Fine pena quando? di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 settembre 2017 Carceri sovraffollate e aumento dei suicidi, l’Italia torna a ignorare i diritti dei detenuti Roma. Scia di sangue nelle carceri italiane, con tre suicidi nel giro di 24 ore. Il primo a togliersi la vita, nella notte tra martedì e mercoledì scorso, è stato un ventunenne di origini tunisine nel penitenziario Don Bosco di Pisa, impiccandosi con un lenzuolo nella propria cella. Il suicidio ha suscitato le proteste degli altri detenuti, che hanno dato vita a una rivolta, lanciando qualsiasi genere di oggetto dalle proprie celle e incendiando lenzuola e cuscini. Solo l’intervento della polizia in tenuta antisommossa ha riportato la calma. Poche ore dopo un altro detenuto si è tolto la vita, questa volta nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino. È un detenuto di origine sinti di 27 anni. Anche lui si è suicidato impiccandosi con un lenzuolo legato alle grate del bagno della cella. Stesse modalità del terzo suicidio di cui si è reso protagonista un detenuto 5lenne di Cervia, recluso nel carcere di Ravenna in via cautelare. Un’escalation che porta a 40 il numero dei suicidi avvenuti nelle carceri italiane dall’inizio del 2017 (basti pensare che nel 2016 furono 45 durante tutto l’anno, e ora siamo solo agli inizi di settembre). E il bilancio sarebbe potuto essere ancor più grave, se si considerano i due tentati suicidi registrati, sempre nelle stesse ore, nel carcere di Rimini. L’impennata di suicidi è legata principalmente al ritorno della grande emergenza del sovraffollamento carcerario. Negli ultimi mesi, infatti, il tasso di sovraffollamento nelle strutture penitenziarie italiane è tornato paurosamente a crescere, passando dai 52.164 detenuti reclusi nel gennaio 2016 ai 56.766 di fine luglio di quest’anno, quasi 5 mila in più, a fronte di una capienza di 50 mila posti (tasso di sovraffollamento al 113 per cento). Anche se, come sottolinea puntualmente l’associazione Antigone, che da anni si batte per i diritti dei detenuti, la capienza formale non tiene conto delle tante sezioni dei penitenziari chiuse perché inagibili o in ristrutturazione, situazione che fa spiccare ancora più in alto il tasso di sovraffollamento in alcune carceri, come a Como (186,6 per cento) o Busto Arsizio (174,2). Così in alcune strutture si è tornati a ospitare i detenuti in spazi inferiori ai 3 metri quadrati, la fatidica soglia indicata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al di sotto della quale la detenzione è classificabile come "trattamento inumano e degradante". Espressione ben nota all’Italia, che negli ultimi 20 anni ha ottenuto il record di sentenze di condanna da parte della Corte di Strasburgo per violazione dei diritti umani dei carcerati (dietro solo alla Turchia), e che nel 2013 provò la vergogna di vedersi aprire un fascicolo da parte della Cedu, con verifica annuale del rispetto delle sentenze. Nel 2016, a fronte di un considerevole calo del numero dei detenuti, la procedura venne definitivamente archiviata, con grande gaudio del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il quale però si spinse anche a dire che "il nostro Paese viene indicato dal Consiglio d’Europa come esempio da seguire nell’affrontare il tema del sovraffollamento". Beh, evidentemente proprio di esempio non si può parlare se ora, a distanza di quasi due anni, le carceri esplodono di nuovo e nel giro di tre anni potrebbero tornare ai livelli di emergenza del 2010, quelli che spingevano Marco Pannella a parlare di "flagranza di reato" dello stato italiano contro i diritti umani. Insomma, come uno scolaro indisciplinato, venuto meno lo sguardo severo della maestra Europa, l’Italia è tornata a ignorare i diritti dei detenuti. Tra questi ci sono anche i reclusi in attesa di sentenza definitiva, dunque oggetto di misure di custodia cautelare: sono 19.308, cioè il 34 per cento del totale, di cui ben 9.261 persino ancora in attesa di primo giudizio (16 per cento). Tutti ancora teoricamente innocenti, ma condannati preventivamente. Dell’italica culla del diritto non v’è più neanche l’ombra. 7mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili e 60 bambini che vivono in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2017 Secondo i dati del Ministero della Giustizia su 190 istituti penitenziari 138 risultano sovraffollati. Sono 57.393 su 50.501 posti disponibili, 4.700 sono quelli inagibili. I minori reclusi al 15 agosto sono 667, in maggioranza maschi, mentre le donne sono soprattutto straniere. Aumenta il sovraffollamento negli istituti penitenziari, ancora confermata la presenza dei bambini e ricorso alle misure alternative in lieve diminuzione. Al 31 agosto, secondo i dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia, risultano quasi 7000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Siamo giunti a 57.393 per un totale di 50.501 posti disponibili. Dando uno sguardo più generale, su 190 istituti penitenziari, 138 ne risultano sovraffollati. Altro dato, questa volta positivo, è l’aumento dei posti disponibili di 299 unità in più rispetto al mese precedente. Ma, nonostante ciò, viene confermato il trend dell’aumento della popolazione carceraria. Il numero del sovraffollamento risulterebbe maggiore se venisse preso in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili. Situazione ben documentata dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio scorso erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti ancora non disponibili. Il sovraffollamento è in aumento se viene considerato che solo 10 mesi fa erano duemila detenuti in meno. Due anni e mezzo fa erano 5mila in meno. Maglia nera anche per quanto riguarda la presenza dei bambini in carcere. Nonostante l’istituzione della nuova Icam campana di Lauro e la casa famiglia protetta "Casa di Leda" che si trova a Roma, al 31 agosto risultano ancora 60 bambini che vivono dietro le sbarre con le madri detenute Sempre secondo gli ultimi dati relativi a fine agosto, risulta un lieve calo dell’utilizzo delle misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova. Rispetto al mese precedente, risultano 369 riscorsi alle misure alternative in meno. Nello specifico risulta 13.974 ricorsi all’affidamento in prova al servizio sociale, 798 misure di semilibertà, 10.372 misure di detenzione domiciliare, 10.111 in messa alla prova, 7.139 misure di lavoro di pubblica utilità, 3.797 di libertà vigilata, 164 in libertà controllata e 6 misure di semidetenzione. Per quanto riguarda il numero dei reclusi negli istituti penitenziari per minorenni (Ipm), il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha elaborato un dettagliato documento a parte e riguarda l’aggiornamento effettuato a metà agosto. Gli Ipm sono concepiti strutturalmente in modo da fornire risposte adeguate alla particolarità della giovane utenza ed alle esigenze connesse all’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria; l’attività trattamentale è svolta da un’équipe multidisciplinare, in cui è presente un operatore socio-educativo di riferimento stabile appartenente all’amministrazione; le attività formative, professionali, culturali e di animazione sono effettuate in collaborazione con operatori di altri enti e avvalendosi di associazioni del privato sociale e del volontariato; negli Ipm è presente personale del corpo di polizia penitenziaria adeguatamente formato al rapporto con l’adolescenza. Bisogna ben specificare che ai minorenni che hanno commesso dei reati non viene utilizzata esclusivamente l’opzione detentiva. Anzi, risulta residuale. Come viene spiegato nel documento redatto dal dipartimento, la maggior parte dei minori autori di reato è sottoposto a misure da eseguire in area penale esterna; la detenzione, infatti, assume per i minorenni carattere di residualità, per lasciare spazio a percorsi e risposte alternativi sempre a carattere penale. Negli ultimi anni si sta assistendo a una sempre maggiore applicazione del collocamento in comunità, non solo quale misura cautelare, ma anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari, per la sua capacità di contemperare le esigenze educative con quelle contenitive di controllo. L’utenza dei Servizi minorili è prevalentemente maschile; le ragazze sono soprattutto di nazionalità straniera e provengono dai Paesi dell’area dell’ex Jugoslavia e dalla Romania. La presenza degli stranieri è maggiormente evidente nei Servizi residenziali; i dati sulle provenienze evidenziano che negli ultimi anni alle nazionalità tipiche della criminalità minorile, quali il Marocco, la Romania, l’Albania e i Paesi dell’ex Jugoslavia, tutt’ora prevalenti, si sono affiancate altre nazionalità, singolarmente poco rilevanti in termini numerici, ma che hanno contribuito a rendere multietnico e più complesso il quadro complessivo dell’utenza. Con riferimento all’età, se negli ultimi anni si era già osservata una maggiore presenza di "giovani adulti", con l’entrata in vigore del decreto legge 26 giugno 2014, convertito con modificazioni in legge l’ 11 agosto 2014, il loro numero ha acquisito un’importanza ancora crescente, soprattutto in termini di presenza negli Istituti penali per i minorenni. La criminalità minorile è connotata dalla prevalenza dei reati contro il patrimonio e, in particolare, dei reati di furto e rapina. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie. Al 15 agosto, risultano reclusi negli istituti penitenziari per minorenni 667 ragazzi e ragazze. I maggiori di 18 anni sono 241. Indennizzi per violazione dei diritti umani, crollo delle multe all’Italia: da 77 a 16 milioni di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2017 Un deciso cambio di rotta che ha portato a una netta diminuzione dell’importo degli indennizzi che l’Italia è tenuta a versare alle vittime di violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo commesse a livello nazionale e accertate da Strasburgo. Dai 77 milioni di euro versati nel 2015, l’Italia è scesa a quasi 16 milioni nel 2016 (erano poco più di 5 nel 2014). Un dato positivo, quello che risulta dalla relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia presentata il 1° settembre 2017, con riferimento al 2016, dal Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. L’Italia ha visto anche una diminuzione dei ricorsi pendenti scendendo dal quarto al sesto posto e, per quanto riguarda le sentenze, Roma migliora di ben 5 posizioni la situazione in classifica: 15 le sentenze di condanna che portano fuori l’Italia dalla classifica dei primi dieci Stati con il maggior numero di condanne. Dato positivo, l’indice di ricambio superiore al 93%: in pratica, i procedimenti chiusi sono stati 2.730, un numero di gran lunga superiore rispetto ai nuovi ricorsi assegnati a una formazione giudiziaria (1.409). Questo - si legge nella relazione - vuol dire che il volume dei ricorsi pendenti è pari a 6.180 casi, con un decremento del 18,33% rispetto al 2015 (7.567), anno che già aveva portato a un abbattimento del contenzioso pendente del 50% rispetto al 2014 (14.400 ricorsi pendenti). È sottolineato, inoltre, che la maggior parte dei casi pendenti riguarda l’eccessiva durata dei procedimenti, situazione che dovrebbe migliorare con la piena esecutività del nuovo piano di azione "Pinto 2". Preoccupazioni arrivano, però, dalla sentenza Olivieri e altri contro Italia del 22 febbraio 2016 con la quale la Corte ha considerato inefficace il "rimedio indennitario subordinato alla condizione di ricevibilità dell’istanza di prelievo, nel processo amministrativo". Questo sistema è stato bocciato dalla Corte europea che lo ha considerato come un meccanismo che ostacola l’accesso alla procedura Pinto: questo potrebbe aprire un nuovo filone di ricorsi seriali alla Corte. Per evitare, invece, nuove condanne, dopo quella Cestaro, per violazioni dell’articolo 3 sul divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti, l’Italia ha avviato contatti con numerosi ricorrenti per i fatti del G8 di Genova per arrivare a regolamenti amichevoli. Per le questioni relative al diritto di rivalsa, il 2016 è stato un anno record. Dopo la modifica, con legge n. 208/2015, del comma 9-bis dell’articolo 43 della legge n. 234/2012 e l’adozione di due accordi con i quali sono stati fissati i criteri per la rateizzazione del debito a vantaggio degli enti territoriali, le azioni di rivalsa attivate dal Ministero dell’economia sono state, nel 2016, ben 65, a fronte del numero complessivo di 135 dal 2009 ad oggi. Sul piano dell’esecuzione delle sentenze, il 2016 è stato, per il sistema di Strasburgo, in generale, un anno positivo per i casi chiusi: sono stati 2.066 contro i 1.537 nel 2015. Dati positivi anche per l’Italia: da 2.421 sentenze sottoposte a supervisione del Comitato dei Ministri nel 2015 si è scesi, nel 2016, a 2.350. Per quanto riguarda i ricorsi pendenti di più grande rilievo sono segnalati il caso Berlusconi relativo alla legge Severino in materia di incandidabilità; il ricorso Sallusti sulla previsione del carcere per i giornalisti in caso di diffamazione; i ricorsi sul danno all’ambiente e alla salute relativi all’Ilva, nonché il ricorso di Amanda Knox per le limitazioni del diritto di difesa. "La legge Orlando: obbligata ma modificabile" di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2017 Aldo Morgigni consigliere Csm: "L’Italia già condannata in Europa sull’appello promosso dal pm". La presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano, è intenzionata a portare a termine il processo d’Appello a Totò Riina per la strage del Rapido 904 di 33 anni fa anche a costo di guidare lei stessa il collegio, questa è la voce che gira nei corridoi del palazzo di Giustizia fiorentino. Non c’è stop che tenga: non quello dovuto alla norma modificata dalla riforma Orlando (l’articolo 603 del codice) che impone l’istruttoria anche in secondo grado se è stato il pm a fare ricorso contro un’assoluzione, né sarà un ostacolo il pensionamento del presidente del processo, Salvatore Giardina. È previsto a ottobre ma poiché - ci risulta - ha parecchie ferie arretrate, potrebbe andare via già nelle prossime settimane. L’azzeramento di questo processo che - dunque - ricomincerà d al l’inizio, ha scatenato polemiche sia per la norma riformata che ha portato il presidente Giardina all’aggiornamento per fare il nuovo calendario che comprende l’istruttoria, sia per la decisione dello stesso Giardina, sia pure precedente alla riforma, di andare in pensione anticipata. Ad Aldo Morgigni, consigliere del Csm di Autonomia e Indipendenza, abbiamo chiesto, come membro dell’Autogoverno della magistratura, che idea si è fatto di questa modifica della norma che ha portato, per così dire, al caso Firenze Spiega Morgigni: "Era una disposizione che necessariamente andava emanata dopo che la Corte europea dei diritti dell’Uomo aveva già emesso una sentenza con la quale condannava l’Italia in relazione a un processo d’appello in cui un imputato assolto in primo grado si era visto ribaltare la sentenza senza che fossero stati riascoltati i testimoni. Inoltre, dopo Strasburgo, si era espressa pure la Cassazione a Sezione Unite per dire ai magistrati che dovevano recepire la sentenza europea. Pertanto, il legislatore ha recepito un orientamento giurisprudenziale interno ed europeo". Ma diversi magistrati dicono che la norma non è chiara, che probabilmente dovranno intervenire le Sezioni Unite della Cassazione, come per il cosiddetto falso in bilancio qualitativo, in modo da indicare la giusta interpretazione… Effettivamente ci sono un paio di dubbi interpretativi. La prima questione è la seguente: se l’istruttoria vada rifatta su tutte le prove dichiarative, cioè se devono essere riascoltati testimoni, consulenti, periti, imputati, ecc. oppure se possa essere limitata soltanto a prove ritenute rilevanti dalla Corte ai fini dell’Appello. Ricordiamo che il processo di secondo grado è solo su motivi specifici, in questo caso rilevati dal pm nell’atto di impugnazione contro l’assoluzione di un imputato. Seconda questione: l’eventuale diritto alla controprova dell’imputato, cioè se ha diritto a chiedere testimonianze a sua discolpa che magari non aveva indicato in primo grado, come accade per il giudizio abbreviato dove l’imputato (che beneficia dello sconto di un terzo della pena, ndr) non indica testi. Il ministero della Giustizia ha fatto sapere che vuole una relazione dettagliata su quanto successo a Firenze, sembra scaricare sul pensionamento anticipato di Giardina la responsabilità d el l’azzeramento dell’appello a Riina... Il ministro è libero di fare tutti gli accertamenti che ritiene opportuni ma tecnicamente non c’è un problema legato al mantenimento in servizio del presidente Giardina, che ha tutto il diritto di andare in pensione. Nel processo in questione a Riina, infatti, non mi risulta fossero state acquisite in Appello prove di alcun tipo o svolte altre attività particolari per cui la sostituzione di Giardina non comporterà l’azzeramento di alcunché. Aggiungo che questo processo rientra nei criteri di priorità della trattazione, come previsto dalle disposizioni di legge e dalla stessa Corte d’Appello di Firenze. "Condannare i criminali? No, il compito della magistratura è sottomettere la politica" di Piero Sansonetti Il Dubbio, 6 settembre 2017 L’intervento di Di Matteo (e Scarpinato) alla festa del "Fatto": rischio di una svolta autoritaria. Ho letto con molto interesse - e qualche apprensione... - il resoconto stenografico degli interventi del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e del sostituto procuratore della Dna (Direzione nazionale antimafia) Nino Di Matteo, pronunciati qualche giorno fa alla festa del Fatto Quotidiano, in Versilia. Li ha pubblicati ieri proprio il Fatto considerandoli, giustamente, documenti di grande interesse giornalistico e politico. Potrei scrivere per molte pagine, commentandoli. Mi limito invece a pochissime critiche e soprattutto a una osservazione (alla quale, contravvenendo a tutte le regole del giornalismo, arriverò alla fine di questo articolo) che mi pare essenziale. Essenziale per capire l’Italia di oggi, per decifrare il dibattito pubblico, e per intuire a quali pericoli sia esposta la democrazia. Innanzitutto voglio subito notare che sebbene il Fatto pubblichi i due interventi, intervallando brani dell’uno e brani dell’altro, quasi fossero un unico discorso, si nota invece una differenza, almeno nei modi di esposizione, molto netta. Roberto Scarpinato dà l’impressione di avere una conoscenza approfondita dei fatti e anche della storia (italiana e internazionale) nella quale vanno inquadrati. Nino Di Matteo sembra invece soprattutto travolto da una indubbia passione civile, che però lo porta a scarsa prudenza, sia dal punto di vista formale sia nella ricostruzione storica. La tesi di fondo dei due interventi però è un’unica tesi. La riassumo in cinque punti. Primo, la mafia nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di intervenire nella politica italiana perché terrorizzata dall’idea che - finite le ideologie e i veti, e il famoso fattore K che escludeva i comunisti dal governo - potesse prendere il potere una coalizione composta da sinistra democristiana (ex zaccagniniana) ed ex Pci, all’epoca Pds. Secondo punto, in questa ottica, dopo le stragi del 1993, si svolse una trattativa tra lo Stato e la mafia e questa trattativa, pare di capire, coinvolse essenzialmente elementi dell’ex sinistra dc (Mancino, Mannino, forse De Mita) e dell’ex Pci (Giorgio Napolitano). Terzo punto, è stato proprio Giorgio Napolitano a delegittimare il processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si sta spegnendo a Palermo tra assoluzioni e prove mancate: e la cattiva sorte di quel processo è da imputare non a una cattiva impostazione delle indagini e delle tesi di accusa, ma all’intervento dell’allora capo dello Stato. Quarto, la mafia da allora ha cambiato pelle, ha rinunciato ad usare la violenza e l’omicidio per condurre la sua strategia, e questo la rende ancora più pericolosa, perché riesce a crescere semplicemente usando lo strumento della corruzione e addirittura, in certe occasioni, senza neppure commettere reati formali. Il quinto punto lo accenno appena, perché ci torniamo alla fine - è il punto chiave - riguarda il compito e la missione della magistratura. Naturalmente i primi quattro punti sono in forte contraddizione l’uno con l’altro. Ad esempio non si capisce come facesse la mafia, quando ha iniziato l’attacco allo Stato (che Scarpinato e Di Matteo datano con l’uccisione di Salvo Lima del marzo 1992), a prevedere il crollo del potere politico italiano, che allora era ancora saldamente nelle mani del pentapartito, e non certo del Pci, che viveva un nerissimo periodo di crisi. Nessun analista politico previde Tangentopoli (neppure dopo l’arresto di Mario Chiesa) che esplose clamorosamente dopo l’uccisione di Falcone, né tanto- meno le conseguenze di Tangentopoli, eppure l’attacco della mafia iniziò prima di Tangentopoli. E non si capisce molto bene neanche perché la mafia uccidesse Lima (destra Dc), e poi Falcone (che era legato ai socialisti di Craxi) se voleva colpire la sinistra Dc e l’ex Pci, che di Lima e Falcone erano nemici; né si capisce perché furono Napolitano e Mancino (ex Pci e sinistra dc) ad aiutare la mafia che era terrorizzata - se capiamo bene - perché temeva che Napolitano e Mancino andassero al potere... Fin qui, diciamo con un po’ di gentilezza, è solo un bel pasticcio, che certo non si regge in piedi come atto d’accusa. Né giudiziario, né politico, né tantomeno storico. E si capisce bene perché il processo Stato- mafia stia finendo a catafascio. Scarpinato e Di Matteo da questo punto di vista hanno avuto la fortuna di parlare, in Versilia, ad una platea amica che non aveva nessuna voglia di fare obiezioni (così come, in genere, non ne ha quasi mai il giornalismo giudiziario, e non solo, italiano). Ma il punto che mi interessa trattare è il quinto. L’idea di magistratura che - temo - va affermandosi in un pezzo di magistratura. Cito alcuni brani, testuali, di Di Matteo, che sono davvero molto istruttivi. In un crescendo. "Oggi si sta nuovamente (sottinteso, la politica, ndr) mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità, per i condannati per mafia, di godere dei benefici. Si sta cominciando a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro (….)". E più avanti: "I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenze come non sufficienti per condannare qualcuno... Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni (…) o possiamo ancora aspettarci che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia". La prima parte di questo ragionamento è solo la richiesta di poteri speciali, non nuova, tipica del pensiero reazionario (e non solo) da molti anni. In realtà i magistrati prudenti sanno benissimo che il 41 bis è carcere duro (e dunque è in contrasto aperto e clamoroso con la nostra Costituzione) ma stanno attenti a non usare mai quella definizione. Quando, intervistando qualche magistrato, ho provato a dire che il 41 bis è carcere duro, sono sempre stato contestato e rimproverato aspramente: "Non è carcere duro - mi hanno detto ogni volta - è solo una forma diversa di detenzione". Di Matteo, lo dicevo all’inizio, è trascinato dalla sua passione civile (che poi è la sua caratteristica migliore) e non bada a queste sottigliezze, dice pane al pane, e carcere duro al carcere duro. Non so se conosce l’articolo 27 della Costituzione, probabilmente lo conosce ma non lo condivide e non lo considera vincolante. Così come non considera vincolante l’esibizione delle prove per affermare una verità, e questo, da parte di un rappresentante della magistratura, è un pochino preoccupante. Quel che però più colpisce è la seconda parte del ragionamento. E cioè le frasi che proclamano in modo inequivocabile che il compito della magistratura è mettere sotto controllo la politica (sottometterla, controllarla, dominarla, indirizzarla), cancellando la tradizionale divisione dei poteri prevista negli stati liberali, e non può ridursi invece a una semplice attività di giudizio e di punizione dei crimini. È probabile che siano pochi i magistrati che commettono la leggerezza di dichiarare in modo così chiaro ed esplicito la loro idea di giustizia, del tutto contraria non solo alla Costituzione ma ai principi essenziali del diritto; però è altrettanto probabile che il dottor Di Matteo non sia il solo a pensarla in questo modo. E siccome è anche probabile che esista una vasta parte del mondo politico, soprattutto tra i partiti populisti, ma anche nella sinistra, che non disdegna le idee di Di Matteo, e siccome non è affatto impossibile che questi partiti vincano le prossime elezioni, mi chiedo se esista, in Italia, il rischio di una vera e propria svolta autoritaria, e antidemocratica, come quella auspicata da Di Matteo - non so se anche da Scarpinato - o se esita invece una tale solidità delle istituzioni e dell’impianto costituzionale da metterci al sicuro da questi pericoli. Non mise in galera un indagato: ora il Gip rischia il "processo" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 settembre 2017 Il Csm invia al Pg di Cassazione gli atti sul giudice Ghini: "valutare i possibili illeciti disciplinari". Aveva deciso di non disporre la custodia in carcere per un 21enne pakistano reo confesso di aver abusato di un 13enne disabile: ora il gip di Reggio Emilia Giovanni Ghini sarà oggetto anche di una valutazione disciplinare. È quanto ha dovuto disporre il comitato di presidenza del Csm (di cui fanno parte, con il vicepresidente Legnini, i vertici della Cassazione Canzio e Ciccolo) dopo la richiesta avanzata dal consigliere laico Zanettin. A Palazzo dei Marescialli si è stabilito infatti di inviare gli atti alla Procura generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare. Sempre sulla base della richiesta di Zanettin, il giudice garantista sarà "valutato" anche dalla prima commissione del Consiglio superiore, che dovrà decidere sulla sua eventuale incompatibilità ambientale. La prima commissione del Consiglio superiore della magistratura valuterà eventuali profili di incompatibilità ambientale per Giovanni Ghini, il gip del Tribunale di Reggio Emilia che aveva disposto il mese scorso la scarcerazione per un 21enne pakistano reo confesso di abusi sessuali su un disabile di 13 anni. Lo ha deciso ieri mattina il Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, di cui fanno parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e i vertici della Corte di Cassazione, il primo presidente Giovanni Canzio e il pg Pasquale Ciccolo. Era stato il consigliere laico del Csm Pierantonio Zanettin (indicato da Forza Italia) a chiedere una apertura pratica in prima commissione a carico di Ghini. Secondo Zanettin il clamore mediatico che si era sollevato intorno a questa vicenda poteva condizionare la capacità del magistra- to emiliano di rapportarsi in maniera equilibrata e terza alla fattispecie. La decisione del gip di Reggio Emilia di scarcerare il pakistano reo confesso aveva, come si ricorderà, suscitato aspre polemiche. Lo stesso Ghini era stato oggetto di violenti attacchi sui media e sui social. Da qui, dunque, la richiesta al Csm di valutarne l’incompatibilità ambientale per condotta incolpevole. Il Comitato di presidenza del Csm, che aveva ordinato la scorsa settimana l’acquisizione di tutti gli atti di questo procedimento per il tramite del presidente del Tribunale di Reggio Emilia, ha però disposto, sempre nella giornata di ieri, anche la trasmissione del plico alla Procura genera- le della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, affinché valuti la condotta di Ghini anche sotto questo aspetto. Indiscrezioni di palazzo ipotizzano che l’inoltro alla Procura generale della Cassazione sia relativo all’illecito disciplinare, ancorché eventuale, di un’erronea applicazione del diritto. Alla base del provvedimento di Ghini vi era "lo straordinario senso di autodisciplina dimostrato" dal giovane pakistano che, dopo aver confessato il delitto, si era "auto-collocato" agli arresti domiciliari in attesa dei provvedimenti della magistratura. Per lui solo un obbligo di firma presso la caserma dei carabinieri ed il divieto di avvicinarsi nuovamente al 13enne disabile. Il provvedimento è stato impugnato dal pm di Reggio Emilia Maria Rita Pantani che aveva chiesto la custodia cautelare in carcere. Il Tribunale del riesame di Bologna, allo stato, non ha ancora fissato l’udienza. L’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia ha preso posizione sul caso con un comunicato in difesa del gip. "Il dott. Giovanni Ghini è un giudice serio ed equilibrato, rigoroso e preparato, certamente un galantuomo", si legge nel comunicato diramato dal Consiglio dell’Ordine di Reggio Emilia, secondo cui "ogni provvedimento giurisdizionale può essere criticato, senza trascendere nell’insulto e nella minaccia, ed è sottoposto sempre ad una possibile revisione". In caso contrario, per gli avvocati reggiani, ci sarebbe il rischio di "assecondare un pericoloso clima di confusione e ostilità che non può non condurre ad una sfiducia nella giustizia con reazioni pericolose nei confronti di magistrati ed avvocati che esercitano le loro funzioni nel rispetto e per la tutela della legalità". Anche la Camera penale di Reggio Emilia era intervenuta in precedenza per esprimere solidarietà a Ghini, stigmatizzando i toni utilizzati, soprattutto sui social, per criticarne la decisione. Di diverso avviso le forze politiche. Per il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi (Pd), e con lui anche trenta sindaci dem della zona, si è trattato di un provvedimento "incomprensibile ed inaccettabile". "Scelta di una gravità inaudita" per l’onorevole reggiana del M5S Maria Elena Spadoni. Il coordinatore regionale forzista dell’Emilia Romagna Massimo Palmizio ha annunciato per la riapertura della Camera la presentazione di una interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando. La scorsa settimana, poi, si è svolto davanti al Tribunale di Reggio Emilia un sit-in di protesta organizzato da parte di alcune associazioni antipedofilia. Fra queste la Onlus "La caramella buona" si è offerta di assistere la famiglia del disabile vittima del reato anche per la tutela legale. E a tal proposito il Dipartimento della pubblica sicurezza starebbe svolgendo accertamenti a carico del pakistano, in Italia con permesso umanitario, per verificare se in passato abbia commesso nel Paese d’origine altri atti di pedofilia, come rappresentato in questi giorni da alcuni esponenti della comunità pakistana. La doppia morte di Giulio Regeni di Luigi Manconi Il Manifesto, 6 settembre 2017 Pensandoci bene, trascorso un certo numero di ore ed esercitata la più rigorosa autodisciplina per non incorrere in eccessi ineleganti, devo concludere che l’esito dell’audizione del Ministro Angelino Alfano presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato è stato addirittura rovinoso. A parte le solite e lodevoli eccezioni - in questo caso particolarmente rare - il senso complessivo della discussione ha evidenziato alcuni elementi decisamente imbarazzanti. E se le principali considerazioni sul merito e sulla sostanza di un dibattito deludente sono state già espresse, rimangono alcune questioni in apparenza di dettaglio che sono persino più rivelatrici. Eccole. Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di "doppia morte". È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni. Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato - a sua insaputa, per carità - una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere. Non esagero (basti ascoltare il resoconto di quel dibattito e i suoi toni). Di conseguenza, se ne dovrebbe dedurre che il regime di Al-Sisi non sarebbe, certo, il più liberale del mondo ma, per "ragioni geo-strategiche" e per realismo politico, le sue responsabilità nell’orribile omicidio di Regeni andrebbero messe in secondo piano rispetto alle più gravi colpe della democrazia inglese. La quale ultima ha mosso e continuerebbe a muovere le fila di una trama spionistico-diplomatica nella quale si è trovato impigliato inavvertitamente "il povero ragazzo". Si badi al linguaggio. Perché, a tal proposito, insistere nel definire "ragazzo" un giovane uomo di 28 anni? E perché "studente", dal momento che aveva la qualifica professionale di ricercatore? Per la verità, in tanti interventi quelle parole così maldestre e le altre cui alludevano (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’inesperienza) rivelavano un sentimento assai diffuso tra i membri di quelle stesse Commissioni ma anche in parte della classe politica e della stessa opinione pubblica: un astio malcelato nei confronti di chi è giovane, intellettualmente preparato, ricco di talento e - ahi lui - grosso modo di sinistra. E, infatti, la figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura. Si tratta di meccanismi che degradano l’identità e la reputazione e che richiamano l’odiosa pratica del character assassination. Ancora. Nel corso dell’audizione il deputato Erasmo Palazzotto ha chiesto che le Commissioni Esteri ascoltino i genitori di Regeni e il loro legale, Alessandra Ballerini. La proposta non è stata finora accolta e temo che non verrà presa in considerazione. Al di là delle motivazioni formali, la vera ragione è che, da sempre, nei confronti dei familiari si assume un atteggiamento sminuente, se non denigratorio, anche quando si propone come massimamente rispettoso. "La più affettuosa comprensione" e la "la più doverosa solidarietà", ovviamente, verso il loro dolore e, allo stesso tempo, la riduzione delle loro parole alla sola dimensione dell’emotività. Dunque, la voce del cuore come contrapposta alla ragion di stato. Ma questo, oltre a essere meschino, è sommamente sciocco. La politica, l’autentica politica, quella intelligente e razionale, quella lungimirante e capace di una prospettiva strategica, ha sempre tenuto in gran conto la sfera dei sentimenti, delle passioni e delle sofferenze. Le vittime e i familiari delle vittime hanno svolto spesso un ruolo cruciale proprio nel dare profondità e razionalità all’azione pubblica e al ruolo delle istituzioni. I genitori di Giulio Regeni, da oltre un anno e mezzo, svolgono una funzione essenziale non solo perché esprimono il senso di un dolore incancellabile, ma anche - ecco il punto - perché trasmettono un’idea politica saggia sulle cause dell’omicidio del figlio, sulle circostanze e il contesto che lo hanno prodotto e, infine, sulle scelte da adottare affinché quella morte non cada nell’oblio. Quindi l’audizione dell’altro ieri, tra i molti altri significati (pressoché tutti negativi), si è configurata come una ulteriore occasione persa. La tragedia di Giulio Regeni viene in genere considerata come un fatto non politico o pre-politico o, nell’interpretazione più favorevole, umanitario. Mentre, all’opposto, può ritenersi che le questioni sollevate da questa vicenda - non solo da essa, ovviamente - possano costituire il cuore della politica e il suo fondamento materiale e sociale. Cassazione. I furti vanno puniti, ma l’energia è sicuramente indispensabile di Stefano Agnoli Corriere della Sera, 6 settembre 2017 Arrivare a definire "non indispensabile" l’uso dell’elettricità fa sinceramente un po’ inorridire ed evoca cupi scenari da ritorno al Medioevo. L’energia elettrica è un bene "non indispensabile" alla vita di una persona. Anzi, il suo uso è più che altro "idoneo a procurare agi e opportunità". È quanto scrive la Cassazione, che con queste parole ha confermato una condanna in un caso di furto di energia. In sintesi: se dell’elettricità si può fare a meno per vivere, allora cade "l’esimente dello stato di necessità". E chi la ruba deve pagare per i suoi comportamenti. Tutto giusto? Da una parte ovviamente sì, perché un furto rimane un atto da punire (anche se non conosciamo proprio tutti i dettagli del caso arrivato in Cassazione), e se passasse il concetto che allacciarsi alla rete per succhiare energia è giustificabile come "atto di necessità", si aprirebbe un’autostrada all’illegalità. Ma se l’obiettivo è questo, arrivare a definire "non indispensabile" l’uso dell’elettricità fa sinceramente un po’ inorridire ed evoca cupi scenari da ritorno al Medioevo, o da vita in una comunità Amish (peraltro anche questi ultimi non riescono a farne a meno del tutto). Per rendersi conto del contrario sarebbe sufficiente provare a fare l’esperimento, anche solo mentale, di privarsi dell’utilizzo della corrente elettrica per un paio di giorni. Oppure, a proposito di "agi e opportunità", ricordarsi come fa l’Iea (Agenzia internazionale dell’energia) che nel mondo ancora oggi ci sono circa 1,3 miliardi di persone che non hanno accesso all’elettricità o hanno un accesso saltuario e inadeguato. E che proprio per questo non possono accendere una lampada alla sera per studiare o leggere, e neppure attivare una pompa per avere l’acqua per cucinare o lavarsi o che non dispongono di un’attrezzatura medica funzionante. Argomenti frutto di una facile demagogia? Eppure i numeri sono quelli. Non servirebbe neppure pensare al Medioevo o al sottosviluppo. L’ultimo black out serio, in Italia, è avvenuto nel 2003. Non un secolo fa. E mise in ginocchio il Paese. Droga, la revoca della patente resta anche per fatti di lieve entità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2017 Consiglio di Stato - Sentenza 25 luglio 2017 n. 3673. Anche dopo le modifiche del comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309/1990, la revoca della patente di guida resta una conseguenza automatica nei casi di condanna per detenzione o spaccio di stupefacenti anche se la condotta sia qualificabile di "lieve entità". Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, sentenza 25 luglio 2017 n. 3673, respingendo il ricorso del guidatore contro la decisione del Tar Lazio che aveva confermato il provvedimento di revoca emesso dall’U.T.G. - Prefettura di Roma. Lo scorso anno, invece, il Tar Lombardia, sede di Brescia, sentenza 865/2016, aveva accolto il ricorso del conducente affermando che nello scenario aperto dalla sentenza costituzionale n. 32/2014 - superamento della disciplina sanzionatoria unitaria tra droghe leggere e pesanti - e nuova formulazione della fattispecie di lieve entità ex articolo 73 comma 5 del Dpr 309/1990, l’ordinamento conteneva ormai elementi sufficienti per ritenere superato l’automatismo dell’articolo 120 del Cds, quantomeno per le ipotesi di reato direttamente investite dalle innovazioni normative: fattispecie di lieve entità e droghe leggere. Una tesi sostenuta anche dall’attuale ricorrente che ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’articolo 120 del Cds, in relazione al combinato disposto dell’articolo 73 del Dpr n. 309/1990 con l’articolo 2 del Dl 146/2013 e con l’articolo 1 del Dl n. 36/2014. A seguito dell’entrata in vigore delle nuove norme, infatti, "sarebbe stata introdotta una nuova figura di reato - art. 73/5°c -, cioè una fattispecie di lieve entità, corrispondente alla precedente circostanza attenuante, stabilita dallo stesso articolo, la quale avrebbe determinato l’effetto, in base al principio del trattamento più favorevole al reo, di modificare e/o di superare l’automatismo, quanto meno con riguardo all’ipotesi più lieve di "detenzione e spaccio di droghe leggere", riformulata, come si è detto dalla nuova normativa penale". La lettura è stata però bocciata dal Supremo Collegio amministrativo secondo cui invece "indipendentemente dalle modifiche introdotte nella materia penale", va rilevato che "l’articolo 120 del Codice della Strada è rimasto sostanzialmente invariato". Per cui, prosegue la decisione, con riguardo alla revoca della patente, quale conseguenza della perdita dei "requisiti morali", "il legislatore ha evidentemente, ritenuto di non attribuire rilevanza alla diversa gradazione delle condotte, complessivamente delineate dall’art. 73 del Dpr n. 309/1990". "In altri termini, continua il Cds, la distinzione delle condotte previste da tale disposizione, rileva in sede penale, ma non rileva in sede amministrativa e quindi ai fini dell’applicazione del predetto articolo 120 per il quale la misura della revoca della patente consegue a qualsiasi condanna per le fattispecie di reato previste dal citato art. 73". Con l’abolizione del reato salta anche il patteggiamento di Alessandro Vitiello Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2017 Corte di Cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 40259 del 5 settembre. Nullum crimen sine poena, nulla poena sine lege. È il principio di diritto romano penale arrivato fino ai nostri giorni e puntualmente applicato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 40259 depositata ieri, che annulla quella del Tribunale di Torino in applicazione della pena patteggiata dalle parti in un giudizio a carico di un cittadino senegalese accusato di detenzione e spaccio di droghe "leggere", reato abolito, più altre fattispecie minori e consequenziali al crimine principale. Non è possibile, scrivono i giudici della seconda sezione, semplicemente scomputare la pena applicata per il reato abrogato, perché ciò è possibile solo quando la pena base non sia stata "determinata proprio con riferimento al reato abolito". Con il venir meno del crimine, infatti, viene meno uno dei termini essenziali dell’accordo che ha portato al patteggiamento, travolgendo di fatto l’intero procedimento giudiziario. E il ragionamento vale anche per l’identificazione del singolo "aumento in continuazione". Le parti, quindi, vanno messe in condizione di rivalutare le condizioni dell’eventuale accordo. La Cassazione, di conseguenza, rimette gli atti al tribunale di Torino e alla prefettura per ciò che attiene all’esecuzione. Annullata, poi, anche la confisca di denaro collegato dagli inquirenti all’attività di spaccio del cittadino senegalese, perché la motivazione addotta dalla sentenza del tribunale di Torino non dimostrava il nesso di pertinenzialità necessario al provvedimento cautelare e che trova la sua ratio nell’esigenza di impedire la reiterazione o il compimento di nuovi delitti. Il nesso di pertinenzialità, infatti, secondo la seconda sezione penale della Cassazione, non era stato motivato adeguatamente poiché i giudici piemontesi avevano argomentato sulla "riferibilità" del danaro al reato contestato. Motivazione che la Corte qualifica come meramente "apparente". Prevenzione a rischio genericità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2017 Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 40076 del 5 settembre. La mancata osservanza delle prescrizioni generiche di "vivere onestamente" e "rispettare le leggi" da parte di chi è soggetto a sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno non deve essere sanzionata. Può tuttavia avere una rilevanza per l’eventuale aggravarsi della misura di prevenzione speciale. Lo puntualizzano le Sezioni unite con la sentenza n. 40076 depositata ieri. La pronuncia prende atto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del febbraio scorso, sentenza De Tommaso, con la quale, da una parte, è stata complessivamente criticata la disciplina italiana delle misure di prevenzione personali e, dall’altra, è stata riconosciuta l’estrema vaghezza e genericità del contenuto delle prescrizioni di "vivere onestamente nel rispetto delle leggi". La Corte europea sottolineava come queste prescrizioni non erano poi neppure state delimitate dall’interpretazione delle Consulta visto che persiste un’evidente indeterminatezza delle condotte pretese nei confronti del sorvegliato speciale. E questo soprattutto per la possibile rilevanza penale della violazione: l’articolo 75 comma 2 del decreto legislativo n. 159 del 2011, infatti, punisce come delitto ogni tipo di inosservanza relativa alla sorveglianza speciale qualificata sia che riguardi obblighi sia che affronti le prescrizioni. Le Sezioni unite adesso rilanciano, ricordando che l’obbligo di rispettare le legge "si propone in termini talmente vaghi da presentare un deficit di determinatezza e di precisione che lo rende privo di contenuto precettivo. Si tratta di una prescrizione generale, che non indica alcun comportamento specifico da osservare, nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato". La persona interessata non è oltretutto nelle condizioni di potere conoscere alla violazione di quali condotte seguano conseguenze penali. Un aspetto di imprevedibilità sul quale si sono soffermate anche le contestazioni da parte della Corte europea. Di più. La Cassazione avverte che anche l’interpretazione diretta a restringere la portata della norma alle sole violazioni delle norme penali e degli illeciti amministrativi di maggiore gravità, non è in grado di ridimensionare la discrezionalità assai ampia del giudice nel dare un contenuto alla disposizione incriminatrice. L’autorità giudiziaria potrebbe cioè farvi rientrare anche condotte solo colpose oppure effettuare scelte arbitrarie sugli illeciti amministrativi da prendere in considerazione. Le norme penali hanno l’obiettivo di influire sui comportamenti dei destinatari, ma si tratta di una caratteristica che non riguarda la prescrizione di vivere onestamente e rispettare le leggi perché il suo contenuto non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. Non è cioè evidente quali condotte sono dannose socialmente e vanno evitate e quelle socialmente utili che vanno invece cercate. Però, la prescrizione del rispetto delle leggi, più che del vivere onestamente che non è mai stata considerata in maniera autonoma, può avere un’importanza indiretta nell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. La psicologa in aula senza il consenso è "violenza privata" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2017 Corte di Cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 40291 del 5 settembre. La presenza della psicologo scolastica in un’aula di scuola elementare è reato (violenza privata) se non è preventivamente autorizzata dai genitori degli alunni. Non solo, trattandosi di un’attività svolta da pubblico ufficiale, la mancata registrazione nel protocollo dell’istituto, e poi il diniego alle domande dei genitori circa l’esistenza della relazione finale, rappresentano un falso per soppressione. La Quinta penale della Cassazione (sentenza 40291/17, depositata ieri) ha annullato il proscioglimento del Gip di Arezzo nei confronti di due dirigenti scolastici, due insegnanti e della stessa psicologa, tutti portati a giudizio dai genitori di un bimbo di sette anni con presunti problemi comportamentali. Gli insegnanti avevano chiesto, in particolare, la consulenza del medico durante le ore di lezione per osservare, pur dissimulando l’attività, l’atteggiamento relazionale dell’alunno. Al termine dell’analisi, durata due mesi. il medico aveva stilato una relazione di cui i genitori avevano sentito parlare, solo a fine anno scolastico, durante un colloquio con l’insegnante. Da lì la richiesta di accesso agli atti, puntualmente negata - come l’esistenza stessa della relazione - dai due dirigenti scolastici passatisi l’incarico a cavallo degli anni interessati. Secondo il Gup, che aveva disposto il proscioglimento di tutti gli imputati, l’osservazione della psicologa non aveva il carattere di "attività impositiva" richiesto dalla norma (articolo 610 del codice penale), mentre il falso cadrebbe per la mancata qualificazione di atto pubblico rivestito dalla relazione medico/psicologica. A giudizio della Quinta, però, il giudice preliminare ha frettolosamente archiviato il caso pur in presenza di dubbi e di mancanza di informazioni che solo il dibattimento avrebbe potuto/dovuto risolvere. Quanto alla violenza privata, l’approccio della Cassazione è profondamente diverso, valutando che la mancanza dell’esplicito consenso da parte di chi sia legittimato a prestarlo (in questo caso, come ovvio, i genitori) "integra certamente una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo". In sostanza, la mancata informativa equivale a un dissenso espresso. Ma anche lo stesso oggetto dell’attività del medico, nel caso specifico incentrata sul singolo bimbo, depone per una chiara "invasione della sfera personale dell’alunno che, come tale, necessitava del preventivo consenso". Sulla natura dell’attività, e quindi della relazione finale, la Quinta non ha dubbi: si tratta di funzioni da pubblico ufficiale che svolge un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico. Pertanto la relazione doveva essere protocollata ed essere poi messa a disposizione dei soggetti interessati, i genitori. Sardegna: le carceri, il Partito Radicale e le leggi fantasma di Irene Testa senzabarcode.it, 6 settembre 2017 La Carovana per la Giustizia ha concluso il suo ultimo tour. La terza tappa, dopo la Calabria e la Sicilia, è stata in Sardegna dove, sempre insieme alle Camere Penali, sono state raccolte le firme per la proposta di legge del’UcpI per la separazione delle carriere tra Pubblico Ministero e Giudice. La delegazione era composta da I membri della Presidenza del Partito Radicale Matteo Angioli, Antonio Cerrone, Irene Testa e Maurizio Turco, già deputato. Flavio del Soldato, segretario della Consulta delle Regioni per gli Stati Uniti d’Europa e Franco Giacomelli. Irene Testa, anche Segretario dell’associazione Radicale Il Detenuto Ignoto, ci ha inviato un resoconto delle situazione delle carceri sarde e spiega la situazione. "Tra le varie problematiche inerenti le carceri sarde, dovute alla tipologia degli istituti, alla particolarità di alcuni detenuti e alla carenza di direttori e di personale, c’è una questione evidentemente emblematica sulla quale da anni le istituzioni regionali della Sardegna latitano, ed è quella che riguarda la mancata nomina di un Garante Regionale dei Diritti dei detenuti. Eppure, la legge regionale del 7 febbraio 2011, n. 7, parla chiaro, e prevede testualmente un "sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria e istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Ancora più chiaramente, nella stessa legge si evidenzia che "la Regione Autonoma della Sardegna, nell’ambito delle proprie competenze, concorre a tutelare e assicurare il rispetto dei diritti e della dignità delle persone adulte e dei minori presenti negli istituti penitenziari o ammessi a misure alternative e sostitutive della detenzione". Oltre a fissare gli obiettivi e gli attori (il Garante), la legge, particolarmente ben articolata nelle intenzioni, prevede anche gli strumenti finanziari per raggiungere lo scopo, ovvero 2 milioni annui in totale. Ebbene, dall’ormai lontano 2011 questa legge regionale non ha mai trovato applicazione. Non si sa per qual motivo, né se si preveda di darne attuazione in un futuro prossimo o remoto. Eppure, tra gli scopi voluti dal Legislatore, non ce n’è uno che possa essere sottovalutato o, ancora peggio, dimenticato. Di estrema importanza sarebbero infatti per l’amministrazione penitenziaria, le disposizioni in merito ad assistenza sanitaria, formazione e istruzione negli istituti della Regione. In più, la legge non poteva essere più precisa sui tempi della sua applicazione. L’art. 20 dispone, infatti: "Le spese previste per l’attuazione della presente legge gravano sulla UPB S05.03.009 del bilancio della Regione per gli anni 2011-2013 e su quelle corrispondenti dei bilanci per gli anni successivi". Inoltre, la norma è stata altrettanto precisa riguardo alla nomina del Garante. Recita, infatti, l’art. 13, punto 2): "Il bando per la presentazione delle domande è pubblicato a cura del Presidente del Consiglio regionale sul Bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (Buras), in sede di prima applicazione, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge e successivamente entro trenta giorni dalla scadenza del mandato". Data ormai a più di due anni (maggio 2015) il tentativo del Coordinatore della Presidenza del Partito Radicale, Maurizio Turco, che con una comunicazione al Presidente della Regione Francesco Pigliaru sollecitava ad impegnare il Consiglio sull’attuazione della legge, ma ancora una risposta non è arrivata". In Sardegna esiste sono una Rems - Residenza Esecuzione Misure di Sicurezza - con soli 16 posti letto hanno chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari e li hanno trasferiti nelle galere dove non possono essere assistiti a dovere ed i malati vengono assistiti in cella. Parma: muore a 91 anni il boss Farinella, era al 41-bis per le stragi del 1992 di Salvo Palazzolo La Repubblica, 6 settembre 2017 A luglio, la Cassazione aveva accolto il suo ricorso ordinando una nuova pronuncia sulla proroga del carcere duro. Era il capomafia più anziano nei gironi del 41 bis. Giuseppe Farinella, classe 1926, è morto oggi pomeriggio al reparto detenuti dell’ospedale di Parma, stava scontando l’ergastolo per le stragi di Capaci e via d’Amelio. Il fedelissimo di Riina e Provenzano, capo del mandamento di San Mauro Castelverde (centro della provincia di Palermo), era stato condannato per essere stato uno dei mandanti della strategia di morte lanciata da Cosa nostra nel 1992. Nel luglio scorso, la Cassazione aveva accolto il suo ricorso contro la proroga del 41 bis, i giudici della Suprema Corte avevano disposto una nuova pronuncia del Tribunale di Sorveglianza di Roma, sollecitando a "tenere conto della possibile incidenza delle condizioni di salute (unite all’età particolarmente avanzata)" sulla "attuale pericolosità sociale del detenuto". La Cassazione ribadiva inoltre il "divieto di trattamento inumano e degradante". Di diverso avviso era stato il tribunale di sorveglianza, secondo cui le condizioni di salute dell’anziano detenuto "non incidono sullo stato mentale e sulle capacità cognitive del soggetto recluso" e quindi sulla sua possibilità di comunicazioni con l’esterno. Sono stati mesi di polemiche attorno all’orientamento della Cassazione, che per il capo di Cosa nostra, Salvatore Riina, ha ipotizzato il "diritto a una morte dignitosa", posizione che ha scatenato le sdegnate repliche dei familiari delle vittime di mafia. Napoli: carcere di Poggioreale, cosa resta di un percorso difficile di Antonio Mattone Il Mattino, 6 settembre 2017 Antonio Fullone ha lasciato ieri la guida del carcere di Poggioreale. Fu chiamato più di tre anni fa a dirigere il penitenziario intitolato a Giuseppe Salvia, che era finito al centro di inchieste giornalistiche e giudiziarie per le vicende della cella zero e dei metodi duri con cui veniva governato questo istituto. I risultati del lavoro svolto in questi anni per migliorare le condizioni di vita del carcere napoletano, sono sotto gli occhi di tutti, anche se ancora molto resta da fare. Il provvedimento, che ha portato Fullone ai vertici degli istituti di pena della Toscana e dell’Umbria, seppur noto da tempo e di cui si attendeva solo l’ufficializzazione, ha destato alcune preoccupazioni legate ai tempi della successione. Si auspica che la designazione del nuovo direttore avvenga in tempi rapidi, così come è fondamentale la conferma del comandante Diglio, perché non si può consentire di lasciare senza una guida forte quello che è comunque il carcere più problematico e con il più alto numero di detenuti dell’Europa occidentale. Ricordo che anche l’altro carcere cittadino, quello di Secondigliano, è tuttora privo del responsabile dopo la nomina di Liberato Guerriero a provveditore del Piemonte della Liguria e della Valle d’Aosta. Inoltre, i cambiamenti culturali e i processi operativi introdotti negli ultimi anni necessitano di una lunga gestazione prima di poter produrre degli effetti significativi e duraturi sul personale ma anche sui carcerati. Le resistenze alle innovazioni in questi anni ci sono state e si sono manifestate talvolta in modo sottile mentre in altre circostanze in maniera più evidente. Il carcere di Poggioreale è come un elastico: se lo tiri da una parte, quella buona, appena lo lasci torna subito indietro. È la tentazione che prende chi per anni ha operato all’interno di un sistema ben preciso, in buona o cattiva fede. Bisogna allora vigilare perché con il nuovo corso non si torni indietro. Accanto a queste considerazioni restano ancora delle criticità: penso soprattutto al tema della salute che pur essendo di diretta responsabilità delle Asl, non può non essere preso in considerazione da chi dirige un penitenziario. Questa estate è stata caratterizzata da alcuni episodi gravi come quello accaduto ad un cardiopatico di 66 anni finito dentro per un residuo di pena di 6 mesi che mentre faceva la terapia dell’ossigeno ha visto andare in corto circuito l’impianto. Il pronto intervento del suo piantone gli ha salvato la vita e se l’è cavata solo con alcune bruciature sul volto. Le visite specialistiche sono poi un miraggio, soprattutto nel periodo di ferie. Un detenuto del padiglione Milano a cui si sono rotti gli occhiali si è presentato al colloquio con le lenti inserite nella montatura di un suo compagno di cella. Poiché i vetri non combaciavano con la struttura, si intravedevano spazi vuoti. Immagino che anche la messa a fuoco non doveva essere perfetta. "Ci arrangiamo - mi ha detto - è da maggio che aspetto la visita dell’oculista". Impianti obsoleti, carenza e continuo turnover del personale sanitario sono malattie croniche della sanità penitenziaria napoletana. Ma forse la più grande emergenza è rappresentata dalla grande presenza di detenuti con problemi psichiatrici. All’inizio del 2016 su quasi 2.000 carcerati ben 463 assumevano psicofarmaci, ma "solo" 278 con una riconosciuta patologia psichiatrica. Questo vuol dire che assistiamo ad una psichiatrizzazione del disagio, dove al manifestarsi di malesseri e crisi si risponde somministrando calmanti e antidepressivi, senza una vera e propria presa in carico e nella totale assenza di collegamento con i servizi di salute mentali esterni. Prima e dopo la carcerazione. Oggi l’assistenza psichiatrica viene concentrata su pochi reparti, lasciando scoperti altri padiglioni che pur necessitano di cure e attenzione. Il nuovo direttore del carcere di Poggioreale che subentrerà ad Antonio Fullone, dovrà tenere conto di queste criticità per proseguire quel processo di umanizzazione che rappresenta l’unica strada per cercare di rendere migliori uomini segnati dal male e dalla violenza. Rovigo: Uil-Pa Polizia penitenziaria "il nuovo carcere è già un plesso fatiscente" Corriere del Veneto, 6 settembre 2017 La protesta della Polizia penitenziaria: climatizzatori ko e poco personale. La situazione del nuovo carcere di Rovigo, aperto nel maggio 2016 dopo nove anni di lavoro e un costo di 29 milioni di euro, torna nel mirino della Uil-Pa polizia penitenziaria. L’analisi del segretario regionale della sigla sindacale, Leonardo Angiulli, è impietosa: "Il carcere è appena stato aperto e già presenta gravi carenze strutturali, fatto che non aiuta certo il lavoro della polizia penitenziaria - afferma Angiulli. La nuova struttura è stata aperta per volontà politica con il solo personale proveniente da quello vecchio, senza programmare incrementi e con la scusa di un’apertura graduale. Oggi che il carcere è attivo il personale non c’è e i turni di servizio vanno oltre il consentito. Inoltre i diritti del personale sono stati messi non in secondo ma in terzo piano, e l’edificio è fatiscente". Inoltre la caldissima estate appena conclusa è stata molto pesante dal punto di vista ambientale per gli agenti. "Basti dire - continua il segretario regionale della Uilpa - che molti dei climatizzatori appena installati non hanno funzionato. L’attività amministrativa del carcere è spesso pregiudicata da esigenze di servizio che determinano la chiusura degli uffici e il personale viene destinato a servizi operativi imprevedibili". Il nuovo penitenziario di Rovigo si sviluppa su un’area di oltre 95mila metri quadri vicino alla tangenziale est, ha una capienza regolamentare di 207 detenuti e ha avuto una gestazione di quasi un decennio. I primi segni di vita dell’infrastruttura risalgono al 2004, con la stanziamento di 1,2 milioni di euro per la progettazione e la costruzione. Nel luglio 2007 l’arrivo a Rovigo dell’ex guardasigilli del secondo Governo Prodi Clemente Mastella, per la posa della prima pietra, poi l’avvio dei lavori. Il complesso è stato ultimato nel 2013, ma è rimasto inutilizzato per oltre due anni prima dell’inaugurazione ufficiale del febbraio 2016 e l’entrata in funzione a maggio dello scorso anno. Treviso: la Casa Circondariale si amplia e "occupa" l’Ipm, che si trasferisce a Rovigo di Denis Barea Il Gazzettino, 6 settembre 2017 Chi da tempo chiede una riorganizzazione della Casa Circondariale di Treviso, ormai da decenni alle prese con problemi di spazio che rendono complessa la gestione dei detenuti, da ieri può sperare: il ministero delle Infrastrutture ha infatti stanziato cinque milioni di euro per i lavori di adeguamento della vecchia casa circondariale di Rovigo di via Verdi, operazione che permetterà lo spostamento del carcere minorile di Treviso nel capoluogo rodigino e potrebbe liberare nuovi spazi per ospitare detenuti adulti del penitenziario di Santa Bona. "Se sarà confermata - commenta il direttore del carcere di Treviso Francesco Massimo - sarebbe una ottima notizia. È una soluzione che avevo prospettato e richiesto almeno 20 anni fa. Meglio tardi che mai". Le conferme in realtà ci sono tutte. Il Dipartimento per la giustizia minorile ha infatti già comunicato l’intenzione di realizzare un nuovo istituto penale per minorenni nel vecchio carcere rodigino, come anticipato dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, secondo cui "la struttura di via Verdi potrebbe ospitare un istituto per minori, nell’ottica della chiusura di quello di Treviso". "Attendo che la notizia sia ufficiale - ha detto Massimo - sarebbe un fatto importante che rappresenterebbe un momento di svolta per risolvere i problemi che da tempo assillano il carcere di Treviso. Liberare nuovi spazi significherebbe dare attuazione a un piano di riorganizzazione degli spazi che aumenterebbe le condizioni di sicurezza e anche la qualità del carcere, utilizzando spazi che contribuirebbero a risolvere il problema del sovraffollamento". Dal 2014 Treviso registra, con Vicenza, le punte di sovraffollamento più alte con un numero di detenuti che è superiore del doppio a quello per cui la struttura è stata pensata. I carcerati sono prevalentemente giovani e con un’ istruzione medio-bassa, con un numero di stranieri che è ben oltre la metà dell’intera popolazione carceraria. E questo anche alla luce del fatto che rispetto ai detenuti italiani gli stranieri usufruiscono meno delle misure alternative al carcere non avendo ad esempio un ambiente familiare idoneo, un alloggio e un lavoro adeguati. Circa il 68% di chi è in carcere è condannato in maniera definitiva. Carrara: detenuti e volontari Cai insieme per la pulizia dei sentieri delle Apuane lagazzettadimassaecarrara.it, 6 settembre 2017 Anche per gli anni 2017 e 2018 l’Amministrazione Comunale di Carrara ha deliberato di proseguire il progetto proposto dal Club Alpino Italiano - Sezione Carrara "Lavorare insieme: ragazzi del carcere e volontari del Cai per la pulizia dei sentieri delle Apuane carraresi", accogliendo la richiesta avanzata dal Cai. Unitamente all’adesione al progetto verrà sottoscritta una Convenzione tra il Comune di Carrara, la Casa di Reclusione di Massa, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna e il Cai per l’inserimento in lavori di pubblica utilità di detenuti e affidati in prova al Servizio Sociale. Il Comune ha deciso così di portare avanti il progetto avviato lo scorso anno, a seguito della positiva esperienza maturata, giudicandolo meritevole e conforme alle politiche di inclusione sociale perseguite dall’Amministrazione, nello specifico caso rivolte all’integrazione sociale dei detenuti del carcere di Massa che saranno impiegati in lavori di pulizia e riordino dei sentieri della montagna carrarese. Dato che il progetto riveste non solo un ruolo sociale, ma anche aspetti legati al turismo escursionistico e di tutela ambientale, l’Amministrazione ha ritenuto opportuno coinvolgere tutti i Settori competenti (Sociale, Turismo, Ambiente). A carico del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria sarà l’individuazione, tra la popolazione attualmente reclusa nella Casa Circondariale di Massa, di un numero di soggetti, per i quali sussistano le condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, ai permessi o alle licenze. A carico dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (U.E.P.E) sarà l’individuazione dei soggetti sottoposti alla misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova ai servizi sociali da destinare allo svolgimento delle attività di pubblica utilità. Il Club Alpino Italiano dovrà, invece, individuare i sentieri di bassa quota che necessitano di pulizia e manutenzione, nel rispetto del programma concordato con gli educatori della Casa di Reclusione e del personale dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, per ciascuno dei soggetti scelti per lo svolgimento dei lavori socialmente utili, eseguendo il tutoraggio dei soggetti in stato di detenzione o affidati in prova al Servizio Sociale. Vista la positiva esperienza del 2016, spiega il Presidente Luigi Vignale, il progetto è stato riproposto dal Cai Carrara ed è stato riconfermato e finanziato dalla nuova Giunta Comunale. Questa importante attività, ideata nel 2015 dal Cai di Massa e riproposta a livello nazionale con successo, ha visto protagonisti più figure che in ruoli diversi hanno permesso un lavoro di alto profilo sociale, di educazione ambientale e di riscatto fattivo portando detenuti a lavorare nella natura. La sezione del Cai di Carrara è responsabile da sempre del controllo e manutenzione di una rete sentieristica di oltre 110 km. Disponibilità e convinzione nel continuare questa esperienza è stata espressa anche dalla Direttrice della Casa di Reclusione di Massa Dottoressa Maria Martone, unitamente all’educatrice Dottoressa Lucia Scaramuzzino e alla Dottoressa Elisa Bertagnini dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna. I soci tutori del Cai, coordinati dal responsabile della Commissione Sentieristica Andrea Albertosi e dal referente del progetto Claudio Grigolini, si alterneranno per due mesi, ogni settimana, guidando il gruppo di lavoro che affronterà questo delicato incarico. L’utilità di avere una rete di sentieri puliti e percorribili, oltre al piacere del camminare in sicurezza nella natura e mantenere una condizione psico-fisica ottimale per ogni età, permette soprattutto in situazioni di necessità, come lo spegnimento incendi o soccorso a persone in difficoltà, di dare una risposta rapida ed efficace. L’importanza del reinserimento sociale di chi sta espiando una pena con un lavoro costruttivo e solidale e con l’ausilio di volontari motivati è un esempio di amore verso una natura che sta diventando sempre più fragile e che necessita di una capillare rete di sorveglianza. Mantova: c’è l’orto del carcere, detenuti nel giardino ritrovato di Elida Sergi Gente d’Italia, 6 settembre 2017 La coltivazione di ortaggi e fiori come mezzo di rieducazione. La chiamano ergoterapia e vuol dire terapia del lavoro, in questo caso lavoro in un orto, a curare un giardino in cui coltivare fiori, ortaggi e legumi. Il progetto "Orto al Fresco" verrà realizzato nel parco della villa che si trova tra via Poma e via Grioli, un tempo destinata ad alloggio del direttore del carcere di Mantova, e vedrà impegnati diversi detenuti. "Sarà utile per la produzione interna di ortaggi e per il processo di rieducazione dei ragazzi, aiuterà corpo e anima", commenta sulla Gazzetta di Mantova Riccardo Braglia, collaboratore artistico della associazione "Arte dell’Assurdo", presieduta da Annalisa Venturini, che ha pensato a un "jardin potager" per i carcerati che saranno stimolati e potranno anche sperimentare un mestiere. Impareranno, infatti, a lavorare la terra e curare il giardino e inoltre, ha spiegato ancora Braglia "ci piacerebbe aggiungere degli animali come cani, gatti, caprette e conigli per avviare anche un percorso di pet therapy". A ornare il giardino ci saranno anche numerose piante aromatiche dalle quali si ha intenzione di ricavare diversi tipi di liquori. Come è stato spiegato, inoltre, l’orto si può ben sposare con l’esigenza dei carcerati di spazi ludici all’aperto. Si tratta di un’iniziativa dell’associazione degli artisti di strada che ha richiesto tempo ed energie e che ora verrà finalmente attuata. In effetti, dopo l’avvenuta eliminazione del privilegio dell’alloggio per i direttori dei penitenziari, il parco non è stato più curato e, abbandonato, finora è rimasto in disuso. La presidente Venturini, convinta che si trattasse di uno spazio dalle grandi potenzialità, con il benestare della direttrice Rossella Padula, ha trasformato in progetto l’idea nata dalla scoperta del grande giardino che si affaccia sulle mura del cortile interno del penitenziario. Nel corso dell’inverno passato Venturini e Braglia si sono impegnati anche a trovare una figura competente che potesse aiutarli nella realizzazione dell’hortus conclusus (alla francese jardin potager). E la scelta è caduta su un’esperta come Elisabetta Bonini che ha preparato la futura immagine del giardino. Il progetto dopo un complesso iter burocratico è stato finalmente approvato dal ministero della Giustizia. Resta, infatti, solo un ultimo ostacolo, l’installazione delle telecamere, e "Orto al fresco" e quando il lavoro sarà ultimato inizieranno i lavori. "L’idea - ha spiegato la presidente Venturini al quotidiano mantovano - è quella di coltivare, almeno in parte, gli ortaggi che poi verrebbero consumati dagli stessi carcerati, ma sarebbe bello anche produrre un liquore da vendere per fare una campagna di sensibilizzazione sui nostri detenuti. Il ricavato potrebbe essere utilizzato per altri eventi o laboratori da svolgere all’interno del penitenziario abbiamo ricevuto un grande sostegno da parte di tutti: in primis dalla direttrice, da Letizia Tognali, comandante del personale di custodia, e dallo psicologo Carlo Alberto Aitini che si spendono moltissimo per i ragazzi della struttura. Senza dimenticare don Lino, cappellano della casa circondariale, e suor Deanna che con generosità ed entusiasmo accompagnano e sostengono i detenuti nel loro percorso". Per realizzare il progetto ci sarà bisogno però di molti collaboratori. Da qui l’appello di Braglia: "Ci servono volontari. Non sono richieste competenze precise, basta avere voglia di tirarsi su le maniche e di dare una mano. Questo progetto è un’assunzione di responsabilità e un’occasione di dimostrare ai ragazzi del penitenziario che la città crede in loro, che non sono soli in questo cammino". E in questo modo la coltivazione di ortaggi servirà come mezzo per la rieducazione. Nello spirito della Costituzione. Latina: detenuti insoddisfatti dello spaccio di generi alimentari, verso la protesta di Silvia Colasanti latinaquotidiano.it, 6 settembre 2017 Nel carcere di Latina è latente, ma forse neanche più tanto, una grave insoddisfazione legata alla gestione dello spaccio. I detenuti, che già vivono disagi per il problema del sovraffollamento, con numeri importanti nel capoluogo, lamentano diversi problemi legati alla possibilità che hanno di acquistare beni di prima necessità, come generi alimentari, biancheria intima e altro. Secondo molti di loro i prodotti acquistati (ovviamente da chi ha le possibilità per farlo, attraverso un libretto gestito dall’amministrazione), non corrisponderebbero a quelli poi effettivamente ottenuti, magari dello stesso genere ma di marca diversa per esempio. Qualcuno ha già fatto presente la questione, ma le cose ancora non sarebbero cambiate e all’interno del carcere di via Aspromonte c’è chi ha pensato a mettere in atto forme di protesta. Roma: "Altri Sguardi", il cinema che supera tutte le barriere di Melania Rizzoli Libero, 6 settembre 2017 Dal 13 settembre una rassegna di sei film scelti per 100 detenuti di Rebibbia. Una rassegna cinematografica dedicata ai detenuti, in un progetto destinato al penitenziario di Rebibbia a Roma. Una iniziativa insolita, questa del cinema in carcere, ideata e finalizzata ad aprire al confronto e alla discussione su temi sociali suggeriti da alcuni film, che verranno proiettati nel mondo sommerso dei reclusi. "Altri Sguardi" è il titolo dell’impresa di tre giovani donne e amiche, Ilaria Spada, Raffaella Mangini e Clementina Montezemolo, le quali, tramite la loro associazione "Metide", hanno inteso dar vita ad una riflessione sul reale per chi vive in un isolamento che lo allontana dal mondo esterno. Un progetto solidale no profit, che promuove l’incontro tra cinema e solidarietà e che è la prima delle iniziative promosse, condivise con la direzione di Rebibbia, rivolta ai reclusi, al personale di polizia giudiziaria ed amministrativa, per sviluppare potenzialità di miglioramento delle relazioni interpersonali e condivisione su temi specifici, creando anche percorsi formativi interni della durata di almeno un anno, con attività individuali o di gruppo, finalizzate a creare un vero e proprio laboratorio di scrittura cinematografica, guidata dal professionismo di sceneggiatori, attori e registi. La giornata inaugurale sarà il 13 settembre con la proiezione Tutto Andrea Carpenzano e Giuliano Montaldo in "Tutto quello che vuoi" quello che vuoi di Francesco Bruni, e proseguirà in sei appuntamenti settimanali, con la presenza in sala dei rispettivi registi, attori ed altri interpreti del cast dei relativi film. Ogni giornata si aprirà con la proiezione, introdotta e seguita dal dibattito con gli autori ed esperti, ed ogni appuntamento sarà seguito da 100 detenuti, 20 dei quali, scelti dalla direzione, saranno impegnati anche come giurati e saranno una presenza fissa, mentre gli altri 80 vedranno i film a rotazione. Le pellicole selezionate, tra le quali "La pazza gioia" di Virzì, e "L’ora legale" di Ficarra e Picone, sono stati scelte per stimolare la ricerca di identità, per sottolineare l’importanza della legalità e per evidenziare l’importanza della rinascita dopo una caduta, dopo una delusione, ed anche dopo un reato, e per non far dimenticare i valori della vita, quella che aspetta fuori il popolo dei detenuti. Rai Cinema e Medusa hanno accolto e supportato questa iniziativa, ed è stato creato uno sportello per attività di counseling, che prevede un anno di incontri e discussioni, che sarà misurato attraverso test psicologici ed eventualmente anche clinici. "Altri Sguardi" è stata creata dal gruppo di donne per dare visibilità anche ad un progetto di charity per promuovere iniziative culturali, eventi e raccolta fondi a supporto di realtà sociali che necessitano di sostegno e visibilità. "Noi vogliamo mantenere i detenuti a contatto con la realtà esterna, e far crescere in loro la consapevolezza che il mondo esterno non li ha dimenticati. Sogni e speranze, da sempre sono la materia del cinema, e condividerli è dare un valore aggiunto alla nostra iniziativa", conferma Raffaella Mangini, responsabile dei rapporti con le aziende e istituzioni per la "Cairo Communication". Il coordinamento artistico della manifestazione è affidato a Laura Delli Colli, presidente dei giornalisti cinematografici italiani. L’iniziativa è stata presentata a Venezia, in occasione del Festival, e successivamente una giuria assegnerà il premio al miglior film tra i titoli che saranno proposti con un laboratorio di scrittura destinato per l’area femminile di Rebibbia. Aprire simbolicamente le porte del carcere a un confronto culturale, darà nuove possibilità di crescita ed imporrà un momento di riflessione tra i detenuti e gli operatori, per creare nuovi spunti, oltre ad un dibattito sulla realtà sociale di questi luoghi troppo spesso nascosti o dimenticati. Venezia: Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria al carcere della Giudecca Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2017 Prosegue la proficua collaborazione di Michalis Traitsis e di Balamòs Teatro con la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, avviata nel 2008 nell’ambito del progetto teatrale "Passi Sospesi" attivo negli Istituti Penitenziari di Venezia dal 2006 (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia). Dopo quel primo appuntamento ogni anno Michalis Traitsis invita registi e attori ospiti della Mostra per un incontro con i detenuti e le detenute preceduto dalla presentazione dei film più rappresentativi degli artisti ospitati. Negli anni scorsi hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica. Significativa ora la visita delle registe Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria, ospiti della Mostra di Venezia con il film "Lievito madre - Le ragazze del secolo scorso". L’incontro è previsto per giovedì 7 settembre 2017 alle ore 10.30. Per l’occasione dal 4 al 6 settembre all’interno dell’istituto penitenziario femminile di Giudecca verrà organizzata una serie di incontri con le donne detenute a cura di Michalis Traitsis per presentare l’opera letteraria di Concita De Gregorio (Malamore, Mi sa che fuori è primavera, Cosi è la vita) che in passato è stata utilizzata parzialmente come materiale di laboratorio per l’allestimento dello spettacolo "Cantica delle donne". Alla presentazione nell’ambito della 74esima Mostra del docufilm di Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria, prevista per Sabato 2 settembre 2017, alle ore 14.30 presso la Sala Giardino, parteciperà anche una donna detenuta, attrice e cantante della compagnia della Casa di Reclusione Femminile veneziana, diretta da Michalis Traitsis. L’incontro all’interno della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca è riservato agli autorizzati. La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra del Cinema ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che comprende come partner il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, il Teatro Cà Foscari di Venezia, il Master sull’immigrazione dell’Università Cà Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione Veneto. Per il progetto teatrale "Passi Sospesi", Michalis Traitsis ha ricevuto nell’Aprile del 2013 l’encomio da parte della Presidenza della Repubblica e nel Novembre del 2013 il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Saluzzo (Cn): "La Classe", va in scena lo spettacolo teatrale dei detenuti targatocn.it, 6 settembre 2017 Da giovedì 28 settembre a domenica 1 ottobre, alle ore 15 e alle ore 17. Progetto a cura dell’Associazione Voci Erranti. È ormai un appuntamento atteso e consolidato quello di entrare, ogni anno, nella sala polivalente del carcere di Saluzzo per assistere al nuovo spettacolo teatrale preparato dai detenuti del Laboratorio Teatrale dell’Associazione Voci Erranti. Il Progetto, per volontà del Direttore Dott. Giorgio Leggieri e degli operatori dell’Area Educativa, comprende sia l’attività laboratoriale annuale per due gruppi di detenuti dell’Istituto sia l’apertura al pubblico esterno con le repliche per la cittadinanza e per i docenti e studenti delle Scuole che lo richiedono. È questa un’iniziativa che permane nonostante le tante e gravi difficoltà che il sistema carcerario attraversa e che rappresenta per i detenuti una opportunità di crescita culturale e per i cittadini un’occasione per conoscere da più vicino la realtà della reclusione. Il tema dello spettacolo di quest’anno è la scuola. Sono passati cinquant’anni dalla morte di Don Lorenzo Milani e dall’esperienza della sua scuola di Barbiana che tanto ha fatto discutere e riflettere, portatrice di un messaggio educativo che insegnava ai figli dei poveri l’importanza dello studio e della conoscenza come mezzo di riscatto sociale. Il gruppo dei detenuti ha ripensato al proprio passato scolastico, ai comportamenti e mancanze che li hanno allontanati dal percorso di studenti. Così come per Pinocchio anch’essi sono stati abbagliati dal Paese dei Balocchi, hanno marinato la scuola, hanno trasgredito le regole e preferito la strada come maestra per poi ritrovarsi adulti inadeguati in una società di cui non capiscono il linguaggio. Oggi, questi giovani-uomini, rinchiusi in un luogo senza spazio e senza tempo, sentono la mancanza di quel che non hanno vissuto e si sentono " eterni ripetenti ", impreparati ad affrontare gli esami che la vita ci propone ad affrontare. L’insegnamento di Don Milani è sempre attuale, il suo motto "I Care" può, ancora oggi, essere lo stimolo per una scuola rinnovata, in ascolto e attenta alle esigenze delle nuove generazioni, un’alternativa alla superficialità e banalità del quotidiano. "La Classe" va in scena, presso il carcere di Saluzzo, da giovedì 28 settembre a domenica 1 ottobre, alle ore 15 e alle ore 17. Le prenotazioni sono aperte fino a sabato 16 settembre, scrivendo a info@vocierranti.org o telefonando 0172.89893 - 340.6703534. Spoleto (Pg): fuori dal carcere grazie al teatro, #Sine Nomine al festival di Calcata di Sara Fratepietro tuttoggi.info, 6 settembre 2017 Un riscatto sociale grazie al teatro. È quello che sta vivendo un detenuto della casa di reclusione di Maiano che, grazie alla compagnia teatrale #Sine Nomine, ha potuto godere di un permesso premio per raggiungere Calcata (Viterbo) e partecipare alla rappresentazione de Il Cantico dei Cantici. #Sine Nomine è la compagnia teatrale ideata dall’architetto Giorgio Flamini, insegnante del liceo artistico all’interno del carcere di Spoleto, che coinvolge detenuti (ma non solo) in un percorso che vede come culmine la realizzazione di interessanti spettacoli. Diversi quelli rappresentati finora nell’ambito del Festival dei Due Mondi, che hanno portato la manifestazione - che quest’anno ha compiuto 60 anni di vita - all’interno del penitenziario spoletino, per applauditissime pièce messe in scena proprio dai reclusi. Un progetto che però è importante non solo per la sua valenza artistica, quanto per quella sociale, di reinserimento dei detenuti, di un loro riscatto. Roberto Di Sibbio è uno di loro. Ha sbagliato nella sua vita, e per questo dovrà pagare, condannato a scontare una lunga pena. Ma dentro il carcere ha trovato una strada, quella artistica. Il teatro gli sta aprendo la strada della rinascita. Ed è così che ha potuto partecipare, insieme a Diletta Masetti e Sara Ragni e con la direzione di Giorgio Flamini, all’Ad Arte - Calcata Teatro Cine Festival. Uno spettacolo che si è avvalso dell’aiuto regia e dei costumi di Pina Segoni, dei gioielli di Miriam Nori, delle musiche di Fabrizio de Rossi Re e di Vinnie Porfilio come reporter. Roberto domenica, grazie alla sensibilità dell’Ufficio di sorveglianza di Spoleto, è uscito dal penitenziario per raggiungere la cittadina viterbese, dove ha messo in scena "Il Cantico dei Cantici", l’antico poema attribuito a Re Salomone, qui proposto nella versione dello scrittore e drammaturgo Guido Ceronetti. Dopo sei spettacoli, inseriti nel cartellone del Festival di Spoleto e allestiti all’interno della Casa di Reclusione di Maiano e dopo la doppia partecipazione alla rassegna teatro carcere "Destini incrociati" a Genova e a Pesaro, la Compagnia #Sine Nomine, grazie all’Ufficio di sorveglianza di Spoleto, ha potuto presentare un proprio spettacolo in un Festival libero. "Il Cantico dei Cantici" - viene spiegato dalla compagnia #Sine Nomine - ha ripercorso l’esigenza primaria, a cui nessuno è estraneo, dell’affettività e dell’eros in carcere; sentimenti ed emozioni di cui i detenuti sono totalmente deprivati. Come nel testo biblico, ove l’incontro, forse, non si fa mai reale ma vive nella fantasia dei protagonisti, così nella situazione affettiva dei detenuti può essere solo uno stato di ricordo. La negazione dell’eros rappresenta una pena nella pena, rimane un anelito, un sogno appunto. la Mise-en-scène è la denuncia di #SIne NOmine della necessità affettiva e di colloqui intimi, incontri senza sorveglianza visiva. La carcerazione non punisce solo il detenuto, ma soprattutto il partner e i familiari. È necessario poter favorire incontri con i propri cari, e valutare seriamente un disegno di legge sull’affettività e la sessualità in carcere. La compagnia ringrazia: Grazia Manganaro, magistrato di sorveglianza; Roberta Galassi, dirigente scolastico; Luca Sardella, direttore della Casa di Reclusione di Maiano; Marco Piersigilli, comandante della polizia penitenziaria di Spoleto; tutto il personale dell’Amministrazione Penitenziaria e della segreteria didattica, il corpo di polizia penitenziaria, gli educatori, l’Ufficio di sorveglianza di Spoleto, il personale dell’Ufficio del tribunale di sorveglianza di Spoleto. Bari: "Macbeth", il cortometraggio prodotto nell’Ipm presentato al Festival di Torino ilikepuglia.it, 6 settembre 2017 "A che punto è la notte. Le confessioni di tre giovani attori" di Vincenzo Ardito documenta il laboratorio diretto da Lello Tedeschi con i detenuti-attori in Sala Prove. Il cortometraggio, prodotto da CasaTeatro e Sinapsi Produzioni Partecipate, "A che punto è la notte - Le confessioni di tre giovani attori" sarà presentato, in anteprima nazionale, sabato 9 settembre in concorso all’interno del Festival LiberAzioni di Torino, Festival nazionale di cinema, fotografia e scrittura, che si focalizza sui temi di reclusione, pena e libertà; una vetrina importante che vede la partecipazione, tra gli altri, di Ascanio Celestini e Moni Ovadia. Il cortometraggio è firmato dal filmaker barese Vincenzo Ardito, tra i fondatori di Sinapsi Produzioni Partecipate, ed è il risultato di un percorso documentaristico che ha accompagnato il laboratorio condotto da Lello Tedeschi, per il diciannovesimo anno, all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni "N. Fornelli" di Bari; un attività promossa dal Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità e dallo stesso Istituto Penale per i Minorenni di Bari "N. Fornelli". Tre giovani detenuti-attori sotto la guida del regista teatrale Lello Tedeschi, e accompagnati in scena dall’attrice e formatrice Piera Del Giudice, hanno dato vita con successo a una versione unica e personale del Macbeth di Shakespeare: un viaggio denso e allucinatorio alle radici del bene e del male, tra le pulsioni più intime e profonde dell’animo umano. Pulsioni che si abbattono come una scure tra i protagonisti della storia. Storia di assassini, sangue, streghe, fantasmi e sensi di colpa; e d’amore, grande. Indagando nella vita dei tre giovani attori detenuti il racconto filmico si incrocia con la scena teatrale e con il percorso formativo e umano che si svolge in Sala Prove - progetto speciale del Teatro Kismet OperA / Teatri di Bari - attivo da vent’anni sotto la guida e con la cura artistica dello stesso Tedeschi. Questa produzione, presentata in anteprima assoluta a Torino, è il risultato della sinergia tra due importanti realtà del territorio barese che uniscono alla ricerca artistica un’ispirazione di chiara impronta civile: Casa Teatro promuove, dal 2014, una pratica di scena in luoghi non convenzionali, dal carcere alle periferie, muovendo la sua ricerca nelle contraddizioni del reale e attraversando le periferie umane; Sinapsi - produzioni partecipate vuole essere un punto d’incontro di idee e di creatività con il fine di offrire occasioni di partecipazione sociale attraverso il mezzo filmico e la promozione culturale. Due realtà che, nell’incontro all’interno di quel luogo buio e di passaggio che è il carcere minorile, hanno riflettuto, in scena e dietro la macchina da presa, su un interrogativo: "A che punto è la notte?"; su questa domanda i detenuti attori hanno attraversato le parole di Shakespeare immaginando un mondo non troppo distante dal loro in cui agli eroi, almeno una volta nella vita, in Scozia o a Bari, è capitato di dire "lunga è la notte che mai trova il giorno". Torino: cineforum in carcere con "Recidiva Zero", riflessioni sulla rieducazione notizieinunclick.it, 6 settembre 2017 Il Polo universitario della Casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, in via Adelaide Aglietta 35, ospita lunedì 11 settembre alle 9.30 la proiezione del docufilm Recidiva Zero - Riflessioni intorno all’articolo 27 della Costituzione italiana. La pellicola, già presentata in anteprima nell’Aula consiliare di Palazzo Lascaris, propone una serie di riflessioni a partire dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Vengono intervistati - tra gli altri - Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte costituzionale, don Luigi Ciotti, storico fondatore di Libera e del Gruppo Abele, e volontari, operatori carcerari, detenuti ed ex detenuti. Al termine della proiezione, che dura circa 30 minuti, è previsto un dibattito. Una sorta di cineforum, quindi, per detenuti e addetti ai lavori, che non è aperto al pubblico. Il direttore della Casa circondariale ha però autorizzato l’ingresso agli operatori dell’informazione. Al fine di agevolare le operazioni d’ingresso, chi fosse interessato a partecipare è invitato a segnalare il proprio nominativo o quello dei giornalisti e degli operatori che intendono essere presenti all’indirizzo garante.detenuti@cr.piemonte.it entro venerdì 8 settembre. È inoltre consigliabile presentarsi all’ingresso dell’Istituto, in via Aglietta 35, per le ore 9. L’iniziativa, organizzata dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e dal Comitato Resistenza e Costituzione dell’Assemblea legislativa piemontese in collaborazione con la Casa circondariale di Torino, intende promuovere e valorizzare il docufilm come strumento di discussione e di presa di coscienza della realtà detentiva italiana, attraverso la sua diffusione con il coinvolgimento e il supporto delle Associazioni del volontariato penitenziario e, in particolare, del loro Coordinamento regionale. Con il Garante delle persone detenute Bruno Mellano, il vicepresidente del Consiglio regionale Nino Boeti, delegato al Comitato Resistenza e Costituzione, e il direttore dell’Istituto "Lorusso e Cutugno" Domenico Minervini, intervengono gli autori della pellicola Carlo Turco e Bruno Vallepiano, il professore ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale dell’Università di Torino Franco Prina, responsabile del Polo universitario del "Lorusso e Cutugno" e Giorgio Borge, responsabile del Coordinamento regionale assistenti volontari penitenziari "Tino Beiletti". La sfida delle società multietniche: conciliare inclusione e sicurezza di Nadia Urbinati La Repubblica, 6 settembre 2017 Tra le sfide più ardue che gravano sui governi democratici di società multietniche vi è quella di riuscire a tenere insieme la richiesta di libertà con la richiesta di sicurezza, perché la prima tende a essere aperta e inclusiva (con ambizioni ideali universalistiche) mentre la seconda è escludente (arrivando anche a propagandare deliri nazionalisti). Il bisogno di mantenere alta la fiducia della maggioranza, spinge spesso i governi a mostrare più volentieri i muscoli. Ma nei casi delle società multietniche, la regola più coraggiosa e lungimirante (e in questo senso, la più prudente) è quella che sa ispirare politiche che limitino l’insicurezza senza deragliare dal binario delle libertà civili e dell’inclusione. Una strada in questa direzione è quella che mostrala vicinanza delle istituzioni a chi è culturalmente vulnerabile; dare sicurezza comporta mostrare anche la faccia della prossimità, non soltanto quella della coercizione. Questa strategia si adatta a tutti i Paesi democratici multietnici, all’Italia in particolare, la cui politica della sicurezza deve saper guardare oltre le decisioni emergenziali sulle frontiere. Come interagire con i "diversi" che abitano nel Paese? Come possono le istituzioni democratiche far sentire la loro vicinanza a chi è oggetto di discriminazione? E come può la maggioranza culturale riuscire a comprendere che questo è nel suo stesso interesse? Un tentativo di dare risposta a questa domanda è suggerito dalla pubblicità a tappeto che compare nei vagoni della metropolitana di New York e con la quale il governatore Andrew Cuomo annuncia un numero verde collegato al Dipartimento dei diritti umani per denunciare casi di discriminazione, subita o di cui si è stati testimoni. Il programma fa parte di un progetto inaugurato lo scorso anno con l’intento di dare a coloro che subiscono discriminazione una qualche certezza di ascolto, il senso di non essere soli contro un nemico coriaceo e contagioso come il pregiudizio. Il programma si affianca a un altro in funzione da anni sulla denuncia di casi di violenza, di stupro e di persecuzione o stalking. Questo nuovo servizio si concentra sulla discriminazione verbale o gestuale; ed è nato in coincidenza con la campagna elettorale di Donald Trump che ha marcato un’eccezionale impennata nell’uso esplicito di linguaggio discriminatorio, una pratica che sta avvelenando la sfera pubblica in questa società multirazziale, e però anche razzista in diverse parti del Paese e fasce della popolazione. Tre sono le figure che nel messaggio pubblicitario indicano le identità potenzialmente oggetto di discriminazione: un uomo asiatico, una donna velata e una donna con il casco da operaio. In altre parole, le identità nazionali, quelle religiose, quelle di genere, e quelle associate alla classe lavoratrice. L’inserto pubblicitario suggerisce due interessanti piste interpretative. La prima riguarda le minoranze vulnerabili: che non sono solo quelle identitarie, come la religiosa e l’etnica, ma ora anche quella socio-economica. La classe e il genere insieme sono indicative del fatto che il lavoro dipendente e operaio è esposto alla discriminazione sia da parte di altri gruppi sociali sia da parte dei lavoratori stessi tra di loro. La seconda pista di lettura è che lo stato o la pubblica amministrazione vogliono essere percepiti vicini a coloro che hanno meno protezione sociale, economica e culturale; vogliono essere visti come un punto di riferimento che non rimane indifferente di fronte ad azioni che non sono direttamente violente e punibili. Comportamenti che feriscono o umiliano, con gesti e:parole, non sono necessariamente oggetto del codice penale. Tuttavia possono e devono trovare ascolto da parte delle autorità. Il razzismo verbale è l’uso del linguaggio conio scopo esplicito di offendere, sminuire, avvilire in pubblico, davanti agli altri, per raccogliere consenso e ampliare l’audience a favore della discriminazione. Il razzismo può essere meglio combattuto prevenendo la sua radicalizzazione tramite il discorso - di qui l’importanza di abituare i cittadini a pensare che le istituzioni debbano presiedere a una comunità aperta, occuparsi delle forme della comunicazione dei e tra i cittadini. Lo spazio pubblico è un bene di tutti. L’annuncio pubblicitario del governatore Cuomo può essere letto e recepito come il segno che l’autorità è consapevole di dover svolgere una funzione non soltanto repressiva, ma anche di attenzione e di vicinanza. La logica di questa politica dell’attenzione è di intervenire disincentivando, di indurre indirettamente comportamenti decenti. È prevedibile che molti nel vecchio continente, e nel nostro Paese, storcano il naso per quel che con disprezzo viene classificato "politically correct". Tuttavia le società multietniche devono riuscire (è nel loro interesse che riescano) a strategizzare regole di comportamento e di uso del linguaggio capaci di delineare uno spazio pubblico nel quale persone diverse siano e si sentano libere di interagire in tranquillità L’escalation della violenza verbale (oltre che fisica) nel nostro Paese dimostra quanto urgente sia questo lavoro di manutenzione dello spazio pubblico. Migranti. Ius soli senza numeri in Parlamento, il Pd verso la rinuncia di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 6 settembre 2017 Non sembrano esserci i numeri in Parlamento né il clima nel Paese per portare avanti a oltranza la legge sullo ius soli. Nel Partito democratico e nel governo in queste ore si sta giungendo a questa conclusione. Certo, si tratta di una legge del Pd, fortemente voluta da Matteo Renzi, ma al Nazareno come a Palazzo Chigi si tende ad avere un approccio realistico alla delicata questione. Eppure nelle loro dichiarazioni ufficiali i ministri del Pd insistono su questo provvedimento. Dice Minniti: "Un Paese che non costruisce muri ma governa i flussi e crea integrazione deve avere il coraggio di dare nazionalità a chi è nato qui da genitori che soggiornano regolarmente e lavorano nel nostro Paese". Sottolinea Lotti: "Sono convinto che il Pd porterà a casa questo risultato. Non so dire quando ma ci riusciremo". Ma al di là delle parole e delle buone intenzioni, sono i numeri quelli che contano. Al Senato, dove finora sono 50.074 gli emendamenti previsti allo ius soli (quasi tutti presentati dalla Lega), mancano all’appello i voti di Alleanza popolare. I Cinque stelle sono contrari, il via libera di Ala appare improbabile e ancora di più quello di Gal. E questa volta, ragionano a Palazzo Chigi, Forza Italia non farà al centrosinistra la cortesia di uscire dall’Aula. Non su questo: Berlusconi non si vorrà intestare l’approvazione della legge. E il governo, per parte sua, non parrebbe proprio intenzionato a usare lo strumento della fiducia, dal momento che uno dei partiti della maggioranza, cioè Ap, ha manifestato più di una perplessità su quel provvedimento. Sondaggi inequivocabili - Luigi Zanda sembra l’unico effettivamente convinto che si possa riuscire nell’impresa, ma gli altri dirigenti del Partito democratico appaiono alquanto scettici, benché formalmente affidino ogni decisione sull’iter dello ius soli al capogruppo al Senato, che effettivamente sta agendo in piena autonomia rispetto al premier e al segretario del partito. Del resto, ai primi di agosto, dopo che il provvedimento era stato congelato a causa delle fibrillazioni interne alla maggioranza di governo, Renzi aveva manifestato le sue preoccupazioni: "Si sono ridotte le possibilità che passi in questa legislatura", aveva detto il segretario del Pd nel corso di una presentazione, a Capalbio, del suo libro. Ma i numeri sfavorevoli allo ius soli non riguardano solo il Parlamento. Ci sono i sondaggi, che parlano in maniera inequivocabile. Già prima della pausa estiva, quando il Partito democratico sperava ancora di mandare in porto questo provvedimento, dalle rilevazioni emergeva un dato che non poteva passare inosservato: lo ius soli faceva perdere al Pd due punti in percentuale al mese. E la situazione da allora non è migliorata: i fatti di Rimini hanno influenzato pesantemente l’opinione degli italiani sulla legge che assegna la cittadinanza ai minori nati nel nostro Paese da genitori stranieri. C’è un altro ostacolo lungo la strada del provvedimento. Quello rappresentato dall’atteggiamento degli amministratori. Ci sono infatti sindaci (non sono pochi e alcuni sono del Pd) che hanno già espresso le loro perplessità e contrarietà sullo ius soli. Stati Uniti. Incubo "Dreamers", con Trump 800 mila americani a rischio di Marina Catucci Il Manifesto, 6 settembre 2017 Il "falco" dell’amministrazione Jeff Sessions annuncia la fine del "Daca", il programma di Obama per i migranti arrivati da bambini e cresciuti negli Stati uniti. Nei giorni scorsi gran via vai di consiglieri alla Casa bianca. Alla fine ha prevalso l’ala più estremista. La reazione dell’ex presidente: "Colpire questi giovani è sbagliato e crudele, non hanno fatto niente di male". Donald Trump ha deciso alla fine di chiudere il programma di Obama sull’immigrazione, il Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals), che proteggeva gli immigrati irregolari arrivati negli Stati uniti da bambini, al seguito dei i propri genitori, che erano immuni dalle espulsioni e, da adulti, avevano ottenuto il permesso di lavoro. L’idea era che questi bambini cresciuti in America, immersi in questa cultura, sono a tutti gli effetti americani, Dreamers, sognatori, li aveva chiamati Obama. "Sono americani nel cuore, nello spirito, in ogni altro modo a eccezione di uno solo, i documenti", ha reagito l’ex presidente Usa, definendo "crudele" la decisione. Un "autogol", ha rincarato Obama in serata: "Colpire questi giovani è sbagliato, non hanno fatto nulla di male. Vogliono avviare nuove imprese, lavorare nei nostri laboratori, servire nelle nostre forze armate". Ora, invece, Trump ha chiesto al Congresso di sostituire il programma Daca con una nuova legge entro il 5 marzo 2018. A comunicarlo non è stato Trump, ma il procuratore generale Jeff Sessions, con un annuncio brevissimo dopo il quale non ha accettato domande. La Casa Bianca quindi non accetterà nuove richieste di protezione sotto il Daca, ma al momento gli attuali 800mila iscritti del programma non corrono rischi immediati di deportazione in paesi che di fatto non conoscono, e dopo aver dato volontariamente i propri dati all’amministrazione precedente, quella attuale li sta usando come elenco di deportazione che smembra famiglie e interrompe percorsi di vita. Il provvedimento è stato definito il più crudele della presidenza Trump fino ad ora, e tuttavia la mossa del presidente che fa inorridire la sinistra e la destra moderata, è probabile che sia accolta con scetticismo da molti dei sostenitori più conservatori di Trump, che volevano non un rinvio al Congresso, ma la fine definitiva di quello che è considerato un abuso da parte di Obama. Una soluzione controversa che scontenta tutti, in pratica, e spacca ulteriormente il Partito repubblicano, già diviso dalla battaglia che è stato il voto fallimentare sull’Obamacare. Non è nemmeno chiaro, infatti, se il Congresso controllato dai repubblicani sarà disposto a votare per annullare o meno il Daca; anche nei dibattiti più aspri dell’ultimo decennio, i bambini portati illegalmente negli Stati uniti, che hanno studiato o sono diventati militari, hanno sempre attirato più empatia che critiche. In questi giorni in cui il Texas è devastato dal passaggio dell’uragano Harvey, per la posizione geografica di questo Stato di confine si sono visti molti Dreamers nei vari corpi di soccorso, mettere la propria vita a rischio per salvare quelle dei texani, o perderla, come nel caso di Alonso Guillen, nato in Messico è cresciuto in America, la cui barca si è capovolta mentre stava salvando i sopravvissuti delle inondazioni nella zona di Houston. Ora, invece, chi non è già protetto dal programma è a rischio, chi ha un permesso Daca che scade tra oggi e il 5 marzo 2018, può richiedere un rinnovo ma solo di due anni; per altri, lo status giuridico termina già il 6 marzo 2018. "Non è chiaro cosa significhi ritardare questo provvedimento di sei mesi - ha detto al New York Times Mark Krikorian, a capo del Centro per gli studi sull’immigrazione. Trump è stato tirato in molte direzioni diverse, e siccome non ha nessuna ideologia forte, o una vera conoscenza del problema, finisce per non sapere cosa fare". La prima reazione politicamente pragmatica è arrivata dal governatore democratico dello stato di New York, Andrew Cuomo, secondo il quale lo Stato della Grande mela difenderá i suoi Dreamers e porterà in tribunale la decisione di Trump. Intanto sono state organizzate manifestazioni in tutti gli Stati uniti, sin dalla mattina si sono visti picchetti di centinaia di persone davanti alla Casa Bianca, sotto le Trump tower sparse in tutta America. Una veglia era stata fatta durante la notte sotto casa di Ivanka Trump e di suo marito e consigliere del presidente, Jared Kushner, e altre più grosse manifestazioni sono attese in serata. "Era un disastro annunciato - dice William, avvocato newyorchese che ha preso un giorno libero per manifestare sotto la Trump tower. Trump deve dare un segnale ai suoi, non ha mantenuto nessuna delle promesse elettorali, forse non riuscirà a costruire nemmeno un metro di muro col Messico. Questa è una mossa più facile per dimostrare fedeltà alla propria base, fa niente che sia crudele, inutile ed economicamente dannosa". In effetti il fine settimana di Trump ha visto un via vai di consiglieri avvicendarsi e ha prevalso l’ala più estremista, capeggiata proprio da Jeff Sessions, in disperato bisogno di tornare tra le grazie del presidente dopo le frizioni legate alle indagini sul Russiagate nelle quali era troppo coinvolto. Ognuno ha, evidentemente, una serie di personali ragioni di credibilità che lo portano ad affrontare e ad usare come mezzo il Daca. Come se migliaia di vite non ne venissero coinvolte. Nigeria. Boko Haram sconfitto? Purtroppo, tutto il contrario di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 settembre 2017 In questi mesi si sono moltiplicate le dichiarazioni ufficiali sull’imminente sconfitta di Boko Haram, sui successi militari delle operazioni antiterrorismo in Nigeria e Camerun, sull’efficacia della lotta al terrorismo da parte di governi con cui l’Italia sta intessendo stretti rapporti in nome del contrasto all’immigrazione, come Ciad e Niger. Se invece leggessimo con attenzione i resoconti che arrivano dalla regione del Lago Ciad, se ascoltassimo le testimonianze di alcuni degli oltre due milioni di sfollati, quelle dichiarazioni suonerebbero vuote. Secondo un’analisi resa pubblica oggi da Amnesty International, da aprile ad agosto la recrudescenza degli attacchi di Boko haram nella regione camerunense dell’Estremo Nord e negli stati nigeriani di Borno e Adamawain ha fatto almeno 381 morti tra la popolazione civile, il doppio rispetto ai cinque mesi precedenti. L’aumento dei morti è dovuto al maggiore ricorso agli attentati suicidi, spesso mediante donne adulte o bambine costrette a esplodere in aree affollate. Nella Nigeria nord-orientale, gli attacchi di Boko haram hanno causato la morte di almeno 223 civili (81 dei quali a seguito di attentati suicidi), ma si ritiene che il numero effettivo delle vittime possa essere maggiore dato che alcuni di questi attacchi sono stati scarsamente documentati. Ma già i dati disponibili indicano che tra maggio e agosto il numero dei civili uccisi è stato sette volte superiore a quello dei quattro mesi precedenti. Solo nel mese di agosto le vittime sono state 100. Il peggiore degli attacchi recenti è avvenuto il 25 luglio, quando il gruppo armato ha ucciso 40 persone e ne ha rapite tre in un’imboscata ai danni di un team di prospezione petrolifera nella zona di Magumeri, nello stato di Borno. Nella regione dell’Estremo Nord del Camerun, Boko haram ha ucciso almeno 158 civili, un numero quattro volte più alto di quello registrato nei cinque mesi precedenti. Questo picco è stato causato dall’aumentato ricorso agli attentati suicidi: 30, ossia più di uno alla settimana. Il peggiore attacco ha avuto luogo a Waza il 12 luglio: 16 civili sono rimasti uccisi e almeno 34 feriti dopo che una bambina si è fatta esplodere in un affollato centro di video game. Nello stesso periodo la città di Kolofata, nel distretto di Mayo-Sava, è stata colpita nove volte; Mora, il secondo centro urbano della regione, tre volte. A causa della violenza di Boko haram, milioni di civili nella regione del Lago Ciad hanno bisogno di urgente assistenza umanitaria. Gli sfollati sono all’incirca 2.300.000: 1.600.000 in Nigeria, 303.000 in Camerun e altri 374.000 in Ciad e Niger. Oltre sette milioni di persone in tutta la regione hanno pochissimo cibo a disposizione: cinque milioni di questi sono in Nigeria e un milione e mezzo in Camerun. I bambini che soffrono di grave malnutrizione sono 515.000, oltre l’85 per cento dei quali in Nigeria. Il recente peggioramento delle condizioni di sicurezza sta rendendo le operazioni umanitarie difficili e addirittura impossibili in alcune zone inaccessibili del nord-est della Nigeria. Per concludere, nel 2017 Boko haram ha anche ucciso civili in Niger, nel corso di almeno 10 attacchi nella regione di Diffa. Egitto. Il governo oscura il sito web degli avvocati dei Regeni di Viviana Mazza Corriere della Sera, 6 settembre 2017 Censurata la Ong che assiste la famiglia. Un parlamentare: dopo le aperture italiane per Il Cairo caso chiuso. Il portavoce del ministero degli Esteri Abu Zeid: passi importanti. "Me lo aspettavo, dopo le dichiarazioni del vostro ministro degli Esteri, l’altro ieri, al Parlamento italiano", dice Ahmad Abdallah al Corriere. Abdallah è il presidente del consiglio d’amministrazione della "Commissione egiziana per i diritti e le libertà", organizzazione non governativa che offre consulenza ai legali della famiglia di Giulio Regeni. Alle 7 del mattino di ieri la sua Ong si è vista bloccare il sito Internet dalle autorità egiziane: "un nuovo attacco" contro la libertà di espressione, la prova "non solo che il governo rifiuta ogni critica ma anche che le sue argomentazioni sono deboli", si legge in un comunicato inviato ai media locali e stranieri. Lo stesso Abdallah è stato arrestato il 25 aprile 2016 ed è rimasto in carcere per 4 mesi e mezzo con l’accusa di aver partecipato all’organizzazione di proteste che miravano a rovesciare il regime. Dallo scorso maggio, il governo di Al Sisi ha censurato centinaia di siti, considerati spazi di dissenso, inclusi portali di informazione e pagine che offrono VPN gratuite per aggirare il blocco. Ma Abdallah non considera casuale il fatto che il sito della "Commissione egiziana per i diritti e le libertà" sia stato oscurato proprio all’indomani del discorso del ministro Angelino Alfano, che ha definito l’Egitto un "partner ineludibile" per l’Italia e difeso la decisione di rimandare l’ambasciatore al Cairo il 14 settembre. "Il governo italiano ha dato a quello egiziano il segnale che il caso Regeni è chiuso, e dunque quest’ultimo può vendicarsi contro di noi che siamo stati dall’inizio dalla parte di Giulio", sostiene il referente dei familiari del ricercatore ucciso al Cairo. La ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Italia è stata accolta come un "passo importante" dal portavoce del ministero degli Esteri egiziano Ahmed Abu Zeid. Nonostante Alfano abbia ribadito che Roma vuole "giungere alla verità vera", un parlamentare egiziano, Hassan Omar, ha detto ieri al sito Al Bawabhnews che "il ritorno dell’ambasciatore indica che entrambi i Paesi considerano chiuso il caso Regeni". "Ma non è finita, continueremo a lavorare e a credere nella giustizia", promette Abdallah. La Ong continuerà a pubblicare i propri rapporti su Facebook e altre piattaforme.