La reclusione può fare emergere il disagio che si trasforma in suicidio di Adolfo Ferraro* Il Dubbio, 7 settembre 2017 L’aumento dei casi dall’inizio dell’anno è preoccupante. Il suicidio è in genere una scelta psicopatologica che non sempre è collegata ad una psicopatologia. Spesso intervengono modalità ambientali, di relazioni o semplicemente di solitudine ed abbandono che favoriscono l’emersione di richieste e pensieri auto soppressivi, visti in genere come fuga da qualcosa che respinge e non dà possibilità di vedere un futuro. E il carcere e la reclusione in generale rendono questa considerazione ancora più evidente e chiara: non sempre è necessario avere una patologia psichiatrica conclamata per attuare gesto auto soppressivo in carcere, perché è nella natura stessa della reclusione e della chiusura la condizione psicopatologica che può fare emergere il disagio che a sua volta può trasformarsi in scelta suicidaria. Le recenti cronache ci raccontano che, a tutt’oggi, nelle carceri italiane sono 40 i morti suicidi dall’inizio dell’anno, 567 i tentativi di suicidio sventati, 4.310 gli atti di autolesionismo. E la notizia che i numeri delle colluttazioni e dei ferimenti e delle risse nelle carceri dall’inizio di quest’anno hanno mostrato un aumento preoccupante, è certamente un ulteriore segnale di un innalzamento del livello di tensione che si sta attuando nelle strutture detentive. I numeri elevati indurrebbero ad una riflessione sul significato della reclusione, sulle sue modalità di attuazione, sulla dolorosa consapevolezza che il carcere spesso rappresenta una area di parcheggio senza funzioni riabilitative, sui tempi e sul tempo immobile della detenzione. Che il carcere e tutto ciò che reclude/esclude faccia ammalare è cosa nota, e questo perché l’istituzione detentiva tende fondamentalmente e per sua natura a depersonalizzare o ad annullare, e a proporre la custodia al posto della cura, con la realizzazione di spazi che, per definizione e pratica, non appartengono all’ospite, ma rappresentano un confine invalicabile dove le linee sono nette e definite: di qua i reclusi, di là i custodi e in lontananza il mondo esterno. Con tali premesse il suicidio in carcere ha più significati e diversi tra loro: il significato di fuga, certamente, ma anche quello di lutto o di castigo, quello di vendetta e a volte di richiesta e ricatto, e sempre (sempre) il significato di sacrificio di chi non riesce ad esprimere il proprio dolore con gli strumenti comunicativi a disposizione. Eppure nessun atto autolesivo come il suicidio produce - sempre - un senso di colpa in tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno avuto contatto con il suicida. Lo sanno bene gli psichiatri, che in questi casi vivono la frustrazione dell’impotenza o dell’inadeguatezza. O i familiari, che avvertono la denuncia di una mancanza nel gesto del loro parente; o anche gli estranei, che vivono comunque proiezioni di personali dolori. E l’elaborazione di quanto risuona produce generalmente un cambiamento: lo psichiatra diventa più attento, i familiari maggiormente amorevoli, gli estranei inspiegabilmente disponibili. Anche l’Istituzione vive il senso di colpa, ma riesce ad elaborarlo con modalità che sono in genere deresponsabilizzanti e giustificatorie e che non producono evidenti cambiamenti: scarsezza di personale, servizi sociali e familiari assenti, sovraffollamento, esclusione, ed altro ancora, sono le cause da sempre individuate. E, come reazione alla consapevolezza, si propongono rimedi finalizzati alla prevenzione, come le disposizioni che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha messo in atto, con varie circolari, dal 1987 al 2016, e che hanno prodotto modesti e alterni rallentamenti del fenomeno e non soluzioni che frenassero o invertissero la tendenza, come ci si rende conto dai numeri di questi giorni. Evidentemente la elaborazione del senso di colpa da parte dell’Istituzione è parziale, in quanto non produce un cambiamento reale, visti i risultati. E in questo senso la detenzione in Italia è rimasta dolorosamente e concettualmente lombrosiana, giustificatoria e deresponsabilizzante, attanagliandosi al corpo, al materiale, al sovraffollamento e alle mancanze di risorse, che una linea politica tende a consolidare scegliendo la via della reclusione e non quella - opposta e contraria - dell’inclusione. Si aspettano soluzioni con il disegno di legge n. 4368, presentato dal ministro Andrea Orlando di concerto con i ministri Alfano e Padoan, che apporta sostanziali modifiche ai all’Ordinamento penitenziario, ma che ha bisogno di tempi e decreti per essere attuato. E dove, nelle forme, appare che è nel privilegiare le norme che investono sulla riabilitazione, che può trovarsi un’altra parte della soluzione. Ma è soprattutto nell’abbandonare un modello culturale definito del carcere, una antica dinamica autoreferenziale, che si verifica un cambiamento vero. E questo può avvenire solo con un confronto e con una crescita, rammentando sempre che si ha a che fare con persone recluse che, con le loro forze e le loro debolezze, vivono dolorosamente il rapporto con la detenzione. Dove, ad esempio, la Vigilanza Dinamica - contestata da alcuni operatori penitenziari - non significa semplicemente lasciare le celle aperte, ma osservare, traendone conoscenza, le dinamiche di quelli che sono i gruppi di persone recluse. Ci si chiede: gli operatori penitenziari, oberati da un lavoro immenso e dove la pratica risolve spesso le situazioni, hanno gli strumenti per effettuare tale cambiamento culturale? E allora diventa necessario per ridurre i suicidi, gli atti auto lesivi, le aggressività auto ed etero dirette rammentare soprattutto che il carcere ha bisogno di riallacciare un legame tra interno e esterno, due luoghi apparentemente antinomici, divisi da una linea di confine che a volte diventa netta e invalicabile in tutte le situazioni in cui il bisogno di certezza diventa primario. Confine che deve tendere ad allargarsi, trasformandosi da linea di demarcazione in luogo in cui, forse, è possibile trovare risposte e una parte della soluzione. *Psichiatra, già direttore dell’Opg di Aversa, docente in psichiatria forense Quaranta suicidi, un infinito catalogo di orrori di Valter Vecellio lindro.it, 7 settembre 2017 Un inferno senza se e senza ma. La polizia penitenziaria denuncia: "Il cibo è uno schifo". Che le carceri italiane siano quello che sono, è cosa ignota, ormai, solo a chi ha deciso di ignorarlo. Solo a voler collezionare quanto si scrive ogni mercoledì in questa rubrica, se ne ricava un infinito catalogo fatto di episodi e fatti che da una parte fanno rabbrividire, dall’altra ti fanno vergognare. E comunque, davvero, le chiacchiere, al punto in cui siamo arrivati, stanno a zero. I fatti sono fatti. Sono un fatto che dall’inizio dell’anno almeno 40 detenuti si sono suicidati; un altro fatto è che almeno 567 detenuti hanno tentato di farlo. Un terzo fatto è che sono stati censiti 4.310 atti di autolesionismo. Don Ettore Cannavera, ex cappellano del carcere di Cagliari, dice che "le carceri italiane sono diventate discariche sociali". Racconta della situazione del carcere di Cagliari, che certamente non è l’unica: "Su 600 detenuti, più della metà sono malati psichiatrici e tossicodipendenti. Poi, manca personale di polizia penitenziaria e gli educatori sono solo nove". C’è poi il problema costituito dai detenuti che un tempo erano ristretti negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. I detenuti con disturbi psichiatrici dovrebbero trovarsi nelle Rems, le strutture alternative; che però sono insufficienti rispetto al fabbisogno. Così spesso finiscono nelle carceri diciamo così "normali"; con prevedibili conseguenze. Solo per mano di questi reclusi problematici, negli ultimi 10-15 giorni si sono verificate aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria nelle carceri di Ferrara, Pisa, Civitavecchia, Milano, Ancona, Ariano Irpino, Firenze, Napoli, Viterbo, Udine. Personale che, per inciso, non per loro responsabilità, non ha la necessaria preparazione per affrontare situazioni come quelle che pongono in essere detenuti con problemi psichiatrici. Una piccola notizia d’agenzia, è la dimostrazione di una situazione giunta al collasso: "I sindacalisti scrivono all’Asl e invitano a pranzo i politici: Venite e rendetevi conto! Di che cosa, rendersi conto? Delle carote raggrinzite, perché vecchie; delle pesche marce, dell’anguria andata a male; del pollo bruciato, dell’insalata con il verme. "Cucine da incubo", insomma, e sarebbero quelle di Torino, Ivrea, Biella, Fossano, Cuneo, Saluzzo, Aosta, Vercelli e altre città ancora. La denuncia viene da una quantità di sindacati della polizia penitenziaria: Osapp, Sappe, Sinappe, Uil-Pa, e altri ancora. Hanno presentato una denuncia circostanziata alla Asl: "Dopo ripetute segnalazioni alla singole direzioni, e al competente provveditorato, non c’è stato nessun cambiamento: ora basta". La Commissione Mensa di Aosta, ad esempio, avrebbe riscontrato muffa nei frigoriferi, alimenti mal conservati, frutta marcia, lasagna preconfezionata con la data di scadenza superata da giorni; come in altre carceri, da Torino a Cuneo, alla sera sono stati serviti gli avanzi, fette di anguria deteriorata. "La situazione è ormai intollerabile" spiega Gerardo Romano, vice segretario generale Osapp: "o le cose cambiano o faremo la rivoluzione, perché qui si tratta di sicurezza e salute. Non è questione di esser schizzinosi, Avete dubbi? Provate", dice Romano. "Politici e sindaci sono invitati: paghiamo noi, sarebbe meglio però venissero una sera e a sorpresa per rendersi conto davvero". E se da incubo è la cucina per gli agenti della Polizia penitenziaria, figuriamoci quella per i detenuti. La sindrome del segreto contagia i magistrati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 settembre 2017 Nei convegni si proclama trasparenza e rendicontazione ai cittadini, ma nella realtà si agisce in modo contrario. Una sindrome contagia non poche istituzioni in magistratura: che nei convegni proclamano trasparenza e rendicontazione ai cittadini, ma nella realtà espandono "segreti" e persino ne creano di nuovi. Istruttiva la delibera del Consiglio Giudiziario di Milano (sorta di Csm locale che in ogni distretto si occupa delle carriere delle toghe) dopo che in giugno il quotidiano "La Verità" aveva pubblicato un contestato articolo sulle "incompatibilità", cioè sui limiti ai possibili incroci lavorativi-familiari-sentimentali tra toghe e parenti. In un acceso dibattito 15 dei 21 consiglieri (magistrati eletti dai colleghi, più quote di avvocati e docenti) hanno deliberato di trasmettere gli atti alla Procura di Brescia (pm dei reati che in astratto vedano autori o vittime i magistrati di Milano) "per quanto di competenza": e cioè per la teorizzata violazione di un asserito "segreto d’ufficio" sulle sedute ristrette del Consiglio, nelle quali i non togati hanno solo un diritto di tribuna. La delibera scambia così l’obbligo di riservatezza (che verte sulle opinioni espresse dai singoli consiglieri nelle sedute), e la non pubblicità delle sedute ristrette, con un "segreto" di dubbio nuovo conio, disinvoltamente apparentato al ben differente "segreto di indagine" (art. 326). Curiosa involuzione rispetto all’opposto precedente del 2014, quando l’allora presidente del Consiglio Giudiziario (Canzio, oggi presidente della Cassazione), pur contrario a registrare le sedute come addirittura ammesso in casi particolari da altri Consigli quali Torino, alla fine di una seduta ristretta sul caso Bruti-Robledo ritenne doveroso rendere conto, con una informazione pubblica, della decisione assunta dal Consiglio. Carcere, lo spazio vivibile include i mobili non fissi di Francesca Milano Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2017 Nei 3 metri quadri minimi che una cella di un carcere deve garantire ai detenuti possono essere incluse anche le superfici occupate da letto, tavolo e sgabelli. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 40519/2017, ricordando che al di sotto dei 3 metri quadrati per detenuto il trattamento è "inumano e degradante", come stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). Nel calcolo, però, deve essere incluso anche lo spazio dei mobili, esclusi quelli fissati a terra come l’armadio. Partendo da queste premesse la Cassazione ha quindi respinto il ricorso di un detenuto. Nel respingere il ricorso dell’uomo, i giudici hanno ricordato che recentemente la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato il criterio dei 3 metri quadri di superficie utilizzabile per ciascun detenuto, in cella collettiva, e ha anche aggiunto che se lo spazio personale è inferiore ai 3 metri quadri, in una cella condivisa, "è ravvisabile la forte presunzione, non assoluta, di violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali" e spetta al governo "offrire prova convincente dei fattori in grado di compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale". Qualora invece lo spazio per detenuto sia compreso tra i 3 e i metri quadrati, sussiste la violazione se tale condizione è accompagnata da altri aspetti negativi, come la limitazione della possibilità di svolgere attività fisica all’aperto, l’assenza di luce e aria nella cella, l’inadeguatezza della ventilazione e della temperatura o la mancanza di riservatezza nell’uso dei servizi igienici. La Cassazione a questo punto ha chiarito che nel calcolo delle superfici va incluso anche lo spazio dei mobili: "L’importante - scrivono i giudici - è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella". Per il conteggio vanno quindi esclusi gli arredi fissi perché impediscono il moto: per la Cassazione gli armadi sono da ricomprendere in questa tipologia di mobili, come anche i letti a castello perché presentano "un peso tale da non poter essere spostati e da restringere a loro volta l’area ove muoversi". "In altri termini - conclude la Cassazione - non rileva che lo spazio sia vivibile per assolvere ad altre funzioni, quanto che sia fruibile per il moto, che non è, invece, certamente impedito o ristretto da quegli articoli amovibili come sgabelli o tavoli o gli stessi letti non incastellati". Per la concessione della messa alla prova non serve la confessione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2017 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 6 settembre 2017 n. 40512. La confessione non è necessaria per la messa alla prova del minore colpevole di reato. Neppure se riguarda uno scafista. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza della Prima sezione penale n. 40512depositata ieri. Accolto così il ricorso presentato dalla difesa di un imputato accusato di avere concorso nel reato di trasporto di stranieri. Al minore era stata negata l’ammissione al beneficio (di fatto la sospensione del processo, e niente collocamento in comunità, in cambio dell’impegno a svolgere nel tempo un programma di lavori socialmente utili) perché non aveva dimostrato alcuna consapevolezza dell’illegalità della condotta sostenendo invece di avere agito in stato di bisogno. La Cassazione, nell’affrontare la questione, ricorda che la confessione può certo rappresentare un elemento importante per arrivare a un giudizio favorevole sull’evoluzione della personalità dell’imputato verso un pieno reinserimento sociale; tuttavia non ne costituisce un presupposto indispensabile, "sempre che la condotta dell’indagato o imputato non trasmodi nella corriva negazione delle evidenza fattuali certe e, sottraendosi alla leale collaborazione nel processo, finisca per determinare la contestazione da parte sua della stessa funzione della messa alla prova". Maggior peso deve invece avere un’attenta considerazione della condotta per valutare se il fatto contestato deve essere considerato un episodio del tutto occasionale o se, invece, costituisce il sintomo di un sistema di vita. Processo determinante per concludere se esiste la concreta possibilità dell’evoluzione della personalità del minore verso modelli socialmente adeguati. Le stesse Sezioni unite, l’anno scorso, con la sentenza n. 33216, sottolinearono come il giudice nella concessione della messa prova compie una sorta di "cripto-processo" sul fatto, sull’autore e sull’efficacia del beneficio. E non ha pesato neppure il fatto che l’imputato, nel frattempo, sia diventato maggiorenne, visto la sospensione del processo per messa alla prova è prevista anche per chi ha compiuto i 18 anni al momento dello stop al giudizio. Evasione fiscale grave: solo carcere, niente domiciliari o servizi sociali di Andrea Santoro Fisco Oggi, 7 settembre 2017 Niente misure alternative alla detenzione per chi, avendo frodato il fisco per decine di milioni di euro, è disposto a riparare il danno con l’offerta di una cifra irrisoria. L’evasore milionario che, offrendo "pochi spicci", non dimostra alcuna forma di ravvedimento o di revisione critica del proprio passato, non può espiare presso i servizi sociali o ai domiciliari la pena seguita alla condanna per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di false fatturazione e dichiarazioni fraudolente relative a operazioni inesistenti. È quanto precisato dalla Suprema corte con la sentenza n. 39186 depositata lo scorso 17 agosto. Il tribunale di sorveglianza rigettava l’istanza di un detenuto, condannato per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di false fatturazioni e dichiarazioni fraudolente relative a operazioni inesistenti, volta a richiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali o, in subordine, la detenzione domiciliare. Il diniego del tribunale era motivato sulla base dell’indisponibilità del condannato a risarcire il danno cagionato dai delitti commessi, cui era seguita un’evasione Iva di alcune decine di milioni di euro. Il tribunale evidenziava, in particolare, come, a fronte di importi evasi così rilevanti, risultasse del tutto irrisoria la cifra, di circa 10mila euro, messa a disposizione dell’Erario da parte del condannato a titolo di "ravvedimento". La magistratura di sorveglianza sottolineava come il condannato non avesse "ancora maturato un sufficiente grado di revisione critica sulle proprie - rilevantissime - condotte delittuose e come lo stesso intenda gli strumenti dell’esecuzione alternativa della pena previsti dall’ordinamento penitenziario in un’ottica puramente strumentale, rivolta all’esclusivo fine di affrancarsi dalla carcerazione". Avverso il provvedimento di diniego ricorreva per cassazione il condannato eccependo, in particolare, l’esclusivo rilievo attribuito dai giudici all’insufficienza della somma offerta a titolo di versamento volontario, disattendendo quell’orientamento giurisprudenziale "secondo cui il mancato o non integrale risarcimento del danno non può di per sé impedire la concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali". La Corte di cassazione ha ritenuto il ricorso non fondato. I giudici di legittimità hanno precisato che, ai fini della concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali, sono necessari elementi positivi che consentano un giudizio prognostico favorevole della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva. Quest’ultimo è rilevante anche per la detenzione domiciliare invocata in via subordinata. La concessione di una misura alternativa, infatti, non può prescindere dall’esistenza di un serio processo di revisione critica del passato delinquenziale e di risocializzazione. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il giudice, pur non potendo prescindere, nella valutazione dei presupposti per la concessione di un trattamento alternativo alla detenzione, dalla tipologia e gravità dei reati commessi, deve, però, avere soprattutto riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per cui è stata inflitta la condanna in esecuzione. Ciò al fine di verificare concretamente se vi siano o meno i sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che rendano possibile il reinserimento sociale attraverso la richiesta misura alternativa (Cassazione, sentenze 17021/2015 e 20469/2014). Per concedere l’affidamento in prova ai servizi sociali, perciò, la natura e la gravità dei reati per i quali è stata irrogata la pena in espiazione costituisce solo il punto di partenza per l’analisi della personalità del soggetto, la cui compiuta valutazione non può prescindere dalla condotta successiva, risultando questa essenziale per valutare l’esistenza di un effettivo processo di recupero sociale e l’assenza di pericolo di recidiva. Nel caso in esame, ad avviso dei giudici di legittimità, il provvedimento impugnato ha correttamente evidenziato come il condannato non abbia intrapreso quel necessario processo di revisione critica e ha messo in luce il mancato risarcimento dei danni causati dall’evasione fiscale milionaria del condannato, quantificando, con un calcolo logico e motivato, i verosimili profitti percepiti dal condannato e sottolineando come gli stessi non potessero essere andati tutti dispersi. La mancata presa di distacco del condannato rispetto alla vicenda penale ha condotto, dunque, la Corte suprema a escludere il presupposto per tutte le misure alternative, domiciliari compresi. Al rigetto del ricorso è conseguita, ai sensi dell’articolo 616 cpp, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. È reato il rumore (eccessivo) provocato dal condizionatore di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2017 Corte di cassazione, Sezione feriale, sentenza 4 settembre 2017 n. 39883. I condizionatori d’aria sono sempre più necessari ma non sempre si fa attenzione alla loro rumorosità, che può cagionare controversie giuridiche. Così la Cassazione ha confermato la condanna penale di un albergatore che aveva installato un condizionatore troppo rumoroso. La tutela del cittadino dall’aggressione da rumore trova il suo fondamento nell’articolo 844 del Codice civile, che vieta al proprietario del fondo di emettere, nei riguardi del vicino, rumori che superino "la normale tollerabilità" la quale deve essere determinata "avuto riguardo alla condizione dei luoghi". Il giudice deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà" e "può tenere conto di un determinato uso". Il ricorso all’articolo 844 del Codice civile risulta comunque fondamentale per la tutela del cittadino in quanto la norma contempla anche il divieto delle vibrazioni, ugualmente dannose, se non in maggiore misura, dei rumori, e che risultano escluse dall’esercizio dell’azione penale in quanto l’articolo 659 del Codice penale non le prevede, anche perché la giurisprudenza più recente afferma che solo quando l’emissione rumorosa, vibrazioni escluse, supera la normale tollerabilità (oltre i 3 decibel del rumore di fondo) deve essere riconosciuta la sussistenza del danno biologico. La disciplina penale contenuta nell’articolo 659 del Codice penale e affrontata nella sentenza della Cassazione n. 39883 prevede due distinte contravvenzioni : il reato previsto dal primo comma (punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 309) per disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, che richiede l’accertamento in concreto dell’avvenuto disturbo; mentre quello previsto dal secondo comma (punito con l’ammenda da euro 103 a 516), l’esercizio di professione o mestiere rumoroso, prescinde invece dalla verificazione del disturbo, poiché tale evento è presunto quando l’esercizio del mestiere rumoroso si verifichi fuori dai limiti di tempo, spazio e modo imposti dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità. La Corte di cassazione (sentenza 39883/2017) ha respinto il ricorso di un albergatore che veniva condannato alla pena dell’ammenda per avere disturbato il riposo delle persone con l’utilizzo di un impianto di un condizionatore d’aria. La sentenza afferma che le emissioni dell’impianto che superano i limiti consentiti sono penalmente rilevanti in quanto l’impianto era posto sul tetto, non era insonorizzato, era privo di paratie ed era particolarmente rumoroso e tale da disturbare il riposo di numerose persone dimoranti nei dintorni. Tali elementi non permettono di ricondurre la condotta dell’albergatore alla violazione amministrativa della legge 47/1995 e neppure di considerarlo "una fonte rumorosa ex se strumentale all’attività alberghiera, come tale suscettibile di riduzione delle emissioni". Valutazione della gravità del reato agli effetti della pena. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2017 Indici di commisurazione della pena(articolo 133 c.p.) - Finalità - Funzionalità della condanna rispetto alla finalità rieducativa della pena - Potere discrezionale del giudice (articolo 132 c.p.) -Limiti. Gli indici di commisurazione della pena di cui all’articolo 133 c.p. forniscono al giudice l’occorrente per forgiare la condanna sulla persona dell’imputato in considerazione della finalità rieducativa della pena stessa. La quantificazione della pena non può essere frutto di scelte immotivate né arbitrarie, ma nemmeno di valutazioni esasperatamente analitiche; quel che conta e che dell’uso del potere discrezionale (articolo 132 c.p.) il giudice dia conto, rendendo noti gli elementi che lo giustificano. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 24 luglio 2017 n. 36636. Indici di commisurazione della pena- Irrogazione di pena in misura intermedia tra minimo e massimo - Potere discrezionale del giudice - Obbligo di motivazione dei criteri adottati - Necessità - Esclusione. L’irrogazione di una pena in misura intermedia tra minimo e massimo implica per ciò stesso un corretto uso del potere discrezionale del giudice, cosicché, escludendo ogni abuso, non abbisogna di specifica motivazione e se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza impugnata riguardata nel suo complesso argomentativo e non necessariamente nella parte destinata alla mera quantificazione della pena, la sentenza non può essere censurata per difetto di motivazione in ordine i criteri adottati per la commisurazione della pena (articolo 133 c.p.); infatti non può radicarsi alcun vizio motivazionale in proposito quando il buon uso del potere discrezione del giudice si desume oggettivamente dal testo della sentenza impugnata. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 settembre 2016 n. 38251. Valutazione della gravità del reato agli effetti della pena - Obbligo di adeguata motivazione nel caso di pena superiore alla misura media di quella edittale - Pena al di sotto della media edittale - Sufficienti espressioni che diano conto dell’utilizzo dei criteri di cui all’articolo 133 c.p. La specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’articolo 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità di delinquere. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 23 novembre 2015 n. 46412. Pena - Valutazione della gravità del reato agli effetti della pena - Potere discrezionale del giudice - Limiti. La determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale non può essere affidato alla intuizione del giudice, con riferimento a generiche formule di stile o sommari richiami al parametro contenuto nell’articolo 133 c.p. Se è pur vero che non è richiesto l’analitico esame in rapporto a ogni elemento del complesso parametro richiamato, resta tuttavia la doverosità della specifica individuazione delle ragioni determinanti la misura della pena, al fine di dar conto dell’uso corretto del potere discrezionale che al giudice di merito è affidato, e di garantire l’imputato della congruità della pena inflitta. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 settembre 1990 n. 12364. Piemonte: per i detenuti arriva la guida ai penitenziari atnews.it, 7 settembre 2017 Un vademecum per aiutare i detenuti a orientarsi nei meandri della comunità penitenziaria. Lo ha realizzato il Comitato regionale per i Diritti umani, presieduto dal presidente dell’Assemblea legislativa Mauro Laus, con il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano. La pubblicazione, edita dal Centro stampa della Regione e curata dall’Associazione Sapori reclusi nell’ambito del progetto Stampatingalera, ospitato all’interno della Casa circondariale di Saluzzo (Cn), sarà presentata lunedì 18 settembre alle 12 nella Sala Viglione di Palazzo Lascaris a Torino. Con il presidente del Comitato Laus e il garante Mellano intervengono la direttrice del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Torino Laura Scomparin e il nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta Liberato Guerriero. Il vademecum, che si propone come strumento conoscitivo per fornire informazioni ai detenuti ristretti nelle tredici carceri del Piemonte, rappresenta un’ideale integrazione alla "Guida ai diritti - Orientarsi tra norme e pratiche penitenziarie", realizzata dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Abruzzo: Bracco (Si) "la Regione proceda a nominare il Garante dei detenuti" abruzzoquotidiano.it, 7 settembre 2017 "Ciò che è accaduto a Villa Stanazzo di Lanciano non deve mai più verificarsi in nessun carcere italiano. Il Consiglio regionale dimostri, eleggendo il Garante, di avere a cuore l’esistenza sia di chi sta pagando gli errori commessi sia di chi ha scelto di dedicare la propria vita lavorativa a servire lo Stato". Ad affermarlo è il Consigliere regionale di SI, Leandro Bracco dopo l’ultimo episodio avvenuto nel Carcere di Lanciano, nel quale, giorni fa, un detenuto ha aggredito un agente penitenziario. "Un altro episodio riprovevole. Ciò che è accaduto sabato scorso nel carcere di Villa Stanazzo di Lanciano è inaccettabile. Se il Consiglio regionale dell’Abruzzo - si chiede Bracco - avesse finalmente eletto il Garante dei detenuti, ciò che è avvenuto a Lanciano si sarebbe potuto evitare?. Per onestà intellettuale - spiega l’esponente di Sinistra Italiana - dico che sarebbe stato altamente improbabile che l’aggressione non potesse accadere. Ciononostante l’episodio del carcere di Lanciano è l’ennesimo tassello di un puzzle che va a sottolineare le molteplici criticità che a tutt’oggi vivono le strutture nelle quali sono ospitate persone a cui sono state inflitte misure restrittive della libertà personale. Il Garante dei detenuti - evidenzia Bracco - non può ovviamente essere una figura salvifica grazie alla quale i mille problemi che affliggono le carceri e le persone che vi sono recluse trovano una soluzione immediata. Sono però fermamente convinto - sottolinea il Consigliere regionale - che oramai i tempi siano fin troppo maturi e che anzi sia estremamente urgente che l’aula dell’Emiciclo voti una persona che vada a ricoprire il delicatissimo ruolo di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Prima della pausa agostana - riferisce Bracco - ho votato con convinzione la proposta di legge presentata dal collega Sandro Mariani che è andata a modificare la procedura per l’elezione del Garante stesso. Ora mi aspetto che al massimo entro novembre un professionista che abbia ovviamente competenza in materia ma anche passione per le condizioni in cui vivono sia i carcerati sia i poliziotti che ne devono garantire la custodia venga finalmente eletto e possa di conseguenza iniziare a operare" Trento: detenuto di 42 anni trovato impiccato in cella, era condannato all’ergastolo di Erica Ferro Corriere del Trentino, 7 settembre 2017 Il gesto durante l’ora d’aria. Per lui le porte del carcere si erano chiuse definitivamente. La corte d’assise d’appello di Trieste, lo scorso maggio, aveva confermato l’ergastolo nei confronti di Abdelhadi Lahmar, 42 anni, che nell’aprile del 2015 aveva ucciso moglie e figlia nella casa di Pordenone in cui risiedevano. Ieri, verso le 14, al momento dell’ora d’aria, Lahmar, che era stato trasferito da un altro istituto alla casa circondariale di Spini di Gardolo, si è tolto la vita impiccandosi in cella con un cappio rudimentale. È il 41esimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane secondo i dati del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. Il quarto in sette anni a Trento. Lahmar, che era ristretto al reparto protetti, non aveva accolto l’invito del compagno di cella a uscire per una passeggiata al momento dell’ora d’aria. Rimasto solo, l’uomo si è tolto la vita impiccandosi. Vani i tentativi di rianimarlo effettuati prima da un agente della Polizia penitenziaria, accorso subito nella cella, poi dai sanitari della casa circondariale e infine dal personale del 118, che ha dovuto constatarne il decesso. Una nuova storia di disperazione e dolore, dunque, trova il suo epilogo fra le mura di Spini. I Sindacati puntano il dito contro le carenze di organico e il sovraffollamento: "Mancano 82 unità di Polizia penitenziaria su 214 e i detenuti presenti sono 340 rispetto ai 240 previsti dall’accordo fra lo Stato e la Provincia di Trento - denuncia Leo Beneduci, segretario dell’Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria - sono queste le cause di una morte che, benché di natura volontaria, avrebbe potuto, a nostro avviso, essere evitata". Leonardo Angiulli, segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria del Triveneto, ricorda anche i "567 tentati suicidi e i 4.312 atti di autolesionismo" che si sono verificati nelle carceri: "Eventi critici che impongono un cambio di rotta e soluzioni immediate a tutela degli operatori". Genova: detenuto di 42 anni muore durante il trasporto all’ospedale, la Procura indaga di Giuseppe Filetto La Repubblica, 7 settembre 2017 Metti il decesso di un paziente sull’ambulanza, mentre viene portato in ospedale. Metti che la morte sia di un detenuto del carcere di Marassi, già malato di cuore. Metti che a prendersi cura del soggetto sia anche la figlia del procuratore capo Francesco Cozzi: apprezzata cardiologa che svolge servizio nell’infermeria della Casa circondariale. Tutte queste circostanze - ciascuna presa singolarmente e avulsa dal contesto - possono non voler dire nulla. E il caso con ogni probabilità sarebbe stato archiviato. Così non è: le variabili, messe insieme, costituiscono un mix quantomeno degno di approfondimento di indagini. Affidando però gli accertamenti autoptici ad un medico-legale di fuori Genova, il professore Luca Taiana di Pavia: un super partes, appunto per evitare conflitti di interessi. Tutto questo avrà pensato il procuratore capo Francesco Cozzi, quando ha delegato il pm di turno Marco Airoldi ad aprire un’inchiesta per omicidio colposo (al momento contro ignoti) sulla morte di Tiziano Giannico, di 42 anni, che prima di finire in carcere aveva scelto come residenza una struttura per indigenti della Caritas a San Fruttuoso, ma per vivere truffava in Rete, mettendo in vendita macchine di lusso di seconda mano, si faceva pagare un acconto del 10% del valore con la promessa di concludere al più presto la transazione. Ottenuto l’anticipo, però, l’uomo spariva nel nulla e cambiava numero di telefono. Tiziano Giannico è stato scoperto e arrestato lo scorso 15 luglio dai carabinieri, rinchiuso nelle "Case Rosse" di Marassi. Da quel giorno, essendo molto malato, è stato seguito dall’equipe medica interna al carcere, in particolare dai cardiologi, tra cui appunto la figlia del procuratore Cozzi, peraltro descritta come medico scrupoloso, apprezzato professionalmente, sia dal personale carcerario che dai detenuti. E però Giannico, a quanto pare, per ben 4 volte sarebbe stato invitato dalla dottoressa Cozzi a sottoporsi a un ricovero ospedaliero, ma lo avrebbe rifiutato. Venerdì scorso, finalmente, accetta. Anche perché le sue condizioni sono peggiorate e critiche. L’uomo, però, muore in ambulanza, prima che giunga in pronto soccorso. Ed è la stessa direttrice del carcere, Maria Milano, a comunicare il decesso alla magistratura. "Radio Carcere" dice che sulla vicenda la Procura della Repubblica vuole andare a fondo: vuole accertare come il detenuto sia stato trattato in carcere, tanto che ha fatto sequestrare la cartella clinica e disposto appunto l’autopsia. Reggio Emilia: detenuto 37enne muore in ospedale, la Procura apre un fascicolo telereggio.it, 7 settembre 2017 Accertamenti sul cadavere del 37enne marocchino deceduto al Santa Maria Nuova dopo aver accusato un malore in cella. Nessun segno di violenza. La Procura ipotizza una patologia preesistente. Saranno le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Giulia Stignani, e gli esiti dell’autopsia già disposta, a chiarire le cause della morte dell’uomo di 37 anni, di origine marocchina, deceduto ieri all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio, dove era stato portato dopo il malore che lo aveva colpito mentre era rinchiuso nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di corso Cairoli, in città. Il 37enne, disoccupato, residente a Correggio, era stato fermato intorno alle 21.30 di lunedì dai militari del paese: in evidente stato di ubriachezza, era stato portato in ospedale dal personale del 118 dopo un malore. Una volta riavutosi, aveva rifiutato le cure e iniziato a creare problemi nel reparto. Era stato necessario l’intervento di due pattuglie per avere la meglio sull’uomo: uno dei militari ha riportato contusioni guaribili in sette giorni. Il marocchino era stato quindi arrestato e portato in caserma a Reggio, in attesa di essere trasferito in tribunale per il processo per direttissima per resistenza, violenza a pubblico ufficiale e lesioni. In cella di sicurezza ha accusato un malore, ed è stato portato in ospedale dove è avvenuto il decesso. Sul suo corpo non sono stati trovati segni di violenza. Gli inquirenti ritengono al momento che a provocarne la morte possa essere stata una patologia preesistente. Il pm Stignani ha aperto un fascicolo senza ipotesi di reato, ma ha avviato accertamenti sulla vicenda e disposto l’esame autoptico. Non è escluso che il pm decida anche di sentire i militari che lo hanno avuto in custodia per ricostruire quanto accaduto nelle ore precedenti alla morte dell’uomo. Saluzzo (Cn): si allarga la Casa-alloggio per i detenuti in permesso di Vilma Brignone targatocn.it, 7 settembre 2017 Re-inaugurazione lunedì 18 per Casa Donatella gestita dall’associazione Liberi dentro. Dà ospitalità temporanea a detenuti in permesso premio o lavoro. È in via della Croce dietro al cimitero, nella proprietà comunale della "casa del custode" già in parte assegnata ai migranti stagionali africani. Dopo i lavori di ampliamento e risanamento, nuova inaugurazione per "Casa Donatella" il mini appartamento adiacente il cimitero di Saluzzo, unità a sé stante nella "casa del custode" di proprietà comunale in via della Croce 39. Era stato aperto nel 2016 per dare ospitalità temporanea a detenuti in permesso premio, lavoro all’esterno, semilibertà o ai parenti in trasferta per i colloqui. I locali sono stati affidati in comodato gratuito dal Comune di Saluzzo all’associazione Liberi Dentro presieduta da Giuseppina Bonardi. "Gli spazi a disposizione sono più che raddoppiati - afferma la presidente - con l’utilizzo del magazzino adiacente in cui è stata realizzata una camera da letto in più e ricavata la nostra sede. Per questo ringraziamo la Fondazione CrSaluzzo per il contributo di 2.500 che ha permesso i lavori". La struttura è intitolata a Donatella Girotto, una delle colonne fondatrici di "Liberi Dentro ". L’associazione è garante dell’uso dell’abitazione assegnata ai detenuti dall’ area educativa e dall’Uepe (Uffici di Esecuzione Penale Esterna) che hanno il compito di gestire l’applicazione delle misure alternative concesse dai Tribunali di Sorveglianza ai condannati che, per i loro particolari requisiti possono espiare la pena nell’ambiente esterno, anziché negli Istituti penitenziari. Il monolocale dispone di un divano letto, per uno o due detenuti per 24 /48 ore, un massimo di 2 notti, mentre di giorno può accogliere tre persone. In un anno e mezzo di apertura, informa la presidente, 50 sono state le notti occupate, sia da detenuti in permesso che da famiglia in trasferta con difficoltà economiche per sostenere il pernottamento. Siena: detenuti impiegati nell’area verde annessa al Tribunale civile sienafree.it, 7 settembre 2017 Mercoledì 6 settembre, presso il Tribunale di Siena, è stato Siglato un protocollo d’intesa per impiegare i detenuti a titolo volontario, per attività di pubblica utilità, tra il comitato Area Verde Camollia 85 (costituito da magistrati, avvocati e personale dipendente del Tribunale) e la direzione della casa circondariale di Siena. Il protocollo è finalizzato all’impiego di detenuti per lo svolgimento di attività, a titolo volontario, utili alla messa a dimora e alla gestione dell’area verde annessa alla sede del polo civile del Tribunale aperta al pubblico. L’accordo, siglato e condiviso del presidente del Tribunale, Roberto Maria Carrelli Palombi e dalla Magistratura di sorveglianza di Siena, si ispira al principio costituzionale dell’art. 27 che afferma la finalità rieducativa della pena. Esso rispecchia, inoltre, i dettami della legge penitenziaria che prevede il coinvolgimento, a titolo volontario e gratuito, di detenuti nell’esecuzione di progetti di pubblica utilià in favore della collettività. Obiettivo dell’amministrazione penitenziaria è infatti quello di promuovere, anche all’esterno del carcere, il lavoro dei detenuti, rivestendo l’attività occupazionale in ogni sua forma un ruolo di assoluta centralità nel percorso riabilitativo finalizzato al reinserimento sociale ed alla acquisizione di quei valori morali e di legalità smarriti con la commissione di reati. Lo spazio da rigenerale anche con l’ausilio di detenuti è oggetto già da tempo di specifici interventi di riqualificazione posti in essere da volontari del comitato Area Verde Camollia 85, con l’obiettivo precipuo di consentire alla cittadinanza la fruizione di un bene comune di pregevole interesse storico-architettonico, naturalistico e artistico. Il protocollo fa seguito al patto di collaborazione stipulato nel mese di agosto tra il Comune di Siena e il comitato Area Verde Camollia 85, inquadrandosi anche nella cornice dell’art. 118 della Costituzione, nell’ambito delle virtuose forme di collaborazione e di interazione tra istituzioni pubbliche, funzionali alla cura e alla valorizzazione del patrimonio della città di Siena sulla scia della tradizione civica di solidarietà. Novara: "Co.Ala.", un progetto con i detenuti a favore della comunità assanovara.it, 7 settembre 2017 "Ancora una volta ribadiamo il valore etico e sociale dei cantieri di lavoro che coinvolgono le persone detenute o in semilibertà della Casa circondariale di via Sforzesca: il nostro apprezzamento è confermato dal fatto che quattro di loro saranno protagoniste del progetto "Co.ala" che si svolgerà presso la sede di Assa". L’assessore alle Politiche sociali Emilio Iodice rimarca l’importanza "di iniziative di questo genere, rese possibili dallo speciale Protocollo sottoscritto tra Comune, Assa, Casa circondariale, Magistratura di sorveglianza, Uepe e Atc e finanziate dalla Regione Piemonte, che consentono per i soggetti coinvolti l’acquisizione di specifiche competenze in ambito lavorativo e il reinserimento nel tessuto sociale. Dal loro lavoro la comunità trae innegabile vantaggio, in quanto vengono coinvolti in diversi tipi di intervento volti a migliorare il decoro urbano: in questi mesi abbiamo testato concretamente la qualità di questi interventi presso diversi edifici e spazi pubblici della città. Ricordiamo che in questo caso Assa darà avvio al progetto facendosi inizialmente carico dei costi, con impegno da parte del Comune di richiedere il finanziamento alla Regione e provvedere quindi al rimborso per i costi sostenuti da Assa". Il presidente dell’Azienda partecipata Giuseppe Antonio Policaro precisa che "Assa si è impegnata ad anticipare i tempi della Dgr finanziando la fase iniziale del progetto con risorse interne non solo per la parte formativa e di sicurezza, ma anche per la quota assicurativa, Inail e responsabilità civile, e gli emolumenti di quattro "cantieristi detenuti". Siamo soddisfatti dei grandissimi risultati ottenuti sia attraverso i progetti legati alla Legge regionale n. 34/2008, ossia i "Cantieri di lavoro", sia al Protocollo per le "Giornate di recupero del patrimonio ambientale" e altri progetti sociali che vedono sinergicamente coinvolti Assa, Comune e altri Enti a beneficio della comunità novarese. I quattro detenuti del Progetto Coala saranno in supporto ai servizi commerciali di Assa soprattutto per gli interventi su discariche abusive, pulizie caditoie stradali commissionate dal Cbn, sgombero arredi e attrezzature da stabili comunali comprese le scuole e supporto logistico alle giornate per i grossi interventi di riqualificazione". Ancona: il Garante dei diritti in visita alle carceri di Montacuto e Barcaglione anconanotizie.it, 7 settembre 2017 Presente anche l’on. Emanuele Lodolini, che presenterà un’interrogazione parlamentare sulle problematiche delle strutture. Nuove visite del Garante dei diritti a Montacuto e Barcaglione. Una pausa breve, considerato che nel periodo estivo si sono resi necessari diversi sopralluoghi, soprattutto a Montacuto, alla luce di una situazione piuttosto complessa determinata da un progressivo sovraffollamento, dalla presenza di diversi detenuti con patologie psichiatriche, dalla inadeguatezza degli organici e, non da ultima, dall’improvvisa ondata di caldo che ha amplificato alcuni dei problemi già presenti. Aspetti più volte evidenziati dal Garante al Dipartimento ed al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria presso il Ministero della Giustizia, rinnovando il suo appello ad una maggiore attenzione in relazione agli interventi da mettere in atto per il sistema carcerario marchigiano. Ai nuovi sopralluoghi ha partecipato l’onorevole Emanuele Lodolini, al quale sono state rappresentate le maggiori criticità dei due istituti. Ambedue gli incontri sono stati definiti "molto positivi" ed al termine il parlamentare, come riferito dal Garante, ha dichiarato che quanto emerso sarà oggetto di una specifica interrogazione parlamentare. In particolare saranno evidenziati i problemi legati al sovraffollamento presso il carcere di Montacuto e, facendo riferimento anche a Barcaglione, alla carenza generalizzata di organico riguardante la polizia penitenziaria. Nell’interrogazione, che dovrebbe essere presentata fin dalla prossima settimana, l’attenzione sarà focalizzata altresì sulla situazione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, dopo il recente accorpamento all’ambito dell’Emilia Romagna. "Una scelta - conclude Nobili - che ha inevitabilmente determinato nuove problematiche nella gestione complessiva degli stessi istituti, andando ad aggravare alcune delle criticità già esistenti". Nuoro: Badu e Carros, cambio di direttore nel carcere nuorese di Luca Urgu L’Unione Sarda, 7 settembre 2017 Il nuovo giro di valzer dei direttori nelle carceri sarde riporta Patrizia Incollu a Badu e Carros, struttura che ha guidato fino al 2013 per poi "aprire" il nuovo penitenziario di Bancali a Sassari, la sua città. Non sarà una guida esclusiva quella della Incollu nell’ex carcere di massima sicurezza di Nuoro, ma l’esperta direttrice continuerà ad avere il timone anche del moderno penitenziario sassarese diventato da subito una polveriera per la concentrazione di 41 bis e di detenuti di matrice islamica. L’arrivo della Incollu (il suo è il terzo mandato a Badu e Carros) dovrebbe avvenire il 15 settembre quando si concluderà il mandato di Luisa Pesante che ritorna nella penisola. Il suo è stato un governo a scavalco che comunque non ha lasciato il segno nell’amministrazione di un penitenziario complesso (diversi i conflitti con le varie sigle sindacali nel semestre) come quello nuorese dove negli anni sono state avviate comunque una serie di attività mirate all’inclusione. Per Badu e Carros il ritorno di Patrizia Incollu è sicuramente una notizia positiva. La dirigente qui ha fatto bene avviando il nuovo corso di apertura del carcere al territorio e promuovendo iniziative di spessore che non avrà problemi a riprendere coniugandole con le esigenze di sicurezza. Certo non mancheranno nemmeno questa volta i problemi in un ambiente perennemente conflittuale: dagli organici ridotti della polizia penitenziaria all’apertura della nuova ala (dove i lavori sono stati recentemente conclusi) che nessuno sa a quale tipologia di reclusi sarà destinata, al problema più volte sollevato delle detenute isolane trasferite in gran segreto nei mesi scorsi per ospitare le presunte terroriste di matrice islamica. Sassari: "rivolta in carcere dei detenuti jihadisti", la denuncia del deputato Mauro Pili di Nadia Francalacci Panorama, 7 settembre 2017 E la Uil-Pa penitenziari dichiara: "Nel carcere non c’è neppure un comandante". "Il carcere di Sassari è un inferno Jihadista". Non è trascorsa neppure una settimana dalle rivolte dei detenuti nel carcere di Pisa e Firenze che la situazione negli istituti penitenziari italiani, torna ad essere "bollente". Questa volta è il carcere Bancali di Sassari, al centro di una "rivolta" di 18 detenuti accusati di terrorismo internazionale di matrice islamica, innescata venerdì scorso, 1 settembre, da uno di questi che si è rifiutato di rientrare in cella. "I detenuti cercano lo scontro con gli agenti e hanno sempre nuove rivendicazioni, a partire dalla libertà di telefonare in giro per il mondo - ha dichiarato il parlamentare Mauro Pili, di Unidos, che ha anche lanciato l’allarme - nel carcere di Bancali, la rivolta dei terroristi sembra debba restare nascosta". È considerato tra gli istituti più sicuri - Il Bancali di Sassari, è considerato un istituto tra più sicuri ed efficienti dell’intero sistema carcerario italiano, tanto che in queste ore il Dap sta valutando di trasferirvi il boss del narcotraffico Rocco Morabito, arrestato in Uruguay dopo 22 anni di latitanza. Tra le sue sezioni detentive, infatti, anche il reparto di alta sicurezza dedicato al 41bis. "Nel carcere, diventato di punto in bianco di massima sicurezza, la rivolta è alle stelle mentre i nuclei speciali (i Gom, ndr) annunciati da Roma restano un miraggio - continua Mauro Pili- intanto, i terroristi islamici, non avendo niente da perdere, irridono, provocano e spesso ottengono quel che vogliono in cambio di una tregua". Poi il deputato conclude: "La scelta di scaraventare i terroristi jihadisti a Sassari è stata folle e nascondere quanto accade è da irresponsabili, non fosse altro per la pericolosità dei terroristi islamici detenuti, tra i quali uno dei trenta più efferati al mondo". Sono pesanti le dichiarazioni del deputato sardo ma, in parte, vengono confermate anche dalla Uilpa Penitenziari. "La situazione del carcere di Sassari è davvero delicata - precisa a Panorama Angelo Urso, Segretario Generale Uil-Pa - il Governo ha disposto, lo scorso luglio, l’invio di altri agenti del nucleo speciale Gom (Gruppo operativo Mobile della Polizia Penitenziaria) attualmente impegnati nella sorveglianza dei detenuti al 41bis, per monitorare anche i terroristi islamici. Ma ad oggi non è ancora arrivato nessuno". "A questo occorre aggiungere che, nel carcere Bancali, non vi è nessun comandante di reparto qualificato - prosegue Urso - di tre commissari destinati alla struttura, non ve ne è neppure uno. Un commissario è legittimamente in maternità, uno è stato inviato per volontà del Dap a Sulmona e uno è stato inspiegabilmente destinato all’Ufficio del Cerimoniale del Ministero della Giustizia, dove il personale è considerato in esubero". E chi comanda il carcere sardo? "Un ispettore". Precisa. Una situazione decisamente pericolosa, non solo alla luce di eventuali rivolte dei detenuti, ma soprattutto per la classificazione degli stessi, ovvero mafiosi e terroristi, che, solo per la loro presenza, dovrebbero determinare una maggiore attenzione da parte del Ministero della Giustizia. Trapani: aprono un buco nel muro della cella, evasione bloccata di Maria Emanuela Ingoglia La Repubblica, 7 settembre 2017 In quattro, con attrezzi improvvisati, aprono un cunicolo per fuggire. ma il rumore delle pareti battute dagli agenti li tradisce. Dei quattro compagni di cella, uno era l’esperto in materia. Anche questa volta, la seconda, il suo piano era quello di fuggire, e per metterlo in pratica attendeva ogni giorno il controllo della battitura delle pareti. Dopodiché i quattro detenuti, che condividevano la cella al secondo e ultimo piano del carcere San Giuliano di Trapani, cominciavano a scavare, con piccoli pezzi di ferro estratti dal mobile del bagno, la parete destra della loro stanza. Un’attività paziente e certosina che, complice il tempo a disposizione, gli avrebbe probabilmente fatto guadagnare la libertà se non fossero stati scoperti dalla polizia penitenziaria. Tutti siciliani, in carcere da circa due anni per scontare una pena per reati comuni, avevano escogitato il modo per non farsi scoprire: dopo avere scavato tra una pietra e l’altra del muro asportando la malta cementizia, in modo da rendere la parete instabile, rimpastavano il materiale estratto e ricoprivano il tutto simulando umidità nella parete. Con un piccolo mobile coprivano, di volta in volta, la "macchia", cercando così di passare inosservati ai controlli che proprio in quella stanza, all’angolo dell’edificio, erano abbastanza serrati per la presenza dell’ex fuggiasco che in passato, a soli quattro mesi dalla libertà, era riuscito a evadere dal carcere di Castelvetrano, non facendo più rientro dopo essere andato a lavorare. Per lui le porte della prigione si erano successivamente riaperte per una rapina finita con le manette. A mandare in fumo il progetto di fuga è stato il suono prodotto dalla parete, battuta con il martello gommato dalle guardie che su quella cella puntavano la loro lente di ingrandimento. Scoperti, i quattro sono stati divisi e per loro è stato chiesto l’allontanamento dal carcere San Giuliano. "Le azioni e il complessivo comportamento non rispettoso delle regole dei detenuti - dice Renato Persico, direttore della casa circondariale - ci avevano insospettiti da tempo, tanto da indurci a controllarli oltre l’attività di battitura giornaliera delle sbarre e quella settimanale delle pareti. I quattro, che hanno negato di voler evadere, avevano un progetto di fuga che è stato fermato quando non avevano ancora creato il foro per estrarre la pietra. Ci siamo trovati davanti a uno scavo posizionato in una zona insidiosa, perché di solito ci si aspetta che vengano realizzati frontalmente. In questo senso la bravura di chi ha fatto i controlli è stata quella di estenderli in ogni parte della cella, ciò dimostra un livello di guardia alta della polizia penitenziaria nonostante il dato oggettivo della carenza di personale". Dalla tentata evasione prende spunto il sindacato di polizia penitenziaria della Uil che parla di un "indebolimento del sistema di sicurezza dei penitenziari, di strutture carcerarie costruite negli anni Sessanta che non consentono la vigilanza e il controllo a causa del personale insufficiente e per la mancanza di tecnologia adeguata". Roma: giuria di detenuti a Rebibbia, per superare le barriere Corriere della Sera, 7 settembre 2017 Un festival di cinema dentro le mura del carcere romano di Rebibbia, con una giuria interamente composta da detenuti. Inizia mercoledì prossimo con la proiezione di Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni - che presenterà il film insieme al giovane Andrea Carpenzano - la prima edizione della rassegna "Altri sguardi", presentata in questi giorni al Lido. "Tutto nasce da una richiesta della direttrice del penitenziario Rossella Santoro di creare un progetto comune che coinvolgesse i detenuti - racconta l’attrice Ilaria Spada fondatrice con Raffaella Mongini dell’associazione solidale Mètide. L’idea di fondo è che il cinema possa avere una funzione, oltre che di intrattenimento, anche terapeutica. Diventare un viaggio fuori e dentro te stesso, con un rituale condiviso della proiezione che, almeno in quell’intervallo, aiuta a superare le barriere". Cinque gli appuntamenti in programma, più una giornata finale, il 19 ottobre con la cerimonia di premiazione. "La giuria è composta da 20 detenuti, in platea ce ne saranno altri 80 a rotazione. Insieme a loro gli ospiti, registi, attori, persone coinvolte nei dibattiti previsti in coda a ogni film". Anche gli altri titoli della rassegna (La ragazza del mondo di Marco Danieli; L’ora legale di Ficarra e Picone; Non è un paese per giovani di Giovanni Veronesi; Lasciati andare di Francesco Amato) sono stati scelti di concerto con i detenuti, racconta Spada. "Non volevamo rischiare di toccare temi delicati, da parte loro la richiesta era di titoli che permettessero di approfondire. E essere ascoltati". Si parlerà di amicizia, ricerca di identità, legalità, corruzione, famiglia. Non è il solo progetto legato a Rebibbia. In novembre nella sezione femminile partirà "Tra le righe", un laboratorio di scrittura cinematografica tenuto da sceneggiatrici riservato alle detenute lungo sei mesi. In apertura, la proiezione di La pazza gioia di Paolo Virzì. Anche questo titolo, racconta Spada, scelto grande richiesta. Alessandria: "Secureworld", il fumetto stampato all’interno del carcere Redattore Sociale, 7 settembre 2017 Dal 2015 l’illustratrice Valentina Biletta tiene un laboratorio di incisione nella stamperia allestita al San Michele. Oltre alla graphic novel, "per la quale stiamo cercando un editore", in cantiere ci sono altri progetti come la stampa dei loghi del panificio interno al carcere. "Vogliamo trovare uno sbocco lavorativo". Una bambina smarrisce il suo gatto. L’animale si è infilato all’interno del carcere ed è stato adottato dai detenuti. La piccola riesce a entrarvi e lì incontra un detenuto che le racconta la sua storia. È "Secureworld", la graphic novel realizzata dai detenuti che hanno frequentato il laboratorio di incisione e stampa all’interno del carcere di Alessandria. Il laboratorio è partito nel 2015 grazie a Piero Sacchi dell’associazione Ics Onlus che, da tempo, si occupa di portare l’arte dietro le sbarre. Sacchi segue i corsi di pittura e poi ha coinvolto altre persone che insegnano fotografia, arte moderna o che fanno conversazione con i detenuti. "Io sono illustratrice e mi occupo di xilografia e incisione, quindi ho portato quello che sapevo fare", racconta Valentina Biletta, coordinatrice del corso di incisione e stampa. Al primo corso tenuto da Valentina Biletta nella casa di reclusione di Alessandria si sono iscritti 15 detenuti. "Erano stati ‘preparatì da Piero ma certo non sapevano cosa aspettarsi - racconta -. Poi c’è stata la normale selezione naturale, chi si è appassionato e chi ha capito che non faceva per lui". La graphic novel è il progetto nato da quel primo gruppo, "C’era un canovaccio scritto da Piero e l’abbiamo proposto al gruppo - spiega Biletta. Quindi siamo passati dal non saper incidere a fare un graphic novel. Un bel salto". La storia poi è stata rivista, "ognuno ci ha messo del suo, chi nella narrazione e chi nella parte grafica. E poi è stata rivista da uno dei partecipanti, appassionato di scrittura e di fumetti". Alla realizzazione hanno partecipato anche alcuni alunni di quinta elementare della scuola Galileo Galilei. "Dentro ci sono il pregiudizio verso il carcere, che ad Alessandria è appena fuori città ed è un edificio gigantesco che incute un po’ di timore ma anche l’incontro tra la bambina e i detenuti e la scoperta della cura con cui hanno accudito il suo gatto". Le tavole incise su legno con la tecnica della xilografia sono state portate anche fuori dal carcere, in mostre ed esposizioni, "l’ultima occasione è stata ‘Balla coi cinghialì a Vinadio grazie a Libera e a Luca Losio". Ma l’obiettivo, precisa Biletta, "è trovare un editore". Dal 2016 la stamperia artistica all’interno del carcere è attiva per stampe d’arte, workshop di incisione, produzione di xilografie di grande formato. "Tra i progetti c’è anche quello di stampare immagini per packaging - continua Biletta - Ad esempio, i loghi per il panificio attivo all’interno del San Michele che potrebbero essere stampati sui sacchetti del pane". In genere i partecipanti vanno da minimo 6/7 a un massimo di 15. "Anche se si tratta di detenuti con pene definitive, a volte molto lunghe, i gruppi cambiano spesso, anche solo per i trasferimenti e bisogna adattarsi. Ogni gruppo poi è diverso, ha una sua personalità - continua - I ragazzi possono accedere tutti i giorni al laboratorio e continuare il loro lavoro, ad esempio un’incisione, anche se in quel momento c’è il corso di fotografia". Il prossimo corso partirà la settimana prossima, in concomitanza con il calendario scolastico. Venezia: "La legge del numero uno", di Alessandro D’Alatri, alle Giornate degli Autori rbcasting.com, 7 settembre 2017 Terzo cortometraggio del Premio Goliarda Sapienza - Racconti dal Carcere, dedicato ai detenuti delle carceri italiane. In onda su Rai 3 domenica 10 settembre. Verrà presentato in anteprima mondiale giovedì 7 settembre alla 74. Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Proiezioni Speciali delle Giornate degli Autori, "La legge del numero uno", il terzo cortometraggio del Premio Goliarda Sapienza - Racconti dal Carcere. Dedicato ai detenuti delle carceri italiane, il Premio è stato ideato da Antonella Bolelli Ferrera ed è sostenuto dalla Siae - Società Italiana degli Autori ed Editori dalla prima edizione. Siae e Rai (assieme all’Associazione inVerso e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) sono entrambi enti promotori del Premio Goliarda Sapienza - Racconti dal Carcere che vuole riaffermare il valore, anche sociale, della letteratura. Prendendo ispirazione da alcuni dei racconti in concorso, Rai Fiction ha deciso di dare vita ad un’iniziativa parallela, i Corti del Premio Goliarda Sapienza. Il progetto è stato affidato ogni volta ad autori e registi differenti, ma scegliendo sempre un cast tecnico ed artistico di grande qualità. "La legge del numero uno" è diretto da Alessandro D’Alatri, regista cinematografico, ma anche di pubblicità di grande successo e recentemente di serie televisive. "Il Premio Goliarda Sapienza mi ha educato a comprendere i racconti dal carcere. Frammenti di dolorose realtà: storie di uomini e donne che riempiono lo scorrere del tempo interrogandosi sugli errori commessi e le pene da scontare. Qui il protagonista è l’attesa: di un permesso premio, dei domiciliari, di uno sconto di pena", ha commentato D’Alatri. La sceneggiatura del corto è stata scritta da Antonella Bolelli Ferrera e Massimiliano Griner. "La legge del numero uno" è stato prodotto da Daniele e Fabio Tomassetti per Dejà Vu Production in collaborazione con Rai Fiction. Dopo l’anteprima alle Giornate degli Autori, il corto sarà trasmesso da Rai 3 domenica 10 settembre in doppia collocazione alle 20.05 e alle 23.20. Firenze: la Festa della Rificolona nel carcere di Solliccianino Redattore Sociale, 7 settembre 2017 Venerdì prossimo la direzione del penitenziario Solliccianino ha organizzato la tradizionale festa fiorentina. L’associazione radicale Andrea Tamburi parteciperà con uno spettacolo di Paolo Hendel. La direzione della casa circondariale Gozzini di Firenze (Solliccianino) ha organizzato per venerdì 8 settembre una festa della rificolona in carcere, una festa tradizionale del folclore fiorentino. Una delegazione dell’associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" parteciperà all’iniziativa insieme a Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, e a Paolo Hendel, iscritto al Partito Radicale, che alle 19,40 terrà un piccolo spettacolo per i detenuti. Un’occasione di festa e dialogo con tutta la città, per aprire il carcere alle istituzioni cittadine e a tutti i fiorentini, in nome di una delle più antiche tradizioni fiorentine, la rificolona appunto. La partecipazione dei radicali è da iscrivere nel solco del Grande Satyagraha per un nuovo ordinamento penitenziario, una iniziativa di lotta nonviolenta che ha già raccolto l’adesione di più di 8.000 detenuti, da tutta l’Italia. Spoleto (Pg): "Rebibbia. Liberi di Ricominciare", docufilm e dibattito al Parco del Mondo spoletonline.com, 7 settembre 2017 Venerdì 08 Settembre 2017 alle ore 21.00 presso l’Arena Estiva Il Parco del Mondo (Parco Chico Mendes in via Martiri della Resistenza, 1) si terrà la proiezione del film documentario "Rebibbia. Liberi di Ricominciare", alla presenza dei Registi Amedeo Staiano e Guglielmo Mantineo. Modera l’incontro Daniele Ubaldi, direttore editoriale di Spoletoline. 21 attori, due anni di lavoro, un solo obiettivo. Questi i numeri del Film-Documentario "Rebibbia - Liberi di ricominciare", diretto da Amedeo Staiano e Guglielmo Mantineo, per la realizzazione e messa in scena a cura del laboratorio integrato di Teatro-terapia, svolto dalle psicologhe psicoterapeute Sandra Vitolo e Irene Cantarella. Le due dottoresse saranno anch’esse presenti alla proiezione, che coinvolge detenuti minorati psichici affiancati da detenuti comuni all’interno della casa di reclusione romana di Rebibbia. Sul palcoscenico 21 attori detenuti si sono esibiti per rappresentare emozioni realmente vissute e frammenti di vita, seguendo un copione interamente autobiografico. Le vicende portate in scena e, successivamente, raccontate nel docufilm, narrano dell’uomo e del suo riscoprirsi persona all’interno dell’istituzione totale. Storie di fragilità e di solidarietà, storie di ricerca di un’identità diversa oltre l’etichetta deviante; percorsi di responsabilizzazione personale e di affermazione della propria dignità umana, per mettersi in gioco anche di fronte ad un pubblico esterno: un viaggio alla riscoperta di sé, per portare la propria voce al di là del muro, in un’ottica di rinnovata speranza e di cambiamento possibile. Dalle ore 20 sarà offerto un aperitivo. In caso di pioggia o maltempo l’evento si svolgerà presso il Cinema Sala Frau. Bolzano: l’obiettivo di Seehauser dietro le sbarre di via Dante di Florian Kronbichler Alto Adige, 7 settembre 2017 Kronbichler: "La "disumana" prigione di Bolzano è la preferita dai detenuti". Ha aperto ieri i battenti alla Galleria Civica di Bolzano, in Piazza Domenicani 18, la bella mostra fotografica "Hinter Gitter - Dietro le sbarre. Il carcere di Bolzano" del fotografo sudtirolese Othmar Seehauser. La mostra, che resterà aperta fino al 24 di settembre, è accompagnata da due testi di Florian Kronbichler, deputato di Mdp, che alla struttura di via Dante ha dedicato molto tempo e molte energie. Pubblichiamo entrambi qui seguito, da una parte per dare voce al punto di visto "eccentrico", rispetto al carcere, di Kronbichler. dall’altra per spiegare lo sguardo del fotografo e le ragioni della mostra. La portinaia mi considera un veterano. A parte gli addetti ai lavori, le guardie, i volontari, il padre spirituale e di alcuni delinquenti pluri-recidivi, negli ultimi trent’anni nessuno è entrato e uscito più spesso di me dalla porta di Via Dante 28, quella del carcere di Bolzano. Appena si presenta l’occasione ci vado, e quindi so di cosa sto parlando. Non voglio però ingannarvi: c’ è poco di caritatevole in ciò che mi spinge a visitare la prigione, è piuttosto la curiosità. E per cercare conferma ad un mio pregiudizio. Perché io sostengo e sono fermamente convinto che il carcere di Bolzano, costruito ormai 130 anni fa sotto l’ amministrazione asburgica, sia una delle prigioni più umane d’Italia. Per non parlare di quelle in Austria o in Germania! L’ eventualità di essere trasferito altrove è infatti l’ incubo d’ogni detenuto "bolzanino" d’ esperienza. L’ opinione pubblicata però non si trova d’ accordo. "Condizioni disumane" dicono i visitatori del carcere, e chi non è mai stato dentro ripete il giudizio senza sapere di cosa parla. Chi osa contrastare questa vulgata viene accusato di violazione della dignità umana. Che sia disumano è da anni la scusa usata per non procedere nemmeno con i più elementari lavori di risanamento. Lasciare che la vecchia struttura diventasse fatiscente è stato il lasciapassare per poter progettare la realizzazione di un nuovo carcere faraonico a Bolzano sud. È disumano il vecchio carcere di Bolzano? No, non lo è. Al contrario, lo trovo incredibilmente umano. Non c’ è alcun dubbio che non corrisponda minimamente agli standard moderni dell’ edilizia carceraria o della detenzione. Gli manca tutto, davvero tutto. Mi chiedo però: tutto questo non manca, anzi, non mancava anche nelle baite di montagna? Non mancava in un maso su due? Lì però, al posto di questi "standard" c’era la stube, e nella stube la stufa. Ecco, è proprio questo: la differenza di atmosfera tra il vecchio carcere di Bolzano e il supercarcere moderno di Trento è quella fra il calore della stufa di una stube tirolese e un frigorifero spento. Nessuno dei detenuti a Bolzano chiederebbe mai il trasferimento a Trento. La "disumana" prigione di Bolzano, curiosamente, è solitamente tra gli istituti di pena preferiti dai detenuti di tutta Italia. Molte delle oggettive manchevolezze della struttura sono la chance migliore per una convivialità amichevole nel senso del "mal comune mezzo gaudio". Ci si aiuta a vicenda, si prepara insieme da mangiare perché la cucina, per quanto buona, non ce la fa. Le celle sono troppo piccole, quindi rimangono aperte più a lungo. E le guardie non sono ancora state sostituite da una videosorveglianza. Già, le guardie. Loro, come stanno? La prima risposta alla domanda è sempre: "mancano parcheggi". Certo, i posti macchina non mancheranno di sicuro nel nuovo carcere di Bolzano sud. Sarà un carcere esemplare che farà fronte perfettamente a tutto quanto manca nel vecchio: alle esigenze igieniche, dietologiche, psicologiche, di pianificazione dello spazio. Sarà una prigione politicamente corretta. Mi viene da ridere se non ci fosse da piangere! "Ferro batte ferro". Pino Roveredo e gli anni del carcere, senza nulla tacere di Alessandro Mezzena Lona Il Piccolo, 7 settembre 2017 "Ferro batte ferro" pubblicato da Bottega Errante sarà presentato in anteprima a Pordenonelegge. La società ha bisogno di delinquenti, per sentirsi migliore. Proibisce l’uso della droga, poi chiude gli occhi davanti allo scandaloso mercato che invade le vie delle nostre città. Mette in guardia contro i pericoli dell’alcol, del gioco d’azzardo compulsivo, ma non fa niente per impedire che perfino un minorenne se li trovi a portata di mano. E allora ha ragione Pino Roveredo quando dice che gli Stati hanno bisogno dei ladri, degli alcolizzati, dei drogati, per lavarsi la coscienza scaricando le proprie miserie su uno stuolo di disgraziati, di emarginati. Roveredo, che nel 2005 ha vinto il Premio Campiello con il libro di racconti "Mandami a dire", quella realtà la conosce bene. Perché ha provato sulla propria pelle la vergogna dell’arresto, l’angoscia delle notti infinite passate in galera. Il tormento dei giorni spesi a rimuginare sul passato e sul futuro. Sul mondo che aspetta al di là della sbarre, e che non perdona mai chi ha sbagliato. Non nasconde il suo passato. Roveredo. Non ha mai finto di non essere quello che è stato. E non stupisce che dopo tanti romanzi, dal debutto di "Capriole in salita" fino al recentissimo "Tira la bomba", abbia voluto ritornare a scrivere sulle carceri. Con un nuovo libro, a metà tra l’autobiografia e il racconto, tra la testimonianza e il pamphlet, che si intitola "Ferro batte ferro" ed è uscito per Bottega Errante Edizioni (pagg. 109, euro 13). Sarà presentato in anteprima a Pordenonelegge venerdì 15 settembre, alle 11 nel Palazzo della Provincia. Dialogherà con l’autore Silvia Della Branca, direttore del carcere di Tolmezzo. Da un po’, Roveredo è stato nominato dalla Regione Friuli Venezia Giulia Garante per le persone private della libertà personale. E lui, nato in una famiglia di artigiani a Trieste, passato per una giovinezza contrassegnata dalla voglia irrazionale di andare contro le regole, non ha preso quell’incarico come una semplice onorificenza. Tanto che, invece di mettersi al riparo di una scrivania a concionare sul mondo degli emarginati, ha iniziato a girare per le carceri. Tenendo corsi di scrittura, coinvolgendo i detenuti in alcuni progetti teatrali. Facendo sentire loro che, oltre le sbarre, qualcuno non li dimentica. C’è un rito scaramantico in carcere, che Roveredo non ha mai dimenticato. Prevede che il detenuto pronto ad abbandonare la sua cella, per tornare libero, spezzi lo spazzolino da denti che l’ha accompagnato nel viaggio all’Hotel Millesbarre. L’Albergo della Libertà Perduta. Volendo, con quel gesto, promettere a se stesso di chiudere per sempre i conti con il torbido passato. Troppo spesso, però, un detenuto resta tale anche oltre la soglia del carcere. Fa una fatica tremenda a trovare lavoro. E se lo trova, prega tutte le divinità che nessuno scopra il suo peccato capitale: l’aver sbagliato. Non basta: quasi sempre deve rifarsi completamente una vita. Se aveva una fidanzata, una moglie, una compagna, capita che lei se ne sia andata per la sua strada. E la società come lo aiuta? Spesso in nessun modo, perché manca la volontà reale di recuperare chi ha avuto esperienze con il carcere. Trovare uno che si fida di te è tutt’altro che facile. E allora? Per Roveredo ha funzionato la rabbia. E l’angoscia di "consegnare la mia esistenza ai registri dell’ufficio matricola. Non era possibile vivere nell’ingorgo del lamento senza aver mai usato la difesa del muscolo. Non era possibile nascondere il mio egoismo dentro le mura dell’indifferenza. Non era possibile obbligare i miei cari a un dolore che non meritavano". Entrato in carcere per il furto di una macchina, una bravata proposta in una serata alcolica da uno degli amici degli anni ribelli, lo scrittore ha visto da vicino tutti i passaggi dell’"educazione" al carcere. Dalle notti di sesso violento a cui i più deboli sono obbligati da quelli che nel carcere dettano legge, alle parentesi di solidarietà che si creano tra chi ha perduto la propria libertà. Perché è quella l’idea più dura da accettare: che per un errore, un essere umano sia privato del tempo, dello spazio. Della possibilità di muoversi e di decidere. Memore delle parole di un sociologo, convinto che "se domani per miracolo sparisse tutto il disagio, sarebbe un dramma mondiale", Roveredo chiude il libro raccontando con le voci dei detenuti i carceri di Gorizia, Pordenone, Udine, Tolmezzo e Trieste. Convinto che "le sbarre si possono piegare". Che nessuno è "irrecuperabile": non a caso, lui è riuscito a smentire la profezia dell’assistente sociale che lo vedeva destinato a bruciare la vita in galera. Per sfidare la povertà in Italia servono 7 miliardi di Paolo Baroni La Stampa, 7 settembre 2017 Oggi alla Camera il cartello di associazioni e sindacati presenta il nuovo piano triennale: "Siamo a un passaggio storico: senza stanziamenti adeguati si rischia una riforma incompiuta". Se si vuole fare sul serio per finanziare la lotta alla povertà di qui al 2020 bisogna mettere sul piatto 5,1 miliardi di euro in più di oggi per passare dagli 1,7-1,8 miliardi di euro della dotazione attuale a 7. Mica briciole. L’Alleanza contro la povertà gioca d’anticipo ed in vista della prossima legge di bilancio rilancia le sue richieste al governo e alla politica proponendo un nuovo Piano triennale di lotta alla povertà. Siamo ad "un passaggio storico" è scritto in un documento dell’Alleanza presentato oggi alla Camera, "Si deciderà, infatti, se la recente introduzione del Reddito d’Inclusione (Rei) costituirà l’ennesima riforma incompiuta nella storia italiana oppure il punto di partenza di un percorso che costruisca risposte adeguate per tutti gli indigenti". Infatti, "bisognerà scegliere tra lasciare il Rei così com’è, aggiungendolo alla già lunga serie di riforme incompiute del nostro Paese, oppure avviare un Piano Triennale che lo estenda progressivamente a tutti gli indigenti e rafforzi le risposte previste, come richiesto dall’Alleanza contro la Povertà". Il disegno del Rei - è scritto nel documento - riprende in larga parte la proposta Reddito d’Inclusione Sociale (Reis) avanzata dall’Alleanza, ma le risorse sinora rese disponibili non sono sufficienti. "Ad oggi, infatti, il Rei è destinato a raggiungere esclusivamente una minoranza dei poveri, fornendo risposte inadeguate nell’importo dei contributi economici e nei percorsi d’inclusione sociale". Partendo dal presupposto che "la recente introduzione del Rei ha dotato il nostro Paese della prima misura nazionale, strutturale - un risultato di grande portata, dopo decenni di disinteresse della politica italiana nei confronti di chi sta peggio" - e che "la gravità dei ritardi accumulati nel passato fa sì che vi siano ancora passi significativi da compiere", sono tre le aree di possibile miglioramento del Rei. La prima riguarda la platea dei potenziali beneficiari. "In Italia - sostiene l’Alleanza - vivono in povertà assoluta 4,75 milioni di persone, pari al 7,9% della popolazione complessiva. Di questi riceveranno il Rei 1,8 milioni di individui, cioè il 38% del totale", dal 10% della fascia over 66 ai 59% degli giovani con meno di 17 anni. "Pertanto - viene sottolineato - il 62% dei poveri ne rimarrà escluso". Il Rei, infatti, è attualmente destinato ai nuclei familiari con almeno un minorenne (la più ampia fascia di popolazione interessata), oltre che ai nuclei con un figlio con disabilità, a quelli con una donna in stato di gravidanza ed alcuni nuclei con persone di 55 anni o più in stato di disoccupazione. Tuttavia, viene segnalato, anche tra i minorenni il 41% di quelli poveri rimarrà escluso perché le soglie economiche utilizzate per l’accesso alla misura risultano più basse del livello di povertà. Inoltre il profilo attuale della misura divide i poveri in due gruppi: quelli di "serie a", che ricevono il Rei, e quelli "di serie b", che non lo ricevono. "Tale discriminazione può essere compresa solo se temporanea e, quindi, da considerare come un primo passo nella prospettiva di un progressivo ampliamento dell’utenza -è scritto nel documento -. Se ciò non accadesse risulterebbe complicato motivare per quali ragioni alcuni indigenti meritino un sostegno pubblico e altri no. Ad esempio, perché le famiglie giovani con figli minori sì e quelle senza no? E le famiglie con figli maggiorenni? E quelle povere con componenti anziani? E così via". Di qui la richiesta di "dotare il Paese di un Rei universale", per "costruire un’assicurazione per la nostra intera società". Altro nodo l’importo del sussidio. Confrontando l’importo medio mensile del Rei attuale con quello ritenuto adeguato dall’Alleanza, in entrambi i casi variabile secondo la numerosità del nucleo familiare e calcolato come la distanza tra il reddito disponibile della famiglia interessata ed una determinata soglia, si registra uno scarto notevole tra l’importo necessario e quello previsto. In pratica vengono erogati in media 289 euro anziché 396. Questo perché l’Alleanza utilizza la soglia di povertà assoluta mentre il Rei prende a riferimento un parametro più basso. "Non ci si può, in alcun modo, dimenticare che le cifre rese disponibili dal Rei sono rilevanti - nota l’Alleanza - per chi ha redditi estremamente bassi. Tali importi, tuttavia, non consentiranno ai beneficiari di soddisfare adeguatamente le proprie esigenze primarie, che riguardano l’alimentazione, la casa, il vestiario e i trasporti ed altre necessità di base. Non solo, ma secondo il cartello delle associazioni "il dibattito politico si è sinora interessato prevalentemente al numero di poveri raggiunti dal Rei. I dati, invece, invitano a non perdere di vista l’ammontare del contributo per evitare un rischio molto concreto: quello che volendo massimizzare il numero di beneficiari ma non investire a sufficienza nella lotta alla povertà, si ampli l’utenza senza elevare gli importi. Con il risultato di assistere sempre più persone senza dar loro la possibilità di raggiungere uno standard di vita minimo". Altro nodo, i percorsi d’inclusione sociale. Si tratta di una serie di servizi che servono a impegnare la persona nella costruzione del percorso di inclusione sociale e/o lavorativa, rendendo disponibili le competenze e gli strumenti per ri-progettare l’esistenza e consentirle, dove possibile, di uscire dalla povertà e - in ogni caso - di massimizzare la propria autonomia. In questo caso la regia è in capo ai Comuni, che operano insieme al Terzo Settore, ai Centri per l’Impiego e agli altri soggetti del welfare locale. Attualmente si prevede che il 15% dei finanziamenti sia destinato ai Comuni per i suddetti percorsi. Non basta, sostiene l’Alleanza, occorre salire al 20%. Di qui, infine, la richiesta si portare la dotazione complessiva di qui al 2020 a quota 7 miliardi, una cifra molto consistente se si considera che stando alle ultime indiscrezioni il governo per il prossimo anno prevede sì di aumentare la dotazione ma restando in una forchetta che al massimo è compresa tra 500 milioni ed un miliardo di euro. Tutte queste proposte l’Alleanza per la povertà le riassume nel nuovo Piano Nazionale di contrasto della povertà 2018-2020 che viene presentato al governo allo scopo di "proseguire il percorso iniziato con l’introduzione del Rei sino al suo completamento", "agendo con gradualità al fine di estendere il Rei a tutti gli indigenti e di rafforzare gli interventi forniti, aumentando di anno in anno la dotazione di fondi, e definendo poi un particolare sforzo per sostenere l’attuazione del Rei nei territori facendo collaborare in maniera più stretta Stato, Regioni e gli altri attori coinvolti in modo tale da "costruire le condizioni affinché i soggetti del welfare locale possano operare al meglio nell’impegnativo compito di tradurre il Rei in pratica". Da ultimo nel suo documento l’Alleanza esprime un timore, ovvero che "il dibattito politico si focalizzi sull’ammontare degli stanziamenti aggiuntivi per il prossimo anno, perdendo di vista obiettivi e progettualità. Come già accaduto in innumerevoli occasioni, si tratterebbe di una discussione su "quanto stanziare" e non su "quali obiettivi perseguire". L’auspicio è che il confronto verta, invece, sulla vera posta in gioco: il nuovo welfare che vogliamo costruire nel nostro Paese. Le risorse da stanziare costituiscono un elemento decisivo, evidentemente, ma bisogna discuterne nell’ambito di un confronto più ampio. Confrontiamoci sul progetto per il futuro del welfare italiano, per favore". Migranti. Un’utopia per l’Africa, il "colonialismo solidale" di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 7 settembre 2017 È calato il numero degli sbarchi, ma non basta. Proprio in queste ore, la Spagna vede quadruplicare gli arrivi dal Marocco e si va delineando una nuova rotta diretta via Mar Nero tra Turchia e Romania. La soluzione è altrove. Il calo degli sbarchi, in un’estate che si annunciava segnata da flussi migratori almeno in potenza devastanti è, ovviamente, un’ottima notizia (vi corrisponde, peraltro, il calo delle morti in mare). Ma si tira dietro illusioni pericolose, da rimuovere in fretta, nel discorso pubblico tra noi e i nostri partner europei. La prima, e la maggiore, è che tutto sia risolto, che l’emergenza sia ormai lontana e al più si tratterà di gestire l’ordinario. Non è così. L’attivismo di Marco Minniti, forse il primo da molto tempo ad affrontare la questione tutta intera anziché rifugiarsi in fumisterie dilatorie, ha certo fruttato nel breve periodo. I numeri impressionano: i migranti sono il 51 per cento in meno rispetto a luglio e addirittura l’85 per cento in meno rispetto all’agosto 2016. Si può discutere sull’apertura di credito concessa alla guardia costiera libica, cui è difficile attribuire standard, diciamo, europei. Si può e si deve discutere sulla natura dei 34 "campi" dove, tra Tripoli e Sebha, i libici ammassano a migliaia i profughi, trattandoli né più e né meno come faceva Gheddafi quando era finanziato dal governo Berlusconi con gran sdegno del Pd allora all’opposizione. Ma è innegabile che una svolta (da coniugare opportunamente con l’annunciato Piano per l’integrazione) ci sia stata. E che non abbia torto il ministro degli Interni spiegando come un trend di 12 mila sbarchi in 48 ore (accadeva appena lo scorso giugno) avrebbe potuto mettere a repentaglio la nostra democrazia già percorsa da gravi tensioni xenofobe. Tuttavia, proprio in queste ore, la Spagna vede quadruplicare gli arrivi dal Marocco (ancora pochi in termini assoluti ma segno chiaro di tendenza) e si va delineando una nuova rotta diretta via Mar Nero tra Turchia e Romania. Chiusa una via, continuano a riaprirsene altre in un gioco feroce di cui i trafficanti, decisi a difendere il volume d’affari, sono i maggiori player e i migranti le eterne vittime. La battaglia sulle Ong era dunque un cerotto sopra una diga crepata. Dall’altro lato della diga c’è un’intera umanità dolente che non potrà essere fermata a lungo in mezzo al mare o nel deserto, qualsiasi strategia si adotti: perché fugge da morte sicura verso una morte soltanto probabile. Testimoni oculari raccontano che Al Sisi, durante la famosa visita italiana al Cairo del 3 febbraio 2016 (giorno in cui fu ritrovato il corpo di Giulio Regeni), si permise con la delegazione dell’allora ministra Guidi toni sprezzanti al di là di qualsiasi galateo, rammentandoci la possibilità di scaricare sulle nostre coste uno tsunami di centinaia di migliaia di disperati solo allentando un po’ la guardia. Desertificazione e siccità sono del resto più forti di qualsiasi milizia. La carestia, solo in Sud Sudan, Corno d’Africa e nel bacino del lago Ciad, ha spinto alla fame trenta milioni di persone; e solo in Somalia, nel 2011, ha causato 260 mila morti, in maggioranza bambini. In un mondo globalizzato pensare di mettere sotto vetro questo magma è ben peggio di un’illusione sovranista: è demenza politica. Ma la vera risposta sta in Africa, non nel Mediterraneo. Tutti lo sanno, ma è difficile e rischioso dirlo chiaramente. Comincia a dirlo Macron. Lo ha detto al nostro Federico Fubini il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. La soluzione è internazionale e può richiedere anche un impegno militare: quando pensiamo a campi Onu in Libia, è difficile prescindere da una forza di deterrenza che li protegga. Sono l’Europa e più ancora le Nazioni Unite a dover rispondere presto (davvero presto) alla grande questione umanitaria aperta dalla detenzione dei migranti: addebitarla a Minniti, come fanno la sinistra radicale ed esponenti anche illustri del mondo del volontariato, sembra davvero un errore di bersaglio. A lungo termine, tuttavia, anche i campi Onu andranno superati. L’ultima illusione sarebbe recintarvi un continente in fuga. Toccherà all’Europa, quando e se avrà un orizzonte geopolitico e un esercito comuni, riportare in Africa maestri e ingegneri, medici e soldati. Collaborando con quei pochi Paesi africani dove un’entità statuale esiste davvero e smettendo di buttare soldi nelle tasche di qualche tirannello (l’ultimo della serie, Issoufou in Niger) perché ci faccia da buttafuori vessando la propria gente. Il percorso sconfina nell’utopia. Ma la storia sa sorprenderci, talvolta: era utopia, cent’anni fa, anche l’idea che Germania e Francia smettessero ciclicamente di spararsi addosso. Serve visione, un nation rebuilding che insegni il futuro a milioni di giovani africani. Dopo il colonialismo, una decolonizzazione vile e piena di sensi di colpa e il feroce neocolonialismo economico delle multinazionali, forse il XXI secolo dovrebbe inventarsi il "colonialismo solidale". Non per bontà, ci mancherebbe. Ma perché aiutando loro, aiuteremmo parecchio noi stessi. Migranti. Relocation, bocciati i ricorsi di Ungheria e Slovacchia di Carlo Lania Il Manifesto, 7 settembre 2017 La Corte di giustizia europea. La reazione di Budapest e Bratislava: "Sentenza oltraggiosa". Il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto parla di "sentenza scandalosa", che addirittura minaccerebbe "il futuro e la sicurezza dell’Europa" e promette: "Per noi la battaglia vera comincia adesso". Dietro a una reazione così dura c’è la decisione della Corte di giustizia europea di respingere i ricorsi presentati da Ungheria e Slovacchia contro i ricollocamenti dei richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia, come deciso nel 2015 dal Consiglio europeo. Budapest e Bratislava (che in due anni non hanno dato prova di grande solidarietà: la prima non ha preso neanche un profugo, la seconda appena 16) si sono opposte fin da subito ai ricollocamenti facendo ricorso alla Corte di Lussemburgo e sostenendo che la decisione della relocation sarebbe stata viziata da errori di carattere procedurale e che comunque non sarebbe stata utile a raggiungere il suo scopo, che era quello di aiutare Italia e Grecia, i due paesi messi più in difficoltà dalla crisi dei migranti del 2015. Motivazioni che nei giorni scorsi sono state respinte dall’avvocato generale della Corte e ieri anche dai giudici. Dura è stata la reazione anche della Slovacchia che attraverso il suo premier Robert Fico ha annunciato di non voler fare nessun passo indietro: "La nostra posizione sulle quote non cambia", ha confermato il premier. Soddisfazione, viceversa, è stata espressa dalle istituzioni europee e il commissarie Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos ha avvertito i due Paesi ricorrenti che se "non dovessero cambiare il loro approccio" sui ricollocamenti, "dovremmo considerare l’ultimo stadio della procedura di infrazione, che consiste nel deferirli alla Corte di Giustizia". Volendo si può considerare scontata la decisione assunta ieri dalla Corte di giustizia, ma non per questo è meno importante anche perché isola in Europa i paesi dell’Est, compresa la Polonia che è intervenuta nel corso del procedimento per sostenere la posizione di Ungheria e Slovacchia. Il programma di ricollocamenti venne adottato dal Consiglio europeo nel settembre del 2015 e prevede la redistribuzione in due anni di 120 mila richiedenti asilo da Italia e Grecia agli Stati membri. Finora, però, i risultati sono stati alquanto deludenti. Quando mancano ormai pochi giorni alla fine del programma (salvo possibili proroghe), i dati forniti ieri dalla Commissione europea dicono che in tutto sono stati ricollocati appena 27.695 migranti, 8.451 dall’Italia e 19.244 dalla Grecia. Un fallimento dovuto anche al fatto che resistenze ad accettare i rifugiati non sono arrivate solo dai paesi dell’Est. Non a caso nella sentenza i giudici di Lussemburgo non mancano di sottolineare come, tra i motivi che hanno determinato lo "scarso numero di ricollocazioni", ci sia anche "la mancanza di collaborazione di alcuni Stati membri". Difficilmente il giudizio di ieri potrà smuovere Ungheria e Slovacchia, ma anche Polonia, repubblica Ceca e Romania, tutti paesi contrari ai ricollocamenti, dalle loro posizioni. Ma la decisione della Corte di Lussemburgo potrebbe adesso aprire nuovi scenari anche nella discussione in corso in Europa sulla riforma del regolamento di Dublino, che in teoria dovrebbe basarsi sul principio di una maggiore solidarietà tra gli Stati. Per ora. comunque, l’Europa incassa la sua vittoria. "Ho sempre detto ai nostri partner dell’Europa orientale che era giusto chiarire la questione dal punto di vista legale. Ma ora ci aspettiamo che rispettino la decisione della Corte e implementino gli accordi senza ritardi", ha commentato il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel. Anche Manfred Weber, presidente all’Europarlamento del Ppe, gruppo del quale fa parte il partito del premier ungherese Viktor Orbán, plaude alla decisione dei giudici: "Ora - ha detto - c’è la possibilità di sanare la ferita aperta nell’Ue sulla politica migratoria". Migranti. Multa alla cooperativa se il profugo chiede l’elemosina di Floriana Rullo La Repubblica, 7 settembre 2017 Nuova ordinanza anti-migranti nel Vercellese. L’ha decisa il sindaco leghista di Borgosesia Tiramani, successore di Buonanno: "Loro non possono pagare, le coop sì". Verbali da 250 a 1.500 euro. Se il povero che chiede l’elemosina è un profugo ospite di un centro di accoglienza, a prendere la multa sarà la cooperativa che lo gestisce. L’ordinanza, la prima in Italia di questo genere, porta la firma del sindaco leghista di Borgosesia, Paolo Tiramani, ed è "contro l’accattonaggio". Un documento unico nel suo genere visto che, al posto di multare l’immigrato che difficilmente potrà pagare la sanzione, si rivale contro la cooperativa che avrebbe dovuto gestire i richiedenti asilo con attività, corsi e progetti di integrazione. Con tanto di multa salata che partirà dai 250 euro e potrà arrivare fino a 1.500 euro, e segnalazione al prefetto. In provincia di Vercelli, dunque, arriva una nuova delibera anti-migranti che si affianca a quella emanata da un’altra sindaca, Michela Rosetta, che a San Germano Vercellese ha previsto sanzioni da 150 a 5mila euro nei confronti di chi affitta i propri immobili per ospitare profughi e richiedenti asilo. Non solo: sempre a San Germano nei mesi scorsi era stata condotta una battaglia contro chi non pagava le tasse, vietando di fatto parco giochi e mensa scolastica ai figli degli inadempienti, tra cui molti appartenenti alla cospicua comunità marocchina della cittadina. "Siamo stufi di vedere profughi che ci costano 35 euro al giorno - dice Tiramani, succeduto al noto sindaco ed europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, morto l’anno scorso in un incidente stradale - chiedere l’elemosina davanti ai supermercati di Borgosesia e di altri centri valsesiani, oppure nei mercati. Significa che le cooperative che dovrebbero gestirli dormono, anziché impegnarli nei progetti in cui dovrebbero. Quindi è giusto multare loro. In questi mesi ho ricevuto parecchie segnalazioni da cittadini che lamentano l’incremento della presenza di persone dedite all’accattonaggio nel territorio comunale. Quotidianamente viene appurato che le persone che mendicano in prossimità di supermercati, sono ospiti presso strutture di accoglienza di comuni limitrofi appositamente impegnate nella gestione degli immigrati e pertanto il verbale di accertamento e contestazione della sanzione pecuniaria sarà inviato anche al responsabile". Sin dalla campagna elettorale, aggiunge il sindaco, "abbiamo promesso una particolare attenzione in materia di sicurezza e con questa misura intendo porre un freno ad un’annosa problematica. Oltretutto chi mendica sono i presunti profughi che manteniamo quotidianamente pagando loro vitto, alloggio, spese telefoniche, sigarette e videopoker vari". Droghe. Relazione Annuale al Parlamento 2017, la deriva tecnicistica di Grazia Zuffa Il Manifesto, 7 settembre 2017 La Relazione Annuale al Parlamento 2017 sullo stato delle tossicodipendenze, uscita nel pieno d’agosto, conclude la parabola di "tecnicizzazione" di tale documento. Come si ricorderà, la presentazione della Relazione è un adempimento previsto dalla legge antidroga, con l’intento di fornire ai parlamentari, e più in generale ai policy maker, uno strumento di valutazione delle politiche sulla droga. Un documento di orientamento politico, dunque. Non a caso, l’obbligo di riferire al Parlamento fu introdotto nel 1990, ai tempi della svolta punitiva, che tanti dubbi e opposizioni suscitò, nel Parlamento e nel Paese. Valutare le politiche antidroga è sempre stato difficile, per l’approccio squisitamente moralistico-ideologico della "lotta antidroga". E infatti, negli anni, le Relazioni al Parlamento sono state perlopiù assai carenti nell’offrire strumenti di lettura delle strategie messe in campo. E tuttavia non è mai mancata un’introduzione del responsabile governativo di turno, a evidenziare le indicazioni politiche. Ciò fino a qualche anno fa, quando detta introduzione è venuta meno, pur rimanendo la presentazione ufficiale in capo a un rappresentante governativo (l’anno scorso toccò alla ministra Boschi). Quest’anno, anche l’ultimo simbolo di responsabilità politica è svanito. Quasi fosse un Report rilasciato da un Istituto di ricerca, la Relazione si apre con un Executive Summary, che esplicita l’ intento puramente tecnico descrittivo, di "offrire un’istantanea della situazione delle droghe in Italia". Si badi: la "tecnicizzazione" di questioni politiche, oggetto in precedenza di confronto e dibattito fra i cittadini, è fenomeno dei nostri tempi, che rinvia al cuore stesso della crisi attuale della democrazia (si pensi alla magistrale critica alle tecno-burocrazie dell’Europa dell’austerità, offerta da Yanis Varoufakis nel libro "I deboli sono destinati a soffrire?"). Nel suo piccolo, la Relazione mostra gli effetti di questo processo, se solo la si paragona alla versione dello scorso anno. Allora, la parte introduttiva sull’Assemblea Generale Onu (Ungass 2016) aveva offerto, pur con dei limiti, la cornice del confronto globale sulla politica delle droghe e sul posizionamento dell’Italia (cfr. Rissa, Manifesto, 25/1/17). C’era inoltre un ampio capitolo sulla Riduzione del danno quale "quarto pilastro" della politica sulle droghe, frutto del confronto con l’associazionismo, attivato nel corso del 2016 dal Dipartimento Antidroga. Niente di tutto ciò nell’edizione 2016. Il contesto internazionale è venuto meno. Così, una questione chiave come le politiche in movimento sulla cannabis (legalizzata in ben otto stati americani, fra cui quello strategico della California) non è neppure nominata. E bisogna sfogliare la Relazione Europea 2017, per scoprire, fra i policy issues, la domanda cruciale: "Quali implicazioni comportano per l’Europa gli sviluppi internazionali sulla politica della cannabis?". La scomparsa più sconcertante riguarda però la Riduzione del danno, quasi affatto nominata. Come interpretare questo vuoto a fronte delle precise indicazioni operative presenti nella Relazione 2016? Che cosa è stato fatto per sviluppare la Riduzione del danno, che cosa è stato accantonato, che cosa resta da fare? Non lo sappiamo. In conclusione: la lettura della Relazione 2017 riconferma l’urgenza di convocare la Conferenza Nazionale sulle droghe e bene hanno fatto le Ong che sul punto hanno avanzato diffida formale al governo. La tecnicizzazione tuttavia comporta qualche vantaggio, va detto. Sono da apprezzare gli sforzi di comunicazione e di chiarezza, che fanno della Relazione 2017 un documento comprensibile, a differenza del passato. In virtù di ciò, abbiamo conferma degli effetti di criminalizzazione della legge antidroga (trovando riscontro ai dati forniti dal Libro Bianco 2017). Ripartiamo da qui. Regno Unito. Torture sui migranti: Papa Francesco protesta, 17 vescovi lo seguono ilsussidiario.net, 7 settembre 2017 Migranti in Gran Bretagna, il Papa si solleva contro trattamenti disumani. L’emergere dopo un documentario della BBC degli abusi nei centri di accoglienza ha scatenato indignazione. Un programma trasmesso dalla BBC lunedì scorso, intitolato "Undercover: i segreti dell’immigrazione britannica" ha messo in luce una realtà inquietante. Ha raccontato abusi sistematuci e maltrattamenti dei detenuti nel centro di espulsione per l’immigrazione di Brook Hous,e vicino all’ aeroporto di Gatwick in Inghilterra. Tra i casi più gravi, il quasi strangolamento di un detenuto da parte di un ufficiale, il continuo beffardo e abuso dei detenuti e l’ammissione di maltrattamenti da parte degli agenti che si trovano di guardia. Il programma ha giustamente suscitato proteste e indignazione nell’opinione pubblica, con 10 funzionari che lavoravano alla Brook House, successivamente sospesi. Ma il problema sembra molto più radicato. Il malcostume che ha creato le condizioni per gli abusi affonda negli atteggiamenti pubblici che disumanizzano coloro che non hanno lo status di immigrati regolari, ed è anche una questione che Papa Francesco in persona ha sollecitato i governi ad affrontare. Il mese scorso il Vaticano ha pubblicato un piano in 20 punti per i Governi di tutto il mondo per cercare di sollecitare un trattamento più umano per i rifugiati e i migranti - un problema che Papa Francesco vede come una delle maggiori sfide globali del XXI secolo. Nel piano, il Vaticano sottolinea la necessità di cercare alternative al ricorso alla detenzione. Attualmente, 17 vescovi della Chiesa d’Inghilterra hanno unito la loro voce alla richiesta di riforma del Santo Padre del sistema carcerario, sollecitando la fine della detenzione per il reato di immigrazione clandestina nel Regno Unito. Il Papa ha sempre parlato della necessità di salvaguardare la dignità inalienabile di ogni persona, indipendentemente dal suo status giuridico. Al contrario, il dibattito pubblico sui migranti in Gran Bretagna spesso manca di tale riconoscimento dell’umanità collettiva. In effetti, alcuni migranti sono visti con tale disgusto da essere considerati subumani. Questo è il motivo per cui Papa Francesco prende così sul serio la sfida dell’accoglienza e della guerra all’intolleranza. Egitto. Il ricorso sistematico alla tortura potrebbe costituire un crimine contro l’umanità hrw.org, 7 settembre 2017 Dissidenti sottoposti a pestaggi, scosse elettriche e posizioni stressanti. Sotto il comando del presidente Abdel Fattah al-Sisi, le forze di polizia regolare e i funzionari della Sicurezza nazionale dell’Egitto sottopongono regolarmente a tortura i detenuti politici, facendo ricorso a varie tecniche come pestaggi, scosse elettriche, posizioni stressanti, e talvolta stupro. Lo riferisce Human Rights Watch in un rapporto uscito oggi. Secondo il rapporto di 63 pagine "We Do Unreasonable Things Here: Torture and National Security in al-Sisìs Egypt", il ricorso diffuso e sistematico alla tortura da parte delle forze di sicurezza costituisce probabilmente un crimine contro l’umanità. La pubblica accusa, di solito, ignora le rimostranze dei detenuti riguardanti maltrattamenti e talvolta minaccia di torturarli, creando un clima di impunità pressoché totale, ha dichiarato Human Rights Watch. Sotto il comando del presidente Abdel Fattah al-Sisi, le forze di polizia regolare e i funzionari della Sicurezza nazionale dell’Egitto sottopongono regolarmente a tortura i detenuti politici, facendo ricorso a varie tecniche come pestaggi, scosse elettriche, posizioni stressanti, e talvolta stupro. "Il presidente al-Sisi ha di fatto dato il via libera a polizia e funzionari della Sicurezza nazionale di ricorrere alla tortura in qualunque momento essi vogliano" ha detto Joe Stork, vice-direttore per il Medio Oriente a Human Rights Watch. "L’impunità per l’uso sistematico di tortura ha lasciato i cittadini senza alcuna speranza di poter ottenere giustizia". Il rapporto documenta come le forze di sicurezza, in particolare i funzionari dell’Agenzia di Sicurezza nazionale, che fa capo al ministero dell’interno, facciano ricorso a tortura per forzare i sospetti a confessare o condividere informazioni, oppure per punirli. Accuse di tortura sono state comuni fin da quando al-Sisi, allora ministro della difesa, rovesciò l’ex presidente Mohamed Morsy nel 2013, dando il via a violazioni dei diritti di base su larga scala. La tortura è a lungo stata un male endemico all’interno delle forze dell’ordine egiziane, e proprio i dilaganti abusi da parte delle forze di sicurezza contribuirono ad accendere, a livello nazionale, le rivolte che portarono nel 2011 alla deposizione di Hosni Mubarak, leader di lungo corso, dopo quasi trent’anni. Human Rights Watch ha intervistato 19 ex-detenuti e la famiglia di un ventesimo detenuto, torturati tra il 2014 e il 2016, oltre ad avvocati egiziani di difesa e per i diritti umani. Human Rights Watch ha anche studiato decine di rapporti sulla tortura realizzati da gruppi egiziani per i diritti umani e da organi d’informazione. Le tecniche di tortura documentate da Human Rights Watch sono state praticate in stazioni di polizia e uffici della Sicurezza nazionale in tutto il Paese, con l’uso di metodi praticamente identici, per molti anni. Secondo il diritto internazionale, la tortura è un crimine soggetto a giurisdizione universale, che può essere perseguito in qualunque Paese. Gli Stati hanno l’obbligo di arrestare e indagare su chiunque si trovi all’interno del loro territorio e nei confronti del quale vi sia un sospetto credibile di coinvolgimento in atti di tortura, e di perseguirli o estradarli per portarli di fronte alla giustizia. A partire dal colpo di stato militare del 2013, le autorità egiziane hanno arrestato o accusato probabilmente non meno di 60mila persone, hanno fatto sparire con la forza centinaia di persone per mesi, hanno pronunciato condanne a morte preliminari per centinaia di persone, processato migliaia di civili in tribunali militari, e creato almeno 19 nuove prigioni o carceri per contenere questo flusso. L’obiettivo primario di questa repressione sono stati i Fratelli Musulmani, il movimento d’opposizione più ampio del Paese. Human Rights Watch ha riscontrato che il ministero dell’interno ha sviluppato una serie di gravi abusi per la raccolta di informazioni su sospetti dissidenti e per la raccolta di prove, spesso inventate, ai loro danni. La serie ha inizio con l’arresto arbitrario, prosegue con torture e interrogatori durante il periodo di sparizione forzata, e si conclude con la presentazione dei sospetti di fronte alla pubblica accusa, che fa spesso pressione su di loro affinché confermino le confessioni rese, e non indaga quasi mai sugli abusi. Gli ex-detenuti hanno detto che le sessioni di tortura cominciano con i funzionari di sicurezza che danno scosse elettriche a un sospetto bendato, spogliato e ammanettato, mentre viene schiaffeggiato, preso a pugni e picchiato con bastoni e spranghe di ferro. Se il sospetto non riesce a dare ai funzionari le risposte che vogliono sentire, questi aumentano la potenza e la durata delle scosse elettriche, che sono quasi sempre sui genitali del sospetto. I funzionari, in seguito, utilizzano due tipi di posizioni stressanti per infliggere un dolore lancinante ai sospetti, hanno raccontato i detenuti. In un caso, sospendono i sospetti dall’alto con le braccia alzate e all’indietro, una posizione innaturale che causa un dolore straziante alla schiena e alle spalle, e a volte provoca la lussazione delle spalle. Nella seconda posizione, chiamata "pollo" o "griglia," i funzionari mettono le ginocchia e le braccia del sospetto su lati opposti di un’asta così che questa stia tra le pieghe dei gomiti e il retro delle ginocchia, e legano le mani sopra gli stinchi. Quando i funzionari sollevano l’asta, sospendendo il sospetto per aria, come un pollo allo spiedo, questi soffre di un dolore atroce a spalle, ginocchia e braccia. I funzionari di sicurezza tengono i detenuti in queste posizioni stressanti per ore intere, mentre continuano a picchiarli, dare scariche elettriche ed interrogarli. "Khaled" un commercialista di 29 anni, ha raccontato a Human Rights Watch di essere stato arrestato ad Alessandria nel gennaio del 2015 da funzionari della Sicurezza nazionale e di essere stato portato nel quartier generale del ministero dell’interno in città. I funzionari gli intimarono di ammettere di aver partecipato ad attentati incendiari contro auto della polizia l’anno precedente. Quando Khaled negò di avere alcunché a che fare con gli attentati, un funzionario gli strappò i vestiti di dosso e cominciò a dargli scariche con fili elettrificati. La tortura e gli interrogatori, che prevedevano l’uso di potenti scariche elettriche e posizioni stressanti, continuarono per quasi sei giorni, durante i quali a Khaled non fu permesso alcun contatto con parenti o avvocati. I funzionari lo obbligarono a leggere una confessione preparata, di fronte a una telecamera, in cui affermava di aver dato fuoco ad auto della polizia rispondendo ai comandi dei Fratelli Musulmani. Dopo dieci giorni, un gruppo di procuratori interrogò Khaled e altri detenuti. Quando Khaled disse a un magistrato di essere stato torturato, il magistrato rispose che non erano affari suoi e gli ordinò di confermare la confessione filmata, altrimenti lo avrebbe rimandato a farsi torturare. "Sei alla loro mercé, farai qualunque cosa ti diremo di fare". Mi diedero scariche alla testa, ai testicoli, sotto le ascelle. Riscaldavano acqua per buttartela addosso. Ogni volta che perdevo conoscenza, me la tiravano addosso" ha ricordato Khaled. La storia di tortura dell’Egitto affonda le sue radici a oltre trent’anni fa, e Human Rights Watch registrò per la prima volta l’uso delle pratiche documentate già in un rapporto del 1992. L’Egitto è anche l’unico Paese ad essere oggetto di due inchieste pubbliche del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, che scrisse nel giugno del 2017 che le prove raccolte dal Comitato "portano alla conclusione ineluttabile che la tortura sia una pratica sistematica in Egitto". Da quando l’esercito ha deposto l’ex-presidente Morsy nel 2013, le autorità hanno ricostituito ed allargato gli strumenti repressivi che definirono il regime di Mubarak. La regolarità della tortura, e l’impunità per la sua pratica fin dal 2013, ha creato un clima in cui coloro che vengono abusati non vedono alcuna possibilità di rivalersi sui responsabili e spesso non si prendono neanche la briga di denunciarli alla giustizia. Tra luglio 2013 e dicembre 2016, i pubblici ministeri hanno ufficialmente indagato su almeno 40 casi di tortura, una piccola parte delle centinaia di accuse fatte; tuttavia, Human Rights Watch ha trovato solo sei casi in cui l’accusa ha ottenuto sentenze contro i funzionari del ministero dell’interno. Contro tutte queste sentenze è stato fatto appello, e solo una di esse interessa l’Agenzia di Sicurezza nazionale. Al-Sisi dovrebbe ordinare al ministero della giustizia di nominare un procuratore speciale indipendente con facoltà di ispezionare i siti di detenzione, di indagare e perseguire gli abusi commessi dai servizi di sicurezza, e di pubblicare un resoconto delle misure prese, ha dichiarato Human Rights Watch. In mancanza di uno sforzo serio da parte dell’amministrazione di Sisi di affrontare l’uso diffuso di tortura, gli stati membri dell’Onu dovrebbero indagare e perseguire i funzionari egiziani accusati di commettere, ordinare o assistere in atti di tortura. "In passato, l’impunità per atti di tortura ha arrecato un grave danno a centinaia di egiziani, gettando le basi per la rivolta del 2011," ha detto Stork. "Lasciare che i servizi di sicurezza commettano questi crimini efferati in tutto il Paese porterà ad un altro ciclo di disordini". Libia. Incursioni del "nuovo" stato islamico a ridosso di Sirte di Francesco Semprini La Stampa, 7 settembre 2017 Scontri con le brigate di Misurata che denunciano: "Sarraj ci ha dimenticato". Lo Stato islamico torna a infestare i territori costieri della Libia spingendosi di nuovo a ridosso di Sirte, un anno dopo la sua cacciata dalla città natale di Muhammar Gheddafi ad opera di Al-Bonyan Al-Masrous. E sono proprio le forze militari di Misurata ad essere state decisive nel respingere un’offensiva delle bandiere nere provenienti dall’entroterra dove hanno trovato riparo dopo la caduta della terza capitale del Califfato avvenuta ad inizio autunno 2016. Gli jihadisti in fuga hanno però trovato rifugio nelle zone desertiche dell’entroterra, laddove Africom ha effettuato raid mirati, su disposizione del presidente Usa Donald Trump, dopo aver individuato campi di addestramento terroristico. Una ritirata strategica la loro, necessaria da una parte a ricompattarsi e, in alcuni casi, ricongiungersi con altre formazioni, come Al Qaeda nel Maghreb, e dall’altra per mettere a punto nuove azioni terroristiche. Ad oggi ci sono circa 300 miliziani dell’Isis che si muovono liberamente a sud della valle di Sirte e nelle aree ancora più meridionali. Avrebbero anche stabilito un check Point a Wadi Al-Hamar, 90 km ad est della città portuale, e rapito tre persone, elemento questo che farebbe pensare alla volontà di riorganizzarsi territorialmente con micro-califfati. L’argomento potrebbe essere stato oggetto di conversazione anche nel riservatissimo incontro tra il ministro degli Interni, Marco Minniti, e il generale Khalifa Haftar avvenuto a metà della settimana scorsa nell’ufficio-fortezza di quest’ultimo presso l’aeroporto di Bengasi. Ad essere travolta dalla furia delle "rigenerate" bandiere nere, del resto, sono stati alcuni militari dell’Esercito libico al comando di Khalifa Haftar, i quali avrebbero chiesto aiuto niente meno che ad Al-Masrous, ovvero ai misuratini nei cui confronti nutrono una rivalità atavica. Nonostante questo, Al-Masrous ha inviato tre pick-up in soccorso riuscendo a respingere l’attacco e levando dai guai i soldati di Dignity Operation, nome dell’offensiva militare di qualche anno fa inaugurata dall’uomo forte della Cirenaica. L’episodio tuttavia sottolinea come lo Stato islamico abbia ritrovato vitalità, forse anche grazie all’afflusso di jihadisti in fuga da Mosul, caduta a luglio, e Raqqa ormai stretta d’assedio. E più in generale di tanti terroristi che trovano nelle aree desertiche del Sahel un riparo ideale. Il rischio di un ritorno di fiamma è quindi concreto e pericoloso visto che il principale bastione anti-Isis in quella porzione di Libia, ovvero Al-Bonyan Al-Masrous, lamenta un abbandono da parte del governo di Tripoli. Uno dei comandanti dei veterani di Sirte, Ali Rafideh, ha accusato esplicitamente il presidente Fayez al Sarraj definendolo responsabile della mancanza di sostegno logistico delle truppe e degli stipendi che in alcuni casi non vengono pagati da otto mesi. La ruggine tra Misurata e Tripoli è datata, dal momento che i primi, ovvero gli artefici della cacciata delle bandiere nere da Sirte costata la vita di centinaia di combattenti, ritengono di non aver mai ricevuto il giusto riconoscimento e le dovute onorificenze, oltre al mancato sostegno alle famiglie dei caduti. L’invettiva segue a sua volta quella di Sarraj stesso il quale ha profondamente criticato la non dichiarata missione in Qatar di 15 membri Al-Masrous guidata dal comandante della "war room" misuratina, il generale Bashir Al-Gadi. Missione, dicono, dedicata ala discussione di forniture di desalinizzatori e un ospedale da campo. Le interferenze del Qatar, tradizionalmente vicino alle formazioni dei Fratelli musulmani (il Satana per Haftar), anche a Tripoli, è vista da alcuni come un’ingerenza intollerabile. E nonostante i tentativi di mediazione del vicepresidente del Consiglio presidenziale, cabina di regia del Governo di accordo nazionale sostenuto dall’Onu, Ahmed Meetg, misuratino di sangue e con legami forti con Al-Masrous, il rischio che i rapporti si incrinino ulteriormente sono elevati. C’è poi un altro aspetto: il generale Mohammed Ganaidi, capo dell’intelligence militare di Al-Masrous, sostiene che la ritrovata Isis sia sostenuta da forze ufficiali libiche, e in particolare da pezzi dell’esercito haftarino. Gli jihadisti sarebbero stati fotografati a bordo di veicoli militari come quelli che Dignity Operation riceve dagli Emirati arabi uniti. Un video postato su Facebook mostra un convoglio di haftarini guidato da Musa Abu Amood fare caroselli sventolando bandiere nere nell’oasi di Zalla, nella regione di Al-Jufra. Elementi che complicano un quadro già molto complesso e che vede la partita per la pacificazione della Libia spostata in questi giorni nell’Africa nera. A Brazaville, in Congo, è infatti in corso un summit organizzato dall’Unione africana al quale partecipa Sarraj assieme a Abdul-Rahman Al-Swahili, presidente dell’alto consiglio di Stato di Tripoli, e al quale è stato invitato anche il generale Haftar. L’Ua si aggiunge alla lista di Paesi e organizzazioni che tentano di "chiudere il colpo" Sarra-Haftar, ovvero di riuscire a portare un accordo tra Ovest ed Est del Paese per avviare un processo di normalizzazione nazionale. Sarà presente anche l’inviato Onu Ghasam Salamè che dovrà poi riferire al segretario generale, Antonio Guterres, in vista dell’appuntamento della 72 ma Assemblea generale di metà settembre, quando Sarraj dovrà rendere conto al mondo dello stato di avanzamento del processo di pace libico. Birmania. Mine antiuomo al confine, per impedire il ritorno dei Rohingya di Carlo Pizzati Il Manifesto, 7 settembre 2017 Sulla frontiera del Bangladesh. San Suu Kyi: falsità dei terroristi. L’altro ieri un ragazzo Rohingya ha perso una gamba in un’esplosione mentre fuggiva in Bangladesh durante un esodo dalla Birmania che in 10 giorni ha coinvolto 150 mila profughi. Un altro è stato ferito gravemente, sempre da un’esplosione. Mine anti-uomo. Al confine, lunedì, si sono sentiti due botti, il giorno dopo altri due. Il governo del Bangladesh ha protestato ufficialmente con la Birmania, il Paese tra i più minati al mondo e che non ha firmato il Trattato di Ottawa per la messa al bando delle mine anti-uomo, quello voluto nel 1997 da Lady Diana. Il portavoce della leader birmana Aung San Suu Kyi, Zaw Htay, ha risposto che ci sono molte mine lasciate lì dagli Anni 90, ma che l’esercito non ne ha seppellite di recente. "E poi chi può dire che non le abbiano messe lì i terroristi?". Il premio Nobel per la Pace ha aggiunto che si tratta di "un iceberg di disinformazione". Sono solo fake news dei terroristi, dice. Ma ci sono testimonianze, fotografie. Un profugo ha visto tre dischi di 10 cm di diametro conficcati nel fango proprio in quella zona. Poco prima dell’esplosione che ha mutilato il ragazzo, è stato notato un drappello di militari birmani che, dopo aver srotolato del filo spinato, sotterravano qualcosa. Mine, sostengono i testimoni. Tra le decine di migliaia di disperati che hanno attraversato mare, paludi e fiumi in fuga dal furore del Tatmadaw, l’esercito birmano famoso per i suoi metodi feroci, arrivano testimonianze di ragazzi decapitati, donne stuprate, migliaia di profughi ancora nascosti nelle montagne e nelle foreste, dove rischiano di morire di fame, assediati dall’esercito o dalle milizie buddiste. E continuano ad affondare traghetti malmessi di trafficanti di disperati. Un altro barcone è andato a picco ieri mattina. Cinque gli annegati estratti dal Golfo del Bengala, e poche speranze per gli altri 35 che erano a bordo. La corsa al confine è frenetica. E a volte bisogna anche superare gli uomini dell’Arsa, l’Esercito Arakan per la salvezza dei Rohingya che ha provocato le ritorsioni dei militari birmani, assalendo stazioni di polizia nella regione di Rakhine per rifornirsi di armi. Le testimonianze parlano di ragazzi Rohingya costretti a non imbarcarsi nei traghetti che vanno verso il Bangladesh e obbligati a unirsi alle milizie, che sono armate in gran parte di mazze, machete o pistole artigianali. Così dice chi ha disertato dall’Arsa: "Siamo stati addestrati a combattere con il coraggio nel cuore", ha raccontato Ala Uddin, che cinque mesi fa aveva abbandonato la famiglia per unirsi ai ribelli musulmani. "Ma i nostri attacchi erano inutili e con armi arcaiche", ha detto, giustificando la sua diserzione. È un circolo vizioso. Il Tatmadaw lancia rappresaglie, come ha fatto ora e a ottobre, che generano orfani, o padri che hanno perso i figli, che si arruolano tra i ribelli della minoranza musulmana. Anche se non è considerata tale dal governo birmano: "Sono solo emigranti dal Bangladesh", dicono, anche di fronte all’evidenza che i Rohingya sono in Birmania da generazioni. Ora però la crisi dei profughi ha assunto una dimensione internazionale più seria. Assieme all’annuncio che il Bangladesh è costretto ad aprire un nuovo campo profughi, arriva anche quello della moglie e del figlio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in arrivo per visitare i campi profughi in Bangladesh, in un evidente segnale di solidarietà tra musulmani. L’ambasciata birmana a Giakarta è stata assediata dalle proteste di manifestanti islamici e il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha mandato una lettera allarmata al Consiglio di Sicurezza avvertendo che "siamo sull’orlo di una catastrofe umanitaria". Ora la preoccupazione non è più solo la pulizia etnica, ma è come non far morire di fame una marea umana di rifugiati in un Paese povero come il Bangladesh, già vessato dalle alluvioni monsoniche. Per chi crede che ci possano essere pressioni internazionali sulla Birmania, ieri è arrivato un segnale contrario. Il premier indiano Narendra Modi ha incontrato la leader birmana per firmare 11 accordi tra i due Paesi. E per ricordare la sua posizione sui 40 mila profughi Rohingya già presenti in India: vanno deportati. Perché? Sono a rischio di essere reclutati dalle organizzazioni terroriste. Ma deportati dove, visto che non hanno cittadinanza, né birmana, né bengalese? Qualcuno dovrò dare una risposta a questo popolo, considerato al momento il più perseguitato al mondo. Birmania. Genocidio dei Rohingya, San Suu Kyi nega tutto di Valerio Sofia Il Dubbio, 7 settembre 2017 Nessuna persecuzione, nessuna violazione di diritti umani, ma solo disinformazione e fake news che fanno il gioco dei terroristi. Dopo un lungo silenzio la leader birmana a premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è intervenuta sulla crisi dei Rohingya denunciando la "disinformazione" da parte dei ribelli definiti "terroristi", accusati di diffondere "un iceberg di informazioni" sul conflitto che ha provocato finora la morte di almeno 414 persone e una fuga di massa verso il Bangladesh. San Suu Kyi avrebbe espresso la sua posizione nel corso di una telefonata con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, parlando di una "campagna di stampa" per "promuovere gli interessi" del gruppo armato che combatte nello stato di Rakhine dove vive un milione di musulmani. "Conosciamo bene cosa significhi la privazione di diritti umani e protezione democratica e assicuriamo che tutte le persone sono protette nel Paese" ha detto la leader di fatto della Birmania. L’ultima ondata di violenze in Myanmar/ Birmania è iniziata il mese scorso quando un migliaio di miliziani del cosiddetto Esercito di Salvezza Rohingya di Arakan hanno attaccato decine di avamposti militari birmani tra stazioni della polizia e basi di frontiera. Da allora sono morte almeno 400 persone, compresa una dozzina di uomini delle forze di sicurezza. L’ufficio di San Suu Kyi, ha reso noto su Facebook che sono morti 371 ribelli, 15 uomini dell’esercito e 28 civili. L’organismo ha valutato in circa 7mila le case distrutte durante i combattimenti in 59 villaggi della regione, che hanno provocato più di 26.500 sfollati (dei quali il governo non ha specificato l’etnia). Le violenze continuano tuttora con attacchi dei ribelli e l’opera repressiva dei militari, ed è per questo che i Rohingya, considerati da molti birmani immigrati clandestini deal vicino Bangladesh, sono in fuga verso il paese musulmano. Fuga durante la quale anche ieri si è rovesciata una barca causando almeno sei morti e un numero imprecisato di dispersi. Secondo il Coordinatore residente dell’Onu in Bangladesh, Robert Watkins, sono almeno 146mila le persone che hanno lasciato la Birmania e sono entrate in Bangladesh dal 25 agosto, in fuga dalle violenze. L’Ue ha chiesto "accesso umanitario illimitato" per raggiungere i 350 mila Rohingya "vulnerabili" in un territorio off limits per organizzazioni internazionali e giornalisti. In contemporanea ha lanciato un appello "a tutte le parti per allentare le tensioni, perché rispettino pienamente le leggi umanitarie internazionali e, in particolare, si astengano da ogni violenza sui civili". Tra le critiche piovute su Aung San Suu Kyi anche le accuse dirette dell’altro Premio Nobel, la studentessa pakistana Malala Yousafzai, che ha lanciato un duro appello alla leader birmana perché prenda posizione contro le violenze nei confronti dei Rohingya. E un altro Nobel, il bengalese Yunus, si è speso per l’accoglienza ai profughi birmani. Il lungo silenzio di Aung invece è stato rotto solo da parole che negano quanto sta accadendo. C’è chi pensa che la scelta della leader birmana sia tattica, perché comunque ella non ha il potere di andare contro i militari questo tema senza correre il rischio che essi ne approfittino per dichiarare lo stato di emergenza e riprendere il potere. C’è invece chi sostiene che semplicemente Suu Kiy e i sui consiglieri condividano in fondo gli stessi pregiudizi provati dalla maggior parte dei birmani buddisti. India. Uccisa la giornalista che criticava i nazionalisti indù di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 settembre 2017 Un’esecuzione davanti alla porta di casa. Così è morta, martedì sera a Bangalore, Gauri Lankesh, giornalista nota per le sue posizioni apertamente critiche nei confronti dell’induismo radicale e nazionalista. A sparare da distanza ravvicinata sono stati tre uomini che non sono ancora stati identificati. Tre proiettili sono andati a segno, due al petto e uno alla fronte. Per la donna, 55 anni, non c’è stato nulla da fare. Lankesh era la responsabile del settimanale Lankesh Patrika, fondato da suo padre e pubblicato in lingua kannada (un dialetto parlato in Karnataka), e non aveva mai nascosto la propria opposizione al movimento Hindutva, la concezione estremista dell’induismo. I suoi articoli erano stati anche critici anche nei confronti del Partito Popolare Indiano (BJP), la formazione nazionalista indù del Primo ministro Narendra Modi. In passato la reporter era stata accusata di diffamazione e condannata a 6 mesi di carcere per un’inchiesta in cui aveva accusato di corruzione due membri del BJP. Il fratello della cronista ha dichiarato che la giornalista non aveva ricevuto alcuna minaccia, ma lei stessa aveva confermato di essere bersaglio, sui social media, di messaggi di odio rabbioso da parte di profili di estrema destra. L’omicidio di Gauri Lankesh è stato accolto con dolore e rabbia dai colleghi giornalisti, da attivisti e da molte persone convinte che l’omicidio sia un tentativo di mettere a tacere chi crede nella democrazia. In migliaia hanno manifestato oggi, in diverse città dell’India per condannare l’episodio. A Bangalore si è tenuta una veglia davanti alla camera ardente. La gente piangeva e aveva cartelli con su scritto "Sono Gauri", "Potete uccidere le persone ma non le loro idee", "Le pistole non metteranno a tacere le voci del dissenso". "Era un’idealista - ha detto Y.P. Rajesh un collega che dirige il sito The Print -, non mancava di mettere in difficoltà le forze di destra con i suoi articoli". L’Aidwa, l’associazione femminile All India Democratic Women, ha chiesto indagini "immediate". Secondo Reporter Senza Frontiere, l’India si classifica al 136esimo posto mondiale per la libertà di stampa. Quello di Lankesh è il primo omicidio di un giornalista indiano nel 2017. Dal 2010, tuttavia, sono stati uccisi 25 cronisti e nessuno è stato mai condannato per i crimini. La stampa viene presa di mira dagli indù nazionalisti che sono in ascesa da quando il Bjp è arrivato al governo, nel 2014. Ci sono stati episodi di insulti verso i cronisti che vengono soprannominati "presstitute", una combinazione delle parola "press" (stampa) e "prostitute" (prostituta). Nelle ultime settimane Lankesh aveva postato, sul suo account di Facebook, video critici nei riguardi delle politiche economiche attuate da Modi e dei gruppi indù estremisti che diventavano sempre più potenti. Il governatore dello Stato di Karnataka, Siddaramaiah, ha condannato l’omicidio dichiarando di essere "completamente scioccato" perché la giornalista era "un’avvocata della secolarizzazione ed una lottatrice contro le ingiustizie".