Il Ministro Orlando: "entro due settimane i primi decreti per la riforma delle carceri" Askanews, 4 settembre 2017 "Noi abbiamo lavorato tutto il mese di agosto e credo che già dalle prossime settimane potremo inviare una parte del lavoro a Palazzo Chigi per poi concludere tutto il percorso a dicembre". Lo ha detto il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervenuto ieri mattina a Radio Radicale all’interno della trasmissione "Quota 3001" con Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita del Partito Radicale in studio, a proposito della promulgazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. "È un percorso che prevede un passaggio nelle commissioni parlamentari che esprimono un parere e poi la deliberazione definitiva del Governo che tiene o non tiene conto dell’osservazioni sulle ipotesi di decreto. I tempi ci sono, li stiamo rispettando. Conto che le prime parti del lavoro saranno inviate entro il 15 dicembre, perché saranno più decreti delegati", ha spiegato Orlando. Orlando ha ringraziato Rita Bernardini, il Partito Radicale ed i detenuti per il Satyagraha, la grande iniziativa nonviolenta indetta dal PR il 16 agosto scorso che ha visto protagonisti oltre 7.500 detenuti nelle carceri che hanno digiunato e donato il loro carrello alla Caritas. "Ringrazio i detenuti che hanno aderito al Satyagraha, Rita Bernardini per il suo costante impegno e il Partito Radicale di questa pressione, di questo lavoro di incoraggiamento e devo dire che è stato utile in questi anni avere il vostro costante pungolo. Però devo dire con molta onestà che ho giocato molto della mia attività di governo sul portare a termine il disegno di legge penale in cui è contenuta la delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario perché la ritengo essenziale. Non voglio farmi i complimenti da solo, ma ero in una posizione davvero complicata". La condizione dei detenuti è ancora inaccettabile di Codacons Milano Il Cittadino, 4 settembre 2017 Di fronte agli ultimi due tentativi di suicidio all’ interno di una prigione italiana non si può che aprire un confronto sul sistema penitenziario italiano: sistema che, a prescindere dall’ impegno di agenti e operatori, decisamente non funziona. Il Codacons, che nel 2013 si era rivolto al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti di Strasburgo proprio per questo motivo, denuncia: la condizione dei detenuti è ancora inaccettabile. Mentre continua la crescita dei detenuti, in alcune carceri si torna a scendere sotto lo spazio minimo previsto di 3 mq per persona; senza dire che mancano le docce, gli educatori, i servizi sanitari. Mancano poi le misure alternative: basta pensare che 1 detenuto su 4 deve scontare una pena residua inferiore ai tre anni e dunque potrebbero accedere a una misura alternativa, se non ci fossero paletti normativi e ostruzioni varie. Soprattutto, manca il lavoro: il principale strumento per evitare che, una volta usciti di prigione, i detenuti tornino a delinquere. Il triste bilancio dei detenuti che si sono tolti la vita dall’ inizio dell’ anno (40) non è l’unico dato che conta: bisogna pensare che a ogni morte per suicidio corrispondono diversi tentativi vanificati. Questo scenario drammatico rappresenta alla perfezione la condizione delle nostre carceri: in questo modo non si scommette sul recupero e il reinserimento ma si contribuisce a "creare" la criminalità, come dimostrato dal tasso di recidiva. "Il nostro sistema penitenziario ha delle difficoltà a evitare che i detenuti, una volta rilasciati, tornino a delinquere", dichiara il Presidente Carlo Rienzi. "Da un sistema vetusto e solo punitivo è ora di passare a un "nuovo carcere", fondato su diritti fondamentali e reinserimento sociale autentico. Anche perché ne guadagniamo tutti: la nostra incapacità di abbassare il tasso di recidiva ci costa tra i tre e i quattro miliardi l’anno, oltre a produrre insicurezza sociale", conclude. Giustizia penale in ritirata di Marino Longoni Italia Oggi, 4 settembre 2017 Negli ultimi anni il processo di depenalizzazione è stato continuo e assillante: dalla messa in prova al fatto tenue non punibile, dai reati minori alla condotta riparatoria. Sanzione penale in ritirata. Il processo di depenalizzazione, cioè la trasformazione dei reati in illeciti amministrativi o civili, con la conseguente trasformazione della pena in sanzione pecuniaria, diventa sempre di più lo strumento abituale utilizzato dal legislatore per affrontare le emergenze del pianeta giustizia, dall’affollamento delle carceri all’ingolfamento delle procure e dei tribunali, dal fallimento della funzione rieducativa della pena al costo del sistema carcerario. Si comincia a parlare di depenalizzazione già negli anni 70, e la prima legge che porta questo nome è la n. 689 del 1981. Ulteriori, parziali riforme, successive sono state realizzate nel 1993 e nel 1999. Ma è negli ultimi anni che gli interventi del legislatore in questa materia sono diventati quasi assillanti. Nel 2000 viene infatti approvata la non punibilità davanti al giudice di pace del fatto tenue e del danno riparato dall’autore. Dopo ulteriori, piccoli interventi, nel 2014 si introduce nel codice penale la messa alla prova del colpevole di alcuni reati che, quando viene positivamente superata, lo rende non più punibile penalmente. Nel 2015 il fatto tenue non punibile entra nel codice penale per una serie piuttosto lunga di fatti fino a quel momento considerati reato. Nel 2016 i reati minori vengono depenalizzati e sottoposti a mere sanzioni pecuniarie. Infine nel 2017 si modifica nuovamente il codice penale prevedendo tutta una serie di condotte riparatorie che, anche in questo caso, fanno venir meno la sanzione penale. È insomma un crescendo di misure, tutte orientate nella stessa direzione, che dimostra come il sistema penale sia vicino al punto di rottura e sia quindi necessario ridurre la pressione che grava su di esso. Ma dimostra anche la difficoltà per il legislatore di mettere in cantiere una riforma organica, strutturale, di ampio respiro. Ci si limita a mettere pezze qui e là, dove sembra più urgente. Il legislatore evita accuratamente di prendere di petto il problema, responsabilizzando in modo serio i magistrati, e si limita a intervenire sulle procedure. Di fatto lasciando il funzionamento del sistema nelle mani dei giudici, che potrebbero neutralizzare gli effetti di qualsiasi riforma con una cattiva gestione dei propri uffici. Evidentemente la politica, dopo Tangentopoli, è ancora sotto scacco da parte della magistratura e comunque è troppo debole per poter impostare riforme profonde del sistema. Con la conseguenza, però, che una parte dei procedimenti che vengono tolti dalle spalle dei giudici penali, finiscono per gravare su quelle dei giudici civili o amministrativi. E non è detto che questi settori della giustizia siano modelli di efficienza, sempre in grado di dare un servizio rapido e preciso ai cittadini. Diminuire il numero dei procedimenti penali finisce quindi per aggravare altre criticità. C’è inoltre il problema che trasformare la sanzione penale in un risarcimento del danno potrebbe favorire i più ricchi, che dal punto di vista soggettivo vedrebbero ridotta l’afflittività della pena connessa al proprio comportamento dannoso, e questa è una delle critiche che sempre viene sollevata in occasione di qualsiasi intervento di depenalizzazione. Più raro invece sentire che queste riforme possono favorire addirittura i cittadini disonesti o nullatenenti che spesso, in un sistema giuridico malfunzionante come tante volte si presenta quello italiano, riescono a dribblare facilmente la sanzione pecuniaria. In questi casi il malcapitato danneggiato finisce per non aver più alcuna tutela reale. Diritto penale. Tutte le alternative al carcere dopo le riforme degli ultimi anni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 4 settembre 2017 Il diritto penale fa un passo indietro e apre la strada alle condotte riparatorie. La legge n. 103 del 23 giugno 2017 sottrae campo di azione alla punizione penale. Lo stato ripone l’arma della sanzione più grave e proscioglie l’autore del reato se ha riparato le conseguenze del danno. L’ambito di applicazione delle condotte riparatorie, causa di estinzione del reato, è limitato ai reati procedibili a querela, ma non è un caso isolato. Anzi. Il legislatore italiano ha più volte manifestato la scelta di ridurre al minimo l’intervento penale. Si è passati da una situazione iniziale in cui il diritto penale la faceva da padrone, tanto che si critica l’eccessiva estensione degli illeciti penali, a una situazione opposta, in cui la tutela penale si ritrae. Le modalità tecniche sono diverse. Può trattarsi di cause estintive del reato. In questo caso il reato rimane nella sua previsione astratta, ma il fatto concreto non è punito perché le conseguenze del reato sono state eliminate. Le possibili valutazioni di politica legislativa possono essere di vario tenore: chi legge positivamente l’istituto si appella alla teoria della sanzione penale come ultima possibilità (extrema ratio); chi lo legge negativamente sottolinea la disuguaglianza dei cittadini, per cui solo il più ricco può guadagnarsi l’impunità pagando i danni. Il dibattito tra i sostenitori del diritto penale minimo e quelli della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale potrebbe continuare all’infinito. Resta il fatto che l’istituto delle condotte riparatorie non è isolato. Si accompagna al "fatto tenue", alla "messa alla prova" e alla trasformazione del reato in illecito civile. Il "fatto tenue" implica un perdono giudiziale: l’imputato scansa la sanzione penale, perché tutto sommato si tratta di una bazzecola e non è il caso di perdere tempo e denaro in un processo, magari su più gradi di giudizio. La "messa in prova" è una reazione dello stato che pretende dall’imputato che faccia qualcosa per la collettività e se supera questa prova allora ottiene l’estinzione del reato. Questo istituto configura, appunto, una reazione e si pretende dal colpevole una discontinuità significativa rispetto alla sua condotta di vita. È però un istituto costoso, che richiede l’intervento di numerose autorità pubbliche. La trasformazione del reato in un illecito civile si può descrivere come una mutazione genetica. Un fatto che il giorno prima era ritenuto fonte di allarme sociale, meritevole di sanzioni infamanti e necessitante di garanzie forti per l’incolpato, dall’oggi al domani (con il Dlgs 7/2016) è diventato un illecito civile, come un tamponamento o una fattura non pagata. Lo stato non reagisce più in prima persona, ma lascia fare al danneggiato (non si può più chiamare "vittima di reato"): a lui la scelta se mandare avanti o meno una causa per risarcimento del danno. Lo stato rimane, però, uno spettatore attento, perché se si arriva a una condanna del danneggiante (non si può più chiamare "reo"), allora allo stato spetta una somma di denaro. In tutti i casi l’arretramento della tutela penale implica un diverso equilibrio tra esigenze della persona offesa e/o danneggiata e compiti dello stato rispetto al sistema di sicurezza sociale. Ovviamente il sistema di sicurezza sociale non si realizza solo con la repressione penale, ma anche con un efficiente sistema giudiziario civile. La tenuta dell’ordinamento e della effettività delle norme rispetto all’obiettivo della regolazione della vita sociale potrebbe essere garantita da un sistema della giustizia civile, caratterizzata da processi rapidi, concentrati sul merito delle questioni e non su cavilli, e da un sistema delle esecuzioni efficiente. Altrimenti si corre il rischio che l’arretramento della tutela penale (in nome di valori di garanzia) non sia compensato da una maggiore efficienza delle tutele civili: cosicché il colpevole non viene punito e non paga nemmeno i danni. Il Vice presidente del Csm Legnini: "servono 1.200 magistrati" ildenaro.it, 4 settembre 2017 "I miglioramenti ci sono, ma la positiva evoluzione delle performance è differenziata sul territorio nazionale. I dati ci dicono che i migliori uffici giudiziari italiani sono già oggi in linea con gli standard europei. Il che significa che è possibile vincere la battaglia dell’efficienza della giustizia civile nel nostro Paese". È quanto afferma, in una intervista al Corriere della Sera, il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. "La produttività dei magistrati - spiega - è positiva, seppur in lieve rallentamento. Ormai da anni vengono smaltiti più processi di quanti ne entrano. Ma il problema più rilevante è costituito dall’arretrato che, benché in riduzione, ancora oggi è di 4,4 milioni di cause". "La stabilità della legislazione - continua Legnini - è necessaria per migliorare l’efficienza. Ma servono anche riforme organiche, a cominciare da quelle che attendono di essere approvate, come il processo civile e la legge fallimentare. Il percorso potrà essere ancor più virtuoso solo se si verificherà una combinazione tra buone riforme e loro stabilità nel tempo, più personale amministrativo e di magistratura e crescita della cultura dell’organizzazione degli uffici, obiettivo su cui il Csm sta producendo un grande lavoro". "A fronte delle gravi carenze di personale e magistrati - aggiunge - il ministro della Giustizia ha già disposto nuove assunzioni che bisogna completare e aumentare, immettendo giovani. Inoltre, mancano più di 1.200 magistrati, anche in virtù della norma di riduzione dell’età pensionabile. Occorrono concorsi straordinari". Il Ministro Orlando: "entro l’anno i tribunali a pieno organico" di Fabrizio Massaro Corriere della Sera, 4 settembre 2017 Formale e concentrato sul tema come sempre nelle sue apparizioni a Cernobbio, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annuncia fra dicembre e l’avvio del 2018 almeno tre novità sul fronte dell’efficienza della magistratura, un tema quanto mai urgente per la platea di imprenditori e manager del forum The European House Ambrosetti a Villa d’Este. Sarà varato innanzitutto il processo penale telematico, un’innovazione che nelle intenzioni di Orlando dovrebbe replicare il successo del processo civile telematico, che ha portato solo nel 2016 a un risparmio di 66 milioni di euro. "Noi siamo l’unico Paese europeo che ha integralmente digitalizzato il processo civile. Il prossimo anno ci sarà l’avvio della digitalizzazione anche nel penale. I progressi della giustizia sono registrati in modo chiaro nelle classifiche internazionali. Nella "Doing Business" siamo passati nell’arco di tre anni dal 156esimo posto al 108esimo per la risoluzione delle controversie commerciali. Se questo progresso si confermasse nei prossimi tre anni ci porterebbe esattamente in linea con gli altri Paesi europei. Sarebbe un bellissimo traguardo per un Paese che ha iniziato a investire potentemente sulla digitalizzazione del processo e che oggi vede in questo ambito un’eccellenza". Entro l’anno sarà inoltre completato l’organico, carente di 1.200 magistrati, come ieri ha denunciato sul Corriere della Sera Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. "Oggi la scopertura di organico è la più bassa da dieci anni a questa parte", ha ribattuto Orlando. "Per fine anno andremo a pieno organico perché arriveranno a maturazione i risultati di tre concorsi diversi". Inoltre sono già state effettuate 1.500 assunzioni di personale amministrativo e "altre 2.500 unità arriveranno con i concorsi. Spesso prescrizioni e lunghezza dei processi sono dovuti alle norme ma più spesso al fatto che ci sono deficit organizzativi: non c’è concretamente chi fa le fotocopie. Credo che sia la risposta più efficace in termini di tempi della giustizia". Sempre a fine anno, ha detto Orlando, dovrebbe poi essere approvata dalla Camera in via definitiva la riforma del diritto fallimentare, atteso soprattutto dalle imprese. Paola Severino: giustizia e imprese, sì a un tribunale penale specializzato di Fabrizio Massaro Corriere della Sera, 4 settembre 2017 L’ex ministro della Giustizia Paola Severino propone di estendere al penale l’esperimento (di successo) del tribunale civile delle imprese, introdotto dal suo governo. "Così avranno tempi veloci di giudizio e più certezza del diritto". Avvocato penalista tra i più noti d’Italia, ex ministro della Giustizia nel governo Monti, da un anno rettore dell’università Luiss, ideatrice (non esclusiva) della legge, che porta il suo nome, sull’incandidabilità e il divieto di ricoprire incarichi pubblici per i politici condannati: Paola Severino, napoletana, 68 anni, ha le carte in regola per parlare di giustizia e di come migliorarne l’efficienza. E anche su come prevenire i reati. Giovedì 7 a Roma Severino inaugurerà con il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, il primo master Luiss sulla prevenzione della corruzione nel settore pubblico e in quello privato, organizzato appunto con l’Anac. Professoressa Severino, i dati parlano di un miglioramento nei tempi della giustizia e una diminuzione del numero dei processi pendenti, anche se servono ancora più di 8 anni per una sentenza di Cassazione. Che ne pensa? "Io credo che un miglioramento ci sia, che si sia lavorato molto su questo fronte ma che quando si attuano riforme strutturali serve tempo perché i risultati siano visibili. Ma tutti gli osservatori constatano questo miglioramento grazie ad alcuni interventi, come in particolare il processo civile telematico che ha contribuito a una maggiore efficienza e allo snellimento delle cause". Anche il tribunale civile delle imprese è considerata una grande innovazione e di successo, in particolare dalle aziende... "Sì, la sezione specializzata nelle imprese rappresenta un esperimento che abbiamo varato durante il nostro governo, con poche materie selezionate ma molto specialistiche. Il ragionamento alla sua base è stato che un giudice specializzato impiegherà meno tempo ad emettere la sentenza perché conosce bene il tema e poi che la predictability (cioè la prevedibilità) delle sue decisioni aumenterà, perché le sue sentenze saranno orientate in un certo modo, e tutto questo creerà maggiore certezza del diritto e un minor numero di impugnazioni. Addirittura in alcuni tribunali italiani si è sotto la media europea come durata del processo: quindi un grande risultato". È un esperimento che si può estendere anche ad altri settori? "Penso di sì, sarebbe possibile per il diritto penale d’impresa: si è ormai consolidato un corpo di norme molto tecnico come l’insider trading, l’aggiotaggio, i reati tributari, l’elusione e l’evasione fiscale. Una specializzazione in queste materie sarebbe auspicabile per non trovarsi con un giudice che un giorno giudica un furto comune e l’indomani un aggiotaggio e che quindi può trovarsi non a proprio agio con dei concetti che richiedono una elaborazione dogmatica molto approfondita. Si avrebbe maggiore certezza del diritto, che è quella che invocano gli investitori esteri quando arrivano in Italia: vogliono rispettare le regole ma chiedono una giurisprudenza chiara sull’interpretazione delle leggi. Questo aiuterà anche lo sviluppo dell’economia". La gimkana contro i cyber-bulli. Per la vittima difendersi equivale a un percorso a ostacoli di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 4 settembre 2017 Insidie e trabocchetti sulla strada delle vittime di cyber-bullismo. È vero che la legge 71/2017 muove i primi passi con la doverosa diffusione da parte del Garante della privacy del modello per la richiesta di blocco dei contenuti offensivi diffusi in rete. Ma è altrettanto vero che la stessa legge rischia di essere un’arma spuntata, che burocratizza la tutela delle vittime e lascia molte vie di fuga agli aggressori digitali. Inoltre la legge non è coordinata con l’articolo 8 del Regolamento Europeo sulla privacy (n. 2016/679, operativo dal 25 maggio 2018), che ammette all’uso dei servizi dell’informazione gli ultra-sedicenni o addirittura, a discrezione de legislatore nazionale) gli ultra-tredicenni. Da un lato, quindi, si codifica il tendenzialmente libero accesso alla rete dei minorenni senza filtri genitoriali obbligatori per legge (ma sarà proprio così?), dall’altro lato, però, si fa una legge per rimediare alle aggressioni subite in rete dai minori. La gimkana della legge. Le norme sulle modalità di tutela frappongono più di un ostacolo e non si viaggia in discesa (come meriterebbe una vittima minorenne). Per avere tutela dalla legge, dunque, la vittima deve essere vittima di un atto di cyber-bullismo, che è definito in maniera caotica dalla legge 71/2017 stessa: questo significa che si potrà in concreto contestare che ci sia stato un episodio di bullismo digitale. Poi, sempre per avere una tutela, che ci si immagina rapida, la legge prevede un procedimento, di natura amministrativa, che vede protagonista il garante della privacy. Ma bisogna prima avere tentato di far rimuovere i contenuti illeciti con una richiesta diretta all’aggressore (improbabile l’adesione) o al gestore del sito o del social su cui sono state caricate le offese. E bisogna aspettare 48 ore: un tempo infinito che permette di moltiplicare illimitatamente la metastasi e cioè la possibilità di conoscenza, registrazione per la successiva diffusione di testi e immagini prodotte dal bullo. La vittima, poi, deve attivarsi e metterci la faccia, esporsi aumentando paradossalmente l’effetto di diffusione della notizia pregiudizievole. Ancora, si sottolinea con favore che lo stesso minore possa fare la richiesta senza bisogno della firma del genitore, ma non disciplina in maniera espressa l’ipotesi di conflitto genitore-figli. Fatta una panoramica dei punti critici, vediamo ora il dettaglio della legge Cyber bullo e impossibile. Non è facile individuare in concreto il cyber-bullo contro cui si scaglia la legge. Questo dipende anche dalla definizione legale di "cyber-bullismo", che richiede una serie di requisiti, che ci devono essere tutti insieme. Nelle norme prima si descrivono gli atti di bullismo telematico, diversi dalla diffusione di contenuti in rete. La legge descrive la brutta azione, contro un minore, con un lungo elenco di tipi di atti che dovrebbe essere omnicomprensivo e non lasciare nessun atto di bullismo senza la giusta reazione. Poi, però, con riferimento alla diffusione di contenuti in rete però si restringe il campo. In questa ipotesi, il bullo cibernetico deve avere come scopo intenzionale e predominante quello di isolare un minore o un gruppo di minori. Questo scopo deve essere perseguito ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la messa in ridicolo del minore o del suo nucleo. Tra le vie di fuga dell’aggressore, a questo punto, ci sono quelle di sostenere che lo scopo di emarginare non fosse presente o fosse solo accessorio e secondario; oppure l’abuso c’era, ma non era serio; oppure l’attacco c’era, ma non era giuridicamente dannoso, perché magari si trattava di pensieri molto assertivi; e, infine, per il ridicolo non è chiaro se conta la percezione individuale della vittima (che si sente ridicolizzato), o una percezione sociale, affidata al giudice o al Garante della privacy. Doppia coda. In ogni caso, per ottenere ragioni, la vittima deve fare due volte la coda allo sportello delle tutele. La legge 71/2017 traccia questo percorso: prima si chiede la rimozione dei testi, immagini e video illeciti al titolare del trattamento (cioè al cyber-bullo) o al gestore del sito o del social e, poi, se entro 48 ore non si ottiene nulla, si scrive al Garante, che provvede entro 48 ore. Più in dettaglio il minore o il genitore possono inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media un’istanza per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet, previa conservazione dei dati originali, anche qualora le condotte, da identificare espressamente tramite relativo Url (Uniform resource locator), non sia reato. Scatta un primo termine di 24 ore dalla richiesta, entro il quale il soggetto responsabile deve comunicare di avere assunto l’incarico, che deve essere eseguito entro 48 ore (dalla richiesta iniziale). Scadute le 48 ore (dalla richiesta iniziale) la vittima o il genitore possono rivolgersi al Garante. Il modello della richiesta al Garante riprende la sequenza. Il quesito è se la legge 71/2017 abbia introdotto una norma speciale rispetto al codice della privacy. In base al dlgs 196/2003, infatti, l’interessato potrebbe fare direttamente un reclamo o una segnalazione al Garante ai sensi rispettivamente degli articoli 143 e 144 del codice della privacy, senza richieste preventive ai responsabili. Tra l’altro la strada diretta al Garante è obbligata nel caso in cui non sia possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media. Inoltre la legge 71/2017 scrive che il minore o il genitore "può" (non c’è scritto "deve") inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media un’istanza. Peraltro l’obbligo di un doppio iter contrasta con l’esigenza di rendere la vita facile alla vittima e al suo nucleo familiare. Il problema è di corretta interpretazione della legge. Questo perché se la richiesta preventiva al titolare del trattamento/gestore sito/social fosse obbligatoria, il garante dovrebbe dichiarare inammissibile o improcedibile l’istanza (senza che, nel frattempo, l’aggressore abbia subito alcuna reazione alla sua brutta azione). In ogni caso, anche il soggetto tenuto ha rimosso spontaneamente i contenuti illeciti, il responsabile dovrà comunque subire, oltre le eventuali sanzioni penali, le sanzioni amministrative del codice della privacy (in particolare articolo 162). Pertanto, quindi, chi vuole attivare tutte le reazioni previste dalla legge farà bene a segnalare il fatto a tutte le autorità, anche se i contenuti sono stati eliminati spontaneamente. Compilazione del modulo. Il Garante della privacy ha messo a disposizione sul proprio sito il modello per la richiesta di blocco dei cyber-bullismo in rete: (garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/6732688). Chi ha compiuto 14 anni può attivarsi dal solo, senza bisogno della firma del genitore. L’istanza può essere presentata anche da uno solo dei genitori e può essere presentata da un genitore anche per un minore ultraquattordicenne. Si ritiene che il Garante sia tenuto ad intervenire, purché arrivi almeno una richiesta da un soggetto legittimato, anche in presenza di un mero dissenso di altri soggetti ugualmente legittimati. Il modello chiede di indicare l’attacco subito, crocettando una o più azioni elencate. Qui il formulario riprende e separa tutte i tipi di condotta raggruppate sotto la definizione legale di cyber-bullismo. Si ritiene che chi compila non deve preoccuparsi della qualifica giuridica esatta della brutta azione patita. L’elenco della legge scrive azioni che possono essere tra loro confuse o sono l’una specificazione di un’altra. In concreto non è sempre facile distinguere ad esempio una pressione da una molestia oppure una denigrazione da una diffamazione. Il minore e/o il genitore nel dubbio, potranno mettere più di una crocetta. Per l’ok alla probation nei reati edilizi l’abuso va eliminato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2017 Nei reati edilizi l’esito positivo della messa alla prova è subordinato all’integrale demolizione dell’abuso. Sul rapporto tra questo tipo di reati e la probation, introdotta con la legge 67/2014, la Cassazione fornisce alcuni chiarimenti con la sentenza 39455/2017 depositata il 28 agosto. La modalità alternativa per definire il processo (ex articolo 168-bis del Codice penale) - attivabile anche in fase di indagini preliminari - consente di arrivare a una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, nel caso in cui abbia esito positivo il periodo di prova concesso dal giudice, che ne verifica i presupposti. Nella circostanza in esame, la Suprema corte respinge il ricorso del Pm contro la decisione del Tribunale, nella parte in cui - dopo aver dichiarato estinto il reato di lottizzazione abusiva in una zona vincolata - per l’esito positivo della messa alla prova il giudice di merito aveva omesso di disporre la demolizione delle opere abusivamente realizzate. La Cassazione rigetta sì il ricorso del Procuratore generale, ma affermando che la questione è mal posta. L’ordine di demolizione è infatti una sanzione amministrativa di tipo ablatorio e può essere "accessivo" solo a una sentenza di condanna, perché non basta l’accertamento dell’abuso. Quindi, contrariamente a quanto sostenuto dal Pg, e malgrado la natura di sanzione amministrativa, l’ordine di demolizione non può essere applicato nella probation (in cui la condanna non c’è). Questo non vuol dire - precisa la Cassazione - che l’ordine di demolizione resti precluso per l’estinzione del reato: anzi, proprio in forza delle norme sulla probation, potrà e dovrà essere irrogato dall’autorità amministrativa, se ci sono gli estremi. Il problema da mettere a fuoco, tuttavia, era in realtà l’impossibilità di dichiarare l’esito positivo della messa alla prova, senza prima verificare le azioni "riparatorie" da parte dell’imputato. La Suprema corte sottolinea che, nonostante l’incompletezza della norma (articolo 168-bis del Codice penale), è da escludere la possibilità per l’imputato di esercitare un diritto alla messa alla prova in presenza di reati edilizi, inclusi nella forbice edittale prevista, senza che il giudice ne abbia valutato i presupposti. Escluso qualunque automatismo, va ancora considerato che, secondo la testuale previsione dell’articolo 168-bis, la probation "comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato". La Cassazione precisa che dev’essere chiaro che la sola eventuale prestazione al servizio sociale non ha alcuna efficacia, ai fini del superamento della messa alla prova, in assenza di condotte tese a eliminare il danno e il pericolo che derivano dal reato. In questo senso, l’obiezione mossa dal Pg è "fuori fuoco" "nella misura in cui, nella materia edilizia, la corretta applicazione, da parte del giudice, della sospensione del processo con messa alla prova passa, doverosamente, per la preventiva verifica dell’effettuazione da parte dell’imputato delle condotte atte a ripristinare l’assetto urbanistico violato con l’abuso, o mediante la sua piena e integrale demolizione ovvero mediante la sua riconduzione, ove possibile alla legalità, attraverso il rilascio di un legittimo titolo abilitativo in sanatoria". Tale verifica, almeno nella normalità dei casi, rende implicitamente superata la problematica del potere/dovere del giudice di ordinare la demolizione, anche a seguito della sentenza adottata in base all’articolo 168-ter del Codice penale. Perché l’ordine giudiziale non avrebbe più ragione di essere, una volta accertata l’eliminazione delle conseguenze. Minori non accompagnati: è il Pm minorile ad accertare l’età di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2017 Tribunale minori Trieste, decreto 12 luglio 2017. Il tribunale per i minorenni può pronunciare il provvedimento di attribuzione dell’età del minore straniero non accompagnato solo dopo che il pubblico ministero ha svolto l’accertamento socio-sanitario previsto dall’articolo 19-bis, comma 4, del decreto legislativo 142/2015. È quanto emerge da un decreto del Tribunale per i minorenni di Trieste(presidente Garlatti, relatore Raddino) dello scorso 12 luglio. La questione - La problematica relativa alla ripartizione di competenze tra procura della Repubblica e giudice minorile si è presentata nel corso di un procedimento civile relativo a una minore straniera non accompagnata, che aveva prima dichiarato di avere 16 anni e poi affermato di averne già compiuto 21. Il tutore della ragazza aveva allora domandato al Pm del tribunale per i minorenni l’accertamento dell’età della giovane, ma la Procura aveva trasmesso gli atti al giudice minorile per la nomina di un Ctu che definisse la questione. La decisione del tribunale - Nel respingere la richiesta del Pm, il tribunale osserva che la materia è disciplinata dall’articolo 19-bis del decreto legislativo 142/2015 (articolo introdotto dalla legge 47/2017). In base al comma 4 di questo articolo, il Pm minorile, in caso di "dubbi fondati" sull’età del minore straniero non accompagnato, "può disporre esami socio-sanitari volti all’accertamento della stessa". Accertamento che "deve essere svolto in un ambiente idoneo" e con un approccio multidisciplinare da professionisti adeguatamente formati e, se necessario, in presenza di un mediatore culturale. Inoltre, devono essere usate le "modalità meno invasive possibili e rispettose dell’età presunta, del sesso e dell’integrità fisica e psichica della persona"; in ogni caso, non sono consentiti "esami socio-sanitari che possano compromettere lo stato psico-fisico della persona" (comma 6). Il comma 9 dell’articolo 19-bis dispone quindi che "il provvedimento di attribuzione dell’età" sia notificato allo straniero e possa essere "impugnato in sede di reclamo ai sensi degli articoli 737 e seguenti del Codice di procedura civile" (relativi ai procedimenti in camera di consiglio). Il provvedimento sull’età - Le disposizioni del comma 9 non indicano l’autorità giudiziaria competente a pronunciare il provvedimento di attribuzione dell’età dello straniero. Tuttavia, secondo il tribunale triestino, in base all’"interpretazione letterale e sistematica" delle norme, il quadro delineato dall’articolo 19-bis del decreto legislativo 142/2015 prevede un primo snodo di competenza del Pm, durante il quale si svolgono le indagini necessarie all’accertamento dell’età; e poi una fase diretta alla pronuncia del provvedimento di attribuzione dell’età, che è "naturalmente rimessa (mancando ogni indicazione in contrario) al tribunale per i minorenni": è questo, infatti, l’organo "a cui in generale sono rivolte, in materia civile e penale, le richieste del Pm minorile". Rilevato che all’istanza del Pm non erano allegati "gli esiti degli accertamenti socio-sanitari sull’età" della ragazza, il tribunale ha quindi disposto la restituzione degli atti alla Procura per l’attivazione dei relativi esami. Peculato per il notaio che trattiene le somme dell’imposta di registro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2017 Corte d’Appello di Roma - Sezione III penale - Sentenza 15 marzo 2017 n. 2094. Scatta il reato di peculato per il notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell’imposta di registro per atti di compravendita immobiliare da lui rogati. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza 15 marzo 2017 n. 2094, chiarendo che il professionista in questi casi riveste la qualifica di pubblico ufficiale. Già in primo grado, il Tribunale di Roma aveva dichiarato il notaio colpevole del delitto di peculato continuato, condannandolo a due anni e tre mesi di reclusione; oltre al risarcimento dei danni cagionati al cliente (con la concessione di una provvisionale di 46.000 euro). Secondo il Gip infatti il professionista "nella sua veste di notaio rogante, s’era appropriato dapprima della somma di 14.000 euro, versata il 14 giugno 2007 a titolo di pagamento dell’imposta di registro in occasione della conclusione di un contratto di compravendita di un locale commerciale ad uso ristorante, e poi della somma di 32.000 euro, versata il 22 ottobre 2007 a titolo di pagamento dell’imposta di registro in occasione della conclusione del contratto di retrocessione dello stesso locale commerciale". Il notaio si era difeso sostenendo che tutt’al più poteva essergli contestato il "peculato d’uso" e che comunque la sua condotta non era caratterizzata dal "dolo di appropriazione", tipico del peculato, avendo lui agito "sempre e soltanto con l’intenzione di fare uso temporaneo della somme e di versarle o restituirle appena gli fosse stato possibile". La Corte territoriale premette che è ormai "solidissimo" l’orientamento di legittimità (n. 43279/2009) per cui "il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio". Nessun pregio dunque hanno gli argomenti difensivi in quanto appropriarsi di "somme dell’erario" integra il delitto di peculato e non certo di quello di peculato d’uso "che - com’è noto (n. 1862/1992) - per definizione è configurabile soltanto se ricade su cose di specie e non su cose di quantità, come il danaro". Mentre è privo di riscontri l’assunto secondo cui egli voleva restituire le somme non appena gli fosse stato possibile. La realtà infatti è che il professionista "non solo non ha mai versato codeste somme all’Erario, ma non le ha neppure fornite al cliente", che, in quanto obbligato, "è stato chiamato dal competente organo tributario a far fronte, lui, all’obbligazione per la seconda volta". Infine, il Collegio ha disposto l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, in quanto pena accessoria predeterminata dalla legge. Interdittiva antimafia, all’Adunanza Plenaria il blocco totale dei pagamenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2017 Consiglio di Stato - Sezione V - Ordinanza 28 agosto 2017 n. 4078. Sarà l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato a dover chiarire se l’interdittiva antimafia ai danni di un impresa illegittimamente estromessa da un appalto blocca anche il risarcimento del danno, accertato con sentenza passata in giudicato. Il rinvio al massimo consesso è stato disposto, dopo aver sospeso il giudizio, dalla V Sezione del Cds con l’ordinanza del 28 agosto scorso n. 4078. L’impresa irregolarmente esclusa da una gara di appalto indetta da un comune salernitano, dopo aver ottenuto la condanna dell’amministrazione a corrispondergli 123mila euro a titolo di risarcimento, sentenza del Cds n. 644/2014, ne ha chiesto l’ottemperanza. Il municipio però ha eccepito l’impossibilità di darvi esecuzione alla luce di "un’informativa interdittiva" che "impedirebbe in radice la possibilità per l’ente di procedere al pagamento, ostandovi le generali preclusioni di cui all’articolo 67 del Codice delle leggi antimafia". La norma infatti prevede che "le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere: (…) g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali". La questione controversa, spiega il Collegio, consiste dunque nello stabilire se la previsione "osti a che, sia pur in esecuzione di una pronuncia definitiva di condanna, possano essere erogate da una pubblica amministrazione somme di danaro, spettanti a titolo di risarcimento del danno, in favore di un soggetto che sia stato attinto prima della definizione del giudizio risarcitorio da un’informativa interdittiva antimafia, conosciuta solo successivamente alla formazione del giudicato e taciuta dal soggetto stesso, ovvero se il giudicato favorevole, comunque formatosi, obblighi in ogni caso l’amministrazione a darvi corso e a corrispondere la somma accertata come spettante". E trattandosi di "questione di massima importanza" che può dar luogo a contrasti dovrà risolverla l’Adunanza Plenaria. Per il Collegio, "mentre un’interpretazione di carattere letterale condurrebbe ad escludere che il risarcimento del danno presenti una eadem ratio rispetto "[ai] contributi, finanziamenti o mutui agevolati"", per altro verso, "un’interpretazione logico - sistematica dovrebbe condurre a ritenere che il ‘catalogò delle ipotesi sia aperto", in modo da "impedire nella sostanza l’erogazione di qualunque utilità di fonte pubblica in favore dell’impresa in odore di condizionamento malavitoso". La V Sezione ha poi richiamato le statuizioni rese dall’Adunanza plenaria, sentenza 19/2012, per concludere che "gli argomenti indicati al fine di estendere le portata preclusiva dell’art. 67 alle erogazioni avente matrice indennitaria, ben possono essere utilizzati per precludere le erogazioni pubbliche, ancorché aventi carattere risarcitorio". Rimane tuttavia da chiarire, aggiunge il Consiglio, "se l’eventuale interpretazione "estensiva" dell’art. 67" sia "compatibile con il generale principio dell’intangibilità della cosa giudicata". In altri termini, conclude, la questione è "se il giudicato formale, in qualsiasi modo formatosi, impedisca in ogni caso all’amministrazione di sottrarsi agli obblighi da esso nascente di corrispondere una somma di danaro a titolo risarcitorio ad un soggetto attinto da un’informativa interdittiva antimafia mai entrata nella dialettica processuale oppure se le finalità e la ratio dell’informativa interdittiva antimafia diano vita ad una situazione di incapacità legale ex lege (tendenzialmente temporanea e capace di venir meno con un successivo provvedimento dell’autorità prefettizia) che produca la corrispondente sospensione temporanea dell’obbligo per l’amministrazione di eseguire quel giudicato". Frosinone: "un altro detenuto strangolato", si sospetta serial killer delle carceri di Clemente Pistilli La Repubblica, 4 settembre 2017 Al centro dell’inchiesta un 41enne condannato per avere ucciso un’anziana. Gli inquirenti hanno deciso di riesumare il corpo di un ex compagno di cella. Strangolato e poi impiccato per simularne il suicidio. Dai primi accertamenti compiuti sulla salma di un detenuto deceduto lo scorso anno nel carcere di Frosinone, riesumata venerdì scorso, giungono conferme all’ipotesi di omicidio formulata degli inquirenti e prende sempre più corpo l’ipotesi che nella casa circondariale di Frosinone abbia agito un serial killer. Sospetti concentrati su un 41enne, di Sabaudia, in provincia di Latina, arrestato quattro anni fa dopo l’omicidio, a Borgo Montenero, frazione di San Felice Circeo, di una donna di 81 anni uccisa a colpi di pala nella sua abitazione dopo aver scoperto l’uomo intento a rubare. Per il delitto dell’anziana il 41enne è stato condannato a 18 anni di reclusione e poi per lui si è aggiunta una condanna a tre anni di reclusione, su cui pende appello, per una rapina commessa in precedenza, sempre ai danni di un’anziana, una donna di 82 anni di Sabaudia privata della catenina d’oro dopo essere stata fatta salire in auto con la scusa di un passaggio. Ma a trasformare uno sbandato in serial killer sarebbe stata la vita in carcere. Nell’agosto dell’anno scorso, a Frosinone, venne trovato impiccato il compagno di cella del 41enne, Giuseppe Mari, un anziano di Sgurgola, piccolo centro della Ciociaria. Considerando che non molto tempo prima era stato trovato impiccato anche un altro detenuto che divideva la cella con lui, il 60enne Pietropaolo Bassi, la Polizia penitenziaria iniziò a insospettirsi. Venne eseguita l’autopsia sulla salma di Mari e il consulente medico-legale del pm Vittorio Misiti, sostenne che l’anziano non si era suicidato, ma era stato strangolato e poi ne era stata simulata l’impiccagione. E così il 41enne venne indagato per omicidio e gli inquirenti iniziarono a indagare anche sulla morte di Bassi. Ipotizzando che anche in quel caso si fosse trattato di omicidio, il 41enne è stato così indagato anche per la morte dell’altro compagno di cella e venerdì, a Trani, la dottoressa Lucidi ha riesumato la salma del 60enne. "Attendiamo gli esiti degli accertamenti", affermano i difensori dell’indagato, gli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone. Dalle prime indiscrezioni emerse, le indagini medico-legali hanno però già individuato pure in questo caso segni di strangolamento. Un omicidio dunque e non un suicidio, mentre l’inchiesta si sta allargando ad altre due morti sospette in carcere, avendo anche ipotizzato la Penitenziaria che il pontino avrebbe cercato di uccidere altri compagni di detenzione mettendo nel caffè acido e varechina. L’uomo intanto, dopo essere stato trasferito a Velletri dove avrebbe cercato di evadere, è ora rinchiuso in un altro carcere in isolamento. Velletri: giovane detenuto tenta il suicidio, era in isolamento per problemi psichiatrici ilcaffe.tv, 4 settembre 2017 Nella notte del 2 settembre un detenuto italiano di giovane età ha tentato il suicidio impiccandosi con una corda rudimentale, costruita con pezzi di lenzuolo, legata all’inferriata della finestra della propria cella. A darne notizia è il sindacalista Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda. "La Polizia penitenziaria - commenta Olanda - ancora una volta ha salvato una vita umana. Il ragazzo detenuto è stato arrestato pochi mesi fa per tentata rapina e per problemi di socializzazione e di igiene personale è stato ubicato in una cella del Reparto Isolamento. Il detenuto in questione a quanto ci risulta già dal primo giorno di carcere destava segni di comportamento anomalo facendo dedurre di avere problemi psichiatrici. Al momento del gesto estremo il detenuto suicida si trovava in cella da solo e solo grazie al tempestivo intervento dell’Agente di sezione che accorgendosi del gesto durante il giro di controllo, interveniva prontamente con personale dell’equipe sanitaria. Il detenuto si è potuto salvare in tempo e successivamente trasportato in ambulanza con codice rosso presso l’ospedale di Latina dove attualmente si trova ricoverato in coma. Come sindacato - conclude Olanda - vigileremo e denunceremo fatti anomali, affinché i detenuti con problemi di natura psichiatrica vengano gestiti e segui in luoghi e con il personale adatto e non rinchiusi in una cella alla sola gestione della Polizia Penitenziaria". Sassari: carcere di Bancali, nelle celle arriva acqua gialla di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 4 settembre 2017 Servizio idrico a singhiozzo e di pessima qualità. Il sindaco Sanna scrive al ministro della Giustizia: "Intervenite subito". Acqua gialla o a singhiozzo nel carcere di Bancali e nelle ore in cui i rubinetti non sono a secco detenuti costretti a utilizzare il liquido che fuoriesce dai rubinetti delle celle che si presenta di colore giallo melma, sedimenta residui e genera mucillagini. È in corso una vera e propria emergenza nel carcere di Bancali e per denunciare la grave situazione due giorni fa il sindaco Nicola Sanna ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ieri il primo cittadino è stato raggiunto telefonicamente dal sottosegretario alla Giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria, Gennaro Migliore, che ha assicurato il massimo impegno del Ministero per superare le criticità. Ma in attesa che dalle parole si passi ai fatti i problemi restano. Nella Casa circondariale "Giovanni Bacchiddu", infatti, dalla fine di luglio, il servizio idrico viene erogato in maniera non continuativa, solo per alcune ore nel corso della giornata e l’acqua, per quanto i valori siano rientrati nei parametri di potabilità, risulta ad oggi imbevibile. Già l’11 agosto scorso il sindaco aveva inviato una lettera al ministro Orlando, al presidente della Regione Francesco Pigliaru, all’assessore regionale ai Lavori Pubblici Edoardo Balzarini, al Prefetto di Sassari Giuseppe Marani e all’amministratore Unico di Abbanoa Alessandro Ramazzotti. Nella lettera si sottolineavano non solo le criticità del servizio e le scarse condizioni igieniche ma anche l’impossibilità, da parte dell’amministrazione carceraria, di fornire un litro d’acqua a detenuto, come accaduto nel corso del 2016. "Alla fine del mese di luglio è stata chiesta al Provveditorato l’autorizzazione per la fornitura di una bottiglia d’acqua al giorno per ogni persona detenuta - tiene a precisare Patrizia Incollu, direttrice del carcere -. In seguito all’autorizzazione del Provveditore, è stata bandita una gara d’appalto per la fornitura. Apriremo le buste lunedì". In attesa dell’espletazione della gara d’appalto predisposta dall’amministrazione penitenziaria, dunque, i detenuti che non hanno la disponibilità economica di acquistare il fabbisogno quotidiano di acqua, sono costretti a utilizzare il liquido che fuoriesce dai rubinetti delle camere di detenzione, che si presenta di colore color giallo melma, sedimenta residui e genera mucillagini. Due giorni fa sono state donate dalla San Martino 1000 bottiglie per un totale di 1500 litri, ed è possibile che venga offerta, nei prossimi giorni, un’ulteriore fornitura di pari entità. "Se sono gravi le condizioni igienico sanitarie - commenta il Sindaco Sanna - non è meno grave la mancanza di rispetto dei diritti e della dignità di coloro che sono ospitati in carcere. Nonostante la presenza di un Protocollo tra Comune, Prefettura, Vigili del Fuoco, Ente Acque della Sardegna e Abbanoa, il carcere di Bancali continua a non ricevere il servizio sostitutivo di approvvigionamento idrico con autobotti, servizio che il gestore Abbanoa è tenuto a fornire ogni qualvolta si verifichino disagi". Trento: la Provincia ha approvato la proposta formativa per i detenuti agenziagiornalisticaopinione.it, 4 settembre 2017 La Giunta provinciale ha approvato la proposta formativa per l’anno scolastico 2017/2018 rivolta ai detenuti della Casa Circondariale di Trento. Il progetto tiene conto della specificità del carcere del capoluogo, caratterizzato dalla presenza di un numero detenuti con pene detentive generalmente inferiori ai tre anni e ha come obiettivo l’attivazione di percorsi sostenibili e coerenti con il tempo di permanenza dei detenuti. Prosegue l’attività di coordinamento tra la Provincia autonoma di Trento e la Casa Circondariale del capoluogo per ciò che concerne l’offerta formativa rivolta ai detenuti. L’offerta formativa per il prossimo anno, relativa al primo ciclo, prevede un percorso di alfabetizzazione e un percorso di scuola secondaria di primo grado. Per il secondo ciclo è previsto invece un primo periodo articolato in due annualità misto tra Liceo Economico Sociale e percorso professionale alberghiero, (con la possibilità di "qualifica" per il percorso professionale a conclusione del 2° anno) e un secondo periodo che permette la continuazione in modo flessibile dei percorsi formativi di scuola superiore, tenendo conto dei bisogni formativi presenti tra gli studenti detenuti. Nell’articolazione mista del primo periodo si prevede un monte ore di 20 unità di lezione comuni al percorso liceale e professionale collocate al mattino, che prevedono discipline comuni. È prevista inoltre una sotto articolazione della classe, nelle ore pomeridiane del martedì e giovedì, per la partecipazione alle attività pratiche in cucina e alla materia specifica "scienze e igiene" per il gruppo della scuola professionale, mentre il gruppo del Liceo Economico Sociale affronterà la materia scienze naturali e un potenziamento delle discipline di indirizzo (scienze umane, diritto ed economia e geostoria) A coloro che sono stati ammessi al secondo periodo del percorso liceale viene garantita la possibilità di proseguimento del percorso flessibile in modo da tener conto dei livelli raggiunti dagli studenti frequentanti, anche in funzione del riconoscimento dei crediti. L’attivazione di due periodi è gestita in collaborazione fra Ifp alberghiero di Rovereto e liceo delle scienze umane "A. Rosmini" di Trento. Nuoro: detenuti di Badu e Carros in "libera uscita" per lavoro a Orgosolo L’Unione Sarda, 4 settembre 2017 Manuel ha poco più di trent’anni e una voglia matta di ricominciare. Di assaporare libertà insieme ai suoi sei compagni di avventura, uniti da un passato con qualche errore, cementati da una sete di rivalsa. Tutti a Orgosolo, di buon mattino, in arrivo da Badu e Carros. C’è un paese da abbellire, con passione, fino al nove settembre. "Umanità, prima di tutto. Le pene devono rieducare", dice commossa Luisa Pesante, direttrice del carcere nuorese. "A lavoro per Orgosolo" parte da qui, da un articolo 27 della Costituzione che illumina la via. "Il reinserimento lavorativo è il primo aspetto che caratterizza questo percorso - spiega Massimo Piano, dell’associazione cagliaritana Caravella -. Sette persone si occuperanno di decoro urbano e verde pubblico. L’entusiasmo è contagioso. Siamo contenti dell’opportunità che ci ha dato il comune di Orgosolo". "Viva la libertà", ripetono i detenuti-lavoratori mentre levano erbacce o assemblano un muro con la pietra locale. Il giardino della chiesa di San Pietro brilla di una nuova luce, grazie a volontari speciali. Rastrello in mano, pala: maglia verde d’ordinanza, con tanto di scritta che dispensa buoni propositi. "Un progetto pilota - racconta con orgoglio il sindaco di Orgosolo, Dionigi Deledda -. Abbiamo accolto volentieri i detenuti. Tutti nella vita possono sbagliare, a tutti però deve essere data una seconda opportunità" Bruno è calabrese, sulla sessantina. La Sardegna è la sua terra d’adozione: qui pensa di mettere su famiglia, un domani. Sandro mostra una manualità da fare invidia, mentre realizza un angolo per i fiori, con la sigaretta sulle labbra. "I detenuti incontrano la comunità esterna, dialogano, si confrontano", dice Luisa Pesante. "Escono dal penitenziario la mattina, fanno rientro la sera, in regime di articolo 21. Anche in altre città italiane i risultati sono stati positivi". Voghera (Pv): i detenuti imparano a salvare vite con il defibrillatore di Alessio Alfretti La Provincia Pavese, 4 settembre 2017 A Voghera i detenuti imparano a praticare la rianimazione con il defibrillatore. Si è appena concluso, infatti, il ciclo di lezioni di primo soccorso al carcere di via Prati Nuovi e riservato ai 56 detenuti iscritti ai percorsi di istruzione secondaria. Il progetto, proposto dall’istituto superiore Maserati-Baratta e realizzato con l’associazione "Pavia nel cuore", rientra tra le attività pensate per favorire il reinserimento nella società al termine del periodo detentivo. "Sia il Maserati, sia il Baratta sono "cardio-protetti" - spiega il dirigente scolastico, Filippo Dezza - Da alcuni anni, abbiamo aderito alle attività proposte da "Pavia nel Cuore" alle scuole e, oltre all’installazione di defibrillatori in entrambe le nostre sedi, studenti e docenti vengono sensibilizzati e formati per poter intervenire in caso di arresto cardiaco. Questa proficua collaborazione ci ha spinti a estendere il progetto anche alla casa circondariale vogherese, grazie alla disponibilità della direzione carceraria e dell’associazione". "Abbiamo accolto la proposta con grande interesse, consapevoli dell’importanza di un intervento tempestivo in caso di arresto cardiaco e di quanto possa far bene rendersi utile all’animo di una persona priva di libertà - commenta la direttrice della casa circondariale di Voghera, Maria Antonietta Tucci - Sebbene la nostra struttura sia dotata di un defibrillatore e il personale sanitario sia presente 24 ore su 24, saper riconoscere un arresto cardiaco ed effettuare correttamente le manovre è fondamentale per salvare vite umane. Per questo, insieme a "Pavia nel Cuore", abbiamo programmato anche un ciclo di corsi per gli agenti di polizia penitenziaria". Santa Maria Capua Vetere (Ce): fuoco in cella, notte di panico in carcere di Biagio Salvati Il Mattino, 4 settembre 2017 È stata una lunga notte di panico e terrore, quella fra sabato e domenica nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove un detenuto ha fatto scoppiare un incendio nella cella provocando seri danni all’interno del vano. Il fuoco ha attaccato alcune suppellettili mentre il fumo sprigionato ha intossicato altri reclusi e tre agenti intervenuti che hanno riportato anche qualche piccola ustione e contusioni nel tentativo di bloccare l’uomo. Autore dell’incendio, innescato con un fornellino, un georgiano trentenne, finito in carcere per una serie di furti. Lo straniero è entrato in carcere agli inizi di agosto e, da allora, avrebbe dato molto filo da torcere al personale di polizia penitenziaria più volte intervenuto per sedare alcune azioni di ribellione. L’altra sera, l’ennesimo atto di insofferenza, con l’incendio fatto scoppiare nella sua cella ubicata nel reparto Nilo. L’allarme è scattato sabato alle 23 ma per portare a termine l’intervento - spiegano alcuni rappresentanti della Uil Penitenziari - gli agenti sono stati impegnati fino alle tre del mattino di ieri. Per i tre agenti intervenuti, i sanitari dell’ospedale hanno stilato una prognosi di cinque giorni mentre a carico del georgiano si sono aperte due inchieste: una della locale Procura della Repubblica e l’altra della direzione del penitenziario che molto probabilmente avvierà, d’intesa con il Dipartimento, il trasferimento del detenuto in un altro carcere nelle prossime ore. Cure sanitarie anche per lo stesso incendiario ed i detenuti che si trovavano ristretti con il georgiano, poi trasferiti in una diversa cella per l’inagibilità momentanea della stanza alle fiamme dallo straniero. Il fuoco, infatti, ha annerito l’intero vano e provocato danni a materassi e altro materiale presente nella cella. Lo scorso giugno, fu invece un detenuto napoletano protagonista di un incidente "domestico" avvenuto in una cella del reparto Tamigi (Alta Sicurezza) dove stava scontando una condanna all’ergastolo. In quella circostanza, a causa di una manovra errata durante la preparazione del pranzo, l’uomo si rovesciò addosso dell’olio bollente che era contenuto in un pentolino provocandogli una piccola ustione sul braccio. Qualche settimana prima, all’interno della casa circondariale, si era registrato invece un caso di autolesionismo: un detenuto aveva ingoiato un forte dosaggio di medicinali e un altro detenuto tentò di dare fuoco alla cella provocando anche l’intossicazione di due agenti. Uno scenario che fa il paio con l’emergenza idrica che, ancora una volta, grazie all’impegno della direzione ‘ si è cercato di tenere sotto controllo con autobotti esterne (in attesa della realizzazione di un impianto idrico collegato alla rete della città di cui si parla da anni) oltre al sottodimensionamento degli agenti di polizia penitenziaria penalizzati dalla mancanza del 35-40 per cento di personale. Una situazione, come più volte sottolineato da diverse sigle sindacali, che costringe gli agenti a turnazioni stressanti, aumenti di carichi di lavoro con tutte le conseguenze immaginabili nell’espletamento del servizio. Sondrio: carcere, revocato lo "sfratto" a tre agenti dell’istituto. Il sindacato: "vigileremo" Il Giorno, 4 settembre 2017 Buone notizie per il personale del carcere di Sondrio: sabato sera è arrivata la revoca dell’ordine di sfratto emesso dalla direzione della Casa circondariale di Sondrio a danno in particolare di tre agenti di Polizia penitenziaria. Come anticipato, infatti, é intervenuto il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Milano, che ha decretato il rientro negli alloggi loro assegnati precedentemente dopo una notte vissuta nelle rispettive automobili parcheggiate al ridosso dell’Istituto di via Caimi. "Tutto è bene ciò che finisce bene - commenta il segretario regionale aggiunto per la Lombardia dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria, Enzo Tinnirello. Il provveditore Luigi Pagano ha preso atto della segnalazione dell’Uspp riconoscendo le ragioni del sindacato riguardo alla disposizione, alquanto avventata, messa in atto dalla Direzione della Casa Circondariale di Sondrio". "Si poteva evitare lo sfratto dei poliziotti e quindi il disagio di una notte trascorsa nelle proprie auto - continua Tinnirello - cercando di intervenire in tempo, ma non possiamo far altro che ritenerci soddisfatti del rientro degli agenti nella caserma dell’Istituto di via Caimi. Auspichiamo che, d’ora in poi, le parti sociali vengano coinvolte nelle scelte gestionali della Casa circondariale di Sondrio che riguardano la vita lavorativa degli agenti e che gli incontri sindacali vengano convocati per raggiungere obiettivi comuni e non scelte che soddisfino solo la parte datoriale". "Riteniamo infine - conclude Tinnirello - che la direzione non debba più barcamenarsi in avventure avventate e solitarie, altrimenti per il futuro non si escluderanno manifestazioni di protesta del personale, volte all’avvicendamento del vertice dell’Istituto valtellinese. Noi dell’Uspp saremo attente sentinelle, affinché le scelte dirigenziali vadano anche a favore del benessere del personale e non siano solo finalizzate alle attività dei detenuti o legate a momenti conviviali e di facciata". Cinevasioni 2017: in concorso "Più libero di prima", il film su Tomaso Bruno di Ambra Notari Redattore Sociale, 4 settembre 2017 Annunciato il primo dei 10 film in concorso alla seconda edizione del Festival del cinema in carcere, in calendario alla Dozza dal 9 al 14 ottobre. Firmato dal regista bolognese Adriano Sforzi, il film racconta la storia vera di Tomaso Bruno, italiano detenuto per 5 anni in India. "Sarà un’enorme emozione": Adriano Sforzi, giovane regista bolognese, commenta così, a caldo, la notizia che il suo film "Più libero di prima" sarà uno dei 10 finalisti della seconda edizione di Cinevasioni, il Festival del cinema in carcere, organizzato nell’istituto penitenziario Dozza dal 9 al 14 ottobre. "Mi ha chiamato Filippo, sono restato sorpreso". Filippo è Filippo Vendemmiati, regista e direttore artistico del festival, che con Sforzi ha condiviso anche l’emozione dei David di Donatello del 2011: quell’anno, Vendemmiati fu premiato nella sezione documentari per il suo lavoro "È stato morto un ragazzo", su Federico Aldrovandi; mentre Sforzi vinse nella categoria miglior cortometraggio con "Jody delle giostre". Alla proiezione del film alla Dozza (la data è in via di definizione), oltre al regista sarà presente anche Tomaso Bruno, il protagonista di "Più libero di prima". "Tomaso di solito non partecipa alle proiezioni - racconta Sforzi - preferisce guardare avanti. Ma questa volta ha voluto fare un’eccezione. È felice di poter raccontare la sua storia ai detenuti, all’interno di un carcere, di condividere con loro un’esperienza di resistenza". La storia di Tomaso Bruno è nota: accusato di omicidio con Elisabetta Boncompagni per la morte di Francesco Montis (i 3 amici erano insieme in India), il 7 febbraio 2010 è entrato nel carcere di Varanasi per scontare l’ergastolo. Lì ha passato 5 anni: 5 anni di battaglie legali e politiche, 5 anni senza computer e telefono, in una baracca con altre 150 persone. Cinque anni che si sono conclusi il 20 gennaio 2015, quando i due giovani sono stati assolti dalla Corte Suprema indiana. "Più libero di prima" racconta i 3 giorni dei genitori prima della sentenza definitiva (che è slittata numerose volte, complice anche la vicenda dei marò che, in quegli anni, occupava le cronache), ma anche Tomaso è ben presente, con le sue lettere, i suoi ricordi, le sue speranze. Sforzi ha cominciato a girare il film nel 2014, quando la parola fine a questa drammatica vicenda era ben lontana dall’essere scritta, ma sapeva già quale sarebbe stato il finale (Sforzi e Bruno sono amici sin da piccoli): Tomaso che scende dalla scaletta dell’aereo, finalmente libero. E così è stato. Marina ed Euro, i genitori di Tomaso, hanno svolto un ruolo chiave (anche nel film, ma soprattutto nella vita reale): sempre presenti in India, hanno lottato sino alla fine, senza mai arrendersi. "Anche loro sono felicissimi che il nostro film sia stato selezionato per Cinevasioni. Vengono spesso alle proiezioni: ogni volta che vedono il film, a metà cominciano a piangere. Ma, mi dicono, riescono sempre a scoprire qualcosa di nuovo. E, alla fine, ci sono sempre un sacco di persone che li vogliono abbracciare, per congratularsi con loro per la vittoria in questa grande battaglia". "Non mi aspettavo che il film raggiungesse tutti questi traguardi. Io ho sempre cercato di fare del mio meglio, ed ero già contento di avere il finale che avevo sognato. Ma tutto è andato oltre le aspettative: la seconda serata Rai, la partecipazione al Bellaria Film Festival. E adesso Cinevasioni". Come si trova un terrorista prima che lo diventi? di Elena Zacchetti ilpost.it, 4 settembre 2017 La polizia non basta e ci sono programmi che hanno dato buoni risultati in altri paesi: cosa prevede la proposta di legge italiana per prevenire la radicalizzazione jihadista. Habib Hussein era il più giovane degli attentatori suicidi che parteciparono agli attacchi di Londra il 7 luglio 2005. Dopo gli attentati la polizia indagò sul suo conto e raccolse tutto ciò che era noto su di lui, accorgendosi che in nessun punto della sua giovane vita si era fatto notare dalla polizia per alcun motivo, e che pertanto non c’era mai stata alcuna possibilità di intervenire per evitare quello che è successo dopo. Tuttavia, ha raccontato Charles Farr, direttore generale dell’Ufficio per la Sicurezza e Antiterrorismo del Regno Unito, la polizia scoprì che, mentre era uno studente modello in un liceo di Leeds, i suoi quaderni erano pieni di scritte a favore di al Qaida. Dice Farr: "Scrivere sul proprio quaderno non è un atto criminale e non balzerebbe all’attenzione della polizia. Ma la filosofia dietro Prevent [il programma britannico di prevenzione della radicalizzazione] è, a mio parere, [chiedersi] se qualcuno all’interno della società avrebbe dovuto pensare che era opportuno intervenire. Cosa intendo per intervenire? Non intendo irrompergli in casa alle sei del mattino e trascinarlo davanti a un giudice. Ma voglio dire, non ci sarebbe dovuto essere qualcuno con cui potesse confrontarsi?" Sono proprio questi i casi che da qualche anno diversi paesi europei hanno scelto di trattare con metodi innovativi, lontani dalle tradizionali misure di polizia, di solito descritti con l’espressione "programmi di prevenzione della radicalizzazione jihadista e di de-radicalizzazione". In Italia a metà luglio la Camera ha approvato una proposta di legge sulla prevenzione della radicalizzazione jihadista, una delle misure più importanti - almeno sulla carta - per frenare la diffusione di questo tipo di estremismo. Il testo è stato approvato con 251 voti favorevoli, 13 astenuti e 109 contrari (tra i contrari ci sono stati Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Forza Italia), ma deve ancora essere discusso e votato dal Senato: quando, non si sa. La proposta di legge, diventata ancora più attuale dopo gli attentati compiuti in Catalogna, prevede l’introduzione di una serie di misure per prevenire la radicalizzazione jihadista, un fenomeno che finora l’Italia è riuscita ad arginare con efficacia, per motivi non solo legati all’azione del suo antiterrorismo; prevede anche delle misure per la de-radicalizzazione di persone che si sono già avvicinate all’ideologia jihadista: per esempio include un piano nazionale da applicare nelle carceri, uno dei luoghi dove negli ultimi anni si sono registrati più casi di radicalizzazione. Leggi di questo tipo sono già state approvate da altri paesi europei, soprattutto da quelli colpiti più volte da attentati dello Stato Islamico (o ISIS), come la Francia. L’idea che sta alla base di questi programmi è che la sola azione della polizia e dell’antiterrorismo non bastino per prevenire gli attentati: di per sé "radicalizzarsi" o simpatizzare per un’ideologia estremista non è reato, a meno che non si studi o non ci si addestri per compiere attacchi violenti: è proprio in questa zona grigia che vorrebbe agire la proposta di legge, ha spiegato al Post uno dei suoi promotori, il deputato del PD Andrea Manciulli. Per molti l’approvazione del testo alla Camera è una buona notizia, visto che negli ultimi anni l’Italia ha affrontato il problema dell’estremismo jihadista esclusivamente con misure di polizia, come le espulsioni amministrative, rimanendo però molto indietro sullo sviluppo di programmi di prevenzione e de-radicalizzazione. Non tutti sono d’accordo, comunque, e l’efficacia della legge - se e quando la proposta sarà approvata anche in Senato - dipenderà in larga parte da come verranno applicate le sue disposizioni. Cosa prevede la proposta di legge - Come prima cosa, prevede l’istituzione del Centro Nazionale sulla Radicalizzazione (CRAD), cioè un organo che dovrà elaborare ogni anno una strategia per prevenire la radicalizzazione jihadista e intervenire nei casi di persone già radicalizzate. Il CRAD verrebbe istituito all’interno del dipartimento delle Libertà civili e dell’immigrazione del ministero degli Interni: questo è un punto importante, perché una parte delle critiche fatte alla proposta di legge è legata proprio agli eccessivi poteri che il testo darebbe al ministero degli Interni, oggi guidato da Marco Minniti. La strategia elaborata ogni anno dal CRAD, chiamata Piano Strategico Nazionale, dovrebbe definire i progetti e le iniziative da realizzare e verrebbe attuato dai Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (CCR), organi istituiti presso le prefetture dei capoluoghi di regione. Non è finita. La proposta di legge stabilisce anche la nascita di un Comitato parlamentare per il monitoraggio della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista, composto da cinque senatori e cinque deputati: il comitato, che alcune forze di opposizione considerano solo un altro modo per creare-più-poltrone, dovrebbe monitorare in particolare la radicalizzazione nelle scuole e nelle carceri, e sarebbe incaricato di presentare dei rapporti periodici al Parlamento e al governo. Nel testo vengono previste poi altre cose: per esempio corsi di formazione specialistica, sia per la conoscenza di lingue straniere che in materia di dialogo interreligioso rivolti a polizia, forze armate e guardie penitenziarie. Vengono stanziati dei fondi da usare nelle scuole per la formazione di docenti e studenti, e altri fondi per sostenere progetti universitari e post-universitari su questi temi. Il testo prevede anche l’adozione di un piano nazionale per la rieducazione e la deradicalizzazione dei detenuti, che dovrebbe essere elaborato dal ministero della Giustizia in coerenza con il Piano strategico del CRAD. I programmi europei e il ritardo italiano - I primi a sperimentare programmi di prevenzione della radicalizzazione e di de-radicalizzazione sono stati alcuni paesi a maggioranza islamica, che da sempre sono i principali obiettivi dei gruppi jihadisti; per esempio uno dei programmi più studiati è stato quello dell’Arabia Saudita, che prevede il soggiorno di persone radicalizzate in centri di riabilitazione di lusso. In Europa i pionieri in questo campo sono stati Regno Unito, Paesi Bassi e Danimarca, seguiti rapidamente da diversi altri stati. Non è facile spiegare con un unico modello il funzionamento di questi programmi, anche perché, come ha scritto Lorenzo Vidino in un articolo pubblicato sul sito di Oasis, un centro di ricerca specializzato nei rapporti tra cristiani e musulmani nel mondo, "le modalità di questo tipo di interventi variano da paese a paese ma anche da città a città: sono spesso parte di una strategia nazionale ma adattati alle esigenze locali". Amsterdam, spiega Vidino, si è dimostrata una città all’avanguardia: è stata creata un’apposita unità, chiamata "Information House", all’interno del comune. In Danimarca invece i programmi sulla radicalizzazione si appoggiano spesso a una struttura già esistente, chiamata SSP (Social Services, Schools, Police). Anche il tipo di legame tra programmi e antiterrorismo cambia da paese a paese. Nel Regno Unito, per esempio, le strutture che si occupano di radicalizzazione includono agenti di polizia con esperienze nell’antiterrorismo, mentre in Danimarca e nei Paesi Bassi no. Nonostante in molte cose siano diversi, tutti questi programmi hanno un obiettivo comune: sono stati pensati per intervenire in quegli spazi dove la polizia non può agire, ma dai quali potrebbero comunque emergere comportamenti violenti. Su questo genere di programmi, l’Italia è rimasta molto indietro. I provvedimenti presi dal governo e dal Parlamento negli ultimi anni hanno riguardato esclusivamente l’aumento dei poteri della polizia e dell’antiterrorismo e l’introduzione di nuovi reati nel codice penale, per esempio quello che riguarda i cosiddetti "foreign fighters" e i "lupi solitari", ma finora non sono stati affiancati da programmi di tipo diverso. Ci sono almeno due motivi che spiegano questo ritardo. Il primo dipende dalle lungaggini dei lavori parlamentari. Tra l’inizio della discussione della proposta di legge e la sua approvazione alla Camera, a metà del luglio scorso, sono passati più di due anni, e non è detto che la votazione al Senato avverrà in tempi brevi: siamo a fine legislatura - le elezioni politiche sono previste entro marzo 2018 - e la discussione della proposta di legge potrebbe essere rimandata e ancora rimandata. Il secondo motivo è invece legato al tipo di jihadismo che si è visto finora in Italia. Dopo gli attentati in Catalogna del 17 e 18 agosto, l’Italia è rimasta l’unico grande paese dell’Europa occidentale a non avere subìto attentati terroristici rivendicati dallo Stato Islamico (o ISIS). Le ragioni sono diverse e sono oggetto di dibattito da tempo: rispetto ad altri paesi europei l’Italia ha una comunità di immigrati musulmani di seconda e terza generazione - quelli più influenzabili dalla propaganda dello Stato Islamico - molto ridotta, perché l’immigrazione dai paesi a maggioranza musulmana è un fenomeno piuttosto recente; gli italiani che sono andati a combattere in Siria e in Iraq sono qualche decina, un numero notevolmente più basso di quello registrato in paesi come per esempio Francia e Belgio, dove si parla di migliaia di persone; i "foreign fighters" italiani tornati dalla Siria e dall’Iraq, inoltre, sono molti meno rispetto alle decine, a volte centinaia, che le polizie di altri paesi europei si sono ritrovati a dover controllare e sorvegliare. Tutte queste cose potrebbero avere convinto qualcuno che l’Italia sia in qualche modo immune al terrorismo jihadista e che quindi non avrebbe bisogno di investire tempo e risorse per i programmi di prevenzione della radicalizzazione jihadista e di de-radicalizzazione: ma non è così. Negli ultimi anni la polizia italiana ha arrestato diverse persone per reati legati al terrorismo, alcune delle quali stavano preparando un attacco, e anche le comunità di immigrati musulmani di seconda e terza generazione stanno crescendo e diventando più numerose. L’Italia, oltre a essere da tempo obiettivo della propaganda violenta dello Stato Islamico, è stata anche coinvolta in via trasversale in alcuni dei più recenti attentati in Europa: Anis Amri, l’uomo che lo scorso dicembre investì la folla a un mercatino di Natale a Berlino, aveva cominciato a radicalizzarsi nelle prigioni siciliane ed era tornato in Italia dopo l’attacco, ucciso dalla polizia italiana a Sesto San Giovanni (Milano); uno dei tre componenti della cellula terroristica che colpì a Londra il 3 giugno scorso, Youssef Zaghba, era nato da madre italiana convertita all’Islam e da padre marocchino (aveva la doppia cittadinanza): nel marzo 2016 era stato fermato all’aeroporto di Bologna mentre tentava di raggiungere la Turchia e da lì, presumibilmente, la Siria. In altre parole: il fatto che finora sia andata bene non significa che il problema della radicalizzazione jihadista vada sottovalutato. Sì, ma questi programmi sulla radicalizzazione sono efficaci? - Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Manciulli, deputato del PD promotore della legge insieme a Stefano Dambruoso (Scelta Civica), ha sintetizzato così la questione: "La cosa veramente contrastante è l’efficacia dei percorsi di rieducazione, mentre l’individuazione di "devianze" funziona bene". Ci sono alcune cose da dire al riguardo. Un tipo di programma di prevenzione della radicalizzazione che provoca sempre meno entusiasmi tra gli esperti di antiterrorismo è quello concentrato sul dialogo interreligioso, su vari incontri interculturali e corsi di integrazione: cioè sul tipo di programma a cui si pensa quando si parla di prevenzione della radicalizzazione jihadista. Come ha spiegato Vidino, ci sono sempre più studi che - contraddicendo il credere comune - hanno mostrato "come il legame causale tra la mancanza di integrazione e la radicalizzazione sia nella maggior parte dei casi tenue se non inesistente". Questo significa che non è vero che i paesi con una peggiore integrazione delle comunità musulmane siano anche quelli dove vengono compiuti più attentati terroristici (PDF): l’Italia è molto indietro nei processi di integrazione, ma finora non ha subìto nemmeno un attentato. Questo tipo di programmi, quindi, può favorire l’integrazione e può avere effetti positivi indiretti sulla prevenzione della radicalizzazione, scrive Vidino, ma va tenuto separato da una strategia di antiterrorismo. Un discorso diverso invece va fatto per quei programmi che agiscono su persone già radicalizzate o che hanno mostrato i primi segni di radicalizzazione, come nel caso di Hasib Hussein, l’attentatore di Londra. Qui c’è più entusiasmo per due ragioni: perché la loro efficacia è più facilmente dimostrabile, e quindi è anche più immediato provare che un investimento di denaro pubblico abbia prodotto risultati; e perché costano meno rispetto ai tipi di programmi di prevenzione citati sopra. Si parla comunque di processi molto lunghi, che durano anche degli anni, e che si basano sulla capacità del personale specializzato di stabilire un rapporto di fiducia con la persona radicalizzata. Vidino ha raccontato per esempio la storia di una persona, il cui nome non è stato diffuso per ragioni di privacy, che si è de-radicalizzata grazie all’azione dell’Information House, l’organo istituito ad Amsterdam per svolgere questo tipo di lavoro. Questa persona, che chiameremo X, era un membro del gruppo "Hofstad", una rete di miliziani jihadisti nata nei primi anni 2000 tra Amsterdam e L’Aia al quale apparteneva anche l’assassino del regista Theo van Gogh. Dopo essere stato detenuto per tre anni per crimini legati al terrorismo, X fu rilasciato e l’Information House gli assegnò un assistente sociale per iniziare il processo di de-radicalizzazione. L’assistente sociale aiutò X a trovare una casa e a sistemare altre questioni logistiche: tra i due si instaurò un rapporto di fiducia ma a un certo punto l’assistente sociale, anch’egli musulmano, capì di non avere le competenze sull’Islam sufficienti per ribattere agli argomenti di X, persona molto intelligente e istruita. L’Information House decise allora di far intervenire un esperto di scienze religiose islamiche: il primo incontro finì con X che se ne andò sbattendo la porta. Poi però le cose migliorarono, il rapporto tra l’esperto e X diventò pian piano più profondo e durò quasi tre anni. "L’assiduità delle conversazioni fu un fattore importante nella traiettoria di X, ma non meno di alcuni momenti chiave. Uno si verificò alla Mecca, dove X e il sapiente si recarono per un pellegrinaggio. X, che aveva sempre avuto forti sentimenti anti-sciiti, fu molto toccato dal fatto che l’unica persona che lo aiutò quando cadde e stava per essere calpestato dalla calca fu proprio uno sciita. Questo incidente, occorso al culmine di un lavoro certosino incentrato sul dialogo, contribuì fortemente al cambio di prospettiva di X. X, infatti, progressivamente abbandonò le vecchie amicizie, si sposò, continuò gli studi e, cosa più importante, abbandonò l’ideologia jihadista. Iniziò persino a collaborare con l’Information House, raccontando la propria storia in vari seminari". Non è possibile sapere cosa sarebbe successo a X se non avesse partecipato al programma dell’Information House; il suo caso, comunque, viene considerato come un esempio di successo, così come diversi altri già completati nei paesi europei dotati di leggi di questo tipo. La de-radicalizzazione nelle carceri - Il discorso sulla prevenzione e de-radicalizzazione nelle carceri va fatto a parte. La proposta di legge approvata alla Camera dedica l’articolo 11 alla formulazione di un "piano nazionale per la rieducazione e la de-radicalizzazione di detenuti e di internati", che dovrà essere adottato dal ministero della Giustizia. Non si sa quindi cosa potrebbe essere deciso nel piano, ma intanto vale la pena dire un paio di cose. Primo: il fenomeno della radicalizzazione jihadista nelle carceri è molto serio. Due dei tre terroristi che attaccarono la redazione del settimanale Charlie Hebdo si erano radicalizzati in una prigione francese; Abdelhamid Abaaoud, considerato uno degli organizzatori degli attentati di Parigi del novembre 2015, si era radicalizzato in un carcere belga; la stessa cosa era successa a uno degli attentatori suicidi dell’aeroporto di Bruxelles, nel marzo 2016, e al già citato Anis Amri, l’attentatore di Berlino che cominciò ad avvicinarsi all’ideologia jihadista nelle prigioni siciliane. Di casi simili se ne potrebbero citare ancora. Secondo: è difficile dire con precisione i motivi che spingono una persona a radicalizzarsi in carcere, ma qualche ipotesi si può fare. Uno dei fattori sembra essere la scarsa comprensione tra detenuti e personale penitenziario, ha spiegato il sociologo Bartolomeo Conti in un articolo pubblicato sul sito di Oasis nel gennaio di quest’anno. Conti ha scritto che può capitare che le guardie carcerarie finiscano per vedere la radicalizzazione anche là dove non c’è, quando la radicalizzazione viene "confusa con la pratica religiosa ortodossa/fondamentalista, il discorso politico o la "semplice" provocazione verso l’istituzione penitenziaria". Queste incomprensioni possono aumentare il livello di stigmatizzazione dei detenuti di religione islamica, che si sentono "ingiustamente discriminati", fattore questo che potrebbe essere fonte di radicalizzazione. Spesso la radicalizzazione in carcere è favorita da persone carismatiche che propagandano idee jihadiste, e che finiscono per influenzare altri detenuti musulmani la cui conoscenza dell’Islam è invece molto limitata. Terzo: il problema della radicalizzazione dei detenuti esiste anche nelle carceri italiane, come ha dimostrato il caso di Anis Amri. Lo scorso 11 gennaio il ministro della Giustizia italiano, Andrea Orlando, ha risposto a un’interrogazione parlamentare riportando i dati dell’amministrazione penitenziaria (DAP) riguardo la radicalizzazione nelle carceri italiane (che comunque è un problema di cui si discute da molti anni). Orlando ha detto che secondo i dati del DAP, i detenuti sottoposti a specifico "monitoraggio" sono 170, a cui si devono aggiungere 80 "attenzionati" e 125 "segnalati", per un totale di 375 individui radicalizzati. Come ha segnalato sul sito di Open Migration Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, non è chiaro quali criteri siano stati usati per inserire i detenuti in queste tre categorie ed è quindi difficile valutare la gravità della situazione: il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha risposto a una richiesta di chiarimenti da parte del Post. Ci sono poi i detenuti per reati legati al terrorismo internazionale: sono 45, ha detto Orlando, e si trovano nelle sezioni di alta sicurezza delle carceri di Benevento (Campania), Brindisi e Lecce (Puglia), Nuoro e Sassari (Sardegna), Tolmezzo (Friuli-Venezia Giulia), Torino (Piemonte), Roma Rebibbia (Lazio) e Rossano (Calabria): la loro distribuzione è mostrata dall’infografica qui a lato, realizzata da Open Migration usando i dati del DAP. Non sono numeri esagerati - certamente ben lontani da quelli di altri paesi europei - ma sono comunque numeri da non sottovalutare. Il governo italiano ha già cominciato a lavorare sulla prevenzione della radicalizzazione nelle carceri. Un progetto interessante, che potrebbe essere esteso se la proposta di legge diventerà legge, è quello che coinvolge l’UCOII, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, la più grande organizzazione islamica italiana. Da tempo l’UCOII collabora con il ministero della Giustizia affinché sia possibile far entrare nelle carceri degli imam cosiddetti "certificati", ovvero gli imam dell’organizzazione, i quali non adottano una visione estremista dell’Islam. Una portavoce dell’UCOII ha detto al Post che gli stessi imam sono di grande aiuto alla polizia penitenziaria: sia perché parlano arabo, a differenza delle guardie carcerarie, sia perché sono disposti a collaborare con la polizia nel caso in cui ci siano detenuti che provano a diffondere una visione estremista dell’Islam. Ma anche questa proposta, così come molte altre contenute nella proposta di legge, è stata criticata da alcuni partiti di opposizione durante la discussione in Parlamento. Le altre critiche alla proposta di legge - La proposta di legge approvata dalla Camera a luglio, come detto, non è ancora definitiva, visto che deve ancora passare all’esame del Senato, e prevede che molte procedure vengano stabilite in un secondo momento. È quindi difficile, se non impossibile, criticare nel merito i programmi che verranno adottati, ma è possibile fare valutazione sull’impianto generale della legge. Partiamo da quelli che hanno votato contro. Forza Italia e Lega Nord hanno criticato tra le altre cose il fatto che la parola "moschea" non sia stata citata nemmeno una volta nella proposta di legge. Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia, ha definito le moschee "il luogo più amato del jihadismo", ma questo non è rilevato da alcun esperto e studioso di terrorismo islamista: i due principali luoghi di reclutamento dello Stato Islamico, il gruppo che ha compiuto la stragrande maggioranza degli attentati in Europa negli ultimi due anni e mezzo, sono Internet e le carceri. La parola moschea compare una sola volta anche nell’ultima Relazione annuale presentata dall’intelligence italiana al Parlamento (PDF), quella che definisce tra le altre cose il tipo di minaccia jihadista in Italia: è usata non per indicare un possibile luogo di diffusione di ideologie estremiste, ma in riferimento all’attentato suicida compiuto dallo Stato Islamico in una moschea sciita del Kuwait, nel giugno 2015. Un’altra critica che è stata fatta dalle opposizioni, incluso il Movimento 5 Stelle e Possibile (che non ha votato contro ma si è astenuto), è che l’impianto previsto dalla legge non avrebbe efficacia: in pratica che l’iniziativa sostenuta dalla maggioranza sarebbe solo una "legge manifesto", una "legge bandiera". Angelo Tofalo, deputato del M5S, ha detto al Post che "la problematica della radicalizzazione da un punto si vista parlamentare si sarebbe dovuta affrontare mediante una commissione d’inchiesta istituita con legge specifica e della durata della legislatura". Secondo Tofalo, sarebbe stato necessario e più efficace rafforzare gli strumenti di intelligence già esistenti, invece che fare "nuove "stanze dei bottoni"" come il Comitato parlamentare previsto nella proposta di legge, che non farebbero altro che "confondere un quadro istituzionale ben definito". Andrea Maestri, deputato di Possibile, ha detto al Post che uno dei problemi della proposta di legge è che dà molti poteri al ministero degli Interni, anche in quei settori nei quali dovrebbero prevalere altri soggetti, per esempio quello che dovrebbe fare il ministero dell’Istruzione per le scuole. Secondo Maestri un altro problema è che la proposta di legge si concentra sulla sola radicalizzazione jihadista, e ignora altri tipi di radicalizzazione molto diffusi nella società italiana. L’impressione, quindi, è che ci siano forze politiche in Parlamento che non solo non condividono il modo in cui è stata fatta la legge, ma che non concordano nemmeno sulla necessità di dotarsi di programmi ad hoc per affrontare la radicalizzazione jihadista, cioè strumenti diversi da quelli di cui già dispongono le forze di sicurezza. Nonostante sia difficile dare oggi una valutazione su come sarà la legge, perché dipenderà molto da come verrà applicata, sembra altrettanto difficile ignorare l’importanza per l’Italia di dotarsi di strumenti di prevenzione della radicalizzazione e di de-radicalizzazione: sia perché lo hanno già fatto molti altri paesi europei già colpiti da attentati terroristici, che sono più esperti di noi nel combattere lo jihadismo, sia perché l’azione delle sole forze di sicurezza potrebbe non essere più sufficiente. Non è solo una questione numerica di uomini, ma anche una valutazione sul diverso tipo di lavoro che la prevenzione e la de-radicalizzazione possono fare: un lavoro in zone dove la polizia non può intervenire. L’ex ministro Costa: "Ius soli? una legge così delicata non si può approvare in fretta" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 4 settembre 2017 Nuovo stop dall’ex ministro Costa. Ma il Pd: ok in autunno, ipotesi fiducia. Ministro per gli Affari regionali nel governo Gentiloni fino al luglio scorso, l’avvocato Enrico Costa si è dimesso dall’esecutivo lasciando anche il partito di Alternativa popolare guidato da Angelino Alfano. Una scelta polemica, per dissensi sulla legge dello ius soli, la stessa che proprio ieri è stata blindata dal capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. "Sarà approvata entro l’autunno, forse con il voto di fiducia", ha assicurato. Da un mese, l’onorevole Costa siede in Parlamento con il Gruppo Misto. Onorevole Costa, ha seguito la vicenda degli stupri a Rimini, con l’arresto dei quattro giovani extracomunitari? "Sì, una vicenda grave di cui ho letto sui giornali". Sulle caratteristiche dei responsabili, tre minorenni extracomunitari di seconda generazione in Italia dove sono nati e un maggiorenne richiedente asilo, si scateneranno reazioni politiche? "Probabile. Dal canto mio, però, resto della convinzione che qualsiasi ragionamento politico su temi legati all’immigrazione o all’integrazione di extracomunitari debba prescindere da fatti di cronaca singoli, specie se così drammatici come quelli di Rimini. Si tratta di questioni da affrontare e su cui ragionare in termini generali". Una regola politica? "Per me sì. Il legislatore non può farsi condizionare nelle sue scelte da reazioni emotive, ma deve fare sempre valutazioni profonde e generali su ogni questione". Naturalmente, soprattutto sulla storia di vita dei tre minorenni residenti nelle Marche, c’è chi già invita a riflettere sulla legge dello ius soli da ridiscutere in Parlamento. Cosa ne pensa? "Sempre con le riserve espresse prima, le rispondo in termini generali a prescindere dalla storia dei tre ragazzi minorenni arrestati per gli stupri di Rimini. A luglio, ho assunto una posizione molto chiara sullo ius soli. Mi sono dimesso dal governo lasciando anche Alternativa popolare perché in dissenso con il tentativo di far approvare quella legge chiedendo la fiducia al governo". Perché non condivideva questa possibile scelta del governo Gentiloni di cui faceva parte? "Perché non si può modificare, a colpi di fiducia, il profilo del corpo elettorale che è il fulcro della democrazia. Ogni innovazione su questo argomento va ponderata, discussa, approfondita. Questo, ripeto ancora a scansi di equivoci, a prescindere da vicende singole". Non crede che comunque, al di là di quanto lei sostiene, i fatti di Rimini avranno ripercussioni sul dibattito che riguarda la legge dello ius soli? "Forse avverrà, ma io ne resto fuori. Le mie idee sulla questione le ho maturate già in precedenza, a prescindere da fatti di cronaca". Sui social si è scatenata una nuova ondata di accuse contro gli extracomunitari. Che ne pensa? "Sono prevedibili effetti di reazioni emotive su una vicenda grave. Basta andare a vedere i ruoli dei processi penali nei tribunali per comprendere come siano aumentate le percentuali di imputati non italiani". Anche tra i detenuti sono aumentati gli stranieri. Che idea ha in proposito? "Non è una questione etnica o di nazionalità, ci mancherebbe. È un elemento statistico dovuto alla maggiore presenza di stranieri in Italia. In molti casi si tratta di reati di droga o furti e molti imputati provengono da nazionali europee. Non si tratta quindi soltanto di extracomunitari". Che convinzione si è fatto sugli arrestati di Rimini? "Anche a me questa vicenda ha colpito molto. Per qualche giorno c?è stata molta preoccupazione, ma è positivo che tutti i responsabili siano stati assicurati alla giustizia. L’ondata di rabbia che si è manifestata sui social è stata una reazione che ci si poteva aspettare". I minorenni rischiano poco? "È noto che i minorenni, italiani o stranieri che siano, beneficiano di una procedura diversa dai maggiorenni. Esistono sconti di pena legati all’età, ma anche per i minori possono esserci condanne esemplari rapportate alle responsabilità penali accertate". Pensa che sarà approvata la legge sullo ius soli, come ha più volte annunciato il premier Gentiloni? "In Parlamento, non esiste una maggioranza su questo tema. L’unico modo per far passare le norme sarebbe ricorrere al voto di fiducia. Io ho una posizione chiara e trasparente sul punto, che spero abbia fatto riflettere sull’assurdità del ricorso alla fiducia. Sono convinto, per quel che ne so, che anche Alternativa popolare, il mio ex partito, abbia conservato una posizione critica sulla legge". Gli annunci sull’approvazione sono quindi solo un eccesso di ottimismo del premier Gentiloni? "Capisco gli annunci politici, ma certe cose non si possono fare nei tempi supplementari di una legislatura. Vanno approfondite e ponderate meglio e con responsabilità politica". Nell’inferno libico un milione di profughi in trappola di Nello Scavo Avvenire, 4 settembre 2017 Il buco nero delle prigioni clandestine libiche ha numeri da Terzo Reich: circa 400mila i profughi "contabilizzati" dalle autorità di Tripoli, ma quelli rimasti imprigionati sono molti di più. Rhoda non avrebbe dimenticato la sua prima volta. Aveva quindici anni. La pelle nerissima si confondeva nel buio di una stanza senza finestre. I capelli raccolti in fitte treccine. Il cuore che palpita. "Erano in cinque, quattro l’hanno bloccata a terra mentre gridava. Il quinto, "il bastardo di Zuara" è stato il suo primo uomo", racconta una compagna come lei cristiana in fuga dalla Nigeria dei miliziani Boko Haram. "Poi, come sempre, hanno fatto a turno". Rhoda era bellissima, "per questo anche se aveva pagato non la lasciavano mai partire". Il buco nero delle prigioni clandestine ha numeri da Terzo Reich. Stando a fonti locali dell’Organizzazione internazionale dei migranti, sono circa 400mila i profughi "contabilizzati" dalle autorità di Tripoli, ma quelli rimasti imprigionati nel Paese, secondo stime ufficiose confermate anche da fonti di intelligence italiane, sarebbero tra gli 800mila e il milione. Dall’Oim segnalano però che i centri di detenzione sotto il controllo del governo e dei 14 sindaci che si sono accordati con l’Italia per fermare le partenze sono una trentina, e al momento vi sarebbero rinchiuse non più di 15mila persone. Dove sono stati inghiottiti gli altri? A Zuara ne abbiamo trovati alcune decine. Esseri umani in trappole senza scampo. È qui che Rhoda è morta dopo le prime notti in balia dei capricci degli scafisti. Era un anno fa. Dicono si sia ammazzata mentre tutti dormivano. Prima, cercava qualcosa con cui sfigurarsi. Acido, candeggina, oppure del fuoco. Fino a quando - racconta l’amica - trovò la lama di un rasoio usato dai migranti maschi. Tra le borgate e i campi petroliferi spadroneggia Fathi al-Far, comandante della brigata al-Nasr, alleato forte del premier al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale. al-Far, ex colonnello dell’esercito di Gheddafi, secondo gli investigatori Onu "ha aperto un centro di detenzione", proprio tra Tripoli e Zuara. "Il centro - dicono alle Nazioni Unite - è usato per vendere i migranti ai contrabbandieri". A Zuara ci arriviamo attraverso il confine tunisino. Sorvegliato quanto basta per evitare il passaggio di armi, ma non di nafta di contrabbando, di cui a Tunisi sono assetati. Quando Karim strattona di forza la leva del cambio per scalare le marce del vecchio carro cisterna italiano, la tensione sale a mano a mano che la velocità scende. È l’alba, ci vorranno un paio d’ore prima che i doganieri ci lascino andare. Il casamento dei neri, al di qua della strada che scorre sul mare, è nascosto alla vista da un muro perimetrale alto quattro metri, fatto di blocchi di tufo giallo appoggiati l’uno all’altro, senza neanche una spanna di cemento. Il confine è a meno di un’ora. La città, appena dietro gli ultimi tornanti tra sabbia, terra incolta e radi cespugli. La prigione è un rettangolo non più grande di un campo da calcio. Si intravedono i tralicci di un paio di pozzi petroliferi in disarmo. All’interno, da una parte ci sono "les chambres", come i tunisini chiamano i maleodoranti stanzoni dei migranti, e dall’altra il piazzale con un paio di enormi serbatoi arrugginiti che arrostiscono al sole. È qui che viene immagazzinata la nafta da vendere ai contrabbandieri. A Karim, che ci viene un paio di volte alla settimana, oramai è permesso sbirciare all’interno. I migranti vengono schiavizzati. A turno lavorano nel piazzale delle autobotti. A mani nude trascinano i raccordi che sputano carburante. È in quei momenti, quando la confusione è grande quanto la fretta di rifornire i distributori delle province tunisine, che Karim riesce a parlare con i "pauvres diables", raccogliendo le storie dei "poveri sventurati" che gli fanno maledire il giorno in cui ha scelto di rinunciare alla "clandestinità" in Italia per l’illegalità in casa sua. "Non c’è niente che posso fare, ma prego ogni giorno Allah per loro", dice. Il blasfemo jihad degli stupratori libici si compie ogni sera, dopo che le autobotti dei contrabbandieri tornano indietro. "Allah Akbar", urlano mentre torturano gli uomini e assaltano le donne. Accanto alla vittima mettono un telefono mentre picchiano più duro, così che i malcapitati implorino pietà e altri soldi dai parenti rimasti nei villaggi. Il 2 agosto, relazionando alla commissione Schengen, il direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, Federico Soda, disse che le condizioni dei complessi "governativi" sono tali da non lasciare alternativa: "Andrebbero chiusi subito". L’agenzia dell’Onu aveva avuto accesso solo a una ventina di strutture, "per cui immaginiamo che le condizioni dei centri che non abbiamo potuto vedere siano ancora peggiori". Basta questo per immaginare cosa siano i lager che sfuggono a qualsiasi seppur sporadico controllo. Anche venerdì, per la festa dell’Hajd, il grande giorno del Sacrificio, "il bastardo di Zuara", è tornato a disonorare l’islam. Dicono faccia il militare di giorno e il trafficante di notte. "È lui a comandare il campo di concentramento", spiega l’amica di Rhoda. Ha capelli arruffati e modi sgraziati. La incontriamo di nascosto, mentre spazza via la poltiglia di sabbia e petrolio. "Voglio essere brutta, ogni giorno più brutta. Così la smetteranno". Da qualche settimana, dicono i trafficanti di gasolio, c’è solo gente che entra e nessuno che va via coi gommoni. Una situazione esplosiva che fa essere gli scafisti ancora più cattivi, forse per il timore di non poter fronteggiare da soli una rivolta di centinaia di persone. Le finestre degli stanzoni dei migranti sono coperte da drappi che impediscono di vedere bene all’interno. Il brusio, nessuna barriera può però fermarlo. Si sente il pianto di un bambino. Poi per un istante, lo straccio che fa da tenda viene scostato. Osserviamo un ammasso indistinto di esseri umani accucciati per terra. Uomini donne e bambini addossati a gruppi di trenta o quaranta per stanza. Ogni vano non supera i cinquanta metri quadri. Di colpo gli sguardi di mille occhi si alzano verso la finestra. E ci guardano. Qualsiasi gesto, un saluto, un sorriso, una smorfia di rabbia o di compassione, suonerebbe come beffardo o una nuova umiliazione. Poi la tenda viene richiusa in fretta. La cisterna, intanto, ha fatto il pieno. Karim deve andare. Lungo la strada Karim mugugna. Anche lui un giorno prese un gommone per l’Italia. "Li odio", dice pensando alle bande di trafficanti e ripetendo per due volte il nome di Rhoda. "Chissà, forse l’ho anche conosciuta venendo qui", si domanda. "Distruggere l’uomo - scriveva Primo Levi -. È difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti". Brasile. Il cambiamento è possibile: carceri Apac contro il sovraffollamento noisiamofuturo.it, 4 settembre 2017 "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni", disse Fëdor Dostoevskij. Possiamo dunque dire di vivere in una società civilizzata? Secondo il rapporto presentato nel 2016 dall’associazione Antigone, nel nostro Paese il tasso di sovraffollamento delle carceri è del 106%, per un totale di quasi 4000 detenuti privi di un regolamentare posto letto. Basti pensare che il 40% dei reclusi sono in attesa di giudizio, ciò significa che un terzo di loro sta ancora aspettando la sentenza definitiva, occupando il posto di potenziali criminali. Tale avvenimento può essere spiegato con la propensione delle forze dell’ordine all’uso della custodia cautelare, pratica in continuo aumento negli ultimi decenni. Altro dato rivelante riguardante il sovraffollamento è attinente alla crescita del numero dei detenuti stranieri, si è infatti registrato un incremento del 30% rispetto ai primi anni del 2000. Nonostante i vari problemi riscontrati nelle carceri italiane e di tutto il mondo, in Brasile è nata all’inizio degli anni 70 l’associazione Apac, la quale ha contribuito alla nascita di penitenziari a bassa vigilanza, autogestiti dagli stessi detenuti resi dunque responsabili del recupero l’uno dell’altro. Incredibile pensare come da un contesto di violenza e degrado tipico delle prigioni brasiliane si sia arrivati alla creazione di questi innovativi luoghi di reclusione, basati sul reciproco rispetto e amore per il prossimo. Lo conferma la toccante testimonianza di Daniel Luiz da Silva, ex carcerato che, dopo aver trascorso, come da norma, un periodo di detenzione nel carcere tradizionale (ormai sempre più affollato in Brasile come in tanti altri Paesi), è stato accettato in una struttura Apac. La vita in queste prigioni senza carcerieri né armi è scandita da tre regole: sveglia, preghiera, lavoro, ed è grazie a tali norme che Daniel è riuscito a redimersi facendo proprie le parole della Bibbia "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". Rappresentando dunque le strutture Apac un grande segno di civilizzazione, il Brasile è riuscito a distinguersi in questo ambito denotando un notevole progresso nella propria organizzazione giuridico-penitenziaria. Perciò perché non imitare questo Paese aprendo carceri APAC anche nella piccola Italia? Con questo provvedimento sarebbe in parte risolto il problema del sovraffollamento e i detenuti sarebbero sensibilizzati non attraverso la durezza del percorso di reclusione, bensì attraverso l’amore e la fiducia verso gli altri, soprattutto verso se stessi. Stati Uniti. In California i detenuti-pompieri scontano la pena salvando vite di Marilisa Palumbo Corriere della Sera, 4 settembre 2017 Nello Stato americano il 40% dei vigili del fuoco è formato da carcerati che vengono pagati molto meno dei professionisti e vengono anche addestrati peggio. Il problema della sicurezza. Sono in prima linea anche negli incendi più pericolosi, come quello delle ultime ore sulle colline a nord di Los Angeles, il più grande che abbia mai lambito la città: 20 chilometri quadrati di devastazione, 2.500 ettari, oltre 700 abitazioni evacuate. Non li si distingue dai colleghi se non per le magliette che portano sotto i giacconi ignifughi: sul retro c’è scritto "Cdcr (che sta per California Department of Corrections and Rehabilitation) prisoner". Sono i circa 4.000 detenuti (e detenute) che hanno deciso di scontare la pena (di solito per furto, possesso di droga, guida in stato di ebbrezza) servendo nei vigili del fuoco: un incredibile 40% dell’intero corpo statale. Vengono pagati circa 3 dollari l’ora, con un extra di due quando vanno tra le fiamme; molto più della media dei carcerati dedicati ad altre mansioni (che prendono tra gli 8 e i 45 centesimi) ma infinitamente meno dello stipendio di un professionista, che parte da 40 mila dollari l’anno. E molto meno dura anche il loro addestramento: tre settimane contro i tre anni dei civili. Il primo campo dedicato ai prigionieri-pompieri fu aperto in California nel 1946 e oggi, racconta il New York Times Magazine, ce ne sono anche tre solo per le 250 donne che hanno aderito al programma. Con gli spazi all’aria aperta, le biblioteche, il barbecue per quando arrivano i parenti, le sessioni di yoga e meditazione e il senso di comunità che li caratterizza rappresentano una alternativa relativamente allettante al carcere. Ma il lavoro è duro - i Marines dei vigili del fuoco li chiamano - e molte associazioni protestano che con una paga meno che simbolica la loro equivalga a una forma di schiavitù. E fanno pressioni sullo Stato, che grazie a questo programma risparmia la bellezza di 100 milioni di dollari l’anno, affinché dia ai detenuti almeno delle prospettive. Oggi invece quanti usciti dal carcere volessero proseguire la carriera di vigili del fuoco in modo professionale si vedrebbero sbattere la porta in faccia dai comandi di molte contee. A Marquet Jones, che sta al campo Rainbow vicino San Diego, non importa. "Mi fa sentire bene vedere i bambini con i cartelli "grazie per aver salvato la mia casa"", dice al Times. Ma con un training così limitato, il problema della sicurezza sta facendo scendere le adesioni (-13% in nove anni, secondo il San Francisco Chronicle). A maggio un albero caduto ha ucciso un detenuto, a luglio un altro ha perso la vita dopo essersi tagliato accidentalmente con una motosega. E l’anno scorso a febbraio è morta la prima donna: Shawna Lynn Jones, aveva 22 anni e le mancavano due mesi per tornare a casa. Venezuela. Sulla frontiera dei disperati che fuggono da Maduro di Emiliano Guanella La Stampa, 4 settembre 2017 A Cucuta, dove ogni giorno cinquantamila venezuelani scappano verso Bogotà Sono soprattutto giovani e donne. Chi passa può portare con sé solo una valigia. A San Antonio de Tachira arrivano autobus pieni di gente da tutto il Venezuela; sono soprattutto giovani uomini e donne, che hanno raccolto durante mesi i soldi necessari per il viaggio e adesso iniziano una nuova vita. Ogni giorno cinquantamila persone passano la frontiera. Un terzo di loro va e viene in giornata per fare "mercado"; comprare beni di prima necessità introvabili in patria. La lista è enorme, dagli alimenti, all’igiene personale, alle medicine. L’ospedale municipale di Cucuta è collassato, la coda è lunga soprattutto per rimediare i vaccini per i bambini. Uno si potrebbe aspettare un clima pesante, ostile, ma non è così; chi passa la frontiera ha sempre una storia da raccontare e non si fa problemi a parlare in una mattinata tipicamente tropicale, il sole cocente e poi un acquazzone che sembra portarsi via le tende verdi e bianche della polizia e degli agenti migratori colombiani. Fabiola ha 27 anni, carica un trolley e uno zaino in spalla, sta andando in Ecuador. "A Caracas studiavo amministrazione d’impresa, vado a Quito perché mi hanno detto che è più facile trovare lavoro lì rispetto alla Colombia. La mia famiglia mi ha aiutato a mettere insieme i soldi per il viaggio, là pagano in dollari; sono disposta a fare qualsiasi lavoro pur di poterli aiutare". È uno dei tanti giovani in fuga dal Paese di Nicolas Maduro. "Ormai resta poca gente della mia età. Quasi tutti i miei compagni d’università lavorano come disperati e poi partono. Al governo, in fondo, conviene che ce ne andiamo, ma noi speriamo di poter tornare quando loro se ne saranno andati". Allegria e tristezza sono i sentimenti dominanti. Felici di andarsene, distrutti dagli addii. Jaime ha lasciato a Carabobo la moglie e la figlia di undici mesi. A 21 anni è pronto a cambiare vita. "Quando sono salito sull’autobus ho sentito una fitta nel cuore, ho pianto tutta la notte. Ma adesso che ho passato la frontiera devo cambiare chip; voglio andare in Cile, trovare un lavoro e far venire i miei il più presto possibile". Sono più di un milione i venezuelani emigrati in Colombia negli ultimi tre anni. A loro si aggiungono almeno 500.000 colombiani che erano andati a lavorare in Venezuela durante gli anni del boom petrolifero e dei sussidi di Chavez e che adesso rientrano. In mezzo ci sono tantissime famiglie miste, un ponte fra due Paesi le cui relazioni non sono mai state particolarmente facili. Due anni fa Maduro decise di chiudere le frontiere, poi le riaprì ma solo per il transito pedonale e così anche il commercio si è paralizzato. Puoi passare, di fatto, solo con una valigia, l’alternativa è affidarsi alle "trochas", i contrabbandieri che attraversano i fiumi e i boschi, ma si corre il rischio di venire derubati. A Cucuta si è installato di recente un panettiere di San Antonio, che è riuscito a portare di nascosto i forni con una chiatta sul fiume nel buio della notte. In città il clima è da emergenza. Da quando sono iniziati gli scontri a Caracas, nello scorso aprile, il flusso di venezuelani è aumentato esponenzialmente. Non sapendo dove andare, molti di loro pernottavano nella piazza del Municipio e non erano poche le famiglie colombiane che portavano loro piatti caldi, acqua, vestiti. Dopo qualche settimana la situazione è diventata insostenibile e il sindaco ha ordinato lo sgombero. Ci sono una dozzina di mense sempre affollate nel centro dei padri scalabriniani guidato da don Francesco Bortignon. Intorno alla parrocchia "La Milagrosa" si è formata una gigantesca bidonville, dove ogni giorno arrivano nuovi migranti. "Cerchiamo di aiutarli il più possibile - spiegano - ma non possiamo rispondere a tutti. Vagliamo le situazioni più gravi e le sottoponiamo all’attenzione dell’Acnur, del Consiglio norvegese dei diritti umani o della Croce Rossa Internazionale". Non sono rari i casi di bambini "senza patria"; nati in Venezuela da almeno un genitore colombiano, non hanno i documenti e per questo non possono andare a scuola, né ricevere assistenza sociale. Un altro grande problema consiste nel fatto che buona parte degli ultimi arrivati è senza passaporto, perché averlo in Venezuela costa moltissimo. Alla frontiera i migranti ricevono uno speciale tagliando per soggiornare unicamente in quella zona, ma che non vale niente se vanno a Cali, Bogotà o Medellin. Chi ha le carte in regola, invece, si sposta verso l’Ecuador, il Perù, il Cile o l’Argentina. O, ad Est, nello Stato brasiliano di Rondonia e da lì verso San Paolo, Belo Horizonte o Rio de Janeiro. Un’"invasione" venezuelana che si vede nel volume delle rimesse; da diverse città sudamericane i profughi mandano dollari proprio a Cucuta, dove vengono ritirati da parenti o amici e portati di nascosto ai famigliari in patria. Fra una settimana il Papa arriva in Colombia e i venezuelani vorrebbero incontrarlo per chiedergli aiuto. Il Vaticano cerca da tempo di mediare fra le parti, ma finora senza successo. Dopo la deriva autoritaria di Caracas le cose sembrano poter solo peggiorare. Le autorità colombiane prevedono un flusso di altri due milioni di venezuelani nei prossimi mesi. Mentre il governo bolivariano mostra i muscoli e risponde con goffe esercitazioni militari alle minacce di Donald Trump, la crisi è diventata regionale e assume sempre di più i contorni della catastrofe umanitaria.