Legnini: "Mancano 1.200 magistrati. Ma la giustizia migliora senza aspettare le riforme" di Fabrizio Massaro Corriere della Sera, 3 settembre 2017 Legnini: procedure più rapide per le esecuzioni immobiliari. "La produttività dei magistrati è positiva, seppur in lieve rallentamento". Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, forse preferirebbe la scure. Ma anche il fioretto può essere utile, quando si tratta di aggredire alcuni nodi storici della giustizia. È così, pur lamentando 1.200 magistrati in meno e la necessità di leggi nuove, insiste che già oggi si può fare molto per migliorare l’efficienza della giustizia. Legnini, dal forum The European House - Ambrosetti di Cernobbio emerge che la giustizia migliora nei tempi delle decisioni. Il problema però è che è ancora solo un dato statistico. "I miglioramenti ci sono, ma la positiva evoluzione delle performance è differenziata sul territorio nazionale. I dati ci dicono che i migliori uffici giudiziari italiani sono già oggi in linea con gli standard europei. Il che significa che è possibile vincere la battaglia dell’efficienza della giustizia civile nel nostro paese. La produttività dei magistrati è positiva, seppur in lieve rallentamento. Ormai da anni vengono smaltiti più processi di quanti ne entrano. Ma il problema più rilevante è costituito dall’arretrato che benché in riduzione ancora oggi è di 4,4 milioni di cause. Ed è proprio per dare priorità alla definizione dei processi ultra-triennali che il Csm ha emanato una specifica circolare". Ma in concreto che cosa si può migliorare a legislazione vigente? O una riforma è inevitabile? "La stabilità della legislazione è necessaria per migliorare l’efficienza. Ma servono anche riforme organiche, a cominciare da quelle che attendono di essere approvate come il processo civile e la legge fallimentare. Il percorso potrà essere ancor più virtuoso solo se si verificherà una combinazione tra buone riforme e loro stabilità nel tempo, più personale amministrativo e di magistratura e crescita della cultura dell’organizzazione degli uffici, obiettivo su cui il Csm sta producendo un grande lavoro. A fronte delle gravi carenze di personale e magistrati, il ministro della Giustizia ha già disposto nuove assunzioni che bisogna completare e aumentare, immettendo giovani. Inoltre, mancano più di 1.200 magistrati, anche in virtù della norma di riduzione dell’età pensionabile. Occorrono concorsi straordinari". Che cosa avete introdotto nell’organizzazione? "Numerose innovazioni che riguardano sia il processo civile che temi di straordinaria attualità, quali i procedimenti sul diritto d’asilo, la lotta al terrorismo e stiamo lavorando sulla violenza di genere e il femminicidio. Si tratta di un grande cambiamento culturale nel governo autonomo della magistratura. Per l’efficienza del processo civile le cito le più importanti: il manuale delle buone prassi che oggi costituisce un riferimento per tutti gli uffici; la circolare sul cosiddetto filtro in appello e sulla motivazione semplificata delle sentenze, dalla quale ci aspettiamo risultati significativi per la fase di appello, che è quella più problematica. Stiamo, inoltre, definendo linee guida per accelerare i tempi delle esecuzioni immobiliari". Questa è una richiesta fissa dell’Abi, perché porta a dare più valore ai crediti deteriorati e in sofferenza e quindi a minori perdite per le banche che devono venderli. "L’iniziativa riguarda tutti i creditori, non solo le banche. È inutile sottolineare quanto sia essenziale la celerità delle procedure esecutive per accrescere la competitività del sistema economico. Una procedura celere ed efficace consente un effettivo rispetto dei diritti dei creditori ma corrisponde anche ad un interesse dei debitori, ad esempio per porli nelle migliori condizioni di optare per soluzioni alternative all’esecuzione forzata". Ma come si interverrà? "Proveremo ad utilizzare tutti gli spazi disponibili a legislazione invariata per eliminare i tempi morti della procedura, semplificare gli adempimenti, stimolare gli ausiliari del giudice, come i consulenti tecnici a rispettare i tempi prefissati per le stime, oltre a numerose altre misure organizzative. Ma non posso anticiparle molto perché la decisione conclusiva spetterà al plenum". Il tribunale civile delle imprese sta funzionando. È possibile pensare anche a un tribunale penale delle imprese? "Il modello del tribunale delle imprese è efficace. I tempi medi delle decisioni sono molto soddisfacenti e va sempre più consolidandosi la specializzazione dei magistrati che vi operano. Estendere a tali sezioni specializzate anche la competenza penale è una proposta interessante ma complessa da realizzare. Personalmente sarei favorevole, a condizione che vengano aumentati organici e mezzi". Luigi Berlinguer: "la magistratura non ha alcuna missione salvifica" di Giulia Merlo Il Dubbio, 3 settembre 2017 "Il magistrato deve individuare il reato e perseguire il reo, non il fenomeno corruttivo. Risanare le istituzioni dalla corruzione e dalle altre patologie sociali è una funzione della politica". "La corruzione deve essere combattuta dalla politica. Guai se la magistratura si sentisse investita del compito salvifico di perseguire i fenomeni, invece dei singoli reati". Luigi Berlinguer, ex ministro dell’Istruzione ma anche professore di Storia del diritto e già membro laico del Csm, analizza il delicato rapporto tra politica e giustizia, "poteri che, se interferiscono uno con l’altro, generano una patologia del sistema democratico". Professore, esiste oggi in Italia un conflitto tra politica e magistratura? No, ma c’è il rischio che accada e, se così fosse, la democrazia entrerebbe in crisi. Il pericolo è connaturato al fatto che una parte dell’attività giudiziaria ha un risvolto politico inevitabile e, proprio per questo, è necessario riflettere a fondo su che cosa spetti alla politica e che cosa alla magistratura. Che cosa spetta alla magistratura? Le rispondo con un esempio. Il fenomeno più odioso di questa fase politica è la corruzione, il reato commesso da un attore politico che trae guadagno personale dalla sua attività istituzionale. Chi deve sanare il Paese da questo fenomeno? Non la magistratura, anche se può derivarne un contributo indiretto, è la mia risposta. Alcuni magistrati non sarebbero forse d’accordo, ma avrebbero torto. Ma chi deve combattere la corruzione, se non il magistrato? Il compito del magistrato è individuare il reato e perseguire il reo. Ripeto: il reo, non il fenomeno corruttivo. L’azione della magistratura deve rivolgersi a un soggetto, sia esso individuale o associativo, ma non a una patologia sociale. Guai se i magistrati si sentissero investiti di questa missione salvifica: deborderebbero dalla loro funzione. Risanare le istituzioni dalla corruzione è, per contro, una funzione squisitamente politica. Dunque risanare le istituzioni è compito della politica. Ma, oggi, ha la forza per farlo? Rifiuto il pessimismo dei luoghi comuni, secondo cui la politica non è in grado di migliorare se stessa. Tuttavia la politica va responsabilizzata, non commissariata. Ciò che bisogna fare è aumentare il tasso di consapevolezza dell’elettore, perché è il popolo a decidere le sorti della politica, non la magistratura. La politica deve crescere una nuova classe dirigente rispetto a quella che si è rivelata inadeguata, e i cittadini devono sentirsi investiti del compito di promuoverla. E politica e magistratura non s’incontrano mai in un argine così stretto? Può essere comprensibile una reazione al malcostume che spinga i magistrati a interferire con la politica, ma si tratta comunque di una patologia del sistema democratico. La strada è quella tracciata dalla Costituzione: l’articolo 27 stabilisce che il reato è personale e come tale va perseguito; e questo si coniuga con l’obbligatorietà dell’azione penale, per la quale il magistrato ha il dovere di perseguire reati, specifici e circoscritti. Alla politica, invece, spetta il compito di combattere i mali della società con le armi sue proprie, che non sono le sentenze. Eppure, in un periodo di debolezza della politica, sembra quasi che la magistratura ne abbia ricopiato molti connotati. Penso alla deriva correntizia dei suoi organismi dirigenti. Io, che ne ho fatto parte, considero la nascita di Magistratura democratica un grande evento culturale che ha contribuito al cambiamento del nostro Paese. In passato, le correnti più sensibili della magistratura hanno dato un contributo fondamentale, nel pieno rispetto della loro funzione giurisdizionale, all’adeguamento dei nostri principi giuridici in chiave costituzionalmente orientata. Tuttavia, considero la spinta correntizia in magistratura come figlia di un aspetto criticabile della nostra cultura: in Italia ci sembra naturale politicizzare tutto, e in ogni ambito creiamo correnti di destra e di sinistra. Come spiega questo fenomeno? È il frutto di un elemento storico: nel nostro Paese la politica ha spesso messo il becco in campi non suoi, anche se i partiti hanno assunto una missione salvifica di emancipazione culturale, soprattutto a sinistra. Oggi, però, assistiamo al fenomeno degenerativo che tende a politicizzare in modo estremo anche campi dove ciò non dovrebbe essere naturale. Disgraziatamente, tutto questo avviene mutuando perfettamente le stesse sfaccettature ideologiche della cultura politica. Un fenomeno, questo, inimmaginabile in altri stati europei, che hanno una storia democratica molto più lunga della nostra. Ricordo ancora lo stupore dei colleghi, agli incontri internazionali, quando constatavano la valenza politica del ruolo di giudice in Italia. Rimanevano allibiti di fronte al fatto che il Csm fosse diviso in correnti. A proposito di scontri ideologici, l’istituto che è stato maggiormente al centro del dibattito pubblico recente è quello della prescrizione. Lei che cosa ne pensa? La prescrizione è un istituto fondamentale del nostro ordinamento, perché riconosce agli individui la loro natura di esseri umani. Questo istituto, infatti, avvalora la funzione sanante dello scorrere del tempo: l’individuo non può essere sottoposto "biologicamente" all’azione penale e la prescrizione sancisce che, se lo Stato non è in grado di accertare in un congruo lasso temporale la colpevolezza, perde il diritto di farlo. Il tempo come categoria del diritto, dunque? Il tempo è la base giuridica della nostra civiltà: ricorda in qualche modo il brocardo romanistico, tempus regit actum. Prenda l’usucapione: chi possiede legittimamente una cosa non sua e la usa per un lasso di tempo, poi ne diventa proprietario senza compiere atti ulteriori. È il tempo che glielo concede, perché muta i diritti dei singoli. Così, nel diritto penale, se la colpevolezza non viene accertata in modo inequivoco e definitivo entro un certo periodo, il tempo cancella il reato. Lo stabilisce la legge: la prescrizione è causa di estinzione del reato. Il riconoscimento della storicità degli individui è una grande conquista di civiltà giuridica, perché impedisce che gli individui diventino "biologicamente" imputati. Del resto, il tempo è il fondamento anche della pena: la si sconta e il trascorrere del tempo sana la condotta delittuosa. L’ordinamento riconosce la finalità rieducativa della pena proprio perché il tempo fa mutare l’individuo il quale, una volta pagato il proprio debito con la giustizia, ritorna cittadino e si reinserisce nella società. Eppure si può obiettare che, con la prescrizione, si favorisce l’impunità. Sono consapevole che una cultura rigorista intenda la prescrizione in questi termini, perché in passato la politica ha davvero abusato del proprio potere per ridurre i tempi di prescrizione, con in mente questo obiettivo. Naturalmente, la durata della prescrizione è importante e va decisa in modo coerente per non lasciare spazio ad aberrazioni. Presentato in questi termini, tuttavia, l’istituto è interpretato al contrario. Che cosa intende? La prescrizione non sancisce l’impunità del cittadino ma la responsabilità dello Stato: è una severa condanna del sistema giudiziario che non è stato in grado per sua inefficienza di esercitare l’azione penale e di giungere a sentenza definitiva. La prescrizione è strettamente legata al principio della presunzione di innocenza. Eppure, oggi, anche questo è messo in crisi. La presunzione di innocenza è un magnifico principio di democrazia, che ha valore culturale prima ancora che processuale. Eppure consideri che ci sono voluti molti secoli perché si affermasse storicamente e, oggi, viene messo in crisi soprattutto dal cosiddetto processo mediatico. I media hanno una enorme responsabilità nel condizionare l’opinione pubblica in chiave giustizialista, veicolando la concezione che l’iniziativa giudiziaria sia già di per sé una condanna. Perché i media si sono gettati sulla giustizia in modo così famelico? Perché il processo è come una rappresentazione teatrale: con la dialettica delle due parti, un giudice e la trattazione di vicende personali. Il processo è una storia narrata che piace in quanto tale, che essa si celebri in tribunale o in televisione. Il rischio, però, è quello che gli individui vengano condannati mediaticamente malgrado l’assoluzione giurisdizionale, e non c’è giustizia in questo. Si tratta di un dato della realtà di cui la politica e la magistratura devono necessariamente tenere conto nella loro azione presente e futura. Ma è così semplice influenzare l’opinione pubblica? In realtà questo è il sintomo di due elementi. Da una parte la società e e istituzioni hanno ancora tratti di ingiustizia marcata, perché basta un’ipotesi di reato per suscitare reazioni indignate da parte della collettività, che si sente succube di un sistema iniquo. Dall’altra, dimostra come la nostra democrazia non sia ancora del tutto matura, perché non c’è sufficiente fiducia nelle istituzioni deputate a combattere questa ingiustizia. Rimane, infine, il fatto che colpevolizzare è infinitamente più semplice. Il giustizialismo è più facile del garantismo? Ma certo, perché non richiede del tutto la razionalità e il senso di responsabilità personale. La notitia criminis fa notizia perché eccita il probabile senso di ingiustizia della gente. È umano che questo accada, ma la conseguenza è la richiesta umorale di una reazione dura e soprattutto immediata rivolta all’ordine costituito. Sa di che cosa è l’anticamera questo? Dei regimi totalitari, come insegna la storia. Guai a cadere nella tentazione dei processi sommari, ovvero la massima forma di ingiustizia possibile che è lo sparare nel mucchio. E non importa se si colpisce il colpevole o l’innocente, basta che si sazi la sete della folla. E come si fa a impedire che ciò accada? Anzitutto rimanendo saldi nei principi di giustizia: i colpevoli vanno condannati e in modo più celere di come non si faccia oggi, ma sempre secondo le regole del diritto. L’unico modo per rafforzare la democrazia è far funzionare la giustizia, perché il popolo tocchi con mano che l’ordinamento tutela alla pari il debole e il forte. Fare giustizia, per le donne e per battere la xenofobia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 settembre 2017 La decisione dei due giovani fratelli di consegnarsi ai carabinieri per confessare gli stupri della ragazza polacca e della trans peruviana avvenuti a Rimini la notte tra il 25 e il 26 agosto, è una buona notizia. Le indagini diranno se i colpevoli sono davvero loro, ricostruiranno che cosa è accaduto quella terribile notte, individueranno eventuali altre responsabilità. Ma intanto si intravede la possibilità di rispondere alle istanze delle vittime che da giorni invocano giustizia. Le altre aggressioni compiute in questi giorni in varie parti d’Italia hanno fatto riemergere la gravità di un problema troppo spesso sottovalutato, che invece è una vera e propria piaga. Perché - lo abbiamo già evidenziato - in Italia solo il 7 per cento delle violenze sessuali viene denunciato. E questo dato, se la percentuale fosse più alta la realtà non sarebbe diversa, dimostra che la maggior parte degli episodi avviene in famiglia o comunque nella cerchia di amici e conoscenti. Le donne hanno paura a dirlo, spesso si vergognano. Oppure temono le conseguenze. Dunque preferiscono tacere e molto spesso continuare a subire. Accade alle italiane, accade in maniera ancora più grave alle straniere, spaventate all’idea di finire loro stesse sotto accusa in un Paese che non è la propria patria. E invece è importante far sentire tutte le donne al sicuro, far sapere loro che se decideranno di ribellarsi al proprio aguzzino troveranno ascolto e aiuto. A maggior ragione se si tratta del marito, del fidanzato, dell’amico di famiglia. Nelle ultime ore il governo è tornato ad annunciare interventi con il sottosegretario Maria Elena Boschi che ha parlato ancora una volta di "un piano e di 6o milioni già stanziati". In realtà sembra l’ennesima promessa visto che i finanziamenti sono fermi da tempo e molti centri antiviolenza sono stati costretti a chiudere mentre altri non riescono a funzionare al meglio proprio perché non hanno soldi e strutture adeguate. Per combattere questo orrore bisogna avere il coraggio di uscire allo scoperto, di denunciare per tornare a essere libere. Ma bisogna anche non aver paura di segnalare che un’alta percentuale di arrestati è straniera, proviene da Paesi dove la cultura impone alla donna di essere sottomessa al maschio. E anche su questo bisogna intervenire con una campagna di informazione che coinvolga i migranti, gli operatori che hanno a che fare con chi arriva nel nostro Paese, i leader delle comunità. È la strada che serve anche a battere il razzismo, la xenofobia, il populismo di chi vorrebbe criminalizzare gli stranieri per essere poi giustificato quando dice che "bisogna cacciarli tutti". Carcere per chi falsifica le mail di Lucia Izzo studiocataldi.it, 3 settembre 2017 Corte di Cassazione, sentenza n. 39768/2017. La Cassazione conferma la condanna per una dipendente comunale che ha falsificato la notifica di ricezione di una mail. Rischia il carcere chi falsifica le mail oppure l’avvenuta ricezione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, V sezione penale, nella sentenza n. 39768/2017 con cui ha confermato la condanna a otto mesi di reclusione, sospesi con la condizionale, a una donna che aveva falsificato la notifica di ricezione di una mail. In particolare, l’imputata era stata condannata ex art. 617-sexies c.p. (Falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche) poiché, in quanto dipendente comunale, aveva formato falsamente e inviato alla persona interessata, facendone così uso, la notifica di avvenuta lettura della e-mail di convocazione, in realtà mai pervenuta alla stessa, per un colloquio per il posto di agente di Polizia Municipale. Tutto questo allo scopo di occultare la propria responsabilità relativamente all’invio di tale comunicazione all’indirizzo e-mail errato, errore che aveva determinato l’esclusione della concorsista dalla graduatoria. La condotta del delitto punito dall’art. 617-sexies c.p., precisano i giudici, consiste nel formare, falsamente, in tutto o in parte, il testo di una comunicazione informatica o telematica, ovvero nell’alterare, sopprimere, in tutto o in parte, il contenuto di una comunicazione informatica o telematica vera, anche se solo occasionalmente intercettata, allo scopo di procurarsi un vantaggio o di arrecare ad altri un danno. Il reato, pur inserito nel corpo della sezione dedicata ai delitti contro l’inviolabilità dei segreti, delinea una particolare figura di falso, caratterizzata in ragione del suo oggetto: il dolo richiesto per l’ipotesi delittuosa in esame è specifico e consiste infatti nella coscienza e volontà di procurarsi direttamente o indirettamente un vantaggio, non necessariamente di carattere patrimoniale, o di recare ad altri un danno. Deve poi essere oggettivamente riscontrabile, in conseguenza dell’azione del soggetto agente, la materiale alterazione o soppressione dell’informazione attinta. Occorre infine che dell’alterazione compiuta l’agente abbia fatto uso o abbia semplicemente tollerato un uso a opera di altri; deve quindi esservi stata consapevolezza della diffusione esterna di una rappresentazione informativa non genuina o non corrispondente a verità. Inutile per la ricorrente insistere sulla mancanza del "corpo del reato" (che avrebbe potuto essere solo un documento informatico) e sulla mancata ispezione tecnica e verifica peritale dei personal computer sia della denunciante, sia della denunciata, senza la quale non avrebbe potuto ritrarsi alcuna certezza circa la pretesa falsificazione informatica. La prova della falsificazione del documento informatico, prosegue il provvedimento, può essere ricavata da un esame tecnico diretto delle memorie dei due computer interessati e tuttavia può essere raggiunta, in modo convincente e oltre ogni ragionevole dubbio, anche sulla base di elementi probatori differenti da una perizia tecnica, che dimostrino in modo certo l’avvenuta alterazione. Nella fattispecie gli elementi di prova raccolti e analizzati confortavano comunque, al di là del ragionevole dubbio, la ritenuta sussistenza della falsificazione, pertanto è legittima la condanna della donna posto che la cornice edittale prevista dalla norma punisce il colpevole con la reclusione da uno a quattro anni. Sardegna: concluso il tour Partito Radicale nelle carceri dell’isola buongiornoalghero.it, 3 settembre 2017 La Carovana per la Giustizia del Partito Radicale ha concluso il tour in tutte le carceri della Sardegna, altre 38 firme raccolte per la pdl sulla separazione delle carriere tra pm e giudice. Arrivati sull’isola il 28 agosto si imbarcheranno domani, 3 settembre, gli esponenti del Partito Radicale che, con il carcere di Mamone, hanno concluso la visita di tutti e dieci i centri detentivi dell’isola. Vogliamo ricordare alcuni passaggi del dibattito di ieri avvenuto a Nuoro, nell’area dell’Ex Me organizzato dalla Camera Penale di Nuoro. Irene Testa, membro presidenza del Partito Radicale, che anche moderato l’incontro ha ricordato che "durante questa Carovana abbiamo riscontrato una situazione che per un verso si potrebbe considerare un vanto per la Sardegna: la situazione delle colonie penali agricole - istituite in primis proprio dai sardi - andrebbero a mio avviso maggiormente sostenute perché sono un modello di detenzione importante che è andato via via scomparendo e che invece andrebbe esportato anche a livello nazionale. Ci sono però anche delle situazioni molto critiche: abbiamo visitato le carceri di Uta, Tempio Pausania, Alghero, Cagliari e Nuoro e abbiamo notato come la popolazione detenuta nelle carceri sarde, ma anche in quelle nazionali, è una popolazione molto povera, una popolazione soprattutto malata. Nel carcere di Cagliari abbiamo potuto constatare che su 600 detenuti, circa 300 sono malati psichiatrici, persone difficili da curare e con delle patologie importanti; il carcere non è il luogo adatto per ricevere una cura". Salvatore Murru, Presidente della Camera Penale di Nuoro che ha spiegato come un dibattito in una pubblica piazza sia "una preziosa opportunità per aprirsi anche all’esterno, per fare in modo che queste discussioni così importanti su principi così basilari come la terzietà del giudice, quindi la separazione delle carriere, non rimangano ristrette in ambiti del modo accademico, ma vadano anche a contatto con l’opinione pubblica. Riguardo alle visite in carcere del Partito Radicale è importante che i detenuti siano coinvolti nel dibattito su momenti di politica giudiziaria, diversamente avrebbero solo l’occasione di leggere i giornali". Francesco Lai, componente della Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane con delega per il carcere, iscritto al Partito Radicale ha spiegato che "abbiamo deciso di coltivare l’iniziativa legislativa popolare perché purtroppo è l’unico strumento che è rimasto. La battaglia per la separazione delle carriere è la battaglia storica dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che è un’associazione che vive da oltre 40 anni. Purtroppo non ha trovato terreno fertile nella politica, nei partiti politici. Come Giunta abbiamo avuto un incontro con il ministro Orlando lo scorso anno che si è dimostrato molto sensibile per quanto riguarda la riforma dell’ordinamento penitenziario. Tuttavia sono argomenti che non ricevono il consenso dell’opinione pubblica, la politica spesso e volentieri agisce esclusivamente o prevalentemente per la ricerca del consenso popolare. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati, parlare di civiltà all’interno delle carceri, parlare di ergastolo come pena di morte nascosta come ha fatto il Papa significa fare appelli regolarmente caduti nel vuoto, perché i partiti politici li hanno regolarmente ignoranti". Anche Roberto Deriu, Consigliere regionale Pd, già presidente della Provincia di Nuoro iscritto al Partito Radicale è intervenuto annunciando anche l’iscrizione dell’avvocato Massimo Lai già sindaco di Ottana e noto penalista sardo: "spero che anche miei colleghi e cittadini nuoresi vogliano iscriversi al Partito Radicale perché oggi è importante sostenere il Partito Radicale Transpartito, cioè al di là degli schieramenti politici nazionali, che lotta per il diritto, per la giustizia, per la libertà e per i valori dell’umanità così come possono esprimersi nella realtà concrete. Per questo si parte dalle carceri, per questo si illuminano quei luoghi bui dove la nostra società vuole rinchiudere le cose scomode, i suoi prodotti scomodi". Salerno: "a Fuorni violati i diritti umani", Radicali e Fi in visita ai detenuti di Viviana De Vita Il Mattino, 3 settembre 2017 Celle piccole e sovraffollate: il penitenziario di Fuorni che, con una capienza regolamentare di 380 detenuti ne conta circa 500, è illegale. È quanto hanno affermato il senatore di Forza Italia Franco Cardiello e il segretario dell’associazione Radicale "Maurizio Provenza" Donato Salzano, dopo la visita di ieri presso la sezione di alta sicurezza del carcere cittadino organizzata durante il grande Satyagraha nelle carceri, iniziato lo scorso 16 agosto e a cui hanno già aderito con lo sciopero della fame più di settemila ristretti. Sessantaquattro i detenuti della sezione alta sicurezza del penitenziario cittadino che hanno messo in atto la forma di protesta non violenta per sollecitare il Governo a varare i decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario già approvato dal Parlamento con una legge delega. Drammatica e, a tratti "esplosiva", la situazione riscontrata dalla delegazione all’interno della sezione di alta sicurezza, la prima visitata dalla delegazione che nei prossimi mesi ispezionerà anche gli altri reparti del penitenziario, dove - ha affermato Cardiello - "all’interno di una cella sono stipati fino a sette detenuti in aperta violazione a quanto sancito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Torreggiani che ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani". "La situazione a Fuorni - ha affermato Cardiello - è esplosiva; non è tollerabile vedere ‘ammucchiati’ in una stanza fino a sette detenuti: quelle celle sono invivibili. I ristretti della sezione di alta sicurezza, che a differenza degli altri reclusi non possono beneficiare del regime aperto, hanno inoltre diritto solo a 90 minuti d’aria la mattina e il pomeriggio: davvero troppo poco per degli esseri umani". All’interno delle strette e anguste celle del carcere di Fuorni, l’onorevole Cardiello si è fatto portavoce del diritto all’affettività dei reclusi: così, anche grazie alla disponibilità del comandante degli agenti di polizia penitenziaria, è stato concesso ad un detenuto che ne ha fatto richiesta, di consegnare ai suoi bambini di 2 e 4 anni rispettivamente, dei giocattoli. "La battaglia che noi radicali portiamo avanti - ha affermato Donato Salzano - è legata all’attuazione del nuovo ordinamento penitenziario: il Governo deve urgentemente emanare i decreti attuativi della legge che ha già approvato il parlamento sul nuovo ordinamento penitenziario che, tra l’altro, prevede proprio il diritto all’affettività dei detenuti. Un’altra violazione dei diritti che abbiamo riscontrato a Fuorni riguarda proprio il rapporto dei ristretti con le proprie famiglie ed, in particolare, con i bambini. Una volta nel penitenziario cittadino c’era un’area verde all’interno della quale i reclusi potevano incontrare i loro figli: ora anche questo diritto è stato negato". Trani: convalide degli arresti e processi per direttissima si terranno in carcere traniviva.it, 3 settembre 2017 Si azzerano le traduzioni in tribunale degli arrestati in attesa dell’udienza di convalida d’arresto e del processo per direttissima. È la conseguenza del protocollo d’intesa che avrà effetto da lunedì, siglato dal presidente del tribunale Antonio De Luce, dal procuratore della Repubblica Antonino Di Maio, dal presidente dell’ordine degli avvocati Tullio Bertolino, dalla direttrice degli istituti di pena tranesi, Angela Anna Bruna Piarulli, e dal provveditore per la Regione Puglia, Carmelo Cantone. Le udienze in questione si svolgeranno nelle aule della caserma degli agenti di polizia penitenziaria del carcere maschile tranese. A recarsi nel carcere di Via Andria per le udienze di convalida o di processo per direttissima saranno anche i detenuti "in attesa" ai domiciliari e le donne finite col provvedimento d’arresto nel penitenziario femminile di Piazza Plebiscito. Le udienze si celebreranno dal lunedì al sabato, iniziando sempre alle 11. Saranno, dunque, i magistrati a recarsi in carcere piuttosto che i detenuti in tribunale, con conseguente minor impiego della polizia penitenziaria nel servizio traduzioni. Le udienze del processo per direttissima sono pubbliche e così chiunque potrà assistervi, così come accade in tribunale, sottoponendosi ai controlli previsti all’ingresso del carcere. Il protocollo è integralmente consultabile sul sito dell’ordine forense tranese: ordineavvocatitrani.it. Napoli: "inumana detenzione", ex detenuto ottiene risarcimento dallo Stato di Emanuela Belcuore Il Mattino, 3 settembre 2017 Verdetto della Corte Europea 9.176 euro per 1.147 giorni a S. Maria C.V. e Secondigliano. Negli ultimi anni, anche per effetto di alcune battaglie politiche e sociali, diversi detenuti hanno presentato istanza alla Corte Europea per ottenere il risarcimento in merito all’inumana detenzione. È il caso di F.T., residente a Maddaloni, che dal 2004 all’aprile 2012 ha scontato la condanna per reati relativi allo spaccio di stupefacenti, in diversi istituti carcerari italiani: Secondigliano e Santa Maria Capua Vetere in primis, dopodiché è stato trasferito prima a Melfi e poi a Rebibbia. L’ inumana detenzione è stata riconosciuta per il periodo che l’uomo ha scontato nel carcere di Secondigliano e Santa Maria Capua Vetere; 1147 giorni trascorsi in condizioni disumane, per cui è stato previsto un risarcimento di 9.176 euro, visto che la legge prevede otto euro al giorno. Nel 2015, l’ex detenuto, ha chiesto che gli venisse accertato e riconosciuto il pregiudizio dei propri diritti, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, patito durante il proprio periodo di reclusione. Il quadro normativo è rappresentato dall’articolo 35 della legge 354 del 1975, introdotto dal decreto legge 92 del 2014, convertito nella legge 117 del 2014, che ha regolamentato i rimedi risarcitori conseguenti alla violazione proprio dell’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nei confronti di soggetti reclusi, a fronte del quale, nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti degradanti o inumani. Il periodo detentivo deve avvenire all’interno di un quadro che rispetti e salvaguardi la dignità del detenuto, sia per quanto riguarda la metratura delle celle e la funzionalità dei servizi igienici sia per quanto riguarda l’ora d’aria, l’utilizzo dell’acqua, e della luce e degli altri servizi. Ad emettere la sentenza il giudice Marina Tafuri, del tribunale di Napoli, la quale ha riconosciuto la condanna del Ministero della Giustizia, al pagamento della somma in favore del ricorrente. Vigevano (Pv): il senatore Orellana e i Radicali Italiani visitano il carcere di Stefano Zanette Il Giorno, 3 settembre 2017 Dopo la rissa scoppiata ad agosto, restano i problemi di sovraffollamento dei detenuti e di carenza del personale. "Questa mattina ho effettuato una visita nel carcere di Vigevano, accompagnato da Alessia Minieri e Stefano Bilotti membri della giunta di segreteria e del comitato dei Radicali italiani, rispettivamente. Non è la prima volta che visitiamo la struttura per conoscere la situazione dei detenuti, ma abbiamo ritenuto necessario effettuare un nuovo sopralluogo dopo la rissa scoppiata nel mese di agosto, sulla quale stamane abbiamo ricevuto delle rassicurazioni; la situazione, infatti, sembra stia tornando alla normalità. Sono stati disposti trasferimenti di sezione e in alcuni casi di carcere per alcuni detenuti". Lo riferisce in una nota il senatore pavese Luis Alberto Orellana (Autonomie), che spiega: "Da quanto ci è stato riferito dai responsabili presenti nella struttura, la rissa sarebbe dovuta al tentativo da parte di alcuni detenuti di controllare alcune aree comuni, quali ad esempio i corridoi di accesso alle sale ricreative. Ci sono stati, inoltre, riportati alcuni problemi di integrazione esistenti tra gli stranieri presenti, marocchini in particolare, e gli italiani. Gli stranieri raggiungono il 52% della popolazione carceraria, si tratta di una percentuale molto alta rispetto ad altre strutture". Constatati dalla visita odierna i consueti problemi: troppi detenuti e poco personale. "Nella nostra visita - prosegue il senatore pavese - siamo stati messi al corrente dei problemi legati al sovraffollamento della struttura, che ha raggiunto il 157%, e alla carenza degli agenti. I disagi colpiscono, dunque, sia i detenuti sia l’organico che lavora nella struttura. Molti problemi derivano dalla trasformazione della ex casa circondariale di Vigevano in una casa di reclusione, il che comporta la permanenza dei detenuti per un periodo di tempo assai maggiore, senza che però siano stati attivati adeguati e sufficienti percorsi di recupero e reinserimento. Sul fronte della scolarizzazione della popolazione carceraria si registrano dati incoraggianti; sono invece ancora carenti le attività lavorative per la riabilitazione sociale dei detenuti. Questo è un punto sul quale a mio avviso occorre intervenire con urgenza anche al fine di creare un clima di maggiore serenità e integrazione nel carcere a beneficio dei reclusi e degli agenti in servizio". Nuoro: la Carovana della giustizia del Partito Radicale è arrivata in città La Nuova Sardegna, 3 settembre 2017 La delegazione ha incontrato i responsabili della Camera penale. La Carovana per la Giustizia del partito Radicale fa tappa a Badu e Carros. Ieri mattina i componenti della delegazione accompagnati da alcuni avvocati della locale Camera penale hanno raccolto tra i detenuti del carcere di Badu e Carros le firme per la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere penali Italiane, volta a separare la carriera dei giudici e dei pubblici ministeri. Nel corso dell’iniziativa sono state raccolte ben 101 firme tra i detenuti chiusi all’interno della casa circondariale nuorese. La visita tra le mura di Badu e Carros è stata anche l’occasione per mettere in luce le criticità del carcere barbaricino dove, come sottolinea Irene Testa, membro della presidenza del Partito Radicale: "su 118 posti da capienza regolamentare, i detenuti effettivi sono 156, e bisogna calcolare che 16 celle sono inagibili. Stesso discorso anche per gli agenti di polizia penitenziaria: su 191 previsti da pianta organica ne risultano effettivi solo 139, mentre su 6 educatori solo 3 erano in servizio", denuncia all’uscita dal carcere l’esponente del partito. La manifestazione andata avanti con successo per l’intera giornata, si è conclusa nel pomeriggio con l’evento organizzato negli spazi dell’Exmè dalla Camera penale di Nuoro. L’interessante dibattito è stato animato da Salvatore Murru, presidente della Camera penale nuorese, Francesco Lai, componente della Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane con delega per il carcere, Giovanna Serra, responsabile locale dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi), Matteo Angioli, componente della Presidenza del Partito Radicale, Maurizio Turco, ex deputato e coordinatore Presidenza Partito Radicale, Irene Testa, giornalista parlamentare, Antonio Cerrone, Franco Giacomelli e Flavio Del Soldato. Che ha rimarcato l’importanza del diritto di ogni cittadino ad avere un processo leale, accusa contro difesa, difesa contro accusa. "Oggi però in Italia questo diritto viene negato - ha aggiunto Salvatore Murru, presidente della Camera penale nuorese durante il dibattito. Il cittadino, invece che giocare uno contro uno, gioca uno contro due. Per la Costituzione infatti il giudice deve essere "terzo e imparziale" e deve stabilire chi tra i due ha torto o ragione. Ne consegue che, anche se l’accusa è sostenuta da un magistrato, il Pubblico Ministero, questo deve essere diverso, appunto separato, dal suo collega che fa il Giudice: e, per ottenere questo obbiettivo, l’unica soluzione è quella di prevedere per i magistrati due carriere separate e nessuno deve poter passare da un ruolo all’altro", conclude il presidente della Camera penale nuorese. Cagliari: detenuto 17enne ha tentato di suicidarsi all’Ipm di Quartucciu di Emanuele Concas cagliaripad.it, 3 settembre 2017 Un detenuto algerino 17enne ha tentato di suicidarsi nel corso della notte nel penitenziario minorile di Quartucciu (Ca) dov’erano presenti tre agenti per 15 detenuti. Verso le 3, poco dopo che l’agente addetto al controllo delle sezioni aveva fatto il consueto giro di controlla, ha udito forti rumori provenire dalle sezioni detentive. L’Agente e un Ispettore hanno capito che le voci provenivano da una cella dove hanno trovato il 17enne algerino, che sta scontando una pena per reati legati alla detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, aveva legato attorno al collo dei lacci da scarpe. Il ragazzo è stato immediatamente soccorso e messo in sicurezza dagli agenti in attesa dell’intervento del personale medico del 118 che ha accertato le condizioni di salute del detenuto per il quale non si è reso necessario il ricovero in ospedale. Questo episodio si verifica dopo che abbiamo avuto un incontro sindacale con il dirigente del centro giustizia minorile per la Sardegna dove abbiamo sottolineato la forte carenza del personale di polizia penitenziaria", spiega Giovanni Villa, segretario generale aggiunto della Fns Cisl. "L’Amministrazione abusa e sfrutta la Polizia penitenziaria. Il Dipartimento - dice Villa - non può continuare a girare la faccia dall’altra parte, la Sardegna non può essere ricordata da chi sta a Roma solo per le vacanze. Ormai tutti gli sforzi messi in campo non bastano più e ci si avvicina al tracollo totale". "Al Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità si assumano le responsabilità ed intervengano immediatamente prima che accada l’irreparabile. Oggi si è trattato di un atto dimostrativo - dice Villa - domani potrebbe essere peggio. Senza personale chi garantirebbe il piantonamento in ospedale e sempre che non accada qualcosa di peggio? Pensando come pensano all’Amministrazione basta richiamare chi è in ferie. Ma tutti questi dirigenti che stanno a Roma pagati fior fiore di quattrini per gestire l’Amministrazione rientrano dalle ferie in caso di evento critico? Certo che no, hanno chi interviene per loro. Se paghiamo le tasse - prosegue Villa - vogliamo un’Amministrazione funzionante che rispecchi una società sana e civile quindi chi non è in grado di garantire questo meglio cambi lavoro o stia direttamente a casa. La polizia penitenziaria - conclude il segretario della Fns Cisl - non può essere il capro espiatorio per le loro malefatte per l’incapacità gestionale. Nell’immediatezza si provveda all’invio all’Istituto di Quartucciu di almeno dieci poliziotti". Sondrio: agenti sfrattati dal carcere. La protesta: "E io dormo in auto" di Susanna Zambon Il Giorno, 3 settembre 2017 "Sono disperato, se la direzione non cambia idea sono in mezzo ad una strada". L’assistente Lorenzo Saccucci è l’agente di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Sondrio che più è preoccupato per l’ordine di servizio della direttrice Stefania Mussio che, di fatto, sfratta il personale dalla caserma. La direttrice, infatti, ha intimato agli agenti che pernottavano in caserma, cinque in tutto tra la "camerata" ad uso gratuito e le stanze a pagamento, di sgomberare gli alloggi. Il motivo? La necessità di rivedere le modalità di pernottamento all’interno della Casa circondariale. Così, venerdì notte in tre si sono ritrovati a dover dormire nelle loro auto, e hanno scelto di farlo in divisa, fuori dal carcere, per dare un segno tangibile di quello che stava loro accadendo. Tra loro Lorenzo Saccucci non c’era, tornato nel suo paese in Lazio per un intervento chirurgico. C’erano, invece, Domenico Fabbri, Alfonso Ruggiero e Pasquale Scognamiglio, la cui situazione non è drammatica come quella dell’assistente Saccucci, ma che comunque si sono trovati "sfrattati" da un giorno all’altro. "Da due anni e mezzo vivo nella camera singola con bagno in caserma, pago regolarmente 41,80 euro al mese, e ora mi ritrovo senza un posto dove dormire - ci ha raccontato a mezzanotte l’assistente capo Ruggiero, appena smontato il turno, prima di mettersi a dormire in auto per poi riprendere a lavorare alle 8 di mattina - Io in carcere ho anche la residenza. Sono a Sondrio da quasi 20 anni e ora mi trovo in questa situazione". Anche l’assistente Scognamiglio, 33 anni, è in difficoltà: "Da quando sono a Sondrio, e sono 13 anni, ho sempre vissuto in caserma, non ho altro posto". Ha dormito in auto pure l’assistente capo Domenico Fabbri, rappresentante sindacale per la sigla Uspp, organizzazione che si sta interessando in modo particolare del caso: "Mi sento in qualche modo responsabile, tutto è nato dalla mia legittima richiesta di alloggiare nella seconda camera a pagamento disponibile. Da qui è nata la crisi con la direttrice Stefania Mussio". Una crisi che sembrerebbe in via di risoluzione. Secondo fonti sindacali, infatti, il Provveditore regionale Luigi Pagano sta esaminando il caso e sarebbe intenzionato a revocare in tempi brevi l’ordine di servizio della direttrice (in questi giorni in ferie), per far tornare gli agenti a dormire in caserma. "Speriamo che sia così, altrimenti non so dove stare - prosegue l’assistente Saccucci. Da quando mi sono separato, non ho risorse sufficienti a pagare un affitto, ho solo la caserma". Senza contare che di notte la presenza degli agenti garantisce sicurezza: il personale, decisamente sotto organico, conta solo 20 agenti in servizio. "E di notte in servizio ce ne sono solo due. Dieci giorni fa un detenuto ha tentato di impiccarsi: l’abbiamo salvato io e un altro detenuto - racconta Saccucci - I colleghi di turno da soli sarebbero stati in difficoltà". Aosta: Brissogne, ancora botte tra detenuti. La Cisl: "È il momento di cambiare" di Francesca Soro La Stampa, 3 settembre 2017 La situazione del carcere di Brissogne, secondo chi ci lavora, è quella di "un bacino di scarico di detenuti reietti e difficili da gestire". Il risultato? Episodi di autolesionismo, di disagio fisico e psicologico e di aggressività verso i compagni e il personale, come la rissa di giovedì tra due detenuti magrebini e due albanesi che si sono colpiti con sgabelli e manici di scope, finendo ricoverati all’ospedale. "I tempi sono maturi per un progetto politico che porti avanti un cambiamento radicale della struttura di detenzione valdostana passando da casa circondariale a modello di carcere a custodia attenuata, basato su lavoro e rieducazione dentro e fuori dalle mura. Oltre a risolvere gli attuali problemi, comporterebbe per la nostra regione un notevole prestigio, in un campo tanto ambito dal punto di vista della legge, quanto poco raggiunto nella realtà" dice il segretario regionale Cisl Fns Pasquale Paterino, ispettore capo della polizia penitenziaria a Brissogne. La proposta di trasformazione è stata presentata dalla Cisl in una lettera indirizzata al presidente della Regione Pierluigi Marquis e al provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e VdA. Il carcere valdostano ha una capienza regolamentare di 180 detenuti e tollerabile di 340, registra 76 ingressi di arrestati nella regione e una movimentazione complessiva di circa 600 detenuti in transito (500 visite mediche all’anno). "Da questo - dice Paterino - emerge l’evidente sproporzione tra esigenze del territorio e la riduttiva funzione di "serbatoio": la quasi totalità dei detenuti presenti proviene da istituti di altre regioni per sfollamento, il che implica gravi disagi su più fronti. Il detenuto che si trova lontano da casa, senza punti di riferimento né colloqui con la famiglia è un soggetto che diventa difficile da gestire e per il quale il reinserimento si allontana". Il cambiamento auspicato dalla Cisl, "ma condiviso da tutto il personale del carcere aostano" dice Paterino, porterebbe a un circuito penitenziario differenziato dove la funzione rieducativa della pena assume maggiore importanza. "In concreto - spiega Paterino - la custodia attenuata offre maggiori opportunità al detenuto di riabilitarsi attraverso il lavoro e la formazione". Tra i problemi del carcere di Brissogne c’è anche l’instabilità della dirigenza: dal 2014 si sono avvicendati solo commissari provvisori. Sul punto, e in occasione della prossima scadenza del protocollo d’intesa, il presidente della Regione ha incontrato i vertici del carcere: "Siamo convinti - ha detto Marquis - che l’azione sinergica della Regione e del ministero consentirà di dare le risposte che operatori e detenuti aspettano da tempo". Torino: protesta degli agenti "vermi e frutta marcia, il cibo in mensa è immangiabile" di Miriam Massone La Stampa, 3 settembre 2017 I sindacalisti scrivono all’Asl e invitano a pranzo i politici: "Venite e rendetevi conto". La forchetta di plastica scheggiata, alla fine, è il male minore: con quella posata, teoricamente, gli agenti della polizia penitenziaria delle carceri piemontesi, valdostane e liguri, dovrebbero infatti infilzare carote raggrinzite (perché vecchie), pesche marce, anguria andata a male, pollo bruciato e, dulcis in fundo, insalata con il verme. Le "cucine da incubo" sono in primis quelle di Torino, Ivrea, Biella, Fossano, Cuneo, Saluzzo, Aosta, Vercelli (e a seguire tutte le altre città). Una situazione che i sindacati - Sappe, Osapp, Uil Pa, Sinappe, Fns Cisl, Uspp e Cnpp - non riescono più a digerire. E oggi hanno deciso di denunciare il servizio alle Asl: "Dopo ripetute segnalazioni alla singole direzioni, e al competente provveditorato, non c’è stato nessun cambiamento: ora basta". È da marzo che protestano, innanzitutto con il direttore del Lorusso e Cotugno, Domenico Minervini: "I piatti sono immangiabili e l’acqua è del rubinetto" dicevano. E già all’epoca il tema non era inedito, ma si era riproposto dopo il nuovo bando d’appalto, che dal primo aprile ha affidato il servizio mensa alla Dussmann (la stessa azienda che gestisce le pulizie alle Molinette). Ora però è sempre peggio, a sentire i racconti degli agenti e soprattutto a vedere le foto. "La Commissione Mensa di Aosta, ad esempio, ha addirittura riscontrato muffa nei frigoriferi, alimenti mal conservati, frutta marcia, lasagna preconfezionata con la data di scadenza superata da giorni - scrivono i sindacati: qui, come in altre carcere, da Torino a Cuneo, alla sera sono stati serviti gli avanzi, fette di anguria deteriorata". Nella lettera inviata al provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Liberato Guerriero, e all’Asl Piemontese, si parla anche di cuochi sostituiti da personale non qualificato, di riduzione degli orari di lavoro degli addetti al servizio, di mancanza di detergenti per la pulizia. In molti casi chi può salta il pranzo: "Ma la situazione è ormai intollerabile - spiega a nome dei sindacalisti, Gerardo Romano, vice segretario generale Osapp: o le cose cambiano o faremo la "rivoluzione", perché qui si tratta di sicurezza e salute". Non è questione di esser schizzinosi, insomma. Avete dubbi? Provate, dice Romano: "Politici e sindaci sono invitati: paghiamo noi, sarebbe meglio però venissero una sera e a sorpresa per rendersi conto davvero". "A mano libera", una porta spalancata di Mirella Dalfiume noidonne.org, 3 settembre 2017 "Non ho mai visitato un carcere e nemmeno conosciuto persone che vi siano state rinchiuse o familiari di detenuti". Ho letto "A mano libera" durante le mie brevi vacanze estive, quindi nel mio tempo libero. Libero da impegni lavorativi, familiari, politici, di volontariato. Non ho mai visitato un carcere e nemmeno conosciuto persone che vi siano state rinchiuse o familiari di detenuti. La lettura di questo agile libretto è stata come spalancare una porta su un mondo sconosciuto, o piuttosto come sbirciare da una porta socchiusa dentro una realtà dolorosa, complessa, che spaventa. Queste pagine intrise di lacrime e dolore ma anche di speranza e voglia di riscatto, mi hanno fatto riflettere su quanta distanza permane tra il vincolo della restrizione della libertà e l’obiettivo del reinserimento sociale. Tra l’aspetto punitivo e quello educativo. Mi hanno colpito le testimonianze di quelle donne che proprio a Rebibbia, per la prima volta, hanno avuto la possibilità di studiare e lavorare e hanno conquistato una maggiore consapevolezza di sé e quindi, paradossalmente, un grado in più di libertà e dignità. La possibilità di studiare che per tante di noi era scontata, eppure non sempre ci ha protette da errori di valutazione. Quante donne colte e istruite sono rimaste vittime di relazioni sbagliate, di (non) amori violenti. Penso a Lucia Annibali, colta e affermata avvocatessa, con la vita ed il corpo per sempre segnati dallo sfregio dell’acido. Penso alla sua forza interiore e alla sua capacità di affrontare il dolore e di rinascere. Ma anche la testimonianza della donna che ha reagito all’ennesima violenza di un uomo e per questo ora sta in carcere. E non riesco a non pensare che nel nostro paese chi ha molto denaro e può permettersi avvocati di grido riesce a farla franca o perlomeno ad ottenere attenuanti, sconti di pena eccetera. Un pensiero solidale alle volontarie che per mesi hanno varcato la soglia del carcere per contribuire ad alleviare la "pena" offrendo ascolto e una opportunità in più nella direzione della libertà, se non dai muri e dalle sbarre, dalle proprie catene interiori e dalle proprie dipendenze. "A mano libera. Donne tra prigioni e libertà". A cura di Tiziana Bartolini e Paola Ortensi. Ed. Coop Libera Stampa. Pag. 80, distribuzione in proprio, prezzo contributo libero più spese spedizione, per avere copie del libro e altre informazioni contattare redazione@noidonne.org. La strada maestra per vincere la sfida della povertà di Eugenio Scalfari La Repubblica, 3 settembre 2017 Servono politiche a sostegno del lavoro e contro le diseguaglianze. Ho molto piacere di aver letto sul Messaggero di ieri il primo articolo di Luca Ricolfi che fin qui collaborò con Il Sole 24 Ore con articoli a volte più tecnici che politici. Ricolfi tocca un problema centrale per le società moderne: il lavoro e l’occupazione. È un tema della massima importanza e lo è sempre stato sia per i suoi aspetti politici sia per quelli economici e sociali. Vorrei aggiungere che Ricolfi accenna nel finale del suo articolo a questo tema senza però svilupparlo. Il lavoro e l’occupazione ovviamente non esauriscono affatto la natura di una società ma la caratterizzano con le loro diversità. È diverso il tasso di occupazione tra giovani e anziani (direi che i cinquantenni sono il punto di divisione tra le due stagioni). È diverso se il lavoro viene offerto da grandi o da medie o da piccole imprese, alcune addirittura di carattere familiare. È diverso il modo in cui lo Stato aiuta queste varie categorie imprenditoriali. È diversa la mobilità del lavoro, che in larga parte dipende dalla natura delle produzioni e dei materiali tecnici applicati. E anche il commercio, se è confinato all’interno di un’area limitata o è invece esteso al mondo intero. In sostanza lavoro e occupazione caratterizzano una società e spesso addirittura un’intera Nazione e/o un aggregato di Nazioni. Fin qui non abbiamo ancora parlato di altri tre aspetti fondamentali, necessari per una visione d’insieme della vita sociale: la politica, l’immigrazione, la povertà. L’esame di questi tre aspetti permette una visione completa della storia del mondo in cui viviamo. Cominciamo dal tema dei poveri, il più sentito dalle religioni e da quella cattolico-cristiana in particolare. Dalle religioni cristiane certo, perché Gesù di Nazareth che ne fu il fondatore era un povero che predicava ai poveri. Ma in realtà i poveri furono l’alimento di quasi tutte le sommosse, le predicazioni e le rivoluzioni nella storia d’un mondo sempre più affollato come numero d’abitanti. La ricchezza non è quasi mai stata la condizione generale d’un Paese e neppure di una singola regione. È molto raro che ciò sia accaduto. In una società territorialmente vasta i poveri sono sempre stati la maggioranza, rivaleggiando spesso con il ceto medio. La minoranza era la classe ricca, nobile, spesso anche detentrice del potere politico. Sommosse e rivoluzioni modificavano profondamente questo stato di cose, ma in breve tempo tutto tornava come prima. Spesso la composizione sociale e politica era cambiata e i rivoltosi di ieri diventavano i potenti e i ricchi di oggi, ma il numero era fortemente rimpicciolito e la natura del ceto medio era cambiata. Questi erano i sommovimenti provocati dalle rivoluzioni. Assai meno dalle sommosse, i cui effetti sociali duravano ben poco e tutto riprendeva come prima, con qualche misura punitiva che sanzionava il fatto di essersi ribellati. C’è un punto tuttavia sul quale converrà soffermarsi: i poveri. Possibile che ci siano sempre stati e sempre ci saranno? Il mondo va avanti, la vita sempre cambia, la tecnologia è in crescita costante, ma i poveri sono lì, senza lavoro, senza reddito compatibile, senza le forze di eliminare o almeno fortemente modificare quella loro condizione. A volte il loro numero, in rapporto al numero totale degli abitanti di quel territorio, diminuisce e questo è un gran successo. Stabilmente? Sì, a volte stabilmente. Nella società comunista, dalla fine dell’ultima guerra (vittoriosa) ad oggi con la Russia di Putin, i poveri sono diminuiti se non addirittura scomparsi. Sono abbastanza prossimi al ceto medio. Forse è quest’ultimo che ha abbassato il proprio tenore di vita. Comunque, in una visione d’insieme, le condizioni generali sembrano apparentemente aver eliminato i poveri. C’è però un peggioramento di altra natura ma di non minore gravità: hanno perso la libertà. Non totalmente ma sostanzialmente. Si dirà che è meglio un miglioramento sociale che un peggioramento politico. Dipende dai punti di vista. Insomma e per concludere su questo punto, i poveri ci sono sempre. Variano le cause della loro esistenza. La causa di oggi ha come effetto l’emigrazione. Da alcune zone del mondo, per ragioni economiche e politiche, interi popoli si allontanano cercando uno stato sociale più conveniente, ma non lo trovano, anzi precipitano in sistemi peggiori, morte compresa o prigionia o prostituzione o schiavitù. Comunque suscitano problemi sociali e politici nei Paesi nei quali arrivano. La pratica di quei Paesi (di fatto l’Europa e soprattutto quella che si affaccia sul Mediterraneo, ma anche il Medio Oriente) è duplice: c’è una parte della pubblica opinione che vuole chiudere loro le porte in faccia e ributtarli a mare; un’altra parte vede il beneficio economico di farli lavorare, magari pro tempore e clandestinamente. Infine un’altra parte ancora cerca di ricondurli alla zona di partenza, mutando sul luogo le condizioni e creando lavoro e reddito compatibile. Questa è la linea che le tre maggiori potenze dell’Europa mediterranea, Francia, Italia, Spagna, più la Germania per ragione di autorevolezza politica, stanno ora perseguendo. Questa politica farà scomparire i poveri? Purtroppo no. Indicherà piuttosto sui territori le persone coinvolte dai suddetti programmi, ma i poveri dei Paesi africani, e non soltanto quelli ma molti di più, rappresentano a dir poco mezzo miliardo di persone dei quasi otto miliardi che abitano il pianeta. Mezzo miliardo o, più probabilmente, ottocento milioni di poveri, derelitti, decisi ad abbandonare i loro Paesi e ad affrontare la libertà di movimento con tutti i rischi, le avventure e la morte alla quale vanno incontro. Papa Francesco, che è per ovvie ragioni estremamente sensibile all’esistenza e alla terribile vita dei poveri, ha definito questo fenomeno con la parola "meticciato" al quale dà per molte ragioni un significato positivo. Ne abbiamo parlato più volte su queste colonne, ma oggi torna ancora un’occasione attuale. I popoli decisi a muoversi oggi vivono in condizioni di estrema indigenza e puntano all’emigrazione possibilmente verso l’Europa. Non vengono soltanto dal Sud del mondo, ma anche dall’Est. La Chiesa vede l’intreccio culturale, sociale e sessuale tra popolazioni profondamente diverse come un fatto molto positivo e da parte sua lo incoraggia; ne predice la positività; esorta verso politiche che favoriscano il fenomeno e ne traggano anche conseguenze religiose. Papa Francesco, come è noto, predica l’esistenza di un Dio unico che affratella tutte le razze umane e stronca i fondamentalismi religiosi che ancora insanguinano il pianeta. Il Dio unico, per chi ha fede, e il mescolamento delle razze che dà luogo al meticciato sarebbero avvenimenti decisivi contro la povertà e a favore di politiche consone a raggiungere quei risultati. Politiche che sostengano lavoro e occupazione, specie per i giovani, aiutando gli anziani con pensioni che assicurino loro la vita, e puntino sulla lotta alle diseguaglianze, sul taglio consistente del cuneo fiscale e sul suo finanziamento attraverso imposte di natura patrimoniale. Una pratica del genere può definirsi di sinistra? Personalmente sono convinto che sia una politica di sinistra e mi auguro un governo, dopo la naturale scadenza della legislatura, che la attui e la diffonda a livello europeo. Sarebbe un passo essenziale anche per l’unità dell’Europa, che non cesso di auspicare federale e quindi unitaria e democratica, con l’obiettivo di far diminuire o addirittura di abolire la povertà nel nostro continente. Migranti. Il nostro "aiuto" è la vendita di armi ai Paesi africani di Francesco Vignarca Il Manifesto, 3 settembre 2017 Ai vertici della spesa militare del Continente nero troviamo non a caso ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia. Nel distorto e problematico dibattito pubblico italiano e non solo sull’epocale fenomeno migratorio il tentativo principale della politica è quello di allontanare dalla vista dell’elettorato i problemi e le responsabilità. Nelle poche occasioni in cui si è allargato lo sguardo verso i luoghi di provenienza delle migrazioni (in particolare penso all’Africa) lo si fa richiamando un retorico e qualunquista "aiuto a casa loro" che non ha nulla di concreto o fattivo. La ormai vecchie promesse, sottoscritte a livello internazionale anche dall’Italia, di destinare almeno lo 0,7% del Pil all’aiuto pubblico allo sviluppo (diretto, indiretto e multilaterale) sono rimaste lettera morta. Nel 2015 l’Italia, pur con un trend in crescita, ha raggiunto solo lo 0,22% del Pil e una buona fetta dei quasi 4 miliardi impiegati è comunque rimasta nei nostri confini proprio per gestire il fenomeno migratorio. Invece i governi degli ultimi anni sono stati molto attivi nel far diventare l’Africa un terminale per i nostri affari, in particolare per quelli armati. Nei primi 25 anni di vigenza della legge 185/90 l’Africa subsahariana ha ricevuto 1,3 miliardi di euro di autorizzazioni armate, pari al 2,4% del totale. Occorre poi aggiungere le cifre ancora più alte relative ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo: la sola Algeria in 25 anni ha ricevuto autorizzazioni per 1659 milioni di euro. A livello globale l’Africa si attesta sul 9% delle importazioni mondiali annuali di armi sempre con Algeria in testa (il 46% continentale nell’ultimo quinquennio e Paese nella "Top5" mondiale complessiva) seguita da Marocco e Nigeria. Il 35% delle importazioni militare africane giunge al di sotto del Sahara, con principali venditori Russia, Cina, Stati Uniti e Francia. Un mercato trainato dalla spesa militare del continente nel 2016 a poco meno di 38 miliardi di dollari in aumentata del 48% in un decennio nonostante una leggera decrescita recente. Ai vertici di spesa militare troviamo ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia. Il tentativo dei nostri governi recenti è stato quello di recuperare posizioni in un mercato che (secondo il Maeci) è stato "generalmente marginale per le nostre esportazioni di materiali per la difesa, sia a causa delle limitate disponibilità economiche dei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, sia in ragione delle restrizioni imposte da situazioni di latenti conflittualità ed instabilità interne e regionali". Esempio massimo di questa strategia il tour della portaerei Cavour tra novembre 2013 e aprile 2014. Un viaggio che la Difesa ha cercato anche di "vendere" come umanitario o legato ad operazioni anti-pirateria e che invece si è concretizzato in un’enorme fiera (e spot) per l’industria militare italiana. Ben presente con i suoi stand nei ponti della nave ammiraglia della Marina, che non si sarebbe potuta nemmeno muovere senza la ricca sponsorizzazione dell’industria bellica, visti gli alti costi operativi. Dopo le prime tappe in Medio Oriente il viaggio del "Sistema Paese in movimento" (questa la denominazione ufficiale) ha toccato Kenia, Madagascar, Mozambico, Sud Africa, Angola, Congo, Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco e Algeria. Sollevando subito le proteste del mondo disarmista: si trattava dei Paesi a più alta spesa militare continentale, cinque dei quali considerati "regime autoritario" dal Democracy Index dell’Economist mentre sette registravano basso "indice di sviluppo umano" con posizioni tutte al di sotto del 142esimo posto nella lista elaborata da Undp. I risultati, per l’industria militare, non si sono fatti attendere e nel 2016 sono state autorizzate vendite verso Angola, Congo, Kenya, Sud Africa, Algeria e Marocco (tra i paesi visitati) ma anche verso Ciad, Mali, Namibia ed Etiopia (paese in confitto costante con l’Eritrea). "Il caso più evidente di questa strategia è l’Angola - sottolinea Giorgio Beretta analista di Opal Brescia - un Paese a cui, così come al Congo del resto, non avevamo mai venduto armi dalla 185/90 in poi e che invece è destinatario nel 2016 di autorizzazioni per quasi 90 milioni di euro. Ma i contratti già firmati, secondo notizie diffuse dalle stesse industrie di armi, potrebbero aver già superato i 200 milioni complessivi". Già a margine del Tour africano della Cavour erano circolate voci di vendita della vecchia portaelicotteri Garibaldi (anche per fare spazio alla nuova portaerei Trieste poi successivamente finanziata) proprio all’Angola. Vendita di usato non andata in porto da un lato per i problemi finanziari causati dal crollo dei prezzi petroliferi, dall’altro per il cambio di esecutivo che impedì all’allora Ministro della Difesa Mario Mauro di recarsi come previsto a Luanda (con Governo angolano infastidito). Poco male, perché la nuova inquilina di via XX Settembre Roberta Pinotti ha subito cercato di riparare: l’allora Ministro della Difesa e attuale Presidente Joao Lourenço è stato tra i primi ad essere ricevuto a Roma, replicando il viaggio anche nel 2016 mentre la stessa Pinotti si è recata a Luanda nel settembre 2015. Sulla scia della visita dell’anno prima di Matteo Renzi, definita come epocale e propedeutica ad una nuova stagione di rapporti (economici e di cooperazione allo sviluppo) con i Paesi africani. Ma che pare aver soprattutto dato il via a nuovi affari di natura militare. Molti ritengono questi dati una colpa delle dirigenze politiche africane, che preferiscono investire gran parte dei bilanci statali in armi ed eserciti anche per mantenere le proprie posizioni di comando. Ma se - dall’Italia - sai che la situazione è questa e continui imperterrito a siglare contratti puoi essere definito solo come complice. A casa loro. Migranti. La vera "emergenza" è il razzismo di Angelo d’Orsi Il Manifesto, 3 settembre 2017 Ci aveva già provato la Lega Nord, anni fa. Forse la reazione, culturale e politica, dell’Italia democratica fu troppo debole, allora. Ci riprova ora uno dei tanti gruppuscoli neofascisti, quello probabilmente di maggior capacità di mobilitazione, nel silenzio pavido degli uni e nella oggettiva complicità degli altri - quella cospicua parte del popolo italiano che ha già introiettato la paura dell’immigrato. Alludo al manifesto che Forza Nuova ha lanciato per accendere italiani e italiane di sacro fuoco etnico-nazionale, ricorrendo a un prodotto propagandistico del peggior periodo della nostra storia, quello della Repubblica Sociale Italiana: un manifesto murale, diffuso anche sulla stampa di regime, che mostrava un "negro" che ghermisce una donna bianca, e il testo recitava: "Difendila dai nuovi invasori" e poi, in piccolo: "Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia". Gli invasori erano, nel ‘44 i soldati degli eserciti alleati, in quello che fu l’anno dello sbarco ad Anzio e in Sicilia, e la crisi del fascismo, succube del nazismo hitleriano, appariva ormai irreversibile. Il manifesto era firmato da un disegnatore sperimentato, Gino Boccasile, l’inventore della Signorina Grandi Firme, efficacissimo illustratore delle copertine della Domenica del Corriere, poi firmatario del Manifesto della razza, infine, appunto, convinto aderente alla Rsi. Forza Nuova, riproponendo l’icona del negro stupratore di bianche fanciulle, nella Rete (ma si annuncia anche, pare, la stampa murale in grande formato), aggiunge un commento per così dire esemplare, dal punto di vista dell’uso politico della storia, una storia naturalmente manipolata, ignorata, o rovesciata. Si legge infatti: "Le violenze dell’epoca del manifesto a cui ci siamo ispirati furono contestualizzate all’interno della sconfitta che chiamarono ‘liberazionè, quelle di questi anni e di questi giorni le occultano spudoratamente, tacendo il fatto che sono attuate da nuovi invasori a cui paghiamo vitto, alloggio, bollette, schede telefoniche, cellulari e sigarette. I nuovi barbari sono peggiori di quelli del ‘43-45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria". Difficile sintetizzare meglio la morale politica del fascismo, e mostrarne l’eterno ritorno, per così dire, sotto le mutevoli vicende di nazioni e popoli. Difficile esplicitare in così poche parole una mentalità, ahinoi sempre più diffusa, che fondandosi su false informazioni, o su vere e proprie menzogne, gioca sulla ingannevole contrapposizione "noi/loro", accettandola supinamente. Il "successo" del post (oltre 10 mila like in poche ore) è una riprova in tal senso, ma ancor più lo è la gran massa dei commenti, un osceno florilegio del peggior razzismo cosciente o più spesso inconsapevole, un buco nero in cui annega ogni residuo di intelligenza. "L’emergenza" denunciata ogni giorno da un intero ceto politico, o quasi, non è quella dei migranti, ma quella degli stolti e degli ignoranti. La strada è lunga e in salita. Egitto. Giulio Regeni, etica ed emozioni contro la "logica della politica" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 settembre 2017 Domani pomeriggio, finalmente, si terrà l’informativa del governo sui rapporti tra Italia ed Egitto dall’assassinio - 20 mesi fa esatti - di Giulio Regeni fino alla decisione del 14 agosto di rimandare al Cairo l’ambasciatore italiano e sul futuro delle relazioni bilaterali. Al di là delle espressioni retoriche quali "il ritorno dell’ambasciatore favorirà la ricerca della verità", cui è proprio difficile credere, cosa potrebbe dire il governo si evince dalla conclusione della nota diffusa dai presidenti delle commissioni Esteri di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Pier Ferdinando Casini: "con particolare riferimento alla situazione nel Mediterraneo". La "situazione del Mediterraneo" è una formula vaga per definire il tema dell’immigrazione, e dunque per porre al centro la strategia italiana per fermare le partenze dalla Libia. Per completare quella strategia, occorre entrare in buoni rapporti con la "terza Libia": dopo gli accordi con il governo riconosciuto a livello internazionale per sigillare la costa e quelli con le tribù del Fezzan per bloccare la frontiera meridionale, manca ancora all’appello il generale della Cirenaica Khalifa Haftar, sponsorizzato dall’Egitto. Per quell’obiettivo (e, certo, anche per portare avanti le attività nel settore degli idrocarburi con ancora maggiore tranquillità), il governo italiano ha tradito l’impegno assunto con la famiglia Regeni e con buona parte dell’opinione pubblica del nostro paese: la ricerca, fino in fondo, senza tentennamenti e senza ripensamenti, della verità per un nostro connazionale barbaramente ucciso all’estero, in quello che sin dall’inizio è apparso un omicidio di stato. Avevamo ammonito da mesi che il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sarebbe stato interpretato dall’Egitto come una sua vittoria e una nostra resa. I commenti dei giornalisti filo-governativi egiziani, non c’è da meravigliarsene, lo confermano: "La Libia ha reso necessario quello che il caso Regeni aveva impedito"; "Il caso Regeni è stato chiuso in un cassetto in nome della stabilità regionale"; "Di fronte alla giustizia per una singola persona, ha prevalso la logica della politica in cui non c’è spazio per l’etica o per le emozioni". Quest’ultima frase, cinica e brutale, è l’insegnamento da trarre. Ma c’è un altro insegnamento, nulla di nuovo e anzi l’ennesima conferma: quando sono in gioco i diritti umani, i governi non devono essere lasciati soli a fare e a disfare. A loro la logica della politica, alla campagna "Verità per Giulio Regeni" l’etica e le emozioni. Che significano l’impegno a tempo indeterminato a premere perché si abbia, quella verità, e a incalzare regolarmente il governo italiano affinché contini a riferire, al parlamento ma anche e soprattutto alla stampa e all’opinione pubblica, sui "passi avanti", i "progressi", gli "avvicinamenti alla verità" che il ritorno dell’ambasciatore al Cairo avrà favorito. Turchia. È il momento di svelare il bluff di Erdogan di Danilo Taino Corriere della Sera, 3 settembre 2017 Se, come minaccia, il presidente turco riaprisse ai rifugiati la rotta balcanica, ogni porta dell’Europa gli si chiuderebbe in faccia, con pericoli per il suo stesso regime. Berlino si avvia a "ripensare la relazione" con Ankara e a reagire "in modo deciso" alle provocazioni di Recep Tayyip Erdogan. Lo ha detto Angela Merkel dopo che, venerdì, altri due tedeschi sono stati arrestati in Turchia per ragioni politiche, arresti "senza fondamento", ha aggiunto la cancelliera. Le misure prese in considerazione sono il blocco dei colloqui per l’estensione dell’unione doganale tra Ue e Turchia proposta dalla Commissione di Bruxelles e un avviso formale di pericolo ai tedeschi che intendono viaggiare sul territorio turco. L’azione di provocazione nei confronti della Germania che Erdogan porta avanti da mesi sta dunque arrivando a un punto di svolta potenzialmente gravido di conseguenze: Ankara fa parte della Nato e in questo momento sta intensificando i suoi rapporti con Mosca; e in teoria è ancora candidata a entrare nell’Unione Europea. Una rottura politica, che riguarderebbe l’intera Ue, sarebbe una nuova ragione di destabilizzazione del quadro geopolitico attorno all’Europa. Nei mesi scorsi, Merkel ha cercato di non arrivare al punto di rottura, a costo di essere accusata di appeasement. Per ragioni strategiche e anche perché la cancelliera stessa ha voluto l’accordo tra Bruxelles e Ankara per fermare il flusso di profughi del 2015-2016. Ora, però, la situazione è arrivata a livelli difficili da sostenere. Erdogan produce provocazioni su basi settimanali. Soprattutto, nelle prigioni turche ci sono oltre 50 tedeschi, 12 dei quali accusati di sostenere il movimento di Fetullah Gülen, che Ankara ritiene all’origine del colpo di Stato tentato l’anno scorso (secondo il settimanale Der Spiegel, la Turchia avrebbe anche chiesto a Berlino, che ha rifiutato, di bloccare i conti correnti dei presunti sostenitori di Gülen in Germania). Un po’ tutti i politici tedeschi, in piena campagna elettorale, ora accusano Erdogan di estorsione, di ricatto. Se però, come minaccia, egli riaprisse ai rifugiati la rotta balcanica, ogni porta dell’Europa gli si chiuderebbe in faccia, con pericoli per il suo stesso regime. Forse è bene svelare il bluff. Serbia. Mladic morente nel carcere dell’Aja di Boban Radovanovic remocontro.it, 3 settembre 2017 Il generale dell’assedio di Sarajevo e della strage di Srebrenica. Secondo la stampa di Belgrado, spinte sul governo serbo per chiedere al Tribunale internazionale dell’Aja il "rilascio temporaneo" di Ratko Mladic, gravemente malato. Problema politico delicato in casa serba. In realtà l’ex capo militare dei serbo bosniaci, già colpito da due ictus e da un infarto, sarebbe morente. Un altro protagonista della storia tragica delle guerre balcaniche dopo Milosevic, che scomparirebbe tra la sbarre del carcere olandese di Scheveninghen. Su Ratko Mladic s’è già detto e scritto tutto il possibile e il suo contrario. Nel bene e nel male. Uomo per sua natura e per i suoi comportamenti predisposto a suscitare sentimenti assoluti. Dall’esaltazione nazionalistica dei pochi che ancora oggi lo vogliono come patriota combattente della nazione serba minacciata nelle guerre etniche degli anni Novanta, al mostro dei quattro anni di guerra bosniaca in cui il generale Mladic fu capo delle forze armate serbo bosniache del folle Karadzic, comandò l’assedio di Sarajevo e fu a capo di militari e miliziani responsabili della strage di Srebrenica. Ora Mladic, da nostre notizie, sta morendo. Secondo la stampa di Belgrado, molte sollecitazioni sul governo serbo per chiedere al Tribunale penale internazionale dell’Aja il "rilascio temporaneo" di Ratko Mladic, gravemente malato. In realtà l’ex capo militare dei serbo bosniaci, già colpito da due ictus e da un infarto, è in fin di vita. Un altro protagonista della tragica storia delle guerre balcaniche dopo Milosevic, che scomparirebbe tra la sbarre del carcere olandese di Scheveninghen.