Orlando a Radio Radicale: "tempi rispettati per la riforma delle carceri" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2017 Il Guardasigilli ha chiarito: "in verità le commissioni restano in piedi fino al 31 dicembre perché devono portare a conclusione l’iter e non per finire di redigere le bozze". "Noi abbiamo lavorato tutto il mese di agosto e credo che già dalle prossime settimane potremmo inviare almeno una prima parte del lavoro a Palazzo Chigi per poi concludere tutto il percorso a fine dicembre". Sono le parole del ministro della Giustizia Andrea Orlando pronunciate domenica ai microfoni di Radio Radicale durante la trasmissione "Quota 3001", condotta da Andrea De Angelis, con in studio Rita Bernardini e l’avvocato Giuseppe Rossodivita. Il guardasigilli si riferisce all’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario approvata il 23 giugno scorso. Per fare ciò servono i decreti attuativi e a redigerli ci stanno pensando le tre Commissioni istituite dal Guardasigilli. Il timore espresso dai radicali e non solo, è che i tempi si prospettano troppo lunghi, con il serio rischio di vanificare tutto il lavoro visto che nel comunicato stampa del ministero si parlava di presentare le bozze dei decreti entro il 31 dicembre. Dopodiché, una volta approvati dal Consiglio dei ministri, le commissioni giustizia del Senato e della Camera dovrebbero dare un parere ai decreti per poi passare ad una eventuale approvazione definitiva da parte dell’esecutivo. L’iter, quindi, si prospetterebbe lungo e ciò avverrebbe in piena campagna elettorale e nella situazione in cui ci saranno altre priorità come la legge elettorale e quella di bilancio. Il ministro Orlando, sempre durante la trasmissione di Radio Radicale, ha riassicurato che i tempi ci sono e li stanno rispettando. "L’equivoco è nella data", commenta il ministro. "In verità le commissioni - spiega Orlando - restano in piedi fino al 31 dicembre perché devono portare a conclusione l’iter e non per finire di redigere le bozze". il ministro ha spiegato che il percorso prevede un passaggio nelle commissioni parlamentari che esprimono un parere e poi la deliberazione definitiva del governo che tiene o non tiene conto dell’osservazioni sulle ipotesi di decreto. In sintesi riassicura che tutto verrà concluso entro il 31 dicembre. "Conto che le prime parti del lavoro - spiega sempre il guardasigilli - saranno inviate entro il 15 settembre, perché saranno più decreti delegati". Orlando ha approfittato per ringraziare Rita Bernardini, il Partito Radicale e i detenuti per il Satyagraha, la grande iniziativa nonviolenta indetta il 16 agosto scorso che sta vedendo protagonisti oltre 8000 detenuti che digiunano e, come avviene in alcune carceri come quella di Trieste, donato il loro carrello alla Caritas. "Ringrazio i detenuti che hanno aderito al Satyagraha, Rita Bernardini per il suo costante impegno e il Partito Radicale di questa pressione, di questo lavoro di incoraggiamento e devo dire che è stato utile in questi anni avere il vostro costante pungolo. Però devo aggiungere con molta onestà - chiosa il ministro - che ho giocato molto della mia attività di governo sul portare a termine il disegno di legge penale in cui è contenuta la delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario perché la ritengo essenziale. Non voglio farmi i complimenti da solo, ma ero in una posizione davvero complicata". Durante la trasmissione di Radio Radicale, il ministro ha anche affrontato le varie criticità che ci sono in carcere, tra le quali l’escalation dei suicidi e il sovraffollamento. Orlando ha spiegato che in tantissimi casi ci sono persone - soprattutto gli extracomunitari - che dovrebbero stare ai domiciliari, ma non avendo un domicilio restano in carcere. Un problema che cercherà di risolverlo. Così come il problema della mancanza di operatori specializzati come gli psicologi, soprattutto nelle articolazioni che ospitano i detenuti psichiatrici. Oppure - altro esempio portato avanti dal guardasigilli - è la presenza dei detenuti tossicodipendenti che dovrebbero stare in una comunità, anziché in carcere. "Problema che risolverò - riassicura il ministro Orlando - attraverso una conferenza Stato-Regioni, visto che la competenza per ampliare le comunità terapeutiche non è governativa, ma regionale". Altro problema è il discorso dell’organico della polizia penitenziaria. L’esponente Rita Bernardini ha fatto notare al ministro che diverse unità sono distaccate negli uffici del Dap, del provveditorato e dei tribunali. Orlando ha promesso che darà una risposta a questi problemi, anche quelli riguardante i dirigenti dei penitenziari che si ritrovano a gestire più di un istituto a testa. Trattamenti per la dipendenza e reati di droga di Grazia Zuffa societadellaragione.it, 5 settembre 2017 Alternativa umanitaria al carcere o nuova forma di controllo punitivo? L’articolo di Grazia Zuffa sui trattamenti per la dipendenza ai detenuti per reati di droga pubblicato su "The Future of Science and Ethics", la nuova rivista scientifica fondata dal Comitato Etico della Fondazione Umberto Veronesi. Abstract - Gli alti numeri di detenuti per reati minori di droga e per reati droga correlati, perlopiù tossicodipendenti, sono oggetto di pubblica preoccupazione, come una delle "conseguenze indesiderate" del controllo antidroga. La soluzione bipartisan più popolare è l’implementazione di terapie per le dipendenze alternative al carcere, che per la loro commistione col sistema penale, sono definite come "cure quasi coercitive" (Quasi Coerced Treatments). Queste si sono sviluppate sia nei paesi anglosassoni sia in Italia (soprattutto in comunità terapeutiche), seguendo il paradigma del consumatore spinto a delinquere dalla malattia dell’addiction. L’analisi dei dati sugli ingressi in carcere mostra che le terapie alternative non riducono la carcerazione. Per di più, il persistente influsso del modello morale di "liberazione dalla droga" si traduce in vincoli comportamentali perfino più severi in comunità terapeutica che in carcere. Da qui il dilemma etico: le alternative terapeutiche al carcere rispondono alle supposte finalità umanitarie o sono invece nuove modalità di controllo punitivo? Dalla natura effetto "calmante" per i detenuti, dai video benefici per chi è in isolamento Ansa, 5 settembre 2017 Cascate, foreste, ghiacciai, paesaggi incontaminati: la natura ha un effetto "calmante" sui detenuti anche se non vissuta direttamente ma se mostrata attraverso immagini e video. Lo suggerisce uno studio dell’Università dello Utah che ha condotto un esperimento su persone recluse, in isolamento, in un carcere dell’Oregon. Le immagini di paesaggi naturali, spiegano i ricercatori sulla rivista Frontiers in Ecology and the Environment, se mostrate a persone prive di accesso alla natura, possono ridurne la tensione, la rabbia e possono quindi rendere più facili da sopportare alcuni degli ambienti più duri di un carcere, come le celle di isolamento in una struttura di massima sicurezza. I ricercatori hanno seguito per un anno i detenuti in isolamento in un carcere dell’Oregon sottoponendo alla metà di essi video di ambienti naturali più volte alla settimana. Questo gruppo di detenuti, secondo le analisi svolte, è risultato il 26% in meno incline a commettere infrazioni violente. Gli autori indicano che i benefici delle immagini naturali potrebbero estendersi anche ad altre persone prive, per vari motivi, di accesso alla natura, ad esempio a chi si trova in istituti di cura o nelle caserme militari. Gli scienziati hanno poi stretto due collaborazioni col National Geographic e con la Nasa per portare nelle carceri non solo video naturali distensivi, ma anche esperti in astrobiologia e le immagini dei telescopi spaziali come Hubble. La visione non condivisa sul principio di legalità di Giuseppe De Tomaso Gazzetta del Mezzogiorno, 5 settembre 2017 Ora lo ripetono tutti. La legalità non è né di destra né di sinistra. La legalità è un diritto e, anche, un dovere. Eppure questo principio, che rasenta l’ovvietà, in Italia stenta a radicarsi. Il tipo di reati condiziona molto l’opinione su chi infrange la legge. Ci sono infrazioni che provocano indulgenze (o intransigenze) a sinistra e infrazioni che suscitano perdonismi (o rigorismi) a destra. Cosicché la legalità finisce per sottostare a cromature politiche quanto mai singolari e pericolose in uno Stato di diritto. Dai vaccini all’immigrazione, dalla sicurezza alle regole sul lavoro, la legalità non può essere concepita come la lettura del menù al ristorante: questo voglio, questo non voglio, questo mi piace, questo non mi piace. La legge è legge. Sempre. Intendiamoci. Le leggi di uno Stato non sono quasi mai perfette, perché vengono pensate, scritte e approvate da esseri imperfetti e fallibili. In Italia, poi, l’inflazione normativa sfocia nel cosiddetto positivismo giuridico: appena spunta un problema, si cerca di risolverlo con un provvedimento legislativo ad hoc. Il che contribuisce a ingrandire la fabbrica delle leggi, sino a farne una biblioteca sterminata, caotica e foriera di confusione. Ma il rispetto delle norme non può mai essere un atto a piacere. Fino a quando una legge rimane in vigore, resta l’obbligo di rispettarla, sia da parte dei cittadini sia, soprattutto, da parte degli stessi autori/promotori. La legge può e deve essere interpretata, altrimenti si potrebbero sostituire i giudici con i robot. Ma la legge non può essere disattesa o ribaltata, pena la fine di ogni ordine civile e il ritorno alla logica del più forte, alla filosofia del menefreghismo. A dare sostanza all’ impostazione liberale della giustizia e della legalità, ha provveduto la stessa Costituzione italiana. La Carta costituzionale, sin dal suo battesimo, ha dato la stura a giudizi contrastanti e a polemiche aspre che proseguono tuttora. Ma solo su un punto i Costituenti, di tutte le casacche partitiche, avevano trovato una linea concorde: la giustizia. Opportunamente dotata di opportune garanzie in funzione della legalità. Non a caso nei Paesi in cui la giustizia gode di scarse garanzie, i giudici operano in una condizione di quasi completa irresponsabilità, il che, per fortuna non si è verificato in Italia. Il giudice è indipendente nei confronti del Parlamento e del governo. E viceversa. La divisione dei poteri resta l’architrave di ogni sistema liberaldemocratico. Ma tutti devono essere dipendenti dalla legge. Il governo della legge, in un ordinamento di libertà, deve prevalere sempre sul governo da parte degli uomini. Immigrati e vaccini sono gli ultimi casi in cui il tiro alla fune sull’applicazione delle leggi ha toccato livelli estremi. Entrambe le questioni si prestano a battaglie politiche senza esclusione di colpi (proibiti). Ma non si può né si deve buttarla sempre in politica. Le leggi vanno applicate senza se e senza ma. Per quelle discutibili ci sono le procedure adatte per la loro correzione o soppressione. Stop. La sicurezza, ad esempio, è un bene primario che sta a cuore, immaginiamo, sia agli elettori di destra che di sinistra. È assurdo trasformarla in una corrida ideologica, quasi che l’ordine pubblico e la stessa legge che vi sovrintende non riguardassero tutti gli strati della popolazione, a cominciare proprio dai più deboli, i più indifesi nelle periferie delle città. Si ripete spesso, da decenni, che, in Italia, diversamente da altri Stati, manca una visione condivisa sui grandi problemi della nazione. È vero. Nello Stivale nascono e fanno strada, sovente, formazioni politiche anti-sistema che contribuiscono a minare la governabilità e la stessa sopravvivenza delle coalizioni di cui, a volte, fanno parte. Ma la vera anomalìa della Penisola è la visione non condivisa sul principio di legalità, per cui ci sono leggi più gradite (o sgradite) a sinistra e leggi più gradite (o sgradite) a destra, col risultato che ciascuno vuole cucire e cucirsi un abito giuridico di convenienza, o a propria immagine e somiglianza. Ma, così facendo, non si fa altro che alimentare l’incertezza del diritto, quanto di più rischioso per lo sviluppo economico e la convivenza civile di un Paese. La stessa Costituzione, tuttora, viene rispettata a fasi alterne o a seconda dei benefìci del momento. Alcuni articoli sono intoccabili, ma altri articoli è come se non ci fossero, ad esempio quelli sulla garanzie giuridiche, di trasparenza e democraticità, all’interno dei partiti. E se i primi a ignorare i precetti costituzionali e legislativi sono gli eletti, ossia i legislatori, figurarsi il resto. Anche i governati o gli amministrati si sentiranno autorizzati a fare finta di nulla, concependo le leggi solo come fogli di carta, da strappare alla prima occasione. Riavvolgiamo il nastro. D’accordo. La legalità non è, né dev’essere, né di destra né di sinistra. Ma in Italia, a volte succede di peggio. La legalità non è. Punto. Se la giustizia lumaca oscura i principi di civiltà di Giovanni Verde Il Mattino, 5 settembre 2017 Il 23 dicembre 1984, a San Benedetto Val di Sangro ci fu un’esplosione sul treno Napoli-Milano. Morirono 16 persone, 260 i feriti. Si pensò ad atti terroristici organizzati dalla mafia come ritorsione (e non solo) al carcere duro introdotto nei confronti dei loro esponenti di maggiore spicco. Ci sono stati processi con alcune condanne. Un ultimo filone processuale ha avuto come imputato Totò Riina, accusato di essere l’unico mandante della strage. Il Tribunale di Firenze nel 2015 l’ha assolto. Contro la sentenza il pubblico ministero ha proposto appello. All’udienza di ieri la Corte di appello di Firenze ha rilevato che il Presidente del collegio di qui a poco sarebbe andato in pensione e che, essendo necessario rinnovare il dibattimento, sarebbe stata fatica vana compiere atti processuali destinati a diventare inutilizzabili dopo la sostituzione del Presidente. Il processo dovrà essere incardinato dinanzi ad un nuovo Collegio e con un Presidente che sperabilmente sarà in grado di assicurare la permanenza in carica per tutta la sua durata in grado di appello. Questa la notizia. Il lettore ha diritto di porsi alcune domande. Ha senso appellare una sentenza di assoluzione per una vicenda di trentuno anni fa, là dove l’unico imputato è stato condannato a rimanere in carcere a vita per i tanti delitti commessi e, oramai ultraottantenne, versa in precarie condizioni di salute? Ammesso che di qui a qualche anno (oltre l’appello, ricordiamolo, c’è il giudizio in Cassazione) i giudici pervengano ad un verdetto di condanna e ammesso che per quell’epoca Riina sia ancora vivo, quale sarà l’effetto pratico della decisione, che aggiungerà detenzione a detenzione? La risposta - presumo - è che finalmente sarà acquisita la verità, anche se si sa in partenza che la sanzione sarà irrilevante. Il compito dei giudici, tuttavia, non è quello di accertare la verità. Quest’ultima la conosce soltanto Domineddio. I giudici "fissano" e devono "fissare" la loro verità, che si impone per una convenzione da tutti accettata in quanto l’accertamento è la premessa necessaria per l’irrogazione della sanzione. La verità giudiziale non è la verità; essa è ciò che siamo obbligati a ritenere per tale come condizione che garantisce il nostro vivere civile. Ricordiamolo. Spesso le vittime o i parenti delle vittime dicono di non avere pace fino a quando non sarà scoperta la verità. In realtà, essi vogliono e hanno diritto di volere che sia fatto ciò che è nelle nostre possibilità umane per condannare chi si è reso responsabile del delitto che li ha danneggiati. Sono considerazioni, queste, che avrebbero potuto spingere il pubblico ministero a non appellare una sentenza che, se dobbiamo dare credito all’impegno dei primi giudici, deve pure essere sorretta da una ragionevole valutazione del quadro probatorio raccolto. Ma, come sappiamo, il pubblico ministero è assolutamente libero nelle sue valutazioni e non deve dare conto al alcuno. E ciò anche se la perpetuazione della vicenda processuale avrà costi diretti e indiretti, questi ultimi rappresentati dalla necessità di impegnare risorse e personale per un dibattimento la cui conclusione sarà di ben scarso rilievo. Seconda domanda. Perché il prossimo pensionamento del Presidente rende inutili gli atti compiuti dal collegio con la sua partecipazione? Prima di dare una risposta, è da fare una considerazione riguardante l’organizzazione del lavoro giudiziario. In altri settori, retti dal principio di economia, non si affiderebbe una mansione a chi sta per andare in pensione con il rischio che si debba cominciare daccapo. Nel settore della giustizia l’economia non è di casa. Ma ciò è comunque marginale. Resta la domanda. Perché gli atti sarebbero inutilizzabili? Qui viene in gioco ciò che i tecnici riconducono al principio di oralità. Si vuole che il giudice che assolve, ma soprattutto il giudice che condanna sulla base di testimonianze deve avere avuto il contatto personale ed immediato con il testimone alla presenza di tutte le parti coinvolte nella vicenda processuale. La stessa Corte europea per i diritti dell’uomo ha ritenuto, applicando l’art. 6 par.3 lett. d) della Convenzione, che il giudice di appello non può riformare la sentenza di assoluzione di primo grado sulla base di una diversa valutazione della attendibilità dei testimoni di cui non procede a nuova escussione (Cedu 5.6.2013 Hana c. Romania) e, in accoglimento di tali indicazioni, è stato di recente introdotto un terzo comma nell’art. 630 bis c.p. Quindi, essendo la sentenza di assoluzione di Riina basata sulla valutazione di testimonianze, nel processo di appello sarà necessario ascoltare di nuovo i testi. È questa imposizione il prodotto di regole di civiltà oppure è un formalismo? Qualcuno ha parlato talora di un sistema - quale sarebbe il nostro- afflitto dal formalismo delle garanzie. La verità è che il principio per il quale il giudice deve formarsi il suo convincimento in base alla percezione diretta di ciò che il testimone dichiara è un principio di civiltà. Il convincimento giudiziale non tollera mediazioni. Ma ciò presuppone che la decisione intervenga subito, quando nel giudice è ancora vivo il ricordo di ciò che ha ascoltato e ancora egli conserva le immagini del comportamento complessivo del teste. Quando la decisione sopravviene a distanza di tempo, spesso a distanza di anni, la decisione verrà resa sulla base dei protocolli d’udienza, ossia sulla lettura delle carte. In questa prospettiva un principio di civiltà rischia di trasformarsi in formalismo per la semplice ragione che ciò che è a base di quel principio nei fatti viene a mancare. Di più. Avviene, come è evidente nel nostro caso, che i testimoni sono tenuti a riferire di fatti sempre più lontani nel tempo e quando i ricordi sfumano inevitabilmente nell’area ombrosa dell’indeterminatezza. Le stesse considerazioni devono farsi per la necessità di rinnovare il dibattimento se cambia un giudice. La ragione è sempre la stessa. A decidere deve essere il giudice che ha avuto la possibilità di formarsi il convincimento con una diretta audizione delle testimonianze. E uguali sono le obiezioni. La regola ha fondamento se la decisione è immediata. Qualora il nostro sistema non assicuri l’immediatezza della decisione, che, anzi, interverrà a distanza di mesi o di anni, il valore del contatto diretto tra giudice e testimone scema o si annulla, perché il primo finirà col decidere sulla base di documenti. In realtà, i principi di civiltà che sono in gioco sono particolarmente avvertiti nella tradizione anglosassone, nella quale il dibattimento è per definizione breve, concentrato e affidato ad un giudice che se ne occupa invia esclusiva. E la Cedu subisce molto il fascino del sistema anglosassone. Trasportati nell’ambiente nel quale vivono i nostri processi quei principi perdono forza. Ed il cittadino ha tutto il diritto di chiedersi se abbia senso continuare a coltivare un processo (e a spendere soldi e risorse) per una vicenda di oltre trent’anni addietro e quale possa essere la credibilità del risultato, dovendo il giudice formarsi il convincimento su testimonianze la cui attendibilità è per forza di cose assai attenuata. Da rifare il processo sulla strage, dopo trent’anni è un assurdo di Filippo Facci Libero, 5 settembre 2017 Il giudice va in pensione. In più la legge prevede che in caso di assoluzione in primo grado, in appello si risentano tutti i testimoni. Il principio è giusto ma gli effetti sono paradossali. È difficile non farsi cadere le braccia quando un colossale fallimento della giustizia non sai più neppure a chi addebitarlo, se non genericamente a un "sistema" che ogni tanto fallisce e basta, e questo, all’apparenza, grazie a una gigantesca e apparente opera collettiva. La notizia parrebbe assurda, ma alla luce di un processo indiziario tutto luci ed ombre (più ombre, sinceramente) ci sta tutta: il processo per la strage del rapido 904, datata 1984, dovrà ricominciare da capo - dopo 33 anni - per due ragioni che purtroppo non fanno una piega: una è che il presidente della corte andrà in pensione (tra un mesetto) e l’altra è che oltretutto è entrata in vigore la riforma della giustizia targata Orlando, e quindi, secondo i suoi dettami, tutto dovrà ricominciare da capo. Aggiungiamo che l’unico imputato si chiamava Totò Riina il quale seguiva le udienze in barella e in videoconferenza dal carcere di Parma, e ora si è in attesa - con rispetto parlando - che passi a miglior vita e renda il nuovo processo ancora più assurdo. Già, perché rifare il processo significa risentire tutti i testimoni ascoltati in primo grado (tanti) e tutte le testimonianze aggiuntive di sei boss mafiosi che era stato deciso di interrogare in appello: da immaginarsi lo sforzo, la fatica, le complicanze, i costi. Per che cosa? Non per poco, in teoria: nella strage del 23 dicembre 1984, in una galleria sugli Appennini tra Firenze e Bologna, trovarono la morte 16 persone e 267 rimasero ferite. Totò Riina fu indicato come mandante di una strage che doveva essere una risposta al maxiprocesso siciliano alla mafia, ma che fu appaltata alla camorra per l’esecuzione materiale. Ora, sbrigativamente, si potrebbe ricordare che in primo grado vi furono delle condanne (compresa quella di Pippo Calò, fedelissimo di Riina) ma che lo stesso Riina fu assolto: da qui il ricorso in Appello della pm Angela Pietroiusti. A parte la questione assurda e simbolica del giudice che va in pensione, le recenti modifiche apportate all’articolo 603 - riforma Orlando - impongono che se il pm ricorre contro una sentenza di proscioglimento si debba riaprire completamente l’istruttoria. Il che ha fatto chiedere all’Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, che non si capisce neanche che cosa c’entri: "Quando avremo mai la verità sulle stragi mafiose terroristiche eversive degli anni 90, se anche i ministri della Giustizia remano contro in tempi che paiono sospetti?". Ma il ministro non c’entra niente, anzi, la riforma paradossalmente è sacrosanta: rifare il processo in caso di appello del pm contro un proscioglimento è una prassi della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e la nostra Cassazione l’aveva fatta propria prima ancora che la riforma prendesse il via: insomma, è tutto normale, ma tutto va male perché il processo d’appello è stato "rinviato a data da destinarsi". Serve un nuovo collegio che redigerà un nuovo calendario delle udienze. Ora: è possibile che tutte le testimonianze audite in tanti anni siano da buttare via? In teoria si può evitare: basta che le parti siano d’accordo. Ma saranno d’accordo? C’è da dubitarne. "I responsabili non sono stati ancora assicurati alla giustizia. I parenti delle vittime e il popolo italiano non chiedono, come qualcuno ha insinuato, vendetta, ma chiedono giustizia". Parole buone ancora oggi, ma che furono pronunciate dal Capo dello Stato Sandro Pertini nel suo discorso di fine anno 1984. Siamo fermi lì. Di Matteo e Scarpinato: "la mafia non spara più, i politici li compra" Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2017 Le stragi sono servite a stabilire nuovi equilibri di cui Cosa Nostra ha approfittato: oggi riesce a sfruttare le opportunità della globalizzazione senza rischi. Pubblichiamo la trascrizione dei principali interventi di Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, e di Nino Di Matteo, sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia. Il confronto si è svolto alla festa del Fatto alla Versiliana, venerdì primo settembre. Roberto Scarpinato. 25 anni fa cade il Muro di Berlino, finisce l’Impero sovietico, finisce la Guerra fredda, il bipolarismo internazionale che aveva ingessato la storia italiana dentro la camicia di forza della Guerra fredda e il sistema di potere politico che si era fondato sulla paura dell’avvento dei comunisti al potere collassa improvvisamente, si sciolgono i serbatoi del voto ideologico, il voto d’opinione viene messo in libertà e all’improvviso quel sistema di potere si trova senza più le leve del comando. Un vuoto di potere che allora abbiamo scambiato per l’inizio di una nuova storia, ma oggi possiamo dire che è stata l’apertura di una parentesi, che forse si va a chiudere, in cui la magistratura riesce a fare indagini che prima non erano possibili. La magistratura non scopre Tangentopoli all’inizio degli anni 90, l’aveva scoperta anche prima, ma il Parlamento aveva sistematicamente negato tutte le autorizzazioni a procedere, quindi non era stato possibile avviare indagini sulla corruzione. E Tommaso Buscetta, per anni, si rifiutò di rivelare a Falcone quali erano i rapporti tra mafia e politica, ripetendogli che l’Italia non era pronta. Buscetta inizia a parlare dopo le stragi, quando il sistema di potere crolla e molti collaboratori di giustizia ritengono che quegli uomini potentissimi che dovevano accusare, non hanno più il potere che avevano prima e si apre una nuova stagione dell’antimafia, e non è un caso che proprio in quel frangente si verificò lo stragismo, negli anni ‘92 e ‘93, ultimo colpo di coda di un sistema di potere che, nel momento in cui collassa, cerca con le stragi di interferire col nuovo corso della storia italiana. Nino Di Matteo. Quello del 1992 è un periodo che nessuno di noi potrà mai dimenticare. Io muovevo i primi passi da magistrato, da giovane siciliano palermitano avevo coltivato quel sogno avendo come punto di riferimento orazioni di Falcone e Borsellino, avevo fatto il tirocinio a Palermo, li avevo conosciuti. Mentre facevo il tirocinio sono stati uccisi nelle stragi di maggio e luglio. Già Roberto Scarpinato ha rilevato i punti di analogia tra l’azione delle Procure di Milano e di Palermo, una magistratura che riacquista coscienza del valore della propria indipendenza, della propria autonomia dalla politica, che riacquista coraggio, una magistratura siciliana che sul sangue dei morti si ricompatta, opera una svolta che per alcuni anni produrrà i suoi frutti e i cui effetti purtroppo nella magistratura siciliana, ma in generale, si sono esauriti da qualche anno. Ci sono tanti punti di contatto tra mafia e corruzione. Sono due fenomeni che segnano la fine della Prima Repubblica. E la mafia siciliana, quando inizia la propria strategia stragista con l’omicidio Lima (marzo 1992) intende - utilizzo parole di Riina come ci sono state raccontate da pentiti di mafia - "fare la guerra per poi fare la pace", giocare un ruolo decisivo nel delineare nuovi assetti di potere mafioso, politico, imprenditoriale. Intende, attraverso gli omicidi eccellenti e le stragi, rinegoziare il proprio ruolo di potere. Le stragi sono stragi politiche. Quelle del 1992 e ancora di più quelle del 1993, quelle di Roma, Firenze e Milano. Con una natura terroristica che è anomala perfino per Cosa Nostra. In quel momento - lo dice anche uno degli autori principali delle stragi del 1993, Giuseppe Graviano -, bisognava fare le stragi per creare un nuovo tipo di rapporto intenso, duraturo, importante, con la politica di alto livello. Il procuratore Scarpinato ha subito delineato il fatto della ricerca di nuovi equilibri politici in quel momento da parte della mafia. Fa impressione un dato oggettivo, pesante, lo sancisce una sentenza passata in giudicato di cui pochi parlano e pochi vogliono parlare e su cui pochi vogliono riflettere. Mi riferisco alla sentenza del tribunale, e poi appello e Cassazione, su Marcello Dell’Utri. Quella sentenza sancisce in maniera definitiva cioè che Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia, è stato condannato per concorso esterno perché è stato il tramite della stipula e poi del mantenimento di un accordo intervenuto nel 1974 e rispettato - così dice la sentenza, almeno fino al 1992, tra l’allora imprenditore Berlusconi, di lì a poco presidente del Consiglio, e le famiglie mafiose più potenti di Palermo. Io mi chiedo se questa conclusione definitiva di Cassazione abbia avuto un peso nella politica italiana. E la risposta non può che essere negativa, se è vero che nei giorni in cui quella sentenza della Cassazione veniva emessa e quelle motivazioni rese note, il presidente del Consiglio Renzi discuteva con Berlusconi di come riformare la Costituzione. Sfruttamento della prostituzione, aggravante di più persone alternativa alla continuazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 4 settembre 2017 n. 39866. La condotta di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione nei confronti di più persone non può contemporaneamente essere considerato come un fatto unitario, ai fini dell’applicazione dell’aggravante per aver agito nei confronti di più persone (art. 4, n. 7, legge n. 75 del 1958), e come una pluralità di fatti ai fini dell’applicazione di aumenti per la continuazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 39866/2017, accogliendo sotto questo aspetto il ricorso degli imputati ed affermando un principio di diritto. Secondo la Terza Sezione penale, infatti: "vi è una chiara incompatibilità logica fra i due regimi, perché l’applicazione di entrambi porterebbe a punire due volte lo stesso fatto penalmente rilevante, rappresentato dalla pluralità delle persone offese dal favoreggiamento o dallo sfruttamento". Gli imputati erano stati condannati dalla Corte d’appello dell’Aquila "per una serie di reati relativi a induzione, favoreggiamento e sfruttamento aggravati della prostituzione di più donne, collocate in appartamenti di cui avevano la disponibilità in diverse località". Proposto ricorso, hanno sostenuto l’assenza di qualsivoglia motivazione in merito alla "compatibilità tra la continuazione, in presenza di più fatti di sfruttamento e favoreggiamento nei confronti di più prostitute, e il riconoscimento dell’aggravante del fatto commesso ai danni di più persone". E la Suprema corte gli ha dato ragione annullando, con riguardo a due dei quattro imputati, la condanna limitatamente alla continuazione ed al trattamento sanzionatorio, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, perché proceda a nuovo giudizio. I giudici hanno invece respinto il motivo di ricorso sollevato da un altro imputato che lamentava "l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, non essendo stata precisata l’identità dell’interprete che aveva svolto l’attività di traduzione dallo spagnolo all’italiano", peraltro mai nominato dal giudice. Per la Cassazione infatti: "Non vi è dubbio che, in linea di principio, l’interprete non possa essere nominato direttamente dal perito incaricato di valutare e trascrivere le intercettazioni telefoniche", ma debba essere nominato dal giudice, "perché la sua attività comporta anch’essa una componente tecnico-valutativa". Tuttavia, prosegue, deve rilevarsi che "nel caso in cui il perito si avvalga in via di fatto di un interprete da lui stesso incaricato, la mancata nomina dell’interprete da parte del giudice è causa di nullità a regime intermedio e non di inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni telefoniche". E (ai sensi dell’articolo 182, comma 2, del Cpp), tale nullità va rilevata, al più tardi, nell’udienza fissata per il deposito della trascrizione. Per cui, correttamente, la Corte di appello ha evidenziato che "vi è stata la illegittima designazione dell’interprete da parte del perito, ma che tale nullità, a regime intermedio, non era stata tempestivamente rilevata". Gli imputati infatti avevano presenziato, tramite i difensori, all’udienza in cui si era proceduto all’esame del perito e al contestuale deposito delle trascrizioni senza eccepire subito dopo la nullità, e ciò "nonostante il perito, su espressa domanda del pubblico ministero, avesse precisato di essersi avvalso di un interprete". Furto di elettricità senza esimente di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2017 Corte di cassazione - 39884/2017. L’allaccio abusivo alla rete elettrica non si può scusare con lo "stato di necessità", perché questa esimente "postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l’atto penalmente illecito, e non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico". Così la Corte di cassazione ha bocciato con chiarezza inesorabile (sentenza 39884 della sezione feriale penale, depositata ieri) il ricorso di una persona che, invocando indigenza, si era allacciata abusivamente alla rete elettrica "senza rompere o trasformare la destinazione del cavo" (non è quindi chiaro come abbia realizzato l’allacciamento, miracolosamente o con sorprendente perizia tecnica). Confermata anche la fraudolenza del mezzo adottato, che fa scattare l’aggravante di cui all’articolo 625, comma 1, n. 2 del Codice penale: "L’allaccio abusivo alla rete, in qualunque modo effettuato, integra la fraudolenza". Fatto sta che le ragioni invocate dall’imputata (la condanna era stata peraltro ridotta in secondo grado), cioè "le condizioni certamente precarie e faticose dell’imputata, sfrattata e priva di lavoro, con una figlia incinta", che secondo il ricorso avrebbero dovuto portare all’assoluzione per mancanza di colpevolezza, proprio in base all’articolo 54 del Codice penale, non hanno valore per la Cassazione. Manca, infatti, il "pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo". E infatti pericolo non c’era nell’impossibilità di utilizzare l’energia elettrica (che, sottolinea con una punta di malizia la Cassazione, "veniva utilizzata per muovere i numerosi elettrodomestici della casa"), dato che semmai serviva a procurare "agi e opportunità, che fuoriescono dal concetto di incoercibile necessità, insito nella previsione normativa". Anche la strada della prescrizione, indicata dallo stesso procuratore generale d’udienza, non è praticabile a causa della "insuperabile inammissibilità del ricorso". L’imputata è stata condannata al pagamento delle spese di giudizio e di 2mila euro alla Cassa ammende. La Cassazione si conferma così coerente con un indirizzo di rigore spesso messo in discussione dagli imputati proprio in base all’articolo 54 del Codice penale, anche a fronte del chiarissimo dettato della legge: solo poche settimane fa, con la sentenza 37930, la V Sezione penale (si veda Il Sole 24 Ore del 15 agosto scorso) aveva confermato la condanna di una condòmina (che si proclamava indigente ma senza prove concrete della sua condizione) che si era allacciata all’impianto condominiale. Per la Cassazione sottrarre energia elettrica da una plafoniera del condominio è "furto aggravato" se in alternativa si poteva chiedere aiuto all’assistenza sociale. La presenza di bambini non giustificava di per sé il furto perché non era stato fatto alcun tentativo concreto di risolvere altrimenti la situazione. Testimonianza dei minori senza l’assistenza dello psicologo. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2017 Atti sessuali con minorenne - Dichiarazioni delle persone offese - Giudizio di inattendibilità da parte del giudice di merito - Illogicità delle argomentazioni - Insussistenza di elementi idonei a mettere in dubbio la capacità di testimoniare dei minori - Omessa considerazione dei riscontri derivanti dalle testimonianze. Il dubbio sulla genuinità delle deposizioni rese dai minori a causa della loro audizione da parte della polizia giudiziaria senza l’assistenza di un esperto in psicologia o psichiatria infantile, considerando che tale omissione non è sanzionata da nullità e che gli stessi sono stati successivamente esaminati nel corso dell’incidente probatorio e del dibattimento, non può fondare la conseguenza dell’inattendibilità dei testimoni minorenni se non vengono indicate le ragioni concrete della non genuinità delle loro dichiarazioni. Peraltro, il mancato espletamento della perizia in ordine alla capacità a testimoniare non determina l’inattendibilità della testimonianza resa, poiché tale accertamento non costituisce un presupposto indispensabile per la valutazione di attendibilità, ove non emergano elementi patologici che possano far dubitare della predetta capacità. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 febbraio 2017 n. 5604. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Consulente o perito - Esame del minore - Inosservanza delle prescrizioni della "Carta di Noto" - Conseguenze - Nullità o inutilizzabilità delle dichiarazioni raccolte - Esclusione. In tema di testimonianza del minore vittima di violenza sessuale, l’inosservanza dei protocolli prescritti dalla cosiddetta "Carta di Noto" nella conduzione dell’esame non determina alcuna nullità o inutilizzabilità, né è, di per sé, ragione di inattendibilità delle dichiarazioni raccolte, pur quando l’esame sia condotto dal consulente o dal perito in sede di consulenza o perizia. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 6 febbraio 2014 n. 5754. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Audizione protetta mediante uso del vetro - Specchio - Possibilità di disporla nei soli processi per reati sessuali - Esclusione. In tema di esame testimoniale del minorenne, il presidente può disporre modalità particolari (nella specie, l’uso di un vetro specchio) ai sensi degli artt. 498, comma quarto bis e 398, comma quinto, cod. proc. pen., non solo nei processi relativi a reati sessuali, ma anche nei casi in cui vi sia richiesta di parte ovvero egli lo ritenga necessario, per evitare che l’esame diretto possa nuocere alla serenità del minore. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 marzo 2014 n. 5132. Giudizio - Istruzione dibattimentale - Esame dei testimoni - Minorenne - Modalità dell’audizione protetta - Assistenza di un esperto di psicologia infantile - Obbligatorietà - Esclusione - Presenza della madre - Irregolarità - Esclusione - Fattispecie. Non comporta alcuna nullità né irregolarità e non è comunque deducibile dall’imputato l’audizione di un teste minorenne effettuata in presenza della madre anziché di un esperto in psicologia infantile, poiché le norme del cod. proc. pen. che prevedono l’audizione protetta sono dettate nell’interesse esclusivo del minore e riconoscono al giudice, tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, la facoltà di disporla o meno e di determinare le forme più idonee alla realizzazione di un contesto di ascolto adeguato all’età del testimone. (Fattispecie relativa all’audizione di un bambino di cinque anni, testimone di un fatto di violenza sessuale). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 4 novembre 2013 n. 44448. Bologna: detenuto 50enne muore in carcere per "cause naturali" polpenuil.it, 5 settembre 2017 Un 50enne napoletano è morto ieri pomeriggio nel carcere bolognese "Rocco D’Amato". A comunicarlo è Domenico Maldarizzi della Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Bologna, che con una nota ha spiegato che "a nulla sono valsi sia il pronto intervento degli agenti di servizio che dei sanitari prontamente intervenuti attuando tutte le procedure di rianimazione poi continuate anche dai sanitari del 118 che non hanno potuto far altro che dichiarare la morte dello stesso". "L’uomo, deceduto presumibilmente per cause naturali - continua Maldarizzi - era nel circuito AS per reati legati al traffico di droga con posizione giuridica di appellante e con fine pena nel 2025". Del decesso è stato informato il Pm di turno. Vigevano (Pv): i Radicali in visita al carcere "qui condizioni critiche" Askanews, 5 settembre 2017 Sabato scorso una delegazione di Radicali Italiani composta da Alessia Minieri e Stefano Bilotti ha accompagnato il senatore Luis Alberto Orellana in visita presso la casa di reclusione di Vigevano, teatro alcune settimane fa di una violenta rissa tra un gruppo di detenuti italiani e magrebini, a seguito della quale sono stati disposti trasferimenti e sanzioni disciplinari. Ne hanno dato notizia gli stessi esponenti radicali, spiegando che nel corso della visita gli agenti di polizia penitenziaria hanno indicato alla delegazione le criticità dell’istituto, dovute in particolare alla mancanza di attività lavorative, di percorsi formativi professionalizzanti e, soprattutto, di fondi strutturali per la manutenzione e per il personale. "Sono appena 193, infatti, gli agenti polizia penitenziaria in servizio, sui 265 previsti dalla pianta organica" hanno spiegato, sottolineando che si tratta di "una carenza preoccupante anche alla luce un indice di sovraffollamento del 157%: 385 i detenuti presenti al momento della visita, di cui 88 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 242 unità". Secondo quanto si legge in una nota, "i problemi di convivenza derivano anche dalla presenza di 197 detenuti stranieri (il 52% del totale) spesso nullatenenti e con le famiglie residenti nel paese d’origine. La mancanza di accordi bilaterali con i Paesi del nord Africa influisce negativamente: spesso, ad esempio, le ambasciate nazionali non riescono a verificare i numeri di telefono indicati dai detenuti stranieri e ciò determina l’interruzione dei rapporti familiari e una condizione di isolamento che può sfociare in alterazioni dell’umore e degenerare fino a determinare l’insorgenza di patologie psichiche e di comportamenti aggressivi". "Nell’arco di un anno, infatti, nell’istituto vigevanese sono stati registrati 131 atti di autolesionismo, 21 ferimenti, 17 aggressioni e un tentativo di suicidio" hanno continuato i Radicali, sottolineando che "un’altra problematica riguarda il trattamento della tossicodipendenza: un terzo dei detenuti è affetto da disturbi legati alla dipendenza da droghe (dato perfettamente allineato alla media nazionale) e il servizio garantito dal Sert è del tutto insufficiente". "Le criticità non risparmiano le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, costretti agli straordinari per ragioni di organico e vittime di disinteresse da parte del Ministero, che non provvede neppure a stanziare i fondi per il cambio delle divise, per la manutenzione delle caserme, che versano in condizioni a dir poco fatiscenti, e per la predisposizione di necessarie attività sociali o di sostegno psicologico" hanno evidenziato i Radicali Italiani, che hanno sollecitato "un immediato interessamento da parte del Governo per l’ottenimento di fondi europei (Feis; Hpyp; Fse) destinati alla ristrutturazione e alla implementazione di misure di rilancio delle carceri, nonché alla formazione e alla salute dei detenuti, come disposto dalla commissaria europea con delega alla giustizia, Vera Jourová, all’interno della comunicazione del 27 aprile 2016". Verona: a cinque detenuti il diploma dell’Istituto Alberghiero che vale una speranza L’Arena, 5 settembre 2017 Hanno potuto frequentare i corsi con gli insegnanti dell’alberghiero Berti, si sono messi in gioco e ora guardano avanti. "Un lavoro, battendo i pregiudizi". Perché ho deciso di prendere il diploma dell’istituto alberghiero in carcere? Perché frequentare questi corsi non è un’imposizione, ma una scelta. E potendo scegliere mi sento libero". Vincenzo Manduca è uno dei 36 detenuti che, alla casa circondariale di Montorio, sono iscritti ai corsi per adulti attivati tre anni fa, quando anche all’interno del carcere veronese ha debuttato (come già avviene a Padova) un percorso di scuola superiore. I primi cinque diplomati sono stati festeggiati ieri. Uno di loro è già in attesa di essere assunto in un hotel della provincia. "Si tratta di un’azione di recupero che passa attraverso l’aspetto occupazionale", spiega Maria Grazia Bregoli, direttrice del carcere, che in collaborazione con l’Ufficio scolastico ha attivato prima percorsi di alfabetizzazione di italiano, poi quelli per acquisire la licenza media e infine ha aperto le porte ai docenti dell’istituto professionale alberghiero Berti mettendo a disposizione due aule, cucina e sala per i laboratori. Grazie ai quali i detenuti a Montorio possono ottenere il diploma quinquennale anche in un triennio, come avviene con i corsi serali. Tre anni fa, infatti, le richieste erano state 44. "Ne abbiamo ammessi 24 ma a causa di qualche abbandono, trasferimenti e del fine pena si sono diplomati in 5", spiega Antonio Benetti, preside del Berti, che ha voluto concludere la sua carriera scolastica (da domani sarà in pensione) tributando il giusto riconoscimento a questi studenti sui generis, che hanno meritato i complimenti della commissione d’esame. "Avevano una motivazione difficile da trovare negli altri iscritti", prosegue. "Spero che abbiano capito che mettendosi davvero in gioco si può arrivare all’obiettivo". A ricevere il diploma dalle mani di Margherita Forestan, Garante dei diritti dei detenuti, e davanti al procuratore di Verona Angela Barbaglio, all’assessore comunale all’Istruzione Stefano Bertacco e al magistrato di sorveglianza Isabella Cesari, sono stati cinque uomini dai 40 ai 60 anni. Tutti con una storia complicata e un presente difficile, ma tanta voglia di guardare avanti. C’è Adriano Patosi, che dopo il liceo classico in Albania, ora riparte dalla cucina ("Qui ho capito che è un’arte"). C’è Abdellatif Daoud, marocchino, che in carcere ha conseguito la licenza media e ora il diploma. "Prima facevo l’autista per un catering", racconta invece Hector Jimenez, ecuadoregno, il "secchione", arrivato a Montorio che nemmeno conosceva l’italiano. Dopo un corso di alfabetizzazione, la licenza media e il diploma alberghiero, è pronto per la sua nuova vita fuori. "Ora che ho studiato scienze dell’alimentazione conosco bene la cucina mediterranea e i piatti di pesce locali, anche la trota in salsa gardesana. Il mio obiettivo è trovare un lavoro: spero che il pregiudizio che ci circonda non me lo precluda". Antonio La Rocca è il "maître" del gruppo, in carcere ha portato a termine l’alberghiero mai concluso fuori: "È stato un modo per non vedere il muro che ostacola la mia libertà, per capire che non tutto è perduto. Ora penso all’università". Il decano? Antonino Giordano, classe 1956. "Lo scopo dei corsi all’interno del carcere non è solo il reinserimento lavorativo", spiega Laura Donà ispettrice del ministero dell’Istruzione, "ma anche quello di innalzare il livello culturale di chi deve scontare una pena più lunga, consentendogli di recuperare un progetto di vita personale". Tanto che per il futuro è allo studio anche l’attivazione di un percorso di liceo artistico. "Perché", per dirla con il procuratore Barbaglio, "il ruolo della Procura e del Tribunale è l’accertamento delle colpe, ma questo non cancella la dignità della persona". Ariano Irpino (Av): "Liberi per Liberare", un laboratorio di ceramica per i detenuti canale58.com, 5 settembre 2017 Il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, accompagnato da monsignor Sergio Melillo, vescovo della diocesi di Ariano - Lacedonia, ha visitato il laboratorio Ceramica Arianese Libera, opera segno nata da un progetto 8x1000 della Caritas Italiana. L’incontro è avvenuto in occasione del convegno diocesano conclusosi ieri. Ceramica Arianese Libera è un progetto nato dalla sinergia tra Caritas, Cooperativa Artour e carcere di Ariano, che mira al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti ma soprattutto ha lo scopo di fornire una nuova visione della vita a tutti i soggetti coinvolti nell’iniziativa, siano essi detenuti, volontari, fornitori, comunità parrocchiali, esercenti. I detenuti sono stati guidati nelle attività formative dai maestri ceramisti Flavio Grasso e Gaetano Branca. L’iniziativa rientra in un progetto di più ampio respiro, di prossimo avvio, dal titolo "Liberi per Liberare". L’origine dell’odio: dalla fine della politica alla post-intelligenza di Riccardo Paradisi Il Dubbio, 5 settembre 2017 Se metà dell’enfasi che è stata posta sul tema mainstream della post-verità fosse dedicata all’avvento del nuovo vero paradigma del nostro tempo forse ci spiegheremmo meglio certe assurdità a cui siamo posti di fronte. Di che si tratta? Diciamolo con una formula che per assonanza richiama la post- verità: si tratta dell’avvento della post- intelligenza, un paradigma che a differenza delle cosiddette fake-news - la menzogna in politica è arte vecchia come il mondo - rappresenta per molti versi realmente un fatto inedito. Diciamolo: raramente la dimensione politica - anche nei suoi acuti più tragici e criminali - è stata infatti come oggi così priva di un pensiero ordinatore, di una prospettiva, di un discorso, in una parola di un pensiero. Un collasso di senso e di intelligenza che lascia prima ancora che indignati - non si tratta di morale - semplicemente stupefatti. Ancora solo quindici anni fa per dire, non un secolo, sarebbe stato semplicemente inconcepibile, se non in una parodia da cabaret, il fatto che per mesi il dibattito politico nazionale si potesse arroventare, fino a determinare potenziali crisi di governo, sulle vaccinazioni dei bambini nelle scuole. Una questione importantissima, ci mancherebbe, ma assolutamente prepolitica, se vogliamo anche scontata. Come è prepolitica, anche se è destinata a diventare sempre più carne e sangue del dibattito politico, la guerra che vede ormai sempre più radicalmente schierate su fronti opposti comunità ideologiche composite: vegani contro carnivori, animalisti contro vivisezionisti, juventini contro anti-iuventini. Si dirà che si tratta di folklore, di frange lunatiche capaci di animare una nota di colore ma di non dare il tono alla discussione politica generale. Ne siamo così sicuri? Va forse ricordato che temi come questi sono diventati materia di interrogazioni parlamentari, hanno prodotto in ambienti politici che aspirano a governare il paese inchieste, sulle scie chimiche per esempio, ma soprattutto - ed è questo il punto focale e dirimente della riflessione - settori sempre più consistenti e comunque attivi di opinione pubblica erigono questi mono-temi ad architrave di visioni del mondo; fanno discendere da questi aspetti particolari le loro scelte esistenziali e politiche. Quando alcuni mesi fa un gruppo di attivisti vegani ha fatto irruzione nel ristorante di Carlo Cracco al grido di "assassino" perché lo chef si era macchiato della colpa di aver cucinato della carne in pubblico, ci si è trovati di fronte all’irruzione della follia, ma di una follia politica, meglio di una forma di follia organizzata in metodo politico. Quando dunque parliamo di post- intelligenza si vuole dire questo: che ciò che prima era accessorio e derivativo di un discorso generale o anche semplicemente eccentrico rispetto a quest’ultimo ora diventa centrale ed essenziale. In questo consiste il livello di politica pulsionale entro cui ci muoviamo. Uno studioso canadese, Alain Deneault, in un libro di un certo successo uscito qualche mese fa (La Mediocrazia, Neri Pozza editori), ha parlato dell’avvento della mediocrazia. Ma ci permettiamo di dire che l’analisi si arresta a un livello precedente l’attuale. Il mediocre infatti è ancora uno che weberianamente svolge il suo lavoro, lo fa mediamente male, senza luce, senza passione, senza valore aggiunto, e tuttavia lo compie, lo porta a termine seppure ottusamente all’interno d’un paradigma organizzato da un pensiero, da un sistema burocratico tuttavia ordinato da una visione. Ora l’impressione è che la vita politica in senso lato delle società risponda a una pulsionalità momentanea dettata dai gusti, dagli interessi immediati, dall’istinto. L’impressione, per dirla altrimenti, è che noi si viva nella dimensione successiva a quella che un vecchissimo santone del paleo marxismo György Lukács aveva definito, in anni ancora non sospetti, "La distruzione della ragione". Lo stesso dilagare del fenomeno populista e della regressione post- democratica come qualcuno ha definito il predominio dei poteri forti della finanza e della magistratura sulla sfera politica, sono derivazioni del collasso intellettuale avvenuto soprattutto all’interno della sfera politica. Un collasso avvenuto sostanzialmente per un motivo: ossia perché la politica ha abdicato alla sua autonomia e dunque alla sua ragion d’essere. Messa sotto accusa da altri poteri - non meno immorali - la politica occidentale, soggetta a un evidente complesso di inferiorità verso la tecnica, la scienza, i media e la finanza - strumenti dei quali ha assoluto bisogno per esprimersi - ha finito con il rinunciare alla difesa delle sue prerogative, di accogliere e produrre essa stessa cultura politica. E così dall’essere stato per secoli campo magnetico delle democrazie liberali - a parte le irruzioni dei totalitarismi novecenteschi, spie di un malessere mai risolto - l’Occidente che negli anni Novanta si era sopito nell’idea che la storia fosse al suo happy end si ritrova negli anni dieci del Duemila a dover prendere atto che il suo modello di vita e di organizzazione politica non è solo minacciato dall’esterno ma rischia il collasso endogeno, perché la sua stessa ragion d’essere - di armonizzare per quanto possibili i conflitti e dare un ordine al mondo - si dimostra inutile. E questo proprio nell’era della sacralizzazione della democrazia, della celebrazione dei suoi trionfi: una retorica dietro la quale si cela una realtà che contraddice i principi della democrazia e ne corrode i presupposti istituzionali e sociali. È la tesi di un saggio di Massimo Salvatori che ha fatto scuola: Democrazia senza democrazia (Laterza) dove si sostiene che le istituzioni degli Stati nazionali e la tradizionale divisione dei poteri non sono più in grado di regolare e controllare le decisioni di centri di potere irresponsabili - vedi crac finanziario del 2008 - che presiedono alla produzione e all’allocazione delle risorse materiali, influiscono in maniera determinante sulla politica degli Stati, plasmano l’opinione pubblica e condizionano pesantemente i processi elettorali attraverso l’indebolimento fatale dei partiti e l’avvento del cittadino video-dipendente. Cittadino peraltro sempre più lontano e indifferente rispetto alla gestione della cosa pubblica. Ma che si fosse entrati in una regressione post- democratica lo aveva già detto all’inizio degli anni duemila, in piena retorica di esportazione globale della democrazia, il sociologo inglese Coulin Crouch. Sosteneva Crouch, nel suo saggio Postdemocrazia (Laterza) che i regimi rappresentativi avevano da anni cominciato a presentare una tendenza a trasformarsi appunto in postdemocrazie, percorrendo il ramo discendente di una parabola che aveva toccato il suo vertice nella seconda metà del secolo XX epoca di massima affermazione di politiche sociali inclusive mentre gli anni Novanta e Duemila questa parabola segnava l’accelerazione verso la torsione oligarchica e l’espulsione dal potere economico e politico di sempre più larghe fasce di popolazione. Ma non c’è solo la regressione oligarchica a minacciare la democrazia occidentale. Anche il populismo dilaga in assenza di corpi intermedi, classi sociali coese, partiti organizzati, comunità consapevoli sempre più prede di un discorso intonato ai luoghi comuni messi in circolo dal mainstream. L’appello diretto del potere al popolo non è solo un sintomo postdemocratico europeo infatti se un saggista conservatore come Gene Healy, senior editor del Cato Institute, segnalava qualche anno fa in The cult of presidency, che in America gli elettori delegano al presidente una serie infinita di responsabilità: riversano su di lui una tale mole di aspettative, che il potere della Casa Bianca ha finito col diventare enorme, difficile da bilanciare con gli istituzionali contrappesi liberaldemocratici. Tanto che il presidente americano non è più solo il responsabile dell’amministrazione politica dello stato e delle sue relazioni internazionali ma dovrebbe essere anche il responsabile della crescita economica, dell’educazione dei giovani, della sicurezza nazionale, della sconfitta del terrorismo e della criminalità interna. E soprattutto deve essere un esempio morale di vita per la società nordamericana, incarnando tutti i suoi più alti valori. Una specie di arcangelo con l’incarico di proteggere l’America dalle forze del male. Non sono sintomi di una democrazia propriamente in salute. Non sono nemmeno segnali incoraggianti rispetto all’intelligenza collettiva. Come sempre però i classici avevano già visto l’orizzonte. Alexis De Tocqueville nel suo Viaggio in America, un saggio ispirato e profetico sulla democrazia nascente, aveva avvertito sui rischi della sua eterogenesi: "Appunto perché non sono un avversario della democrazia, voglio essere sincero con essa. Ebbene, man mano che la massa della nazione si volge alla democrazia, la classe particolare che si occupa dell’industria diviene più aristocratica. Io penso che nel suo complesso l’aristocrazia industriale sia una delle più dure che mai siano apparse sulla terra. (...) Proprio verso questa parte gli amici della democrazia devono continuamente rivolgere lo sguardo e diffidare, perché se la diseguaglianza permanente delle condizioni e l’aristocrazia dovessero di nuovo penetrare nel mondo, si può prevedere che esse entreranno dalla porta dell’aristocrazia industriale". E anche: "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. Tenendoli in un’infanzia perpetua". In più con la globalizzazione si eclissano definitivamente le cornici che avevano garantito strutture culturali definite ai popoli. L’uomo postmoderno è homo optionis, creatura entro cui come ha scritto Ulrich Beck "lo strato profondo di ciò che in lui e che è precluso alla decisione viene spinto nella sfera della decisione" Da qui un’irritazione diffusa contro questa libertà rischiosa che ha sconfitto il destino e che ha "precipitato" intere generazioni contemporanee in quella che la Arendt chiamava "la tirannia delle possibilità". Da qui anche la resistenza: i neomisticismi, i neofondamentalismi, i radicalismi politici di destra e sinistra che impugnano di nuovo nazione e classe; da qui anche una diffusa paura panica che sfocia in richieste d’ordine, in chiusura, in diffidenza e cattiveria. Il fatto è che la questione dell’individuo è risorta e pone alla società europea l’esigenza di forgiare nuove forme di legami e di alleanze anche perché il solo principio della libertà, senza i nessi con l’idea forza dell’eguaglianza e della fraternità si risolve fatalmente nell’apocalisse sociale del tutti contro tutti. Le deriva pulsionale che si è descritta rischia d’essere l’anticamera di una violenza pandemica e capillare. Non sarà facile ritrovare perimetri culturali collettivi, ricostruire un discorso condiviso anche se nella pluralità di idee e opinioni della società complessa, ma sarà indispensabile se non si vorrà far seguire all’atomizzazione radicale in corso il decorso della follia sociale. Dove le preferenze di ognuno si scontrano con le preferenze contrapposte dell’altro. Concentrati a registrare la decadenza della politica ci siamo dimenticati che prima della politica c’era la barbarie. Migranti. Il piano del Viminale per i rifugiati: corsi di italiano e formazione lavoro di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 settembre 2017 Il ministro Minniti ha annunciato che sarà approvato entro settembre. La partecipazione ai corsi dovrà cominciare subito dopo la presentazione della richiesta di asilo. E la condizione necessaria ad avviare il percorso sarà "il rispetto dei valori fondanti dell’Italia". Dunque, anche quello delle donne. È uno dei punti fondamentali contenuti nel "Piano per l’integrazione" degli stranieri che il Viminale sta mettendo a punto in queste ore. "Lo approveremo entro metà settembre", ha annunciato il ministro Marco Minniti domenica scorsa scegliendo la platea della festa de Il Fatto. E poi ha aggiunto: "L’integrazione culturale è una gigantesca questione, non è affatto scontata. Il rispetto tra uomo e donna è scontato per noi, dobbiamo lavorare perché diventi scontato anche per gli altri, anche per chi ospitiamo". Sono tre i punti fondamentali del progetto che dovrà essere applicato con la collaborazione delle Regioni: corsi di italiano; mediazione culturale e medica; servizio civile e avviamento al lavoro. L’obiettivo è quello di accogliere in maniera dignitosa i migranti regolari, ma nello stesso tempo pretendere che loro si adeguino alle stesse regole previste per gli italiani. Dunque accettando senza condizioni anche ciò che non sarebbe previsto nelle loro usanze, proprio come è già stato stabilito nell’intesa con le associazioni islamiche. Per i finanziamenti si potrà accedere al "Fondo Asilo Migrazione e Integrazione" già esistente presso l’Unione Europea. Le lezioni - La struttura del progetto la spiega bene il sottosegretario Domenico Manzione, che da tempo tratta con i governatori proprio per ottenere una piena collaborazione. "Dal momento dell’istanza alla decisione della commissione sulla concessione dello status di rifugiato - spiega - possono trascorrere molti mesi, addirittura un anno. E dunque è giusto che questo periodo di tempo venga sfruttato in maniera costruttiva. È assurdo pensare che a queste persone si debba dare soltanto vitto e alloggio. Devono essere coinvolti nella che si svolge nel luogo dove sono stati accolti, in modo che poi siano in grado di vivere al fianco dei residenti". E per farlo il primo passo è inevitabilmente la conoscenza dell’italiano. Per questo - proprio come avviene per chi richiede la cittadinanza - ci sarà l’obbligo di frequentare corsi di lingua. E in alcuni casi, per esempio i minori, è prevista la partecipazione alle lezioni scolastiche. La mediazione - Punto di snodo è la mediazione culturale e medica. "Vuol dire - chiarisce Manzione - avere la garanzia che gli stranieri siano consapevoli delle nostre leggi e si impegnino a rispettarle, ma che lo stesso facciano per le regole del vivere civile e soprattutto per i valori sui quali si fonda l’Italia". È il tema più delicato perché riguarda anche il rapporto con le donne, il superamento di quella cultura che in alcuni Stati prevede la sottomissione della femmina al maschio. Quando questo atteggiamento sfocia nella violenza si ricorre al codice penale. Ma ci sono altri casi che non saranno ugualmente tollerati, come ad esempio l’imposizione del velo integrale o altre forme di prevaricazione nei confronti della moglie o delle figlie. In questo quadro si inserisce la "mediazione medica", che - chiarisce Manzione - "non riguarda l’aspetto prettamente sanitario, ma quello psicologico e dunque l’aiuto a superare eventuali traumi subiti negli Stati d’origine dove ci sono guerre e situazioni di gravi persecuzioni. Ma anche la capacità di gestire le relazioni interpersonali". La formazione - Il terzo punto riguarda la formazione per l’inserimento nel mondo del lavoro, in modo che i richiedenti asilo diventino autosufficienti subito dopo lo status di rifugiato. E dunque che partecipino ai corsi organizzati sia dalle Regioni, sia grazie ad alcune convenzioni - peraltro già stipulate - con Confindustria e Confcommercio, ma anche con altri Enti pubblici che hanno così la possibilità di sfruttare quei soldi destinati esclusivamente a questo scopo. Ma anche impiegandoli in lavori socialmente utili, anche a titolo gratuito. Migranti. Io temo la "democrazia" di Marco Minniti di Guido Viale Il Manifesto, 5 settembre 2017 "Aiutiamoli (a crepare) a casa loro": perfetta unità sulla questione profughi e migranti delle tre forze che si contendono il controllo politico del paese, Pd, destra e 5stelle. Condivido i timori del ministro Minniti per "la tenuta democratica del paese"; è ora di prenderne atto. Solo che a creare questa drammatica situazione hanno contribuito in modo sostanziale lo stesso ministro, la sua politica, il suo partito e il governo di cui fa parte. La tenuta democratica del paese, già messa in forse da un parlamento di nominati, eletto con una legge incostituzionale, che ha legiferato illegalmente per quattro anni, mettendo le mani anche sulla Costituzione, è ormai al tracollo. Perché sulla questione profughi e migranti, su cui si decide il futuro dell’Italia, dell’Europa e del poco che ancora resta della democrazia, le tre forze che si contenderanno il controllo politico del paese- la destra, i 5stelle e il Pd - hanno raggiunto una perfetta unità: "aiutiamoli (a crepare) a casa loro"; respingiamoli a ogni costo. Non c’è scelta. Poco importa se le destre lo proclamano con slogan razzisti e anche fascisti che i 5stelle ripetono da pappagalli mentre il Pd fa, ma sempre meno, ipocrita professione di spirito umanitario. In vista delle elezioni, e senza guardare oltre, Minniti vuole dimostrare che quello che destre e 5stelle propongono lui sa realizzarlo. E in parte ci riesce, incurante della catastrofe che sta contribuendo a mettere in moto. Fermare gli sbarchi pagando e rivestendo con una divisa scafisti e trafficanti - fino a ieri indicati come "il nemico", in combutta con le Ong - perché blocchino in mare, riportino a terra o imprigionino nel deserto profughi e migranti non è buona politica. Sappiamo che cosa fanno di quegli esseri umani intrappolati in Libia o ai suoi confini meridionali: le violentano, li fanno schiavi, li affamano, li imprigionano in condizioni igieniche inimmaginabili, li uccidono, li torturano per estorcere ai loro parenti altro denaro, li trattengono in veri Lager - pagati con fondi europei - e prima o dopo li imbarcheranno di nuovo verso l’Europa. O minacceranno di farlo come faceva Gheddafi, o come farà dopo le elezioni tedesche anche Erdogan, per strappare all’Unione europea altro denaro e nuove legittimazioni: a Erdogan ormai viene permesso tutto. Così, dall’Ucraina in mano a una milizia nazista, ai "moderati" che combattono Assad in nome della jihad, dai janjaweed che fermano in Sudan i profughi eritrei alla guardia costiera e ai "sindaci" libici incaricati di bloccare i flussi verso il Mediterraneo, l’Europa si circonda, armandole fino ai denti, di milizie usate come ascari, ma che non conosce, non controlla, e che sono sicura garanzia del mantenimento di un perpetuo stato di guerra in tutte le regioni ai suoi confini, aumentandone degrado e la produzione di nuovi profughi. Non c’è argine a questa deriva. Le forze politiche italiane, come i governi dell’Unione europea e i partiti che li sostengono, Syriza compresa, hanno rotto la diga della solidarietà, lasciando campo libero a una ferocia covata a lungo sottotraccia, che ora riemerge come razzismo che si sente legittimato dalle politiche dei governi. A queste politiche non c’è per ora alternativa. A contrastarle ci sono solo le migliaia e migliaia di iniziative impegnate in tutta Europa nell’accoglienza, i milioni di individui che ne condividono lo spirito, le moltissime associazioni che cercano di mantener viva la solidarietà. Ma non sono unite da un programma comune e non è chiaro, al di là degli sforzi per non sopprimere in sé e negli altri uno spirito di umanità, che cosa si possa fare contro questa offensiva. Ma la risposta non può più attendere. Invece di puntare lo sguardo su profughi e migranti, spaventare e spaventarsi per il loro numero - molti meno dei "migranti economici" che diversi paesi europei, Italia compresa, avevano accolto o regolarizzato ogni anno prima del 2008; e soprattutto meno delle nuove leve di cittadini e cittadine che verranno a mancare tra la popolazione europea di qui in poi - bisogna guardare a chi da quegli arrivi si sente minacciato. Se profughi e migranti sono considerati dai governi un peso e non una risorsa da valorizzare non c’è da stupirsi se molti passano alle vie di fatto per liberarsene con le spicce. E se casa e lavoro decenti (e scuola, e assistenza sanitaria, e pensione) sono un miraggio per un numero crescente di europei, la presenza - e non solo l’arrivo - di poche o tante persone tenute in inattività forzata, spesso in cattività, ed esibite come un carico inaccettabile a chi gli abita accanto non può che moltiplicare e acuire quell’ostilità di cui governi nazionali e locali sono i primi a far mostra. Non c’è argine agli arrivi o imposizione di rimpatri che possa invertire questa situazione. Ma le case per tutti ci sono, solo che sono in gran parte vuote. Il lavoro per tutti, cittadini, profughi e migranti, c’è: è quello necessario alla riconversione energetica a cui tutti i governi si sono impegnati a Parigi e a cui nessuno ha ancora messo mano. Il denaro per finanziarla c’è: Draghi continua a tirare fuori dal cappello centinaia di miliardi che finiscono in tasca alle banche. Quello che manca è la politica per mettere insieme queste tre cose. Invece ci si è rivolti all’Europa per farle condividere una militarizzazione di stampo coloniale di confini sempre più ampi e lontani. Ma il "piano Marshall" da esigere, e rispetto a cui mobilitare non tanto governi e partiti, quanto la vera opposizione sociale ai programmi di contenimento e di respingimento, è un grande investimento, capillare e articolato, sulla riconversione ecologica. Non siamo né finiremo "sommersi". Molti dei profughi arrivati negli ultimi anni - e sicuramente quelli provenienti da zone di guerra o di conflitto armato - torneranno nei loro paesi se e appena sarà possibile. E se altri ne arriveranno, quello che occorre sono politiche di sostegno alle loro esigenze immediate - a partire dai corridoi di ingresso - e di promozione della loro capacità di organizzarsi: per progettare, anche grazie ai legami che hanno con le loro comunità di origine, delle alternative pratiche alla rapina dei loro territori e ai conflitti che li hanno costretti a fuggire. È con loro che vanno fatti i progetti di cooperazione e anche i negoziati per restaurare la pace, dando spazio a queste forze e tenendo il più possibile lontani dai loro paesi multinazionali e mercanti di armi. Invece di deportazioni mascherate da rimpatri con cui i governi europei cercano di tacitare quel rancore degli elettori che essi stessi alimentano si innesterebbe così una libera circolazione delle persone da e verso i loro paesi di origine; a beneficio di tutti. Migranti. Orlando: "Lo ius soli prevede anche i doveri. Deterrente contro i reati" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 settembre 2017 "Nel civile l’informatizzazione ha accelerato i processi, ora tocca al penale". "Entro la metà di settembre presenteremo la prima parte dei decreti delegati sulla riforma carceraria". I fatti di Rimini e l’arresto di tre giovani africani accusati di stupro hanno rianimato, soprattutto a destra, le ostilità all’introduzione dello ius soli, ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando dice che bisogna procedere nella direzione opposta, accelerando la riforma: "Lo ius soli è un percorso di doveri, non solo di diritti, e serve a evitare di confinare le persone in un limbo, un’area grigia separata dal resto della comunità. La marginalizzazione è un humus nel quale crescono le devianze, l’integrazione e l’adempimento dei doveri civici servono invece ad acquisire diritti e questo può aiutare la sicurezza collettiva". Vale anche dopo episodi come quelli di Rimini? "Trarre conclusioni generali da singoli episodi sarebbe sbagliato, ma avere dei cittadini anziché degli apolidi senza radici nel Paese di provenienza ed emarginati in quello in cui vivono, significa aumentare le possibilità di controllo sociale e civile. E il perseguimento di un obiettivo attraverso il rispetto delle regole può essere un deterrente in più". La pensa così pure sul trattamento dei detenuti? "Certamente. Entro la metà di settembre presenteremo la prima parte dei decreti delegati sulla riforma carceraria, la cui filosofia è "basta con le riduzioni di pene in automatico e con le preclusioni preventive", terrorismo e mafia a parte. La personalizzazione del carcere e delle pene alternative aiutano ad abbassare la recidiva nella commissione dei reati e il carcere dev’essere un percorso anziché un parcheggio, dove le persone possono ottenere benefici se si impegnano nel reinserimento, attraverso la scuola, il lavoro e altri processi educativi". Ma ci sono le risorse necessarie? "Abbiamo già investito sull’aumento dei magistrati di sorveglianza, e continueremo a farlo con educatori, mediatori culturali e altre figure, ancor più necessarie con una popolazione carceraria di cui un terzo è composto da stranieri delle etnie più diverse". La disponibilità di risorse pesa sulle riforme in generale, dal civile al penale. A che punto siamo? "In campo civile possiamo essere soddisfatti dei risultati raggiunti. Quattro anni fa il contenzioso pesava per poco meno di sei milioni di cause, ora siamo a 3 milioni e 700.000, e la durata media di un processo in primo grado è scesa da 512 giorni a 370: una riduzione del 27 per cento. Si può e si deve fare di più, ma il bilancio è certamente positivo, soprattutto per merito dell’informatizzazione, nella quale abbiamo investito per quasi un miliardo di euro". E sulla giustizia penale? "Stiamo portando l’informatizzazione anche lì, attraverso un pacchetto straordinario di interventi sulla digitalizzazione degli atti, il rinnovo degli strumenti informatici e la specializzazione del personale. Nel frattempo abbiamo assunto 1.800 impiegati amministrativi nelle cancellerie e previsto l’immissione di altre 2.500 persone che possiamo considerare "nativi digitali", cioè preparate alle novità del processo telematico. E con l’ultimo concorso copriremo i vuoti nell’organico della magistratura". Sarà, ma basta entrare in un tribunale per capire che ancora molte cose non funzionano. E con la riforma del processo penale da lei fortemente voluta c’è chi lamenta meccanismi che porteranno ulteriori problemi e lentezze. "L’importante è che si siano invertite le tendenze, come i procedimenti che si sono ridotti del 7 per cento. Sulla prescrizione credo che non si potrà fare più di quello che abbiamo fatto; del resto se il 50 per cento dei processi si prescrive in quattro distretti significa che bisogna intervenire sull’organizzazione oltre che sulle leggi. Se alcune riforme aumenteranno i carichi di lavoro sarà per introdurre nuove garanzie, ad esempio aumentando i gradi di impugnazione in alcuni casi. Di contro, abbiamo reso più stringenti le stesse impugnazioni, e introdotto interventi deflattivi come l’eliminazione delle cause per la tenuità del fatto, l’introduzione della giustizia riparatrice, la procedibilità a querela e non più d’ufficio per alcuni reati". Oltre che ministro della Giustizia, lei è uno dei leader dell’opposizione interna al Partito Democratico. Che cosa pensa della possibile riforma della legge elettorale? "Come minoranza abbiamo sempre detto che non dobbiamo rassegnarci a votare con questa legge. Nel centrodestra si registrano aperture per introdurre elementi di maggioritario che non dobbiamo lasciare cadere. Non si può dire che se non ci stanno tutti non si fa niente, perché alcuni hanno interesse alla frammentazione e all’ingovernabilità, mentre noi dobbiamo garantire stabilità senza ritornare alla prima Repubblica. Abbiamo fatto a meno dell’unanimità su molte altre questioni, non ci possiamo fermare proprio stavolta se non c’è il 100 per 100 dei consensi. E l’interesse di Salvini verso il Mattarellum rappresenta una novità interessante". "In Libia i migranti non sono al sicuro". Moas ferma i salvataggi di Marina Della Croce Il Manifesto, 5 settembre 2017 L’Ong maltese va via dal Mediterraneo: "Non vogliamo essere complici di un meccanismo che non garantisce l’accoglienza". Più che l’annuncio dello stop alle operazioni di soccorso sembra un chiaro atto di accusa alla politica messa in atto dall’Italia per fermare i migranti in Libia. Moas, la Ong maltese che in tre anni di attività nel Mediterraneo centrale ha tratto in salvo più di 40 mila persone, ha deciso infatti di sospendere l’attività spiegando che la scelta è dovuta al trattamento riservato ai migranti riportati nel Paese nordafricano dopo essere stati fermati in mare dalla Guardia costiera libica. "Non è chiaro cosa accada in Libia ai danni delle persone più vulnerabili, i cui diritti andrebbero salvaguardati in ottemperanza al diritto internazionale e per difendere il principio di umanità", ha spiegato ieri la Ong aggiungendo di voler trasferire l’attività di soccorso nel sud est asiatico, in aiuto alla minoranza Rohingya perseguitata dal governo di Myanmar. Moas è stata una delle prima Ong a firmare il codice Minniti e anche per questo la sua scelta è ancora più sorprendente. Solo quest’anno, tra aprile e agosto, ha salvato 7.826 migranti trasportandoli in Italia e lavorando sempre in collaborazione con le altre organizzazioni umanitarie e con la Guardia costiera italiana, dalla quale dipendono le operazioni di salvataggio. Adesso, dopo che le notizie su quanto accade ai migranti in Libia sono ormai all’ordine del giorno, la decisone di interrompere il lavoro. "Sono troppe le domande senza risposta e i dubbi in merito al destino di chi è intrappolato o viene riportato in Libia", ha scritto sul suo blog Regina Catrambone, co-fondatrice della Ong. "Le terribili testimonianze di chi sopravvive raccontano un inferno di abusi, violenza, torture, rapimenti ed estorsioni". Da qui la decisione: "Non vogliamo - ha spiegato la Ong - diventare parte di un meccanismo in cui, mentre si fa assistenza e soccorso in mare, non ci sia la garanzia di accoglienza in porti e luoghi sicuri". A giungo, quando l’attività della Guardia costiera libica ha preso avvio grazie a quattro motovedette fornite dall’Italia, era stato assicurato che i migranti fermati in mare sarebbero stati portati in campi di accoglienza gestiti dall’Unhcr e dall’Oim. I campi però non sono ancora stati realizzati e i migranti, donne e bambini compresi, finiscono nei centri di detenzione in condizioni disumane. Due giorni fa, partecipando alla festa dal Fatto, il ministro degli Interni Marco Minniti ha assicurato di voler garantire i diritti umani ai migranti in Libia, arrivando però decisamente troppo tardi. Sulla situazione in Libia, e sui possibili motivi dietro alla diminuzione di arrivi in Italia, neo giorni scorsi un’inchiesta condotta dall’Agenzia americana Ap aveva parlato di un presunto accordo siglato dai servizi italiani direttamente con le milizie che fino a ieri organizzavano il traffico di migranti e che oggi si sarebbero riconvertite nel più lucroso affare di impedire le partenze dei barconi diretti in Italia. L’agenzia citava in particolare due milizie attive a Sabrata, uno dei principali punti di partenza dei migranti. La notizia è stata smentita dalla Farnesina ("non trattiamo con i trafficanti"), ma una conferma a quanto scritto dall’Ap arriva dal capo del consiglio militare di Sabrata, Taher Gharabli. Intervistato dall’Adnkronos, l’uomo ha affermato che "chi oggi combatte la tratta di esseri umani" in Libia "è chi in precedenza era responsabile della tratta". Gharabli ha aggiunto che il governo di concordia nazionale "non ha confermato finora il sostegno a nessuna brigata nella città di Sabrata", e che "l’unico accordo che realmente esiste è quello tra le brigate di Sabrata e il governo italiano per ridimensionare l’immigrazione". Ieri Minniti si è recato in Algeria dove ha incontrato il primo ministro Ahmed Ouyahia e i ministri degli Interni e degli Esteri. Scopo del viaggio era quello di rafforzare la cooperazione tra i due paesi nelle azioni di contrasto al terrorismo e all’immigrazione. Sabato scorso il governatore della Sardegna Francesco Pigliaru aveva chiesto a Minniti di intervenire con le autorità di Algeri per fermare gli sbarchi di migranti algerini sull’isola. Droghe. Il "paco" che distrugge i ragazzi in America Latina di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 5 settembre 2017 Fatta con cherosene, polvere di vetro, veleno per topi mescolati al residuo duro della cocaina è uno stupefacente a bassissimo costo che sta consumando una generazione di giovani Una dose costa due euro. Non c’è droga peggiore. Cherosene, polvere di vetro, veleno per topi, mescolati al residuo duro della cocaina. Scarto degli scarti, si fuma e brucia in un attimo. Il fotografo italiano Valerio Bispuri l’ha vista cucinare, racconta, in un giorno di derby allo stadio perché i capi narcos fossero distratti, nel sottoscala di una baraccopoli argentina. Non sa esattamente dove, c’è arrivato bendato, è rimasto fino al tramonto a osservare "cuochi" mascherati, la gola che bruciava: "Quegli scatti soffocati dal fumo e dalla paura sono stati la fine del mio lavoro sul paco. Proprio dove il paco inizia". Pasta base di cocaina, fino a quindici anni fa si buttava, con la crisi economica a Buenos Aires è diventata il principio attivo di uno stupefacente a bassissimo costo e altissima violenza che sta consumando una generazione latinoamericana. Una merce scientificamente studiata per arrivare al cervello di chi non può permettersi la polvere raffinata. Nelle villas miserias argentine, poi nelle favelas brasiliane, quindi in Paraguay, in Perù, fino alla costa caraibica della Colombia. Tra i più poveri e rassegnati, ma ora anche tra i giovani della classe media. Una scossa, "pochi secondi in cui si dimentica tutto e si inizia a morire". Dopo la prima dose da 50 pesos (circa due euro) è necessaria immediatamente un’altra, e di nuovo un’altra, e ancora. "Ragazzini tra i dieci e i ventidue anni si muovono come lupi tra i vicoli, la pelle consumata, lo sguardo fisso nel buio". Bispuri li ha seguiti: 14 anni di lavoro attraverso il Continente che confluiscono adesso nel libro Paco. A drug story (Contrasto). La scelta di un impegno così lungo corrisponde a una poetica precisa: "Credo che la fotografia abbia bisogno sempre di più del tempo per arrivare a quell’equilibrio magico tra emozione e realtà". Ma anche all’esigenza di raggiungere angoli intimi e bui. Spacciatori, vittime, le loro famiglie, le comunità. Maria che a Lomas de Zamora assiste all’agonia del figlio Ezequiel. Josè e Kaio che nei vicoli di Salvador de Bahia desiderano soltanto fumare. Il pastore Daniele Baldi che a Buenos Aires contende gli adolescenti al paco. Un mondo sotterraneo che illumina la superficie. "Paco cerca di essere non solo un lavoro di denuncia sociale su una terribile droga, ma anche un’esplorazione antropologica e sociologica di una realtà sudamericana". Alfano: "Egitto necessario, la verità su Regeni può attendere" di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 settembre 2017 Il ministro degli Esteri ammette davanti alle commissioni Esteri: "Al Cairo ho chiesto collaborazione giudiziaria". Amnesty, Cild, SI e Mdp: "Da quando è stato ritirato l’ambasciatore cosa è cambiato?". Tutto è pronto per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto. Il 14 settembre prossimo, mentre il nuovo ambasciatore egiziano Hisham Badr prenderà posizione nella residenza romana, il nostro Giampaolo Cantini riaprirà le finestre chiuse dal 17 mesi della bella palazzina di Garden City, lo storico rione del Cairo che si affaccia da oriente sul Nilo alla stessa altezza di Dokki, il quartiere dove viveva ed è scomparso Giulio Regeni, il 25 gennaio 2016. Il motivo è semplice e lo ha spiegato bene il ministro Angelino Alfano davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato riunite per ascoltare le ragioni della scelta ferragostana del governo: "Sono tanti gli ambiti di partenariato tra Italia e Egitto che sarebbe controproducente comprimere o eliminare; l’Egitto è partner ineludibile dell’Italia esattamente come l’Italia è partner ineludibile dell’Egitto". Punto. Nel frattempo però, ha assicurato il titolare della Farnesina, "Giulio non verrà dimenticato, e contro l’oblio vorremmo che gli fosse intitolata l’università italo-egiziana, la cui istituzione è un progetto che, auspico, troverà nuova linfa con il rientro dell’ambasciatore", oltre ad un auditorium e altri spicci. E per chi, come Amnesty International Italia, Cild, Antigone, Sinistra Italiana, Articolo Uno-Mdp o la stessa famiglia Regeni protesta per la decisione, c’è l’illuminante risposta del centrista Pierferdinando Casini che presiede la commissione Esteri a Palazzo Madama: "Mettere l’invio dell’ambasciatore in Egitto in contrapposizione con la ricerca della verità sul caso Regeni è una speculazione ignobile, che va respinta al mittente", dice puntando di fatto l’indice anche contro il governo Renzi che nell’aprile 2016 aveva richiamato in patria l’ambasciatore Maurizio Massari esattamente per questo e nessun altro motivo. D’altronde da allora nulla è cambiato, tanto che lo stesso ministro Alfano riferisce: "Continueremo a sostenere a tutto campo la Procura di Roma nella ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni. Al mio omologo egiziano, incontrato lo scorso marzo, ho chiesto in maniera molto chiara che gli atti richiesti su Regeni vengano al più presto trasmessi". Dunque non c’è stato alcuno "sviluppo nella cooperazione tra gli organi inquirenti" dei due Paesi, come aveva annunciato enfaticamente il governo italiano il 14 agosto scorso. Solo l’ennesima richiesta ribadita da Roma. Con annessa la speranza di poter ottenere una maggiore collaborazione alle indagini da parte dell’Università di Cambridge, per la quale Regeni stava svolgendo il suo lavoro di ricerca. A questo fine, all’ambasciatore Cantini - che conosce il regime di Al Sisi e il caso Regeni assai meno del suo predecessore Massari - viene affidato il difficile compito di instaurare "nella capitale egiziana, un rapporto con il collega britannico". Dal Cairo arriva l’incoraggiamento del sottosegretario della commissione Esteri del parlamento egiziano Tarek el Kholi, che all’Agenzia Nova assicura: "Gli autori dell’omicidio saranno perseguiti a prescindere dalla loro posizione". Il deputato egiziano parla di "sabotaggio sistematico delle relazioni bilaterali", in perfetta sintonia con il suo omologo a Montecitorio Fabrizio Cicchitto che accusa i servizi segreti Usa e "le realtà petrolifere concorrenziali con l’Eni" di aver ispirato l’articolo/denuncia sul coinvolgimento del governo italiano pubblicato dal New York Times due settimane fa. Anche il presidente del Senato Piero Grasso mostra soddisfazione per le parole con le quali Alfano ha giustificato la decisione governativa. Ritenuta invece "vergognosa" dal vicepresidente della commissione, il deputato di SI, Erasmo Palazzotto che ha definito "imbarazzante" l’informativa del ministro. Molto critiche le associazioni per i diritti umani come Amnesty che ricorda: "Quando l’ambasciatore italiano venne richiamato dal Cairo un anno e mezzo fa la ragione non era, come ha ricostruito Alfano, quella di ottenere una maggiore cooperazione giudiziaria, ammesso che l’obiettivo sia stato raggiunto. Ma di ottenere la verità sull’omicidio di Giulio Regeni". Dalla quale siamo ancora lontani. La Tunisia svuota le carceri di Gianluca Veneziani Libero, 5 settembre 2017 Quando entriamo nell’hotspot di Lampedusa, li troviamo raggruppati, con le gambe ciondolanti e gli sguardi persi, in attesa di un pullman che potrebbe portarli altrove, in un centro di espulsione come quasi sempre capita, o in un centro di accoglienza dove rivendicare - cosa assurda, visto che non fuggono né da guerre né da persecuzioni - lo status di rifugiati. Con un neologismo potremmo definirli "clandestunisini". Sono uomini fantasma approdati a bordo di barche fantasma, in cale sulla costa sud siciliana e nelle isole Pelagie, nella speranza di restare invisibili. Da tre mesi Lampedusa, Linosa e l’Agrigentino sono meta di sbarchi di tunisini che arrivano nell’inavvertenza delle nostre pattuglie costiere e provano a disperdersi sul nostro territorio. Quasi sempre si tratta di ex galeotti, appena rimessi in libertà dal governo tunisino e lasciati nelle condizioni di imbarcarsi in direzione Italia. Il loro arrivo coincide infatti con la liberazione di detenuti, perlopiù per reati di furto o spaccio, graziati dal presidente della Repubblica di Tunisia in occasione di due ricorrenze: la fine del Ramadan a giugno (allora in 196 sono stati scarcerati) e il 60mo anniversario della Repubblica a luglio, come conferma anche l’Ambasciata italiana a Tunisi (in quella circostanza 1.583 detenuti sono stati rimessi in circolo). La loro partenza per l’Italia si può ricondurre a due ragioni: la volontà della Tunisia di liberarsi di elementi pericolosi; l’intenzione di far pressione sul nostro Paese, usando i migranti-criminali come arma di ricatto, per ottenere in cambio aiuti economici. In tal modo l’Italia finisce per accogliere suo malgrado "avanzi di galera", come li definiscono gli agenti della Polizia di Stato operativi a Lampedusa. Le dimensioni del fenomeno sono impressionanti. Negli ultimi tre mesi, stando ai dati dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Agrigento, nelle isole di Lampedusa e Linosa sono arrivati ben 341 tunisini su un totale di 1.319 clandestini. Un’escalation improvvisa, se si tiene conto che nei primi cinque mesi dell’anno i tunisini sbarcati nelle due isole erano appena 81. Quelli che raggiungono Lampedusa e Linosa arrivano perlopiù su barchini, guidati dagli stessi migranti, dopo traversate pagate "appena" 500 euro. Quelli che giungono sulla costa agrigentina versano cifre più consistenti, tra i 2.000 e i 3.000 euro: si fanno di solito trasportare da una nave-madre, una sorta di peschereccio, fino a poche miglia dalla costa, e da lì vengono scaricati su barche di legno con le quali, senza più la guida dello scafista, toccano terra. Il maggior costo del viaggio deriva dal fatto che, una volta sull’isola siciliana, hanno più possibilità di dileguarsi in altre parti d’Italia, facendo perdere le proprie tracce. Queste imbarcazioni di solito faticano a essere identificate, vuoi perché sono barche di piccole dimensioni, vuoi perché le navi di primo trasporto vengono scambiate per imbarcazioni di pescatori, vuoi perché questa tratta non è ancora pattugliata a sufficienza dalla Guardia Costiera, come la rotta libica o il Canale di Sicilia. Giunti qui, in parte i migranti scompaiono nel nulla (soprattutto quelli approdati nell’Agrigentino); in parte vengono condotti negli hotspot per l’identificazione. Al momento del nostro arrivo nel centro migranti di Lampedusa, su 93 migranti presenti ben 59 sono tunisini. In teoria dovrebbero rimanere lì solo tre giorni prima di essere identificati, spediti al Cie di Caltanissetta e rimpatriati. In realtà spesso i tempi si allungano, e i clandestini finiscono per restare anche 20 giorni nella struttura. All’interno, si fa per dire. Grazie alle maglie larghe di una normativa che impone di tenere i migranti chiusi nell’hotspot ma allo stesso tempo di lasciarli liberi 72 ore dopo il loro arrivo, e grazie alle maglie larghe della recinzione, puntualmente forzata dai migranti per fughe nottetempo, i clandestini possono scorrazzare in libertà nell’isola. E compiere reati. Negli ultimi giorni, confermano la Polizia, una banda di tunisini ha seminato il panico in paese, compiendo furti in negozi e abitazioni. Un fruttivendolo, Nino Caprara, ha visto il suo bancone di frutta e ortaggi depredato addirittura per 15 notti consecutive. "Tra vino, acciughe e prodotti ortofrutticoli mi hanno causato un danno di 4.000 euro", commenta esasperato. Furti che fanno rabbia se si pensa che quei tunisini sono sfamati negli hotspot coi soldi di noi contribuenti... La situazione diffusa di illegalità rende Lampedusa "un carcere a cielo aperto", per dirla con le forze dell’ordine. Ma non c’è da pensare che sull’isola e sulla costa sud della Sicilia arrivino soltanti ladruncoli. Come dimostrato dalla Procura di Palermo, che a giugno ha disposto il fermo di 15 persone, in buona parte tunisine, accusate di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e sospettate di aver trasportato uomini legati a organizzazione jihadiste, sulle barche rischiano di arrivare anche terroristi. Se il quadro non fosse abbastanza sconfortante, c’è un ulteriore elemento da considerare. Chiusa o perlomeno limitata la rotta libica, la Tunisia rischia di diventare il nuovo ponte per convogliare l’immigrazione proveniente anche dalle regioni subsahariane. Il porto tunisino di Zarzis dista circa 60 km dal confine libico e non è escluso che dall’autunno quella rotta inizi a diventare calda. Se non lo è già, visto l’arrivo di ex galeotti tunisini. "Gli sbarchi fantasma di delinquenti", commenta l’eurodeputato leghista Angelo Ciocca, in visita ieri all’hotspot di Lampedusa, "sono un fenomeno che va stroncato sul nascere. Depositerò subito un atto parlamentare in Europa che faccia conoscere alla Commissione, tramite un dossier, questa nuova invasione, pretendendo immediate azioni di respingimento delle barche, e una responsabilizzazione del governo tunisino, affinché si addebiti sia i costi dell’accoglienza dei suoi cittadini che non hanno diritto di arrivare sulle nostre coste, sia i costi derivanti dai reati che essi commettono". Dopo i profughi e i migranti economici, sarebbe il calmo farsi carico anche dei criminali di altri Paesi. Salvo voler trasformare l’Italia nello scarico fognario dove concentrare la feccia dell’umanità. Svizzera. Clandestini tutti in galera di Andrea Scaglia Libero, 5 settembre 2017 Da noi l’immigrato irregolare riceve un foglio di via che non vale nulla. Nella Confederazione elvetica resta rinchiuso in un carcere speciale finché non viene espulso. Come previsto dalla Convenzione Europea dei diritti. Allora, prendiamola un pelo larga e partiamo da una considerazione che - con un termine tanto in voga - può dirsi condivisa: la Svizzera è un Paese civile. Non ci sono nazisti al governo, non si ha notizia di lager in cui i prigionieri siano torturati. Anche la Confederazione, come tutti i Paesi del continente, sta affrontando l’eccezionale ondata migratoria degli ultimi anni. E, come in tutti gli altri Paesi, al di là dei deliri para-razzistoidi e degli insostenibili paradossi buonisti, politicamente si fronteggiano internamente i due schieramenti di opposta convinzione: quello che considera l’immigrazione fondamentalmente un problema, e l’altro che invece è convinto sia un’occasione di confronto e sviluppo, oltre che un’emergenza umanitaria. Tutto come da noi, si potrebbe dire. E però no, perché di fronte a una questione così delicata gli svizzeri hanno perlomeno deciso di non giocare con le parole. Di evitare inutili e dannose ipocrisie. Di dar seguito a quel che loro stessi decidono. Di fare le persone serie, insomma. E dunque, se un immigrato viene espulso oppure si stabilisce che non ha diritto all’asilo, se un organo dello Stato sentenzia che quella persona non ha il diritto di risiedere nel Paese, ecco che viene accompagnato in una struttura acconcia, in attesa che il provvedimento di allontanamento sia effettivamente eseguito. Pare ineccepibile, no? Tu non puoi rimanere nel Paese, e lo Stato ha il diritto/dovere di tenerti in custodia fino a quando non sarai accompagnato al confine. Senza quell’assurdo balletto all’italiana, con la consegna allo straniero del foglietto in cui gli si "intima" (sic) di lasciare il Paese entro cinque giorni, ultimatum regolarmente disatteso. D’altronde nessuno, nemmeno i pasdaran dell’accoglienza sempre e comunque, si è mai spinto a sostenere che non ci debbano essere espulsioni, oppure che quelle decretate debbano essere ignorate. È dunque necessario impostare le cose in modo che il provvedimento sia attuato. In Svizzera hanno scelto questa che viene chiamata "carcerazione amministrativa". Ma attenzione: i migranti in attesa di allontanamento dal Paese, e che non necessariamente si sono macchiati di reati contro la persona o il patrimonio, non vengono sbattuti in una gattabuia. Il diritto elvetico stabilisce dunque che "le persone sottoposte a carcerazione amministrativa vanno separate da quelle in carcerazione preventiva o che scontano una pena". Inoltre "le loro condizioni di detenzione devono distinguersi chiaramente da quelle delle persone che scontano una pena, in quanto le persone in carcerazione amministrativa non sono detenute a causa di un reato, bensì al fine di garantire l’esecuzione dell’allontanamento". Peraltro, la durata massima della "carcerazione amministrativa" non può superare i 18 mesi. Nel Paese sulla questione si discute assai, diverse associazioni rimproverano per esempio al governo di non rispettare la durata massima delle carcerazioni, in alcune strutture si parla di sovraffollamento: tutte accuse negate dal governo stesso, che ha permesso più volte a organizzazioni non governative di visitare gli istituti. Senza contare che la detenzione per motivi legati al controllo migratorio è consentita anche dalla sempre citatissima "Convenzione europea dei diritti dell’uomo": l’articolo 5 stabilisce per l’appunto che una persona può essere privata della libertà per impedire l’entrata illegale nel territorio o se è in corso un procedimento di espulsione nei suoi confronti, misura giustificata politicamente dal principio di sovranità nazionale. Certo è che si sta parlando di una situazione ben diversa da quella in cui boccheggiano i nostri centri di presunta accoglienza, concepiti male e gestiti anche peggio, fra migranti accampati malamente uno sull’altro e strutture oltremodo decadenti. Sono una trentina le carceri elvetiche che prevedono zone riservate ai migranti in attesa di espulsione, e il più grande è quello di Zurigo. Il cui reponsabile, Rico Vinzenz, spiega al "Giornale del popolo" come la "carcerazione amministrativa" sia essenziale per "stabilire l’identità di uno sraniero" e anche per "organizzare il suo allontanamento o la sua espulsione". Esistono tre tipi di internamento: quello preliminare, riservato anche al clandestino che per qualche motivo si trova in attesa di un responso sulla sua eventuale richiesta di asilo o di permesso di soggiorno, poi quello in vista dell’espulsione coatta e infine l’internamento cautelativo. Nel carcere di Zurigo passano un migliaio di migranti all’anno, e le spese - sempre secondo quanto dichiarato da Vinzenz al quotidiano ticinese - si aggirano sui 600 franchi al giorno per persona, circa 525 euro. Costoso? Può darsi. Ma è il prezzo di una buona organizzazione. E i risultati ne dimostrano l’efficacia: i dati della Segreteria di Stato svizzera parlano di 8.436 persone che nel 2016 hanno lasciato la Confederazione "accompagnate" dalle autorità a lasciare la Confederazione, e nei primi sei mesi del 2017 le espulsioni sono state 2.870. Ma un errore, un grande errore gli svizzeri lo stanno facendo. Ancora secondo quanto dichiarato da Vinzenz, "il 95% delle persone viene espulso nel quadro degli accordi di Schengen [quelli in base ai quali, in sostanza, i migranti sono fondamentalmente in carico al Paese in cui sono sbarcati, ndr]. E perciò, nella maggior parte dei casi, li rimandiamo in Italia". Una soluzione non più tollerabile, dal nostro punto di vista. Senza contare che è il modo più sicuro per ritrovarseli in casa entro breve tempo. Qui sopra, un’immagine del carcere di Zurigo (pubblicata dal "Giornale del popolo"), la struttura più grande della Svizzera che riserva una sezione ai migranti in attesa di espulsione. Iran. Condannati a 10 anni di carcere tre cittadini americani nena-news.it, 5 settembre 2017 Per un tribunale di Teheran gli imputati (due iraniani con il doppio passaporto, un dottorando statunitense e un libanese da tempo residente negli Usa) "collaborano" con Washington. Un’altra corte iraniana, intanto, conferma la pena di morte per il fondatore del movimento spirituale Erfan Halgheh (Interuniversalism). Sempre più tese si fanno le relazioni tra Iran e Usa dopo che un tribunale iraniano ha condannato ieri a 10 anni di prigione un americano di origini cinesi (Xiyue Wang), due iraniani con passaporto anche americano (Siamak Namazi e suo padre Mohammad Bagher Namazi) e un libanese residente stabile negli Stati Uniti (Nizar Zakka) rispettivamente per "collaborazionismo" con Washington e per "agire per conto del governo americano". A dare la notizie è stato mizanonline che ha riportato sul suo sito le parole del procuratore di Teheran, Abbas Jafari Folatabadi. Namazi e Nakka insieme ad altri tre detenuti erano già stati incriminati nell’ottobre del 2016 per essere "spie" degli Usa. La notizia dei verdetti del tribunale è stata confermata anche da Jared Genser, l’avvocato dei Namazis il quale, in una nota ufficiale riportata dalla stampa americana, ha detto che la famiglia era stata già informata alcuni giorni fa dell’esito giudiziario negativo. Ad agosto anche l’università di Princeton e la moglie di Wang avevano fatto sapere di essere già a conoscenza della sentenza. Al momento dell’arresto, sostengono, lo studioso di storia stava effettuando nella Repubblica islamica una ricerca per la sua tesi di dottorato. Motivazione che non convince Teheran che parla di "spionaggio". Non meno grave è stata la sentenza per l’esperto libanese di tecnologia dell’informazione Zakka condannato a 10 anni di carcere e ad una multa perché, rivela il suo avvocato americano, avrebbe lavorato secondo Teheran "contro lo stato iraniano". Il tecnico, invitato da un ufficiale del governo un anno prima, era scomparso dopo aver preso parte ad una conferenza nella capitale. Da luglio il Dipartimento di Stato Usa fa pressioni sulle autorità iraniane per il rilascio dei suoi cittadini e degli stranieri "detenuti con il falso pretesto della sicurezza nazionale". "La salvezza e l’incolumità dei nazionali americani restano una priorità - un ufficiale del Dipartimento dichiarò allora - Tutti i nostri cittadini, specialmente quelli con il doppio passaporto, dovrebbero però leggere con attenzione i nostri avvisi di viaggio". Sulla questione detenuti era stato durissimo anche il presidente Trump quando ha annunciato "nuove e gravi conseguenze" nel caso in cui i tre cittadini americani non verranno rilasciati. Un’accusa a cui il ministro degli esteri Javad Zarif rispose per le rime: "Washington detiene iraniani per motivi puramente politici". Le sentenze di ieri giungono in un periodo di fortissima tensione tra Teheran e Washington. Le relazioni tra i due stati, interrotte nell’aprile del 1980 in seguito alla Rivoluzione islamica iraniana, sono ai minimi termini da quando a gennaio si è insediato alla Casa Bianca Donald Trump. Alla base dell’attrito vi è l’intesa sul nucleare iraniano raggiunta nel 2015. Unico successo mediorientale della precedente amministrazione Obama, l’accordo è giudicato una vera iattura dal mondo repubblicano a stelle e strisce (e da Israele) perché non solo ha rimosso diverse sanzioni internazionali che gravavano sulla Repubblica islamica, ma, soprattutto, l’ha tolta almeno in parte dall’isolamento internazionale in cui si trovava. I diversi artisti, giornalisti e uomini d’affari arrestati perché, secondo le autorità iraniane, "infiltrati occidentali", hanno minato all’estero l’immagine moderata del presidente Rouhani da cui molti analisti si aspettavano maggiori legami politici ed economici con l’Occidente così come più riforme sociali sul piano interno. Tuttavia, a contribuire al clima di tensione crescente tra i due Paesi, grosse responsabilità le hanno soprattutto gli Usa che, sebbene stiano onorando l’accordo nonostante le minacce di Trump di annullarlo, hanno imposto contro Teheran nuove sanzioni unilaterali per il suo programma missilistico. Agendo in questo modo, Washington ha fornito un assist d’oro alle voci più intransigenti e conservatrici iraniane che sin dall’inizio dell’accordo hanno bollato il patto con il "Grande Satana" un grosso errore. Ieri, intanto, un’altra corte iraniana ha deciso di riconfermare la pena di morte a Mohammed Ali Taheri, fondatore del movimento spirituale Erfan Halgheh (Interuniversalism in inglese) rovesciando la sentenza della Corte Suprema. Taheri è stato arrestato nel 2011 ed ha ricevuto cinque anni di prigione per "aver insultato le santità islamiche". Nel 2015 è stato condannato con la pena capitale per "corruzione sulla terra". Secondo Amnesty International il leader di Interuniversalism è un prigioniero di coscienza ed è accusato di atti "per cui non dovrebbe essere nemmeno incriminato". Diverso è il parere di Teheran che ritiene tali critiche pretestuose volte solo a fare pressione politiche sulla Repubblica islamica. La Svezia pronta a deportare un’afgana di 106 anni cieca e sorda di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 settembre 2017 Bibikhal Uzbeki è cieca, è sorda, non cammina. Ma le autorità svedesi della contea di Skaraborg, sulla costa ovest, hanno respinto la sua richiesta di asilo e hanno deciso il suo rimpatrio immediato in Afghanistan da dove è arrivata nel 2015, portata sulle spalle dal figlio di 67 anni e dai nipoti da Kunduz fino all’Europa, attraverso l’Iran, la Turchia e la Grecia. Un viaggio epico che fu raccontato dalla stampa internazionale. Tra poche settimane la donna, che è considerata la più anziana rifugiata al mondo, compirà 107 anni. Alla notizia che la sua domanda di asilo era stata respinta, lo scorso giugno, Bibikhal ha avuto un ictus e da allora è confinata a letto. La famiglia dice che non è fisicamente in grado di affrontare il viaggio di ritorno e ha presentato un appello perché possa vivere in Svezia gli ultimi anni della sua vita. "Mi chiedo perché? - ha detto ad Al Jazeera il nipote della donna, Mohammad Uzbeki - Mia nonna ha 106 anni, è malata. Non riesce nemmeno a camminare. Perché farle questo?". Dall’ufficio per l’immigrazione rispondono che l’età avanzata non è di per sé un motivo per accogliere la domanda di asilo. Inoltre, secondo gli ufficiali dell’Agenzia per l’Asilo, Kunduz, la città dove viveva la signora Uzbeki, è ormai abbastanza sicura e tutta la famiglia potrebbe farvi ritorno. Lo scorso anno in Svezia sono state 4.500 le domande di asilo ritirate per via delle norme sempre più rigide nei confronti dei migranti. Un vero esodo al contrario.