi il caso estremo dell’odio contro "il potere" promosso da chi rappresenta proprio le istituzioni, e l’ultimo esempio arriva dall’assessora al Lavoro di Venaria, la Cinque Stelle Claudia Nozzetti, che ha pubblicato su Facebook il seguente post a proposito dei quattro indagati per gli stupri di Rimini: "Spero che li obblighino a tagliarselo uno con l’altro è a farglielo mangiare. In alternativa dateli in cura a casa della boldracchia". Che, secondo Nozzetti (pentitasi a metà in un successivo intervento), sarebbe la presidente della Camera. Cavalcare l’odio per le istituzioni dall’interno delle istituzioni stesse è un capolavoro che può riuscire solo ai grillini. Immobili inutilizzati, la circolare Minniti e il diritto di proprietà di Tommaso Edoardo Frosini Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2017 La circolare che il ministro Minniti ha diramato ai prefetti per fronteggiare l’emergenza abitativa, ha una sua condivisibile finalità nella parte in cui si preoccupa di evitare occupazioni abusive. E quindi prevenire un reato, nonché evitare i rischi, come già successo, che lo sgombero possa creare disordini e tensioni per la sicurezza cittadina. La circolare è altresì condivisibile, laddove si preoccupa di individuare immobili confiscati e sequestrati alle organizzazioni criminali e mafiose per un loro riutilizzo in favore di coloro, italiani e migranti, che sono privi di un tetto sotto cui vivere e avere così tutelata la loro dignità umana. Questo, infatti, è il valore costituzionale da proteggere e non il diritto alla casa, che non esiste nella nostra Costituzione. Dove, semmai, è prevista l’inviolabilità del domicilio (articolo 14) e la tutela della proprietà privata (articolo 42). Ecco perché lascia perplessi quel riferimento, esplicitato nella circolare ministeriale, alla "ricognizione dei beni immobili privati e delle pubbliche amministrazioni inutilizzati" per consentire la predisposizione di "un piano per l’effettivo utilizzo e riuso a fini abitativi". Lascia assai perplessi l’incursione statalista nel volere mappare gli immobili dei privati. È davvero compito dello Stato tenere sotto controllo quante sono le case dei privati, se sono abitate o piuttosto libere? Peraltro questa statistica è stata già elaborata dall’Istat, a fini di ricognizione sociologica, che ha individuato circa sette milioni di immobili privati non abitati, quindi pari al 22,5% delle case nel Paese, con una maggiore concentrazione in Liguria e Valle d’Aosta e nelle regioni del Sud, che hanno subito maggiori fenomeni di spopolamento. Che lo Stato voglia conoscere quante sono le case private disabitate per poi varare un piano per l’effettivo utilizzo a fini abitativi, lascia presagire la possibilità di un qualche tentativo di requisizione "per motivi di interesse generale", come la Costituzione consentirebbe sebbene attraverso una sua forzatura interpretativa. Certo, sarebbe un vero attentato alla libertà e al diritto di proprietà se si concretizzasse un simile scenario. E siccome non basta un atto amministrativo, come la circolare ministeriale, ma piuttosto ci vuole una legge, questa difficilmente troverebbe una sua condivisione parlamentare e comunque sarebbe soggetta a scrutinio di costituzionalità. Con alte possibilità che venisse dichiarata illegittima nel bilanciamento tra gli eventuali "motivi di interesse generale", tutto da dimostrare, e il diritto di proprietà privata, che finirebbe col prevalere. Almeno fintanto che riteniamo di essere una democrazia liberale. Quindi, tutela e garanzia della proprietà privata, senza se e senza ma. E quindi un invito a emendare la circolare, eliminando il riferimento agli immobili privati. Per insistere, con determinazione, nella individuazione degli immobili pubblici e quelli soggetti a sequestro per motivi di mafia. Che ci debbano essere, nel nostro territorio, immobili dello Stato, ovvero a disposizione dello Stato, non utilizzati e quindi liberi, e che ci debbano essere, nel nostro territorio, persone che non hanno un posto dove andare a dormire, è assurdo e irragionevole. Ed è lesivo della dignità umana. Un tempo si costruivano le case popolari, che poi i Comuni affittavano a prezzi accessibili alle persone con basso reddito. Sebbene gli stessi Comuni, penso a Roma, affittavano a prezzi irrisori case di pregio a persone facoltose. Questo è un altro discorso. Un piano case è giusto e urgente. E bene ha fatto il ministro ad attivarsi in tal senso. Anche per scongiurare il fenomeno delle occupazioni abusive, che ci fa fare un salto indietro di quaranta anni: quando negli anni Settanta nacquero i movimenti per l’occupazione delle case, sostenuti con piglio "barricadero" da diverse organizzazioni di estrema sinistra. A seguito degli sgomberi effettuati dalla polizia, ci furono diversi incidenti, come nel quartiere San Lorenzo a Roma dove rimase vittima un giovane. Un clima che non vorremmo certo rivivere oggi, specialmente con i migranti pronti a difendere i palazzi che hanno occupato. Lo Stato dia le sue case ai bisognosi, italiani e stranieri. Renda così effettiva la pari dignità sociale e rimuova gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza. Come dice e promette la Costituzione. E non invada il diritto di proprietà privata. Come riconosciuto e tutelato dalla Costituzione. Il giornalista più accusato al mondo dì Pino Aprile Panorama, 8 settembre 2017 Per fare luce su un’ingiustizia, Nicola Piccenna decise di indagare e di raccontare la storia. Da manager divenne dunque cronista e fu l’inizio di una nuova carriera. Le sue accuse gli sono costate centinaia di cause per diffamazione. Senza neanche una condanna. È all’esame del Guiness dei primati, quale giornalista con più procedimenti giudiziari al mondo: 484. Per chi ha la sudarella se arriva una multa, sarebbe da suicidio. Nicola Piccenna, di Matera, 58 anni, quattro figli, condivide il record con Nikolaj Nicolajevic, Ni Ho Picin, Claudio Galante e Filippo Delubac. Con gli ultimi due fu accusato di associazione per delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. "Reato impossibile", sentenziò il Tribunale di Catanzaro, perché non può esistere se il diffamato è una sola persona e perché i reati istantanei (come la diffamazione a mezzo stampa) non possono essere premeditati. La "banda" era composta dal solo Piccenna, moltiplicato da quei suoi pseudonimi, quindi "associato" con se stesso; solo dopo furono aggiunti, "in associazione" criminale, altri giornalisti e un carabiniere. Risultato di 484 procedimenti? "Due condanne, annullate in secondo grado con motivazioni pesanti: "Questo procedimento non doveva nemmeno iniziare, non poteva proseguire, men che meno si poteva concludere con la condanna". Niente male per un giornalista per caso: si occupa di informatica e tecnologia per energie rinnovabili; volle capire perché l’azienda di cui era direttore fu esclusa dall’asta per le licenze Umts i cellulari, e... "Ero direttore del consorzio Anthill, che nel Duemila si candidò all’acquisto di una frequenza telefonica Umts. C’erano tutti i big e, a sorpresa, noi lucani. Il giorno dopo la chiusura dei termini e la consegna delle buste, a una trasmissione radio il ministro competente disse che Anthill era esclusa per non aver allegato la fideiussione di 4 mila miliardi di lire della base d’asta. Chiesi: come fa a saperlo, se le buste si aprono lunedì e oggi è venerdì? E non sa che la fidejussione va presentata solo nella fase due, dalle società ammesse? Il ministro, che era in collegamento, non rispose: caduta la linea... Il presidente di Anthill, allora, disse in un’intervista: per l’asta serve un numero di concorrenti superiore di uno a quello delle frequenze in palio. Faranno fuori noi, poi l’uno in più si ritirerà e resteranno tante frequenze quanti candidati, che le acquisteranno al prezzo minimo. Così fu. Facemmo causa e ci dettero torto. Cominciai le indagini, per capire, e mi ritrovai giornalista". Non ha più smesso. All’inizio, inviava ai giornali, che pubblicavano. Poi, non più. Fonda "Il giornale della sera": settimanale, grande formato, senza foto, solo testo, privo di pubblicità. Piccenna inizia a scoperchiare pentole, "come le attrezzature di un pastificio di Matera, comprate con soldi del terremoto e rivendute ai russi. O gli immobili acquistati da Luigi Zunino, che subito li riaffitta al venditore. Il prezzo è pagato con il mutuo di 1,280 miliardi di euro concesso a una società di Zunino costituita con 10 mila euro di capitale pochi giorni prima e che a garanzia offre... il contratto d’affitto del venditore. Ipoteca iscritta all’Ufficio del Registro di Matera. Sede periferica? Un consiglio d’amministrazione si tenne a Ferragosto in Perù, a Machu Picchu. O, ancora, il petrolio lucano, portato via con un oleodotto senza contatore: dicono le compagnie quanto ne prendono". Per la serie: qualcuno è in cerca di guai. E li trova. Piccenna chiude il giornale e passa a "Il Resto", diretto da Nino Grilli. "Una buona offerta economica?". "Mai ricavato un euro dal giornalismo. Solo querele". Da settembre 2006: l’avvocato Emilio Nicola Buccico (Consiglio superiore della magistratura, poi senatore e sindaco di Matera) "querela, in pratica, per ogni articolo in cui compaia il suo nome. Saranno 20, da cui scaturiscono 45 procedimenti penali, perché se è coinvolto un magistrato, si sdoppiano in altra sede, per la parte che li riguarda. Poi ci sono le decine di querele di altri". Sarete d’accordo se salto il racconto dì tutti i procedimenti (e, vigliaccamente, non cito nomi), 484, dei quali, 382 penali, di cui: 141 per diffamazione a mezzo stampa, incluso uno per "associazione a delinquere finalizzata alla tentata violenza privata, con uso delle armi". Anni? "Pubblicai una rettifica di Buccico, con riserva di querela, e scrissi: "Se si sente diffamato, ha ben ragione di proporre querela. Però, affinché il duello sia ad armi pari, dovrebbe rinunciare all’immunità parlamentare. E così, una lancia, un cavallo e via, potremmo risolvere la faccenda come nel Medioevo". Perii pubblico ministero, minacciavo "l’avvocato Buccico, invitandolo allo scontro fisico, con l’uso delle armi". Ancora: 123 procedimenti avviati da Piccenna quale persona offesa, contro una dozzina di magistrati, "incluso alcuni che mi hanno querelato e sono poi stati titolari dell’accusa in procedimenti a mio carico"; 118 procedimenti penali connessi ai precedenti, perché coinvolgono magistrati, specie Luigi de Magistris che, a partire dagli articoli di Piccenna, avviò l’indagine Toghe lucane; 7 procedimenti civili e 1 disciplinare davanti al Csm, per un magistrato che non rinuncia all’accusa e nega in aula di aver querelato Piccenna, che dimostra come lo abbia fatto tre volte e, allegando le prove, querela per frode giudiziaria e falso in atto pubblico. Ma la cosa viene archiviata. Anni dopo, il magistrato riceve dal Csm la sanzione della censura, che la Cassazione elimina, perché erano passati i 12 mesi previsti come massimo per azioni disciplinari per i magistrati; 74 procedimenti disciplinari in Cassazione, a carico di magistrati, nati da denunce di Piccenna. "Tutti archiviati. Chiedevo i fascicoli e li negavano, "per la privacy". Dopo una denuncia contro il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, scoprii cosa avveniva: io denuncio alla Procura competente e trasmetto, per conoscenza, alla Cassazione, che sospende il giudizio, in attesa del processo penale. Il magistrato porta copia della "sospensione" in tribunale che, in forza dì quella, archivia. A quel punto, archivia pure la Cassazione. 74 volte su 74". Come fare il giornalista, dovendo seguire tanti procedimenti? "Non si fa. "Il Resto" ha chiuso, "L’indipendente lucano pure". C’è online il blog toghelucane.blogspot.com. Dal 2007 al 2015, Grilli e io abbiamo avuto una media di due udienze a settimana, con picchi di quattro, fra tribunali di Matera, Potenza, Catanzaro, Salerno, Napoli, Roma, Perugia, Milano". Cosa ne pensa dei magistrati? "Né migliori, né peggiori degli altri. Chi abusa del ruolo non è diverso da chi timbra il cartellino e va al mercato. Solo le conseguenze sono più pesanti; ma è lo stesso con i cattivi chirurghi o piloti d’aereo". Ne è valsa la pena? "Il problema della giustizia non sono i magistrati che abusano della funzione, ma le leggi e i cittadini che glielo consentono". Autoriciclaggio in forma libera e dilatato nel tempo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2017 Autoriciclaggio dilatato nel tempo. Per la Cassazione il nuovo delitto introdotto nel Codice penale all’articolo 648 ter I del Codice penale può essere anche realizzato con modalità protratte nel tempo, quando il suo autore lo progetta ed esegue in maniera frammentata e progressiva. Lo afferma la sentenza n. 40890 della seconda sezione penale depositata ieri. È stata così confermata la misura della custodia cautelare per autoriciclaggio (reato presupposto la bancarotta) nei confronti dell’amministratore di una società che aveva realizzato complesse operazioni societarie e articolati movimenti bancari gestendo somme di provenienza illegale. In particolare, nel mirino degli investigatori erano finita la collocazione sul mercato di azioni di una società quotata controllata e la destinazione del ricavato alla controllante, operazione che appariva del tutto estranea a qualsiasi corretto criterio di gestione infragruppo, visto che la conseguenza immediata era una depatrimonializzazione della controllata. Quanto al requisito della concretezza delle condotte di autoriciclaggio, la Cassazione sottolinea come, a meno di volere considerare di fatto impossibile l’incriminazione per il nuovo reato, non può che essere utilizzato un criterio ex ante e ritenersi che, nel momento in cui in qualunque contesto di indagine, sia identificata un’operazione finanziaria o imprenditoriale sospetta, si abbia l’"emersione" dell’attività di occultamento senza tuttavia che questo possa escludere a posteriori il requisito della concretezza". Nel dettaglio, la sentenza ricorda che, anche attraverso fonti dichiarative, è stato messo in evidenza come gli intrecci societari disposti dall’indagato hanno disperso in parecchi rivoli il contestato reimpiego delle somme che provengono dalla vendita delle azioni e che la stessa frammentazione era idonea a ostacolare le indagini. Quanto poi alla struttura del reato, la Corte da una parte puntualizza che l’autoriciclaggio pur essendo a consumazione istantanea è a forma libera e può anche configurarsi come reato eventualmente permanente. In questa prospettiva possono essere tradotte al nuovo articolo del Codice penale quanto affermato dalla Cassazione in precedente pronunce, dove si metteva in evidenza come qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti e dunque anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto bancario ad un altro diversamente intestato e acceso preso un diverso istituto di credito, assume autonoma rilevanza penale non potendo essere considerato come "post factum" non punibile". Percosse a scuola: maltrattamenti e non abuso dei mezzi di correzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 7 settembre 2017 n. 40959. "L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti". Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 40959/2017, nel dichiarare inammissibile il ricorso contro la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio per un anno (decisa dal Tribunale del riesame di Reggio Calabria, in sostituzione degli arresti domiciliari) nei riguardi di una insegnate di scuola materna "gravemente indiziata", in concorso con una collega, del delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni dei propri alunni. L’indagata si era difesa sostenendo, tra l’altro, che le "lievi percosse e le tirate di capelli, ancorché non commendevoli" erano "prive di rilievo penale, essendo obiettivamente inidonee ad esprimere reale violenza fisica o psicologica". La Suprema corte, richiamando la decisione del riesame, ricorda però che le immagini delle telecamere avevano rivelato "condotte che travalicano sia i comportamenti di rinforzo educativo e sia l’abuso dei mezzi di correzione, trasmodando nell’atteggiamento di violenza fisica e psicologica che concretizza il reato di maltrattamenti". Per cui, prosegue la decisione, la qualificazione adottata dall’ordinanza impugnata "è pienamente conforme alla giurisprudenza di legittimità" che, del resto, da oltre venti anni, ha stabilito che "con riguardo ai bambini il termine "correzione" va assunto come sinonimo di educazione". Non può dunque ritenersi tale "l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi". E ciò "sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice". Ne consegue, conclude sul punto la Cassazione, che "l’eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 c.p. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso". Riguardo poi alla contestazione relativa al cumulo della misura interdittiva con la sospensione dal servizio che avrebbe già di per sé eliso ogni pericolo di recidiva, la Suprema corte afferma che la sospensione amministrativa non è "elemento idoneo a far ritenere scemate o insussistenti le esigenze cautelari ed, in specie, il pericolo di reiterazione della condotta criminosa, in quanto "costituisce un provvedimento autonomo, che può avere diversa e minore durata e con effetti diversi sul piano lavorativo". Essa infatti "ha efficacia meramente interinale e, operando rebus sic stantibus, potrebbe essere revocata o, comunque, annullata pur in pendenza del procedimento penale". Per cui "in ragione della pericolosità sociale" dell’indagata, "correttamente" il Tribunale del riesame ha ritenuto "comunque sussistente il pericolo concreto ed attuale di recidiva". Trento: 42enne suicida in carcere, si continua a morire dietro le sbarre di Errico Novi Il Dubbio, 8 settembre 2017 Ancora un altro suicidio in carcere. Il 41esimo dall’inizio dell’anno in Italia. Questa volta è accaduto mercoledì verso le 14 nella Casa circondariale "Spini di Gardolo" di Trento. L’uomo aveva 42 anni, condannato per duplice omicidio, si è ucciso all’interno della sua cella. A darne la notizia è stato il sindacato Osapp. "Siamo a quota 41 dall’inizio dell’anno - denuncia il capo del sindacato Leo Beneduci, questo è un dato tutt’altro che ordinario e normale nonostante le rassicurazioni del guardasigilli Orlando". Interviene anche il segretario generale del sindacato Uil Pa Leonardo Angiulli: "Non vogliamo creare allarmismi o strumentalizzare quest’ultimi episodi - aggiunge Angiulli - ma è evidente che la frequenza con cui si registrano eventi critici impone di suggerire ai vertici dell’amministrazione un cambio di rotta e soluzioni immediate a tutela degli operatori". I sindacati, in sostanza, rivendicano il diritto all’aumento dell’organico di polizia che risulta, a detta loro, carente per sostenere un controllo capillare della popolazione detenuta. Un problema, quello relativo al numero effettivo degli agenti che operano all’interno dei penitenziari, ancora controverso. Sulla carta, stando agli ultimi dati messi a disposizione dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, risulta che abbiamo un poliziotto ogni 1,67 detenuti. Messa così sembrerebbe dire che ogni detenuto abbia un agente penitenziario a disposizione. In realtà, il rapporto stesso di Antigone denuncia che ciò è sulla carta, mentre la realtà è diversa anche perché diverse unità sono distaccate verso altre sedi che non sono il carcere. Il problema che emerge, in realtà, non è solo la mancanza di organico della polizia penitenziaria - figura comunque indispensabile, ma anche il mancato investimento sulle figure professionali come educatori e psicologi. È sempre il rapporto di Antigone a sviscerare il problema spiegando che la carenza d’organico non è una condizione che colpisce esclusivamente la polizia penitenziaria. Tra gli educatori il divario fra organico previsto e organico in forza è molto più accentuato rispetto a quello degli agenti e si attesta intorno ad un valore medio di - 35,03%, toccando in alcuni provveditorati dei livelli particolarmente drammatici (Toscana e Umbria: - 45,59%; Lombardia: - 44,97%; Emilia Romagna e Marche: 40,71%). Nel 2016 meno del 3% del bilancio dell’Amministrazione Penitenziaria (che ancora era il Dipartimento competente per questa voce di spesa) è andato alle misure alternative. Il resto alla galera, ovvero al personale di polizia penitenziaria. In sostanza scarseggia la presenza di personale che opera nell’area trattamentale, depotenziando così l’attivazione di percorsi di reinserimento sociale per i detenuti. A tutto ciò potrebbe esserci un rimedio. Ovvero la rapida votazione dei decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario che punta soprattutto al recupero dei detenuti. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, incalzato recentemente da Rita Bernardini durante trasmissione di Radio Radicale "Quota 3001", ha promesso che si farà entro il 31 dicembre. Trento: suicidio in carcere. Mattia Civico: "una sconfitta della comunità" ildolomiti.it, 8 settembre 2017 "Non può essere solo un discorso legato alla carenza di personale". Il Consigliere provinciale del Pd interviene all’indomani del suicidio del 42enne nella Casa circondariale a Spini di Gardolo: "I suicidi si evitano con più umanità e dignità". "Un suicidio è sempre una sconfitta, così come ogni persona che si toglie la vita. Una sconfitta personale, ma anche della comunità. Non siamo riusciti ad evitarlo e non siamo stati capaci di dare evidentemente una prospettiva, a ricostruire un senso", questo il commento di Mattia Civico, consigliere provinciale del Pd, all’indomani del suicidio del 42enne marocchino a Spini di Gardolo. L’uomo, in carcere per il duplice omicidio di moglie e figlia, si è suicidato intorno alle 14 nella propria cella e i soccorsi non sono serviti a nulla. Un fatto che riaccende la discussione da un lato sul sovraffollamento della struttura a Trento Nord e dall’altro sulla carenza di personale nel Casa circondariale. "Siamo a quota 41 dall’inizio dell’anno. Questo - aveva detto il sindacato Osapp - è un dato tutt’altro che ordinario e normale, nonostante le rassicurazioni del guardasigilli Orlando. Non vogliamo strumentalizzare questo evento, ma non è difficile individuare in una carenza di organico di quasi il 40% le cause di una morte, che benché di natura volontaria, avrebbe potuto a nostro avviso essere evitata". Non tutto può però essere ricondotto alla carenza di personale, evidente e spesso denunciata dai sindacati della polizia penitenziaria. "I suicidi in carcere non si contrastano solo con maggiore personale. È troppo semplice come risposta. Si evitano i suicidi - conclude Civico - con più umanità e più dignità. Il sotto organico è un problema, ma non la causa della disperazione che evidentemente c’è. Dobbiamo riflettere profondamente sulla capacità delle nostre istituzioni di favorire un cambiamento in chi è ristretto: il carcere è una nostra istituzione e la popolazione carceraria (detenuti e detenenti) sono una parte della nostra comunità. I detenuti sono persone a cui va data una prospettiva alternativa e il cui corpo è custodito dallo Stato. Assumersi delle responsabilità in questo caso vuol dire stare ancora più accanto. Oltre la custodia, oltre i muri. Per essere più forti della disperazione e del vuoto di senso". Un concetto che era stato ribadito anche da Ornella Favero (direttrice della rivista Ristretti Orizzonti del carcere Due Palazzi di Padova e presidentessa della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia), dopo il suicidio di Luca Soricelli alla fine dell’anno scorso: "Più che guardie carcerarie, servono educatori e psicologi". Parma: "l’area di media sicurezza è al collasso", la denuncia dei penalisti e del Garante Il Dubbio, 8 settembre 2017 La Camera penale di Parma punta i riflettori sulla situazione critica che riveste il carcere di via Burla. "La notizia della sommossa dei detenuti denunciata dalla Polizia Penitenziaria all’interno della sezione di media sicurezza del carcere di Parma nella giornata di domenica 27 agosto - scrive il direttivo dalla Camera penale, impone una rinnovata attenzione e riflessione sulle drammatiche condizioni di vita nel locale Istituto di pena, già denunciate nella relazione della visita dei delegati dell’osservatorio carcere dell’Ucpi unitamente ai delegati dei penalisti parmensi e al Garante per i detenuti del Comune di Parma". La Camera penale parmense denuncia che la situazione "risultava essersi aggravata già nel mese di luglio, quando si era verificato un nuovo suicidio nella struttura penitenziaria di Parma all’interno dell’area media sicurezza, della quale erano state già denunciate le condizioni di potenziale ed elevato rischio, stante il sovraffollamento, la carenza di personale e di figure di supporto quali gli educatori, nonché la preoccupante condizione di disagio nella popolazione detenuta, esasperata nei mesi estivi anche dalla naturale riduzione di personale per la fruizione delle ferie". I penalisti si riferiscono al suicidio di Samuele Turco, accusato del duplice omicidio della compagna Gabriela Altamirano e di Luca Manici, ed è stato il secondo nello stesso carcere nel giro di tre mesi. Lo aveva fatto presente il garante delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale del Comune di Parma Roberto Cavalieri, esprimendo in una nota una serie di "perplessità sulla gestione dei detenuti comuni". Tra i punti "maggiormente bisognosi di attenzione" il garante aveva segnalato il numero di detenuti che nel reparto della media sicurezza, "teatro dei due suicidi dell’anno", è cresciuto "senza sosta sino ad arrivare a 300 unità e, come già denunciato, il fenomeno ha costretto la collocazione dei detenuti anche nel reparto di isolamento senza che questi siano sottoposti ad alcun provvedimento disciplinare o di altra natura". Inoltre, sempre la Camera penale di Parma, condivide la preoccupazione manifestata dal Garante Cavalieri anche in vista della prossima apertura del nuovo reparto detentivo, in fase di ultimazione, del quale ad oggi non si conosce l’effettiva destinazione e, per concludere, auspica che l’operato delle Commissioni ministeriali volte alla attuazione dei decreti delegati alla riforma dell’ordinamento penitenziario possa individuare strumenti utili al contrasto delle attuali situazioni di emergenza. Locri (Rc): i Radicali in visita alla Casa circondariale lentelocale.it, 8 settembre 2017 Nella giornata di ieri una Delegazione del Movimento Radicali Italiani composta da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha fatto visita alla Casa Circondariale di Locri. Ad accogliere i due esponenti radicali calabresi il Direttore dell’Istituto Patrizia Delfino, il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Capo Caterina Pacileo, il Vice Comandante di Reparto, Vice Ispettore Filippo Triffiletti ed uno dei tre Funzionari Giuridico Pedagogici in servizio nell’Istituto Alberto Rossi. Nell’Istituto di Locri, edificato nel 1862 e più volte ristrutturato ed adeguato ai dettami del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria del 2000, al momento della visita erano presenti 91 detenuti, 13 dei quali stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 89 posti. Quasi la totalità dei detenuti presenti appartiene al Circuito della Media Sicurezza (89) mentre solo 2 a quello dell’Alta Sicurezza (As3), temporaneamente assegnati all’Istituto della locride per motivi di Giustizia. Tra le 91 persone ristrette vi sono 24 giudicabili, 10 appellanti, 4 ricorrenti e 51 definitivi. Per quanto concerne le ulteriori caratteristiche della popolazione reclusa 3 sono i tossicodipendenti, 1 dei 1 quali in terapia metadonica e 5 con problematiche psichiatriche. 30 detenuti lavorano all’interno dell’Istituto alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Nella Casa Circondariale di Locri, infine, è presente una Sezione Semilibertà ove sono presenti 6 detenuti che usufruiscono anche di licenza premio. La Delegazione visitante, che ha ispezionato ogni ambiente dell’Istituto, non ha rilevato alcuna criticità anzi gli standard di vivibilità, così come emerso nella precedente visita effettuata lo scorso anno, sono risultati abbastanza ottimali rispetto alla situazione esistente in tanti altri Istituti Penitenziari della Calabria. Sono presenti numerose attività trattamentali e lavorative per i detenuti di Media Sicurezza, impegnati anche in attività esterne (8 detenuti) secondo quanto previsto dall’Art. 21 della Legge Penitenziaria. Il regime custodiale della Casa Circondariale di Locri è ancora quello tradizionale di tipo "chiuso" (vengono assicurate soltanto 8 ore di permanenza fuori dalle camere di pernottamento) nonostante ci siano tutte le condizioni per una "custodia aperta", c.d. "sorveglianza dinamica", in considerazione del fatto che l’Istituto è dotato di un impianto di videosorveglianza che consente un doppio controllo su tutti gli ambienti dove si svolgono le attività trattamentali. In ordine all’emergenza caldo ed alle direttive impartite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Provveditorato Regionale della Calabria per la tutela della salute e della vita delle persone detenute, la Direzione di Locri, si è attivata, tra le altre cose, implementando sia i congelatori per ogni Sezione detentiva per conservare il cibo e refrigerare le bevande consentite e sia i ventilatori nelle sale destinate alle attività trattamentali per ridurre, per quanto possibile, il disagio derivante dalla forte calura. Inoltre, sempre in applicazione delle direttive dipartimentali e provveditoriali, la Direzione dell’Istituto, ha presentato un progetto per l’acquisto di mini frigoriferi da installare all’interno di ciascuna camera di pernottamento, anche al fine di evitare il dispendio di acqua dai rubinetti utilizzata per refrigerare. Tale progettualità, che merita di essere sostenuta, allo stato, è all’attenzione del Provveditorato Regionale della Calabria di Catanzaro. Per quanto concerne il personale dell’Amministrazione Penitenziaria non vi sono problemi per i Funzionari della professionalità Giuridico Pedagogica (presenti 3 su 4 previsti) mentre è insufficiente l’organico del Reparto di Polizia Penitenziaria (presenti 67 su 83 previsti di cui 11 addetti al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti). Tra il personale di Polizia Penitenziaria, sono diversi quelli che hanno abbondantemente superato i 35 anni di servizio effettivo e che sono prossimi alla quiescenza. Quello di Locri è senza dubbio uno degli Istituti migliori che abbiamo in Calabria, dicono i radicali Quintieri e Moretti. Chiederemo ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria che vengano implementate le ore di permanenza fuori dalle camere per lo svolgimento di attività trattamentali e lavorative in modo tale che venga applicata la "custodia aperta" ed infine che venga subito approvato e finanziato il progetto presentato dalla Direzione dell’Istituto col quale si propone l’acquisto dei mini frigo per le camere dei detenuti. Milano: a San Vittore detenuti in sciopero contro il sovraffollamento La Repubblica, 8 settembre 2017 La protesta dei carcerati del reparto "La nave": non partecipano alle attività ricreative che fanno parte del percorso di recupero. I detenuti del reparto "La nave" di San Vittore a Milano, con problemi di dipendenze da alcol o droga, hanno messo in atto una forma di sciopero particolare per protestare contro il sovraffollamento del carcere: l’astensione dalle attività che fanno parte del loro trattamento come le lezioni di teatro, di legalità o di storia dell’arte, la partecipazione al coro e ai gruppi di autoaiuto. Da qualche mese nella casa circondariale la situazione è ritornata a essere insostenibile. Da quanto è stato riferito, a nulla è servito scrivere al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per rendere accettabili le condizioni all’interno dei Raggi che hanno visto anche undici carcerati (tre in più rispetto allo standard), rinchiusi un una cella da 35 metri quadrati. Attualmente a San Vittore ci sono 1.036 detenuti a fronte di una capienza (considerati due reparti e mezzo chiusi) di circa 600 persone. In tutta la Lombardia la situazione ha ripreso a destare allarme tra gli operatori: i posti disponibili sono 6.246 e al 31 agosto i detenuti hanno raggiunto quota 8.300. Lo stesso vale per le altre regioni italiane dove, è stato spiegato, non ci sono più posti eccetto che in Sardegna, dove però, da quando è stata istituita la "regionalizzazione della pena" è difficile trasferire i detenuti. In tutta Italia alla fine dello scorso giugno, a fronte di 50.200 posti disponibili, i carcerati erano quasi 57 mila. Milano: detenuto al 41bis ricoverato in rianimazione Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2017 Il difensore: "Consentitegli di morire nel suo letto". Antonino Santapaola è il fratello del capomafia ergastolano Nitto. Detenuto in regime di 41bis nel carcere di Opera, è stato trasferito da alcuni giorni nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano. Il suo avvocato, che da anni presenta istanze di scarcerazione per la sua schizofrenia, chiede "un provvedimento che sia conforme alla legge, alla giustizia e alla umana pietà". È ricoverato in rianimazione all’ospedale San Paolo di Milano e, secondo il suo avvocato, avrebbe il diritto d’essere scarcerato e trasferito a Catania, per morire nel proprio letto. Antonino Santapaola, fratello del capomafia ergastolano Nitto, era detenuto in regime di 41bis nel carcere di Opera, ma da giorni si trova nell’Unità operativa complessa di Anestesia e rianimazione della struttura ospedaliera milanese. In "reale e assoluto pericolo di vita", dice il suo legale Giuseppe Lipera. L’avvocato spiega che questo "conferma tristemente e amaramente quanto fossero fondate le svariate istanze di libertà presentate invano dalla difesa, specialmente negli ultimi periodi, e che sono rimaste inevase e disattese". E quanto accaduto nelle ultime ore non è che il "tragico epilogo" della vita di Santapaola, "detenuto da 17 anni per reati commessi 40 anni fa". Per questo il legale chiede al magistrato di sorveglianza di Milano l’emissione di "un provvedimento che sia conforme alla legge, alla giustizia e alla umana pietà" disponendone "l’immediata scarcerazione" o il "trasferimento a Catania nella casa della moglie, consentendogli di morire nel suo letto". Sono almeno 7 anni che Lipera, sostenuto da diverse perizie, afferma che Antonino Santapaola sarebbe affetto da "sindrome schizofrenica paranoide cronica in fase difettuale", chiedendone il ricovero in una struttura ad hoc per "attenuare il degenerare della patologia" o in alternativa la scarcerazione o gli arresti domiciliari nell’abitazione della sua consorte "pronta ad accudirlo", spiegava Lipera nel 2010 quando Santapaola era ricoverato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. "Più perizie disposte da collegi giudicanti - ricordava il penalista in un’istanza - hanno stabilito le gravi condizioni di salute di Antonino Santapaola e la sua incapacità di partecipare consapevolmente alle udienze dei processi a suo carico". Per questo motivo, lo scorso aprile, la corte di Appello di Catania aveva sospeso un procedimento per incapacità di stare in giudizio, come confermato dal consulente tecnico d’ufficio, lo psichiatra Antonio Petralia. Negli scorsi mesi era stato l’avvocato di Totò Riina, detenuto al 41bis nel reparto riservato ai carcerati dell’ospedale di Parma, a chiedere la scarcerazione del boss dei boss. Per due volte il tribunale di Sorveglianza di Bologna ha però rigettato la richiesta di differimento della pena o di detenzione domiciliare per ragioni di salute. I giudici motivarono il secondo "no" spiegando che la sua pericolosità sociale è ancora attuale, come si evince da alcuni colloqui avuti in carcere con la moglie Ninetta Bagarella. Treviso: "chiude" il carcere minorile, preoccupazione per 40 lavoratori trevisotoday.it, 8 settembre 2017 Preoccupazione e sconcerto tra i lavoratori della struttura penitenziaria relativa alla decisione, ormai in fase avanzata, di spostare la struttura nell’ex Casa circondariale di Rovigo. Preoccupazione e sconcerto tra i lavoratori del carcere minorile trevigiano, che solo dagli organi di stampa hanno appreso della decisione, ormai in fase avanzata, di spostare la struttura nell’ex casa circondariale di Rovigo. Il Ministero delle Infrastrutture, infatti, ha già stanziato cinque milioni di euro per l’adeguamento degli spazi di Via Verdi e l’iter per l’assegnazione è stato ufficialmente avviato dal Dipartimento competente. "L’anomalia del carcere minorile trevigiano, l’unico in Italia a essere ancora inserito in una struttura penitenziaria per adulti, non giustifica di certo questa totale mancanza d’informazione da parte del Dipartimento di Giustizia Minorile - tuona Ivan Bernini, segretario generale Fp-Cgil Treviso, visto che né i lavoratori, né tanto meno le loro rappresentanze sindacali hanno ad oggi ricevuto alcuna comunicazione sul trasferimento a Rovigo. Un atteggiamento inaccettabile, che ci ha spinto a chiedere con urgenza un tavolo di confronto con l’Amministrazione Centrale. Gli interrogativi sul destino di questi lavoratori vanno affrontati da subito - prosegue Bernini - e le scelte sui percorsi di mobilità che li vedranno inevitabilmente coinvolti vanno condivise. Chi prende le decisioni non può far finta di niente". Gli oltre quaranta lavoratori presenti all’interno del Carcere Minorile di Santa Bona, assieme a tutte le figure che a vario titolo prestano la loro opera nell’Istituto - insegnanti, animatori, volontari - attendono dunque preoccupati gli sviluppi della vicenda. Per questo, il sindacato, in assenza di risposte in tempi rapidi, valuterà unitamente al personale civile e di polizia le iniziative più adeguate a tutela della loro futura condizione lavorativa. Novara: i detenuti rimettono a nuovo i parchi cittadini novaratoday.it, 8 settembre 2017 L’ultimo intervento riguarda il parco di Coblenza, a Sant’Agabio. "Dopo la pausa estiva, sono ripresi a pieno regime nella giornata martedì gli interventi straordinari di manutenzione dei parchi effettuati dai detenuti del carcere di via Sforzesca, sotto il coordinamento di Assa, nell’ambito delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale. Gli otto detenuti usciti in permesso premio hanno svolto la loro attività volontaria riqualificando il parco di Coblenza a Sant’Agabio, tra via Poletti, via Pianca e via Casorati. Nell’opera sono stati coadiuvati logisticamente dai quattro detenuti occupati in Assa come cantieristi sulla base della Legge regionale n. 34/2008. Con l’intervento di martedì si è provveduto allo smantellamento delle attrezzature ludiche obsolete presenti nell’area e alla manutenzione di quelle funzionanti. Sono state trattate e dove necessario sostituite le tavolette delle altalene e dei cestini. È stata inoltre tolta la parte di staccionata troppo deteriorata, sono stati puliti i vialetti, ripristinati gli avvallamenti e chiuse svariate buche degli autobloccanti e dei camminamenti. Sono state infine ripristinate le griglie in metallo asportate e cementati i pozzetti. I lavori di manutenzione proseguiranno nei prossimi giorni con il completamento delle sedute dei giochi a molla e le necessarie finiture di sistemazione del parco. Se ne occuperà sempre Assa, impiegando i cantieristi disoccupati del Comune. Avezzano (Aq): alternanza scuola-lavoro tra il Liceo "B. Croce" e la Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 8 settembre 2017 A seguito della Convezione stipulata tra i suddetti Enti, noi studentesse Giulia ed Erica abbiamo avuto la possibilità di svolgere il tirocinio formativo presso la Casa Circondariale a Custodia Attenuata di Avezzano. Tale esperienza si è svolta nell’Area della Professionalità Giuridico-Pedagogica. Siamo state accolte dal Direttore, dal tutor e gli Educatori con tanta cortesia sentendoci subito a nostro agio. Abbiamo approfondito vari aspetti del mondo del lavoro tra i quali norme e regolamenti nonché aspetti umani e professionali di relazione tra gli operatori, fondamentali per il buon andamento dei compiti assegnati. Abbiamo compreso che la considerazione delle persone, le esperienze e le conoscenze del campo sono elementi fondamentali che ciascuno di noi deve possedere per affrontare al meglio tutte le situazioni di vita e del mondo del lavoro. Ringraziamo la Direzione e lo Staff degli Educatori che ci hanno concesso di svolgere tale esperienza per noi fondamentale e che rimarrà sicuramente nei nostri cuori. Giulia ed Erica, Studentesse IVF del Liceo Statale "B. Croce" Lucera (Fg): formazione volontari in ambito penitenziario lucera.it, 8 settembre 2017 L’Associazione "Lavori in corso" da 10 anni è impegnata in ambito penitenziario a favore di detenuti, ex ristretti e loro familiari, con attenzione particolare ai figli minori. La Onlus, grazie al supporto del Garante regionale dei diritti delle persone limitate nella libertà personale, realizzerà un Corso di formazione specifico per quanti vogliono collaborare alle sue attività. Il corso, tenuto da esperti del settore, insegnerà come promuovere il cambiamento dentro e fuori il carcere, dando particolare attenzione alla genitorialità e all’accoglienza dei figli minori dei detenuti. Per tale specifica esigenza ci si avvarrà di "Bambini senza sbarre" di Milano, punto di riferimento a livello europeo in materia, con due giornate formative che coinvolgeranno pure agli agenti e l’area trattamentale della Casa Circondariale di Lucera. Il percorso si concluderà il 6 dicembre con un importantissimo evento: il primo incontro regionale tra tutte le realtà che lavorano in ambito penitenziario. Le iscrizioni saranno aperte fino al 20 settembre 2017. È possibile candidarsi inviando una mail con i propri dati anagrafici e contatti ad info@lavori-incorso.it; telefonando o inviando un messaggio al 329.6772523 oppure inviando un messaggio alla pagina FB @lavorincorsoonlus, dove è pubblicato il programma completo del corso. Ascoli: un concerto per i detenuti, tenuto da Antonio Sorgentone Ristretti Orizzonti, 8 settembre 2017 Promozione sociale, emozione e musica per oltre 40 detenuti della Casa circondariale "Marino del Tronto" di Ascoli Piceno. Un concerto tenutosi ieri pomeriggio nell’istituto penitenziario grazie all’attenta e scrupolosa volontà della Direttrice, Lucia Di Feliciantonio, di concerto con i promotori del Laboratorio di Scrittura Espressiva, Piera Ruffini e Stefano Cristofori. Ad offrire un’esibizione originale, trascinante e suggestiva Antonio Sorgentone, l’artista rosetano che vanta oltre 600 concerti in Europa ed una tecnica impressionante da ipotizzare che non suoni solo il piano con le mani ma con la testa ed il cuore, salutato dalla speciale platea con un’ovazione da brivido. La band, composta da Elvis Di Natale (batteria), Tommaso Pantalone (basso) e dal poliedrico pianista e cantante abruzzese, Antonio Sorgentone, ha rapito e catturato l’attenzione dei presenti in un fluido comunicativo in grado di far sentire tutti parte di qualcosa. Celebri brani in scaletta hanno ripercorso le radici del rock & roll, lo swing ed il rithm and blues passando per i mostri sacri di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, ma anche Fred Buscaglione, Renato Carosone, Nada, Domenico Modugno, il tutto arrangiato in chiave scrupolosamente anni 50. Con la selezionatissima scelta dei pezzi e le storie raccontate, i carismatici musicisti hanno fatto riemergere ferite cicatrizzate ma non dimenticate. Un concerto realizzato dal trio completamente a titolo gratuito, elemento questo che ha impreziosito ulteriormente la natura dell’iniziativa, nata per offrire la riflessione su come si possa essere capaci di empatia e di umanità, di offrire la bellezza, di oltrepassare le barriere. Torino: 3 giorni di incontri e spettacoli, così LiberAzioni avvicina il quartiere ai detenuti di Martina Pagani La Stampa, 8 settembre 2017 Presentato al Lorusso e Cotugno il festival delle arti dentro e fuori dal carcere. Prendi l’arte e non metterla da parte, ma portala in prigione. È questo l’obiettivo di LiberAzioni, festival delle arti dentro e fuori dal carcere che si è inaugurato stamattina, giovedì, alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno alle Vallette. Il festival torinese, primo nel suo genere in Italia e alla sua prima edizione, arricchirà la città e il quartiere, fino al 9 settembre tra il carcere e le Officine Caos - Casa di Quartiere Vallette. L’inaugurazione di oggi, anche grazie alle parole della sindaca Chiara Appendino e della videolettera di Moni Ovadia, ha tracciato la strada maestra del festival: rendere il carcere un organo del quartiere, riavvicinarlo alle Vallette, unire il carcere al territorio. "È un momento importante per Torino, non sono solo tre giorni ma è un percorso che inizia oggi per costruire qualcosa insieme", così la prima cittadina. "Spero che LiberAzioni permetta a noi di dentro e a voi di fuori di incontrarci in modo normale ma in un contesto anormale", riassume Raffaele, un detenuto. Un incontro che si traduce anche nel pratico: si prendano come esempio le Asl, che dovrebbero occuparsi anche della salute dei detenuti presenti nel loro territorio. Cosa che invece fanno poco, stando almeno a quanto dice uno degli interventi più applauditi, quello di una detenuta. Anche le parole di Moni Ovadia hanno spinto all’inclusione: "Il carcere non è un luogo in cui chiudere un problema, ma è fatto di esseri umani", dice nella video-lettera portando come esempio "L’uomo di Alcatraz", film del 1962 diretto da John Frankenheimer. Una delle più importanti iniziative dell’evento è il concorso aperto a detenuti e ragazzi liberi sotto ai 35 anni, che hanno potuto competere con una fotografia, un cortometraggio o un racconto. I vincitori sono decretati da giurie composte di interni ed esterni al carcere, detenuti e professionisti. Alla presenza di realtà del settore, giornalisti e detenuti è stato presentato il documentario "Da Le Vallette", un racconto del quartiere attraverso le voci delle sue associazioni, e sono stati letti alcuni dei racconti in concorso di cui si è occupato Stalker Teatro. A concludere la mattinata è stato Claudio Sarzotti, presidente di Antigone Piemonte, che ha presentato (per la prima volta in carcere) il Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione. Non sono dati positivi quelli illustrati e leggibili online, tra aumenti delle incarcerazioni, assenza di lavoro, cattive condizioni sanitarie e poco personale. O meglio, poco diversificato: il 90% delle figure professionali in carcere è rappresentato da agenti della polizia penitenziaria, che si reinventano come idraulici, imbianchini, tecnici informatici ed educatori. Ma proprio a margine dell’intervento di oggi della sindaca Appendino, in una nota di Leo Beneduci, segretario generale di Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), si dice "dispiaciuto che anche il nuovo governo della città di Torino abbia come unico interesse rispetto al carcere i detenuti" e non gli uomini e le donne della Polizia penitenziaria che ancora attendono la navetta dalla fermata della metropolitana di Corso Marche al Carcere. Galeotto fu lo scrittore... e vuol salvare le carceri di Raffaele Oriani Venerdì di Repubblica, 8 settembre 2017 II fallimento del sistema carcerario secondo Pino Roveredo, scrittore e Garante dei detenuti che dentro ci è stato davvero: "è una scatola per nascondere i disgraziati". Nella testa dello scrittore triestino Pino Roveredo frullano da sempre due frasi: suo padre che al primo colloquio in carcere lo supplica di "diventare una brava persona", un’assistente sociale che a diciassette anni gli dice a muso duro "tu sei irrecuperabile". Ora Roveredo di anni ne ha più di sessanta, ha pubblicato una dozzina di libri, vinto un Premio Campiello: suo padre sarebbe contento, l’assistente sociale cambierebbe mestiere. Se poi lo vedessero mentre torna in carcere da Garante per le persone private della libertà personale del Friuli-Venezia Giulia: "Con orgoglio posso dire di essere l’unico ex detenuto con questa funzione non solo in Italia ma in tutta Europa". La storia è nota, ma per chi non la conoscesse: Roveredo nasce nel 1954 da genitori sordomuti, frequenta il collegio dei poveri di Trieste, finisce per tre volte in carcere, conosce il manicomio, soffre di alcolismo per quasi vent’anni. Poi la rinascita, i romanzi, i corsi di scrittura coni ragazzi tossicodipendenti e il ritorno in carcere. Prima da animatore culturale, dal 2014 anche da garante dei detenuti. All’universo penitenziario visto con e senza numero di matricola, Roveredo dedica ora "Ferro batte ferro" (Bottega Errante Edizioni), che sarà presentato il 15 settembre a Pordenonelegge. Cos’è il carcere oggi in Italia? "Una scatola per nascondere i disgraziati. Basta un dato a capire lo stato fallimentare del nostro sistema penitenziario: oltre il 70 per cento dei detenuti una volta libero torna a delinquere". Com’è cambiato da quando lo frequentava da recluso? "Ci sono entrato e uscito ormai quarant’anni fa: allora le porte delle celle erano sempre aperte, andavi a farti una pastasciutta alla 18, un caffè alla 20. Ora le celle sono chiuse e la socialità carceraria si è impoverita moltissimo". Perché quest’evoluzione? "Da una parte sono diminuite le guardie carcerarie: se non puoi sorvegliare, devi usare i catenacci. Dall’altra la legge Gozzini ha introdotto i premi legati alla buona condotta, col risultato involontario che la maggioranza dei detenuti si fa i fatti propri, e qualcuno anche i fatti degli altri come delatore". Com’è tornare in carcere da libero cittadino? "Sempre un trauma. Dopo la prima lezione del mio primo corso di scrittura a Trieste, una guardia mi fermò chiedendomi dove volessi andare. Gli dissi a casa. E lui: "sì, e magari ti chiamo anche un taxi!". Mi aveva scambiato per un detenuto: avevo jeans e maglietta, da allora preferisco presentarmi in giacca e cravatta". Cosa manca al carcere per essere un’istituzione decente? "Risorse, progetti, l’interesse della politica. Negli anni gli unici a sollevare il problema sono stati i radicali, prima con Marco Pannella, ora con Rita Bernardini. Ma ogni detenuto costa alla collettività 150 euro al giorno: sarebbe interesse di tutti diminuirne il numero". Cosa si dovrebbe fare? "Moltiplicare i progetti di inserimento lavorativo: il nemico del detenuto è il tempo che non passa. Si legge tanto in carcere, e non si segna mai l’ultima pagina letta perché anche ritrovarla aiuta a far scorrere qualche secondo verso il fine pena. Ma i libri non bastano". Il lavoro, quindi. "Sì, ma un lavoro utile, che serva una volta tornati in libertà. A Pordenone dodici ragazzi hanno frequentato un corso da pizzaiolo, oggi sono fuori e lavorano. A Padova la cooperativa di pasticceri Giotto ha fatto crollare il tasso di recidiva al 3 per cento". Il carcere resta un luogo violento? "Molto meno di prima. Io ci sono entrato per la prima volta nel 1972 e ricordo l’accanimento straziante contro i più deboli. Ora per fortuna non è più così". Lei si è salvato scrivendo. È un modello per i carcerati che incontra? "Mi sono salvato salvando, aiutando matti, alcolisti, tossici. Continuo a farlo anche con i detenuti, e non è sempre semplice: ho voluto parlare di violenza con i condannati per violenza sessuale di Pordenone. Prima mi hanno deriso, perfino aggredito, ma poi hanno tirato fuori le pietre dell’animo". Frequenta anche ergastolani? "Quello di Tolmezzo (Udine) è un carcere di massima sicurezza. Ci sono molti condannati con l’ergastolo ostativo che preclude ogni pena alternativa alla detenzione. Ma dei margini ci sono sempre: abbiamo creato un giornale, messo in scena uno spettacolo cui hanno assistito mogli e bambini. Molti ergastolani si fanno un punto d’onore di mantenere una posa dignitosa agli occhi dei famigliari". Concretamente cosa comporta il suo ruolo di garante? "Raccolgo le richieste dei detenuti, assicuro attenzione a casi che altrimenti finirebbero nel dimenticatoio. A Tolmezzo c’è un ergastolano con un figlio detenuto a mille chilometri di distanza: vorrebbero scontare la pena insieme, stiamo provando a riunirli. Un ragazzo triestino con problemi di schizofrenia è finito in carcere all’estero: grazie alla collaborazione coni centri di igiene mentale siamo riusciti a riportarlo a Trieste". Come si vince il disinteresse che avvolge il carcere? "Il problema del carcere è che sembra riguardare sempre e solo gli altri". Non è così? "Quanti politici se ne sono accorti solo da detenuti! È come per la droga: anni fa volevamo portare un camper del Sert in un rione popolare di Trieste. Un consigliere circoscrizionale inveì dicendo che i tossici andavano bruciati nell’ex forno crematorio di San Sabba. Ho ancora i brividi a dirlo, ma pochi mesi dopo mi chiamava chiedendo aiuto per il figlio che si drogava". I rapporti Italia - Libia nel nuovo film di Andrea Segre di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 settembre 2017 Dopo l’anteprima alla Mostra internazionale del cinema di Venezia del 31 agosto e la proiezione di ieri al Senato, esce oggi in Italia "L’ordine delle cose", terza opera di fiction di Andrea Segre, prodotto da Jole Film con Rai Cinema, distribuito da Parthenos, sostenuto da Banca Etica e patrocinato da Amnesty International Italia, Medici per i diritti umani e Naga Onlus. "Fiction" solo perché non si tratta di un documentario. Perché per il resto è tutta "fact". I fatti sono i rapporti tra Italia e Libia, che un super-funzionario del ministero dell’Interno è inviato a creare e cementare per impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo dalle coste del paese nord-africano: nelle sue parole, "chiudere il rubinetto che regola il flusso". Del resto, "siamo il paese che salva le vite umane. Ma non possiamo continuare a far entrare tutti". In un paese dove non c’è traccia di uno stato unitario e il territorio è controllato da soggetti tanto statali quanto non statali, l’uomo del Viminale deve scendere a patti con tutti, dal comandante della guardia costiera al capo delle milizie che gestiscono i centri di detenzione. Persone cui non interessa lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, bensì valutare cinicamente da quali attività e da quali partner si tragga maggiore vantaggio economico. Quello di Segre è un film visionario e anticipatorio: abbozzato cinque anni fa, iniziato a girare tre anni fa, per quanto è di attualità sembra un instant-movie fatto in tutta fretta all’ultimo minuto. Tutto il contrario. La ricostruzione delle condizioni all’interno dei centri di detenzione, basata su numerose testimonianze di chi ci è stato a lungo dentro, è tremenda: luoghi di violenza feroce, di sopraffazione, di umanità e dignità strappate come carne viva. I parlamenti sono l’argine per l’inclusione sociale di Chiara Saraceno La Repubblica, 8 settembre 2017 Il "Ruolo dei Parlamenti nel combattere le disuguaglianze e nel costruire società inclusive" è uno dei tre temi che verranno affrontati al G7 dei Parlamenti che si incontrerà oggi e domani tra Roma e Napoli. Gli altri due sono i rapporti con i cittadini e l’ambiente. Pur senza sopravvalutare la portata di incontri che hanno, nel migliore dei casi, una valenza più simbolica che altro, è interessante che i rappresentanti dei parlamenti dei paesi più sviluppati, inclusa l’Italia che li ospita, si pongano un tema che fino a non molto tempo fa era considerato fuori moda, oltre che troppo connotato come "di sinistra". Rimesso con forza all’attenzione anche dagli ultimi rapporti Ocse, soprattutto a seguito degli effetti asimmetrici della crisi, esso è entrato nel dibattito e nell’agenda politica. Le disuguaglianze di reddito, infatti, sono aumentate in quasi tutti i paesi e ancor più quelle nella ricchezza, con l’Italia che si trova nel gruppo dei paesi con maggiore disuguaglianza, benché sotto gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma sopra Francia e Germania. A complicare la questione, per l’Italia, sta il fatto che il tasso di disuguaglianza è più alto nelle regioni più povere, nel Mezzogiorno, a conferma che vi è un nesso, come sottolinea anche l’Ocse, non solo tra disuguaglianza e povertà, ma anche tra disuguaglianza e difficoltà nello sviluppo. Le disuguaglianze non riguardano, per altro, solo quelle nel reddito e nella ricchezza, ma la divisione del lavoro e delle opportunità tra uomini e donne, le chances di mobilità sociale, di sviluppo e valorizzazione del proprio capitale umano e di partecipazione sociale, tra persone di diversa origine sociale. Per non parlare delle disuguaglianze tra aree geografiche del mondo che, insieme alle guerre e alle dittature, sono all’origine di gran parte dei fenomeni migratori. Se vi è consenso ormai abbastanza diffuso che le disuguaglianze possano costituire un problema per la tenuta e lo sviluppo di una società, il dissenso si sposta sulle cause e anche sul tipo di disuguaglianze che sono percepite, appunto, come problema e, di conseguenza; come oggetto di possibili policy. Gran parte del successo dei populismi si basa sulla individuazione di un particolare tipo di disuguaglianza, o di relazione tra diseguali, con una dicotomizzazione netta tra "noi" e "loro", che si tratti di autoctoni delle fasce di popolazione più marginalizzate contro gli immigrati, dei giovani contro i vecchi, dei "cittadini" contro i "politici", dei "poveri" contro "i ricchi", dei paesi mediterranei contro il nord Europa (e viceversa). Queste dicotomizzazioni aiutano a raccogliere consensi, ma non a effettuare analisi adeguate della situazione, quindi a sviluppare quelle politiche integrate e di largo raggio che sole possono contribuire a ridurre le disuguaglianze, non solo ingiuste, ma inefficienti dal punto di vista dello sviluppo e del ben-essere collettivo. Si tratta, necessariamente, di un mix di politiche redistributive, che proteggano dagli effetti della disuguaglianza, e di politiche pre-distributive, che intervengano sui vincoli alla formazione e valorizzazione del capitale umano (fin da bambini), che rimuovano gli ostacoli alla partecipazione, che intervengano a impedire la formazione di rendite monopolistiche nel mercato È qui che si definisce, a mio parere, il ruolo dei parlamenti, se si pongono il compito del contrasto alle disuguaglianze. Proprio perché sono l’arena in cui si confrontano interessi diversi, hanno, avrebbero, un’opportunità unica di costruire un discorso pubblico e una azione legislativa non polarizzate/polarizzanti, e neppure frammentate per accontentare questo o quel gruppo, ma sistematiche e inclusive. Ove il termine "inclusive" dovrebbe significare politiche, e leggi, che si coordinano nell’obiettivo di contrastare le disuguaglianze, definendo chiaramente interconnessioni, ma anche priorità e gradualità, al fine di rafforzarsi reciprocamente, ma anche di non contraddirsi e creare nuove forme di disuguaglianza - una eventualità ricorrente, ahimè, in molte politiche italiane. Questo compito di coordinamento delle politiche e di monitoraggio delle conseguenze delle proprie decisioni dovrebbe essere fatto proprio dai parlamenti anche in un’ottica internazionale. Mi rendo conto che si tratta di un auspicio ingenuo, specie in questo periodo dove tornano i nazionalismi e i muri. Ma è una questione che non può essere elusa se si vogliono davvero contrastare le disuguaglianze. Non solo Kim, la notte nucleare è sempre più buia di Massimo Nava Corriere della Sera, 8 settembre 2017 La "legalità" del possesso non garantisce da sola la non proliferazione da parte di altri, nè - dati i precedenti storici - ci protegga dalla minaccia degli Stranamore in circolazione, molto meno folli di quanto possa sembrare. C’è da sperare che Kim Jong-un non sia folle come sembra e che il progetto nucleare sia "soltanto" un terribile deterrente. Che il mondo sia alla mercé di un uno Stranamore con il sorriso ebete di un bambino che si diverte a far scoppiare petardi mortali é più angosciante che considerare lucidamente il contesto geopolitico in cui il dittatore nord coreano si muove per difendere il regime da minacce reali o presunte. A poco serve ribadire l’ "illegalità" del progetto o la mostruosità del potere che lo sostiene. Più interessante cercare di capire il perché e più utile valutare ipotesi di ravvedimento. Messi da parte moralismi, gli ultimi dittatori eliminati con le bombe dell’Occidente - Milosevic, Gheddafi, Saddam - non avevano "la" Bomba, salvo che, nel caso di Saddam, nella fantasia di Bush. Altri Paesi si sono dotati di testate nucleari più o meno legalmente, Israele, Pakistan, India e altri - Arabia Saudita, Corea del Sud - potrebbero farlo, con la benedizione dell’alleato americano. La pretesa di annullare accordi sul nucleare iraniano potrebbe avere riacceso le mire di Kim. È un fatto che le ventimila testate nucleari censite siano al 90 per cento in possesso delle potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza e che nessuna di queste si sogni di ridurle. Anzi, progetti di ammodernamento avanzano in sintonia con atteggiamenti sempre più aggressivi, in particolare fra Russia e Usa. Logico, purtroppo, che la "legalità" del possesso non garantisca da sola la non proliferazione da parte di altri, nè - dati i precedenti storici - ci protegga dalla minaccia degli Stranamore in circolazione, molto meno folli di quanto possa sembrare. Migranti. L’accusa di Msf: "L’Europa sta pagando per gli abusi commessi in Libia" La Stampa, 8 settembre 2017 Il presidente della Ong: "I governi hanno scelto di contenere le persone in questa situazione". I governi europei stanno pagando per gli abusi criminali commessi sui migranti in Libia, finanziando programmi che impedivano loro di partire per il Vecchio Continente. La denuncia arriva dalla presidente di Medici senza frontiere, Joanne Liu, che in una lettera aperta scrive che il sistema di detenzione in Libia è "un’azienda fiorente di sequestri, torture ed estorsioni". Secondo Liu, "i governi europei hanno scelto di contenere le persone in questa situazione. Le persone non possono essere mandate indietro in Libia, ne devono essere contenute lì". Liu ha quindi contestato le politiche europee che rivendicano una riduzione del numero dei migranti in partenza dalla Libia per l’Europa e dei naufragi nel Mediterraneo. "Nel migliore delle ipotesi, si tratta di pura ipocrisia, e nella peggiore di cinica complicità in un traffico organizzato che riduce gli esseri umani a una merce nelle mani dei trafficanti", ha detto. La lettera aperta è stata inviata da Msf anche al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, oltre che a tutti gli altri leader degli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione Europea per denunciare le atroci sofferenze che le loro politiche sulla migrazione stanno alimentando in Libia. "Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell’Europa", si legge nella lettera firmata anche da Loris De Filippi, presidente di Msf in Italia, oltre che da Liu. "Accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall’Europa, le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi". Msf assiste le persone nei centri di detenzione di Tripoli da più di un anno e ha visto questo schema di detenzione arbitraria, estorsioni, abusi fisici e privazione dei servizi di base che uomini, donne e bambini subiscono in questi centri, spiega l’organizzazione in un comunicato. "La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un’attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni" continua la lettera aperta di Msf. "Le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. La loro disperazione è sconvolgente", prosegue la missiva. "Chi è davvero complice dei trafficanti: chi cerca di salvare vite umane oppure chi consente che le persone vengano trattate come merci da cui trarre profitto?", si domanda Msf nella lettera. "La Libia è solo l’esempio più recente ed estremo di politiche migratorie europee che da diversi anni hanno come principale obiettivo quello di allontanare le persone dalla nostra vista. Tutto questo toglie qualunque alternativa alle persone che cercano modi sicuri e legali di raggiungere l’Europa e le spinge sempre più in quelle reti di trafficanti che i leader europei dichiarano insistentemente di voler smantellare", prosegue. Per Msf, vie legali e sicure perché le persone possano raggiungere paesi sicuri sono l’unico modo per proteggere i diritti delle persone in fuga, assicurare un controllo legale delle frontiere europee e rimuovere quei perversi incentivi che consentono ai trafficanti di prosperare: "Le persone intrappolate in queste ben note condizioni da incubo hanno disperato bisogno di una via di uscita. Devono poter accedere a protezione, asilo e quando possibile a migliori procedure di rimpatrio volontario. Hanno bisogno di un’uscita di emergenza verso la sicurezza, attraverso canali sicuri e legali". "Non possiamo dire che non sapevamo quello che stava accadendo. Non possiamo continuare a tollerare questo vergognoso accanimento sulla miseria e la sofferenza delle persone in Libia", conclude la lettera di Msf. "Permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?", conclude la lettera. Migranti. Stupri, torture, schiavismo: denuncia-shock sulla Libia di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 8 settembre 2017 La presidente internazionale dell’ong Msf Liu: "L’Italia e l’Europa vogliono essere complici". "Quello che ho visto in Libia è l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo". Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza Frontiere, strappa il velo dell’ipocrisia, della realpolitik del ministro Marco Minniti, invocata come panacea da prestigiosi commentatori e fini analisti, sui respingimenti in Libia ad opera dei libici ma con il valido contributo, di soldi e di retorica, dell’Italia e dell’Europa. Lei lo chiama "ultra cinismo". Ma sono le immagini e le storie che racconta di uomini e donne stipati e massacrati nei lager libici, picchiati, schiavizzati, torturati "per il solo crimine di desiderare una vita migliore" - la delegazione di Msf è appena tornata dalla Libia dove ha visitato i centri di detenzione ufficiali, proprio quelli finanziati dall’Italia con il plauso europeo - "storie che mi tormenteranno per anni", dice Liu, più della lettera-appello indirizzata da Msf al primo ministro italiano Paolo Gentiloni e agli altri leader europei, che non riescono più a nascondere la realtà. Ciò che la canadese Joanne Liu chiama con parole prive di equivoci: "complicità" con i criminali, cioè con "un modello di business che trae profitto dalla disperazione". Parole che, paradossalmente, hanno provocato commenti stizziti o minacciosi a difesa del governo soprattutto dall’opposizione di destra, da Calderoli a Romani. Nella conferenza stampa di ieri a Bruxelles - e nel video-messaggio diffuso sui social dall’ong che non ha firmato il codice Minniti - c’è la spiegazione, documentata, di questo giudizio e delle ragioni dell’appello all’Europa a mettere in campo immediatamente un’altra strada, quella delle "vie legali e sicure" per accogliere e non imprigionare questa umanità africana in fuga. Il premier Gentiloni ha risposto a stretto giro che si "augura" che "gli sviluppi che abbiamo avuto in queste settimane con le autorità libiche ci consentano di avere la possibilità di chiedere, e forse anche ottenere, condizioni umanitarie che sei mesi fa neanche ci sognavamo di chiedere". L’Europa dal canto suo risponde con non meno stridente coscienza "delle condizioni inaccettabili, scandalose e inumane". "Non siamo ciechi e sordi", ribatte puntuta la portavoce della Commissione, Catherine Ray, ricordando lo stanziamento di 142 milioni di euro per assistere organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia. E annunciando inoltre come la Commissione Juncker stia cercando di realizzare un meccanismo per "monitorare" l’uso dei fondi europei per addestrare la Guardia costiera libica. A tutta questa fumoseria fa da contraltare la crudezza delle condizioni di detenzione verificate dalla delegazione di Msf. "Quando sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli - inizia Liu - c’era una guardia, enorme, che ha spalancato la porta e ha ricacciato la gente indietro con un bastone. Un mare di persone magre, emaciate, trattate come fossero animali". "Sussurravano "Tirateci fuori da qui". Ho potuto solo dire loro: "Vi sento". E ancora: "Una donna incinta era svenuta perché costretta a stare in piedi per ore su un piede solo, sotto il sole. Mi ha detto: "La mia storia non è neanche la peggiore". E mi ha confidato di un’altra donna incinta stuprata nella stanza accanto a quella dove è stato rinchiuso il marito dopo essere stato picchiato davanti a tutti nel cortile". Poi c’è il ragazzo arrivato in Libia dalla Guinea per studiare e lasciato talmente senza cibo nel centro da rischiare la vita per malnutrizione. "Non riusciva a guardarmi in faccia mentre mi parlava e gli scendevano le lacrime". Msf ha scelto di visitare solo i centri di detenzione del governo di Tripoli i Detention Centres for Illegal Migration, dove l’Ong ha accesso. "L’Unhcr - Jan Peter Stellem di Msf - riferisce di circa 40 centri di detenzione ufficiali, ma ci sono molti campi illegali. In questo momento lavoriamo in 8 centri di detenzione: siamo stati anche in altri, ma a volte il controllo cambia e allora bisogna rinegoziare l’accesso al centro". La gestione dei miliziani libiche invece - come risulta anche da inchieste giornalistiche - non si può mettere in discussione. Siria. Le "voci nel buio" delle 7mila donne torturate nelle carceri di Assad di Shady Hamadi Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2017 "Serve processo per crimini contro l’umanità". La storia di Zahira - violentata per due settimane di fila anche da 5 uomini alla volta nelle celle del Mezzeh, a Damasco - è raccontata insieme a quella di altre 7 donne nel dossier "Voices in the Dark", pubblicato dalla ong "Lawyers and Doctors for Human Rights". Secondo il "Network siriano per i diritti umani", le donne detenute in Siria sono 7,571 Stuprata per 14 giorni di fila, anche da cinque soldati alla volta, e picchiata. È quanto accaduto a Zahira - il nome è di fantasia - arrestata nel 2013 nella periferia di Damasco, in Siria, e portata all’aeroporto militare del Mezzeh, nella capitale siriana, dove ha sede il servizio segreto dell’aeronautica. Durante un interrogatorio, in cui è stata penetrata sessualmente "in ogni cavità", un soldato ha filmato quanto avveniva, minacciandola di mostrare il video alla famiglia e all’intera comunità. Successivamente, la donna è stata spostata nella sezione 235 dei servizi segreti militari e rinchiusa in celle di 3 metri per 4 con altre 48 detenute. Una situazione d’affollamento tale da spingerle a dormire a turni e da creare condizioni igieniche disumane: l’uso del bagno - racconta - era consentito una volta ogni 12 ore e la doccia una volta ogni 40 giorni. La storia di Zahira, insieme a quella di altre otto donne siriane fra i 30 e i 45 anni di età al momento della detenzione, è stata pubblicata in un rapporto di una ong siriana, Lawyers and Doctors for Human Rights (Ldhr), dedicato alle detenute siriane e agli abusi sessuali e torture subite in prigione. Il dossier, intitolato Voices in the Dark, è stato stilato seguendo la metodologia del ‘Protocollo di Istanbul’ delle Nazioni Unite sulla documentazione delle torture. "Questa può essere la più importante prova che avete, ci hanno detto avvocati internazionali - ha dichiarato uno dei fondatori dell’associazione siriana, parlando al telefono da Gaziantep, in Turchia, con il giornale inglese The Independent - è una delle migliori possibilità che abbiamo per ottenere giustizia per questi crimini contro l’umanità". Secondo il Network siriano per i diritti umani, le donne attualmente detenute in Siria sono 7,571. Come Ayda - nome di fantasia - la cui storia è presente nel report, che aveva 34 anni quando è stata fermata a un checkpoint della guardia repubblicana ad Aleppo e portata alla sede della brigata. Arrivata, racconta la donna, è stata presa a bastonate in faccia e condotta nell’ufficio del capo sezione. Dopo averle legato le mani, i militari hanno cominciato a violentarla. Terminato l’abuso, i soldati le hanno sputato addosso, mentre era distesa inerme sul pavimento, gridando che era una terrorista. Trasferita alla sezione dei servizi della sicurezza politica, Ayda è stata nuovamente torturata, questa volta con il metodo della sospensione: i polsi legati e sollevata da terra di 10 cm per un’ora. Insieme a lei, legate al muro, c’erano altre donne. In un’altra delle testimonianze del dossier, una donna incinta, arrestata perché il marito era sospettato di rifornire di medicinali i ribelli, ha descritto di aver visto trascinare corpi nei corridoi e lasciati in pozze di sangue. Mentre un’altra prigioniera ha ricordato di essere stata rinchiusa per sei giorni in una cella con un cadavere. Tutte le detenute, durante il periodo di prigionia, non sono state assistite da un legate e hanno subito violenza sessuale. The Independent, che ha ripreso e pubblicato alcune delle storie contenute nel documento, evidenzia che ci sono poche strade percorribili per istituire un processo per crimini contro l’umanità nei confronti del governo siriano, dato l’insuccesso delle Nazioni Unite nell’istituire procedimenti contro Damasco. Proprio questa condizione ha spinto Carla Del Ponte, magistrato svizzero, a dimettersi, il 6 agosto, dalla Commissione d’inchiesta sulla Siria creata cinque anni fa dall’Onu. "Non abbiamo alcun potere e non c’è nessuna giustizia per la Siria - aveva dichiarato - né in Ruanda, né nell’ex-Jugoslavia ho mai visto cose così gravi come quelle che stanno accadendo in Siria. È una grande tragedia. E non esiste ancora un tribunale". Per questo motivo gli avvocati esperti di diritti umani hanno ripiegato verso tribunali nazionali. Nel marzo scorso, una corte spagnola ha accettato di ascoltare il caso di un autista di camion siriano torturato e ucciso dagli uomini del governo siriano perché la sorella, querelante, era in possesso della cittadinanza spagnola. Un caso analogo è avvenuto anche in Germania, dove sopravvissuti alle torture nelle carceri siriane stanno portando avanti un processo contro Damasco, grazie al sostegno di un’altra organizzazione non governativa tedesca - la European Centre for Constitutional and Human Rights. Anche la Lawyers and Doctors for Human Rights è fiduciosa di riuscire a portare i casi all’attenzione di qualche corte europea. "C’erano molte donne fra le quali scegliere, con storie atroci, quando ci siamo messi a lavorare sulla compilazione di questo report - ha dichiarato un medico dell’associazione parlando con il giornale britannico - mi sono spesso sentito impotente durante la guerra. Questo dossier documenta la nostra storia, non importa quanto terribile, e forse è l’unico strumento che i siriani avranno per ottenere giustizia". Una giustizia che può essere ottenuta, spiega la prima delle raccomandazioni nel preambolo del documento di Ldhr, solo se la comunità internazionale "intraprenderà ogni possibile azione per garantire il rilascio di tutti i detenuti politici in Siria, ponendo la questione come punto prioritario". Birmania. Nelle foto dei Rohingya in fuga ci sono soprattutto donne e bambini di Nicolas Lozito La Stampa, 8 settembre 2017 A differenza delle migrazioni del Mediterraneo, dal volto soprattutto maschile, la fuga dal Myanmar della minoranza musulmana ha come protagonisti i più vulnerabili. La maggior parte delle foto che ci arrivano della fuga dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh mostra donne, bambini, fratelli minori, anziani. Pochi uomini, pochi padri di famiglia. Le immagini che abbiamo pubblicato su La Stampa nell’ultimo mese sono solo una minima parte di tutte le immagini che le agenzie hanno distribuito, ma sono rappresentative del fenomeno: la migrazione dei Rohingya è una migrazione guidata dalle donne. L’esatto opposto degli spostamenti verso l’Europa a cui siamo ormai abituati, dominati da barche piene di uomini adulti, soprattutto tra i 20 e i 30 anni. Gli scatti dal confine birmano sono bellissimi e tragici, colorati e dolorosi, e mostrano la difficoltà di uno dei popoli più perseguitati al mondo. Centinaia di persone attraversano fiumi, boschi e campi minati, rischiando la morte nel tentativo di raggiungere gli ormai pieni campi profughi in Bangladesh. Minoranza musulmana in un Paese buddista, del milione di Rohingya presenti in Myanmar, più di 160 mila hanno attraversato il confine nord-occidentale nelle ultime settimane. E il numero potrebbe salire a 300.000, sostiene l’Onu, visto gli scontri che si sono riaccesi a fine agosto tra militari e ribelli nello stato del Rakhine. Proprio il movimento ribelle sembra essere il motivo della scarsa presenza di uomini nelle foto dei migranti. "Mio marito ci ha accompagnato al fiume e poi è tornato indietro", ha spiegato a Afp Ayesha Begum, una donna venticinquenne incinta arrivata in un campo profughi bengalese. "Lui non ci sarà il giorno del parto del nostro sesto figlio, ma non me ne rammarico". Il marito fa parte dell’Arakan Rohingya Salvation Army, guerriglia ribelle che combatte contro la polizia per riaffermare l’indipendenza del proprio popolo. Il governo birmano, infatti, ha revocato ai Rohingya la cittadinanza nel 1982. La guerriglia, di cui non si conosce l’esatta dimensione, combatte con armi artigianali, coltelli e bombe. Nelle ultime settimane ha provocato decine di morti tra le fila governative, causando una violenta contro-offensiva governativa. "Ci siamo salutati e mi ha detto che ci rincontreremo un giorno nel nostro stato libero o altrimenti in Paradiso", ha aggiunto Ayesha, in lacrime. Lasciate a loro stesse, le famiglie migranti sono costantemente minacciate, segnalano le Ong presenti nell’area - anche se il governo birmano e la stessa premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi sminuiscano l’entità delle violenze. Dovendo viaggiare senza protezione, le donne Rohingya sono vittime di stupri e violenze da parte delle forze dell’ordine birmane. Molte percorrono decine di chilometri ferite e mal nutrite, con molti bambini da sfamare e proteggere. "E al loro arrivo nei campi del Bangladesh, la situazione non è migliore", spiega un portavoce dell’Unhcr. "I campi sono pieni e stanno terminando cibo, medicine e kit sanitari per donne e bambini. La situazione non è più sostenibile". Mohammad Ponir Hossain, fotografo di Reuters, ha fotografato alcune donne Rohingya che ora vivono con i loro figli nei campi profughi bengalesi. Gli altri volti li conosciamo giorno dopo giorno, attraverso le foto che ci arrivano e a cui, immagine per immagine, ci stiamo abituando. Ma questi scatti raccontano più di quanto noi riusciamo a vedere: gruppi di donne da sole nei boschi, ragazzini che portano in braccio le loro nonne, barche piene solo di madri e neonati. Il lato più vulnerabile di un popolo in fuga è il simbolo di un esodo che non ha fine.