Hiv: nelle carceri serve più conoscenza sulla prevenzione di Simone Valesini La Repubblica, 30 settembre 2017 La risposta arriva dal progetto “Free to live well with Hiv in Prison”, che ha indagato il livello di conoscenza dell’Hiv nelle carceri italiane, per identificare criticità e possibili strategie di intervento. Nelle carceri italiane l’Hiv non fa più paura. Ma per i motivi sbagliati: lo stigma nei confronti dei malati è diminuito, ma (almeno in parte) è perché ci si pensa sempre meno. Il virus e le sue reali modalità di trasmissione infatti sono ancora poco conosciuti, sia dai detenuti che dal personale carcerario. A fotografare la situazione è “Free to live well with Hiv in Prison”, una ricerca condotta dall’Università Cà Foscari in collaborazione con la Simpse (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) e l’associazione Nps Italia Onlus, la prima ad aver indagato la situazione non solo negli istituti penitenziari tradizionali, ma anche nelle strutture minorili. I risultati, presentati oggi a Venezia, svelano criticità e false paure ancora troppo presenti, e aiutano a tracciare le linee di intervento per contrastare al meglio l’infezione. Cala lo stigma. La ricerca ha raggiunto oltre mille persone e 10 carceri sparsi su tutta la penisola. Coinvolgendo, per la prima volta all’interno di un’indagine sistematica, una struttura penale per minorenni. Il progetto ha previsto una prima fase di raccolta dati, su cui tarare in seguito specifici interventi di formazione per detenuti ma anche per il personale carcerario. E dalla disamina iniziale sono emersi diversi elementi interessanti. Innanzitutto, ed è una notizia positiva, un minore stigma nei confronti dei malati. “Nel complesso il pregiudizio sociale verso la malattia sta calando”, racconta Alessandro Battistella, docente della Cà Foscari che insieme al collega Fabio Perocco ha partecipato alla ricerca. “Oggi i detenuti sono meno preoccupati che si venga a conoscere una eventuale sieropositività, e al contempo circa un quinto considera giusto non conoscere la potenziale sieropositività del compagno di cella”. Una percentuale ancora contenuta - chiarisce l’esperto - ma anche un bel passo in avanti rispetto al passato, quando quasi il 100% dei detenuti riteneva inaccettabile la possibilità di condividere la propria cella con un sieropositivo. Accanto ai progressi, però, sono emerse anche le criticità: in particolare, una forte ignoranza delle reali modalità di trasmissione del virus. Falsi miti. I detenuti sottovalutano infatti i fattori di rischio reali, e sopravvalutano quelli inesistenti. “Circa il 60% dei partecipanti alla ricerca ha ammesso di ritenere possibile il contagio attraverso lo scambio di saliva - continua Battistella - e in molti credono ancora che il virus possa essere contratto condividendo gli spazi o i sanitari con un sieropositivo”. Quasi nessuno invece presta attenzione a comportamenti a rischio estremamente comuni in carcere, come lo scambio di spazzolini da denti e di rasoi, o anche l’utilizzo del rasoi per capelli del barbiere, che in caso di lame vecchie e rovinate può rappresentare un vettore di trasmissione. E ancor più grave forse, praticamente nessuno, anche tra il personale carcerario, sembra rendersi conto che la partecipazione a una rissa è un evento a rischio, e in caso di spargimento di sangue le possibilità di contagio sono estremamente reali. Peer educator. “Quel che è emerso dalle nostre sedute di formazione è un forte interesse a capire di più la malattia - sottolinea Battistella - in particolare tra il personale di polizia penitenziaria che vive a stretto contatto con la popolazione carceraria, e anche tra i detenuti dei carceri minorili”. Proprio per venire in contro a questo desiderio di conoscenza uno degli interventi previsti dal progetto è stata la formazione di peer educator: detenuti che attraverso un percorso di formazione imparano a insegnare ai propri “pari”, gli altri detenuti, come affrontare correttamente il virus: dalla prevenzione, ai test, al giusto atteggiamento per evitare lo stigma e l’isolamento dei malati. Durante il progetto inoltre sono stati forniti gratuitamente i test rapidi, che permettono di evidenziare la presenza del virus in soli 15 minuti. Una nuova possibilità che si è rivelata particolarmente gradita al personale del carcere, perché permette di avere una risposta quasi istantanea e direttamente all’interno delle strutture. Hiv in carcere. A Venezia i risultati del progetto che fotografa la realtà quotidianosanita.it, 30 settembre 2017 “Free to live well with HIV in Prison” è stato condotto da simspe, nps Italia Onlus, Università Cà Foscari Venezia con la collaborazione dei ministeri della e della Giustizia. Tra le cause di contagio, la sottostima dei rischi legati alle risse e allo scambio di spazzolini e rasoi. Emersa l’importanza dell’educazione e la disponibilità dei detenuti a diventare “educatori” nei confronti degli altri. Scarsa igiene, punture di zanzare, resistenza da parte del virus ai disinfettanti sono i timori di contrarre l’Hiv. Sottostima dei rischi legati ad eventuali risse tra detenuti (considerate innocue dal 60 per cento degli intervistati) e allo scambio di spazzolini e rasoi. Inspiegabile timore della saliva, che viene ancora considerata veicolo del virus da quattro persone su dieci, e dell’urina, anch’essa temuta come possibile fonte di contagio da quasi una persona su tre. Sono solo alcuni dei dati che emergono dalla ricerca condotta su un migliaio di persone in 10 carceri italiane nell’ambito del progetto “Free to live well with HIV in Prison”, che oltre a contrastare lo stigma e a migliorare la prevenzione dell’infezione nelle strutture carcerarie punta a favorire un mutamento nella gestione dell’infezione e a definire modelli di buone pratiche che possano essere adottati anche in altre strutture. La ricerca, presentata ieri in prima nazionale dai promotori del progetto, Simpse, Nps Italia e Università Cà Foscari Venezia, grazie ad un contributo non condizionato di ViiV Healthcare e col patrocinio del Ministero di Giustizia e del Ministero della Salute, offre per la prima volta una fotografia della conoscenza sull’HIV nelle carceri italiane. E svela le false paure e i rischi non riconosciuti che intralciano l’efficacia della prevenzione, tracciando le linee per prevenire e combattere l’infezione. Innovativa la modalità di approccio utilizzata che ha preso il via dalla raccolta dei dati che rivelano il livello di conoscenza sull’infezione da HIV nelle carceri, per erogare una formazione ad hoc e promuovere la prevenzione anche con l’ausilio dei test. Va inoltre segnalato che anche se solo un detenuto su cinque considera giusto che non si conosca l’eventuale sieropositività di un compagno di cella, nel complesso sono emersi segnali positivi a riprova di come gradualmente lo stigma verso la malattia si stia sciogliendo. La ricerca mette in luce anche il valore dell’educazione tra pari per fare una corretta informazione sia nei confronti della popolazione carceraria sia della polizia penitenziaria. In questo senso, tra i molti aspetti considerati, l’attenzione si è concentrata sulla disponibilità degli stessi detenuti a diventare “educatori” nei confronti degli altri. Complessivamente il 47,7 per cento la considera una buona idea, dato che tra compagni ci si ascolta più facilmente e ci si capisce di più. Tra i dati emersi, va sottolineato anche un dato preoccupante: la limitata fiducia nella terapia per l’infezione da HIV. Solo il 68% dei detenuti la assumerebbe se si scoprisse sieropositivo. L’originalità del progetto è rappresentata dall’introduzione negli istituti, per la prima volta, dei test HIV rapidi che, in associazione ad un programma formativo allargato anche a personale sanitario e polizia penitenziaria, si sono dimostrati uno strumento di screening valido per la rapidità di risposta, l’immediatezza di esecuzione e la possibilità di realizzare un counselling efficace. “Il progetto Free to live well with HIV in prison è stato condotto con entusiasmo e competenza dalla nostra Società Scientifica che ha inteso sperimentare una cooperazione multi-attoriale con partner eterogenei per competenze e mission al fine di integrare i rispettivi know how in iniziative innovative e con una forte ricaduta sistemica. Le singole specificità - dichiara Luciano Lucania, presidente di Simspe - hanno rappresentato un valore aggiunto unico per il progetto, i cui risultati sono certamente destinati a generare degli effetti sostenibili e duraturi”. “Molti soggetti hanno detenzioni di breve durata - precisa Serena Dell’Isola, Coordinatrice Scientifica del progetto - e la possibilità di fornire e somministrare i test, il trattamento farmaceutico e un collegamento ai servizi di assistenza consente di migliorare la salute dell’intera società, riducendo il rischio di trasmissione e i costi legati alle comorbilità collegate a tali infezioni”. Soddisfazione viene espressa da Margherita Errico, Presidente NPS Italia che afferma: “Abbiamo raggiunto l’obiettivo di formare quelle aeree del nostro paese di difficile accesso, ovvero detenuti e personale che lavora nelle strutture penitenziarie ottenendo validi dati socio-scientifici che finora in assoluto non avevamo rispetto all’Hiv e allo stigma che vi ruota intorno, arrivando ad un dialogo quasi individuale con tutti gli attori coinvolti. La sfida futura? Continuare ed ampliare il nostro raggio di azione”. “NPS Italia è da anni attiva in progetti di prevenzione e informazione nelle carceri italiane attraverso il lavoro dei suoi peer educator - sottolinea Mario Cascio, Peer educator - e ha preso parte con grande entusiasmo a questo progetto innovativo che ha visto per la prima volta in Italia la possibilità di fornire test rapidi in carcere e una formazione specifica al personale carcerario, due strumenti che hanno saputo integrarsi al lavoro di noi peer educator che attraverso la propria testimonianza cercano di sollecitare nei detenuti un atteggiamento più proattivo nei confronti della propria salute e allo stesso tempo incidere sullo stigma e le discriminazioni presenti in ambito carcerario”. “Cà Foscari ha partecipato al progetto per dare continuità a un’attività di ricerca sull’HIV che ha già prodotto in questi anni dati importanti sulla conoscenza dell’HIV/AIDS e sulla esistenza di pregiudizi tra la popolazione generale, gli adolescenti, gli immigrati e la comunità LGBT” affermano Fabio Perocco e Alessandro Battistella docenti dell’Università Cà Foscari Venezia. “Oggi i nuovi dati, riferiti a detenuti adulti e minorenni, e su chi lavora in carcere si rivelano utili per definire interventi di formazione e informazione che la ricerca ha dimostrato essere necessari”. “ViiV Healthcare ha scelto questo progetto tra altri 22 presentati a livello mondiale, riconoscendone la qualità e l’utilità per una popolazione in cui la prevenzione e il trattamento dell’HIV sono particolarmente difficili - afferma Maurizio Amato, Amministratore delegato di ViiV Healthcare - Di fondamentale importanza la valenza dei partner e l’innovatività della metodologia che integra ottime e diversificate competenze. Siamo particolarmente orgogliosi dei risultati raggiunti da questo progetto perfettamente allineato con la strategia di ViiV di supportare iniziative che fanno realmente la differenza per le persone che vivono con HIV”. Il progetto in sintesi - Free to live well with HIV in prison si propone di aumentare i livelli di prevenzione in carcere, combattere lo stigma, migliorare la qualità di vita delle persone sieropositive. - Ha coinvolto un migliaio di persone e 10 istituti penitenziari di cui uno dedicato ai minori e uno alle donne. - Sviluppata congiuntamente da Simspe, NPS Italia e Università Cà Foscari Venezia, grazie ad un contributo non condizionato di ViiV Healthcare, e col patrocinio del Ministero di Giustizia e del Ministero della Salute, la ricerca mette a disposizione della comunità una esperienza e una mole di dati utili in ottica di prevenzione e di lotta sempre più efficace all’HIV nelle carceri italiane. Il progetto ha previsto per la prima volta: - L’erogazione di una formazione rivolta non ai soli detenuti ma anche a tutte le figure professionali che operano in carcere evidenziando l’interesse verso questo tema e l’efficacia dell’impiego di ex-detenuti come formatori. - L’inclusione dei minori e delle donne nei percorsi educativi. - L’effettuazione dei test rapidi per l’HIV che forniscono il risultato in 15 minuti per scoprire l’eventuale sieropositività. - Il rafforzamento dell’integrazione nell’assistenza sanitaria sull’HIV all’interno degli Istituti di pena e le infettivologie attive sul territorio per creare un continuo di assistenza tra i periodi di detenzione e di libertà. Ferri: mediazione penale strumento importante per la finalità rieducativa della pena mm-com.it, 30 settembre 2017 Il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri: “il tema della mediazione penale per la messa alla prova rientra nell’ambito della giustizia riparativa e rappresenta uno strumento importante per garantire la finalità rieducativa della pena ed il reinserimento dell’autore del reato all’interno della società. I recenti interventi legislativi attuati dal governo hanno puntato sulla estinzione del reato subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (l. 67 del 2014) ovvero a condotte riparatorie (l.103 del 2017), con indubbi vantaggi non solo in termini di riduzione dei casi di recidiva, ma anche di valorizzazione della posizione della vittima del reato. In questo modo si fanno passi in avanti verso la risoluzione del problema del sovraffollamento delle carceri, favorendo altresì la deflazione del processo penale. I dati forniti dall’ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna di Firenze (Uiepe) riportano una percentuale di circa il 50% delle mediazioni positive esperite dal Gennaio 2016 al Dicembre 2017 di cui il 55% attraverso un confronto tra imputato e parte offesa ed il 45% di mediazioni comunitarie, così dimostrando la bontà delle soluzioni di giustizia riparativa ai fini del superamento della lacerazione sociale prodotta dal reato. Occorre quindi promuovere questi istituti tesi a favorire il recupero sociale del reo ed evitare fenomeni di c.d. vittimizzazione secondaria, senza rinunciare, allo stesso tempo, alla tutela della sicurezza della collettività e senza arretramenti dello Stato nel garantire l’effettiva applicazione delle norme”. Lo ha detto il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri è intervenuto al convegno su “La centralità della mediazione penale per la messa alla prova degli adulti” che si è tenuto stamattina presso l’Università degli Studi di Firenze. La violenza fa paura nel Paese più sicuro di tutto il mondo di Aldo Varano Il Dubbio, 30 settembre 2017 In Italia i reati crollano ma la macchina securitaria corre a pieni giri. Mentre giornali tv e talk show raccontano un’Italia sempre più fragile e impaurita in cui dilagano reati predatori, di sangue, di mafia, omicidi (specie femminicidi) che avrebbero subito un’impennata da quando il Belpaese è stato invaso dagli extracomunitari è imbarazzante scriverlo. Ma da dati del ministero dell’Interno, piaccia o no agli industriali della paura che sulla paura campano, emerge una notizia opposta: l’Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo sviluppato (e non solo). Incrociando poi questi dati con quelli dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and crime, l’ufficio droghe e crimine dell’Onu) si scopre anche che siamo il paese dove le donne corrono il minor rischio di essere ammazzate. Precisazione: Minniti non c’entra nulla (anche se c’ha messo mano un decennio fa da vice ministro con delega al coordinamento di tutte le polizie; Amato ministro e Prodi capo del Governo). L’Italia da un quarto di secolo si muove verso un progressivo incivilimento. Tutti i reati (predatori, omicidi, omicidi di mafia) hanno subito una caduta netta. Nel 2015 (ultimo anno per cui ci sono i dati) si sono registrate 0,65 morti violente per ogni 100mila abitanti. Difficile trovare una percentuale più bassa nel mondo di cui facciamo parte. Fino a un quarto di secolo fa (1991) si registravano circa 2000 omicidi l’anno, nel 2015 se ne sono avuti 469 (- 3,30% del 2014). Non si è trattato di un crollo improvviso ma di una progressiva diminuzione, un trend solidificato che ha visto scendere le morti violente. C’è da aggiungere che il trend, sia pure con minor nettezza rispetto all’Italia, ha investito tutto il mondo occidentale: Europa, Canada, Stati Uniti. Il rapporto del Viminale al Parlamento (febbraio 2017) sui dati 2015 rispetto al 2014 elenca: violenze sessuali (- 6,04%), rapine (- 10,62%), furti (- 6,97%), usura (- 7,41%), sfruttamento prostituzione/ pornografia minorile (- 3,03%); invece, truffe e frodi informatiche (+ 8,82%), incendi (+ 30,33%), danneggiamenti (+ 1,96%), estorsioni (+ 19,67%). Gli omicidi sono stati 469, sedici in meno del 2014. Quelli mafiosi sono scesi da 51 a 49. E dalle statistiche non emerge il peso delle droghe leggere e della mancata liberalizzazione. Per esempio, il più 19,67 delle estorsioni è costituito in gran parte da quelle dei ragazzi contro genitori, nonni e parenti minacciati per i soldi della droga; e anche rapine e nei furti (che diminuiscono) appare questa componente: è il prezzo, altissimo, che paghiamo al proibizionismo (che il parlamento, in queste ore, sta rilanciando). E i femminicidi? Giampiero Dalla Zuanna e Alessandra Minello, studiando i dati Unodc hanno concluso che “l’Italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise”. Spiegano: “Nel periodo 2004- 2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei 32 paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc”. In Russia e Usa, per capire, il pericolo di essere ammazzate è quattro volte più alto che in Italia. Il rischio, rispetto alla media dei 32 paesi analizzati dall’Unodc, si abbassa nell’Europa meridionale e ci vede al 32esimo posto, fanalino di coda (uno dei pochi fanalini di cui non vergognarci!) Naturalmente, non basta. È inaccettabile considerare fisiologici gli omicidi per quanto pochi siano. Né è tollerabile che vi siano donne che vengono uccise perché sono donne (in maggioranza assoluta, 51%, dal proprio partner, nel 6% dall’ex, nel 20% dai parenti). E fanno bene i movimenti delle donne, anche in Italia, a mobilitarsi per chiedere maggiore attenzione. È invece vero, ed è fenomeno positivo, che la diminuzione dei morti ammazzati pare essere diventato un dato acquisito. Il quadro descritto polverizza e rivela il carattere strumentale della teoria, alimentata dai signori della paura, per cui gli immigrati avrebbero fatto crescere la delittuosità in Italia. Negli ultimi dieci anni il paese ha conosciuto una crescita mai registrata di stranieri (ufficialmente 5mln e 14437; stimati, circa 6 milioni) e, nello stesso periodo, il trend dei reati, femminicidi compresi, ha continuato felicemente a decrescere. Questa è la realtà. Altra cosa la sua percezione che subisce pesanti manipolazioni indebolendo la lucidità necessaria per governare ancor meglio la sicurezza. Curiosamente, nel nostro paese, sono le donne straniere a rischiare più delle italiane (e non perché uccise dai connazionali). Che tutto questo sia accaduto nel cuore della crisi economica più lunga dell’ultimo secolo appare miracoloso. Nessuna etnia straniera, inoltre, s’è imposta in Italia come cartello criminale autonomo ed egemone in un settore della malavita, né l’immigrazione ha fornito, se non in maniera marginale, manovalanza alle mafie, qualche spacciatore, un po’ di prostituzione. Secondo Pino Arlacchi, il sociologo che ha teorizzato la mafia imprenditrice, tutto ciò sarebbe accaduto non soltanto per l’alta capacità delle polizie italiane, a cui certamente va parte alta del merito, ma anche perché gli immigrati essendo già stati “vittimizzati dalle mafie dei paesi d’origine” e “sfruttati ferocemente dai trafficanti di esseri umani” in grande maggioranza si sono tenuti lontani dagli ambienti mafiosi. Penale, la stretta sugli appelli. Nel codice doping procurato, aborto colposo, rifiuti di Claudia Morelli Italia Oggi, 30 settembre 2017 Stretta agli appelli delle sentenze penali, soprattutto da parte del pm. Il pubblico ministero infatti non potrà più appellare la sentenza di condanna se non in casi specifici né proporre appello incidentale. L’imputato potrà fare appello alla sentenza di proscioglimento se la formula non è piena (dunque fuori dai casi “perché il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”). Fanno ingresso nel codice penale nuovi reati come i delitti contro la maternità, contro l’uguaglianza, il doping procurato, l’uso abusivo di carte di credito e si autorizza la confisca dei beni anche nei casi di patteggiamento della pena per i reati contro la p.a. Lunedì il consiglio dei ministri esaminerà in via preliminare due decreti delegati di attuazione della riforma del processo penale della legge 107/2017, il primo relativo alla modifica della disciplina delle impugnazioni; il secondo relativo alla riserva di codice, nel tentativo di arginare il profluvio di previsioni di nuovi reati al di fuori di un quadro maggiormente ponderato. Il cdm si occuperà anche dell’esame in via definitiva del decreto che disciplina i rapporti tra autorità giudiziarie di diverse nazionalità nell’amministrazione della giustizia penale. Impugnazioni. Passa anche da una opera di razionalizzazione (e semplificazione) dei casi di appello l’opera di deflazione del carico di processi penali nelle Corti d’appello. Regole di “buon senso” che hanno trovato una necessaria veste normativa e che, nelle intenzioni del ministro della Giustizia Andrea Orlando, dovrebbero contribuire a porre su un piano di parità parte privata e pubblica accusa, restituendo quest’ultima al perseguimento degli interessi dell’intera collettività e limitando il potere di impugnazione nei limiti in cui le pretese delle parti risultino soddisfatte. Il Dlgs attua una delle deleghe contenute nella legge 103/2017 disponendo la riduzione dei casi di appello, individuando gli uffici del pubblico ministero legittimati a proporre appello, limitando l’appello incidentale al solo imputato, modificano il procedimento davanti al giudice di pace. Con riguardo al primo punto, con riferimento ai processi di competenza del tribunale, segnaliamo che mentre l’imputato potrà appellare in ogni caso contro una sentenza di condanna, il pm potrà farlo solo se essa modifica il titolo del reato, escluda circostanza aggravanti a effetto speciale o stabilisca una pena diversa da quella ordinaria. Ovviamente il pm potrà appellare contro le sentenze di assoluzione mentre l’imputato potrà farlo solo se l’assoluzione non è con formula piena (ma chi appellerebbe una sentenza dichiarativa della prescrizione?). Specularmente alla legittimazione del pm si muove quella del procuratore generale che tuttavia presuppone l’inerzia del pm. Completa il quadro della riforma la norma che prevede che il pm possa presentare impugnazione nell’interesse dell’imputato solo con ricorso per cassazione per esempio nei casi di proscioglimento e per ottenere una formula più favorevole. Nei procedimenti penali afferenti a reati di competenza del giudice di pace il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge. Per facilitare l’efficienza del grado di appello viene richiesto al giudice di primo grado di fornire unitamente al provvedimento impugnato una serie di dati utili, come per esempio i termini di custodia cautelare in scadenza e quelli di prescrizione. Riserva di codice. Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia. È questo il principio di riserva di codice introdotto dallo schema di Dlgs che attua altro aspetto della legge 103. Un principio tendenziale visto che nel prosieguo del testo, lo schema di Dlgs introduce nuove ipotesi di reato: il sequestro di persona a scopo di coazione; l’utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; un Capo dedicato ai delitti contro la maternità, che sanzionano il procurato aborto colposo o senza il consenso della madre e anche il traffico di organi. Vengono introdotti nuovi reati contro l’uguaglianza come la propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa e quelli contro l’ambiente, come l’organizzazione di attività ai fini del traffico illecito di rifiuti. A tutela del sistema finanziario viene punito con la reclusione anche fino a 5 anni l’indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento o il trasferimento fraudolento di valori. Infine nuovi interventi restrittivo per i reati attinenti al terrorismo e alla criminalità mafiosa. Se la giustizia si allontana dal senso comune Bruno Vespa Il Mattino, 30 settembre 2017 Anche per ragioni familiari, ho un alto rispetto dei magistrati. Ma alcuni avvenimenti degli ultimi giorni - del tutto indipendenti l’uno dall’altro - mi hanno indotto a condividere il senso di impotenza e di scoramento che accomuna tanta gente, demente Mastella e la moglie vengono assolti dopo nove anni. Entrambi hanno dovuto rinunciare all’attività politica nazionale e sono stati insultati come più non si potrebbe. Talvolta la lentezza della giustizia non dipende soltanto da inefficienze burocratiche, ma dal fatto che quando le prove sono fragili i magistrati hanno interesse a far prescrivere i processi In appello il processo Mastella sarà prescritto. Anche Filippo Penati, braccio destro di Pierluigi Bersani, ha dovuto interrompere l’attività politica. Il “Sistema Sesto” (San Giovanni) sembrava una macchina intelligente e raffinata di corruzione e finanziamento illecito del partito erede dei partiti nati dal Pci. È stato assolto in primo grado e in appello. Alcuni reati per i coimputati sono andati prescritti. Cambiamo pagina e andiamo alla cronaca. Mercoledì un uomo di 39 anni aspetta a Milano che una ragazzina di 12 anni rientri da scuola, la segue, entra nel suo palazzo, la sbatte in terra su un pianerottolo e la violenta. La ragazzina ha la lucidità di descriverlo perfettamente, gli investigatori capiscono chi è il mascalzone e l’indomani lo arrestano. L’uomo ha commesso tra il 2004 e il 2006 a Genova una ventina di violenze; sempre a ragazzine, sempre con le stesse modalità (inseguimento, pianerottolo). Spesso costrette ad inginocchiarsi con due coltelli alla gola. Condannato a 14 anni e 8 mesi nel 2006, con revisioni e sconti di pena è uscito dopo otto. Adesso si sta indagando per vedere se nell’ultimo biennio ha violentato altre ragazzine. C’è il sospetto su una aggressione simile alle altre avvenuta due settimane fa. Andiamo avanti. Nel 2013 un moldavo di 53 anni rientra a casa ubriaco e cerca di picchiare la moglie come fa sempre. Il figlio cerca di difendere la donna e viene ammazzato. L’uomo è condannato all’ergastolo in primo grado e in appello. Ma l’altro ieri la Cassazione annulla le condanne e ordina un nuovo processo che dovrà attenuare la pena, comunque non inferiore ai 16 anni. Perché il figlio non era consanguineo del padre, ma soltanto adottato. L’adottato ha tutti i diritti civili di un figlio, non quello diveder punito adeguatamente il padre che lo ammazza. C’è infine la storia di Francesco Mezzega, 36 anni. La notte del 31 luglio in Friuli uccide la fidanzata, gira tutta la notte col cadavere in auto prima di costituirsi. Dopo 57 giorni è a casa dei genitori: arresti domiciliari con braccialetto elettronico per sorvegliarne i movimenti 57 giorni perché il braccialetto come al solito non si trovava, altrimenti sarebbe uscito dal carcere molto prima. Si aggiunga la norma appena approvata dal Parlamento che prevede sequestro e confisca dei beni personali e aziendali dell’imprenditore o del professionista semplicemente indiziati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Beni perduti, aziende fallite perché la confisca avviene molto prima che un giudizio definitivo stabilisca l’innocenza dell’imputato. Una follia giuridica, già considerata da molti incostituzionale. Nel sistema giudiziario romano, la norma e la sua applicazione nascevano da un ampio dibattito e rispettavano alla fine l’aderenza al senso comune di giuristi e di cittadini. In Italia il senso comune - detto anche buonsenso - è dimenticato da tempo. Violenza sessuale solo se c’è l’atto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2017 Non basta ogni tipo di sopraffazione fisica per integrare il reato più grave. Può essere assai sottile il confine che passa tra i reati di violenza sessuale e di atti sessuali con una minorenne. Ma è esattamente quel confine che separa una condanna a più di 6 anni di carcere dal proscioglimento per assenza di querela. E vicenda tanto più impervia quando la vittima è una minorenne, vittima di disagio psichico aggravato da un precario sviluppo psico-fisico dovuto a degradato contesto familiare e il presunto colpevole è lo zio. La Corte di cassazione, sentenza n. 44936, della Terza sezione penale, depositata ieri, ha sposato una linea chiara: baci, toccamenti, simulazioni di congiungimento, non sono tali da potere fondare una condanna per violenza sessuale. Condanna, a 6 anni e 2 mesi, che, dopo un proscioglimento in primo grado, era stata inflitta dalla Corte d’appello che, invece, aveva ritenuto che una condotta di sopraffazione fisica, accompagnata da intimidazione psicologica ai danni di un soggetto “debole” sono elementi idonei a realizzare il requisito della violenza. Tanto più che la minore, nel corso della sua audizione, aveva sottolineato che il comportamento dello zio non le era assolutamente gradito. La Cassazione però è stata di avviso diverso, annullando la condanna e rinviando il caso in Corte d’appello per un nuovo esame. Per i giudici infatti, seguendo il ragionamento della pronuncia di appello la violenza sessuale scatterebbe tutte le volte che si configura una forma di violenza fisica “a prescindere dal fatto che tale comportamento costituisca a sua volta la materialità dell’atto sessuale”. “Aderire in toto alla tesi della Corte d’appello - prosegue la Cassazione - comporterebbe, di fatto, la possibilità di considerare integrato il reato di cui all’articolo 609 bis del Codice penale ogni qualvolta il soggetto, anche in ragione della stessa morfologia degli organi sessuali, debba esercitare una qualche forza fisica a carico del soggetto che quegli atti starebbe secondo tale ipotesi accusatoria, subendo”. La Cassazione puntualizza che in discussione non c’è tanto l’immoralità della condotta, ma la sua qualificazione giuridica. Che però ha conseguenze determinanti sul procedimento: nel caso infatti si possa configurare una violenza sessuale la procedibilità sarà d’ufficio, mentre se dovesse essere di atti sessuali con minorenne (come sottolineato dalla Cassazione) il giudizio si dovrebbe concludere con un non luogo a procedere in assenza di querela. Contrabbando, cancellate le multe di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2017 Dire che il contrabbando è stato depenalizzato sarebbe troppo. Certo però la Corte di cassazione ha preso atto ieri che l’importazione in Italia di uno yacht, in violazione della normativa Iva, sanzionata in precedenza sul piano pecuniario, deve adesso, dopo il decreto legislativo n. 8 del 2016, essere considerata priva di rilevanza penale. La Corte ha così annullato, sentenza n. 44940 della Terza sezione penale, depositata ieri, annullato la condanna a 800.000 euro di multa inflitta per la sottrazione al pagamento dei diritti di confine di un’imbarcazione da diporto di notevole valore. A essere violati erano stati gli articoli 70 del Dpr 633/72 e 292 del Dpr 43/73. La misura era stata innalzata di 200.000 euro in appello, malgrado la concessione delle attenuanti generiche (la pena base era stata determinata in un milione 200.000 euro). L’operazione di ingresso sul territorio nazionale dell’imbarcazione era poi stata favorita dalla concessione delle agevolazioni previste dall’articolo 216 del Testo unico delle leggi doganali, con l’esclusione dalla presentazione di documenti e garanzie. La Cassazione chiamata in causa dalla difesa, che contestava anche il sequestro dell’imbarcazione (oltre alla responsabilità penale dell’imputato e al trattamento sanzionatorio), ha sancito che il reato oggetto del procedimento è stata depenalizzato. Infatti, l’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 8 del 2016, che si può applicare anche in via retroattiva a condotte antecedenti, ha previsto che non costituiscono reato e sono invece solo soggette a misura amministrativa tutte le violazioni per le quali è stabilita la sola pena della multa o dell’ammenda, con esclusione di quelle non previste dal Codice penale ed inserite in un elenco specifico allegato al decreto stesso. E il caso arrivato in Cassazione appartiene proprio a quest’area. Infatti, il reato in questione è punito con la sanzione della multa in una misura non minore di 2 e non maggiore di 10 volte i diritti di confine dovuti; inoltre non risulta, ricorda la Cassazione, essere compreso nell’elenco del decreto uscendo quindi definitivamente dal perimetro di rilevanza penale. La Corte allora annulla senza rinvio la pronuncia impugnata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Tuttavia potrebbe non restare senza sanzione, visto che contestualmente la stessa Cassazione provvede a trasmettere tutti gli atti all’Agenzia delle dogane competente per territorio, che dovrà valutare se è invece possibile infliggere una misura pecuniaria soltanto di natura amministrativa. “Io, da prete sono diventato un trofeo da esibire nei talk show” Il Dubbio, 30 settembre 2017 Ci scrive don Edoardo Scordio, detenuto, a quasi 71 anni, con l’accusa di associazione mafiosa. “Caro Sansonetti, chi le scrive, e spero di non dispiacerle, è un sacerdote assurto alle cronache nei mesi scorsi, arrestato e condotto in custodia cautelare da 4 mesi nella Casa circondariale di massima sicurezza di Vibo Valentia. Le scrivo per dirle che apprezzo i suoi pubblici interventi in tema di mafia e mafiosi e giustizia. Voglio particolarmente farle sapere il mio totale consenso alle affermazioni chiare e coraggiose de lei fatte giorni fa al Tg5 a seguito della piena assoluzione dei coniugi Mastella e compagni. Concordo pienamente sulla pericolosa e dannosa ingerenza della magistratura nel mondo politico determinandone spesso la sorte. Sul connubio tra magistratura e mass media, sullo strapotere nell’uso delle intercettazioni e dei “pentiti” o “collaboratori di giustizia”. Le scrivo non solo perché sono vittima di questi metodi ma soprattutto perché ne subiscono le conseguenze disastrose innumerevoli persone e le loro famiglie; una realtà che in questo luogo sto conoscendo molto da vicino e che mi era del tutto ignota sia per la gravità delle conseguenze sia per il numero del- le “vittime”. Ho pubblicato un libro: “Non lasciatevi travolgere” (2014). Il sottoscritto è finito nella “retata” del 416 bis e grazie alla stampa che ha preceduto (Il Fatto Quotidiano e l’Espresso sul centro di accoglienza di S. Anna di Isola di Capo Rizzuto, nei mesi tra gennaio e marzo u. s.) e seguito, con una gogna mediatica incredibile, assurda, sono diventato l’eccellente trofeo da esibire ovunque (conferenze, interviste, talk show) a consacrazione del successo “investigativo” anche se fondato su “indizi provvisori” “sentito dire”, teorema “logico sebbene astratto”, “ruolo oscuro”. Non voglio entrare nel merito ma non posso tacere quanto sto subendo (e con chissà quanti altri). Sono in custodia cautelare da 4 mesi in via preventiva ma con trattamento altamente punitivo pari a quello di pluri-condannati, ergastolani e detenuti con pene definitive. Pur essendo innocente fino a eventuale condanna, sono considerato colpevole da stampa, da giudici, da personale carcerario. Costretto a tortura psicologica e fisica, in gabbia per quasi 24 ore, nello spazio di pochi metri, insieme ad altri due detenuti, sdraiato o seduto su un lettuccio, senza alcuna occupazione o programma in qualche modo “rieducativo”, spogliato di tutto, anche della mia funzione sacerdotale pur non essendo sospeso “a divinis” ma solamente da parroco. Non si è voluto tenere conto della mia età (70 anni e nove mesi), della mia salute perché il 416 bis permette un totale arbitrio sulla persona fino a relegarla in una struttura come questa che mi hanno fatto toccare con mano ciò che è un lager; quando il 416 bis, nato solo “per emergenza”, è una porta aperta, anzi spalancata alla dittatura. Qualcuno che ben conosce questa realtà mi ha mandato a dire che ormai in Italia il carcere duro e senza appello per “associazione mafiosa” sta dietro le spalle di ognuno, di tutti. Da un momento all’altro puoi essere marchiato per sempre anche solo per un saluto, un incontro casuale, un “sentito dire”, un pettegolezzo intercettato, la fantasia di un “pentito” interessato a sconti di pena e benefici economici. Sono veramente sgomento e impotente anche per il plagio evidente operato sulla gente da queste “operazioni” eclatanti, dal tam tam rumoroso, continuo, del tutto estraneo al rispetto dei diritti della persona, dei mezzi di comunicazione. Mi perdoni lo sfogo, spero solo di trovare almeno un po’ di ascolto. Con stima, Don Edoardo Scordio, Casa Circondariale C. da Cocari, 29 - 89900 Vibo Valentia. Milano: terapie in carcere e controlli medici, così si curano i “sex offender” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 settembre 2017 Dei 248 detenuti trattati dai criminologi dell’équipe di Paolo Giulini, al lavoro nell’istituto penitenziario di Bollate dal 2005, i recidivi sono stati otto. Il problema è “scongelarli”. Nel senso che alcuni degli autori di reati sessuali li si può anche tenere in carcere 5, 10, 15 anni, ma poi all’uscita - se in carcere sono stati soltanto rinchiusi - spesso torneranno a commettere quei reati: e i criminologi dell’equipe di Paolo Giulini, che dal 2005 conduce nel carcere milanese di Bollate uno dei pochissimi esperimenti italiani di specifico trattamento terapeutico dei cosiddetti sex offenders, parlano proprio di “ibernazione penitenziaria” perché questi condannati, “se quando entrano in carcere non vengono trattati, non prendono coscienza del reato commesso, restano congelati, e quando escono riproducono quei meccanismi psicopatologici che sono alla base dei loro atti” di stupro, molestie, pedopornografia. La scelta della Francia - L’ordinario supporto riabilitativo che il carcere offre già poco o per nulla ai detenuti ordinari, magari con un solo psicologo per centinaia di detenuti, a maggior ragione non incide su individui spesso connotati da disturbi della personalità, incapaci di mettersi nei panni degli altri e percepirne la sofferenza inflitta, o essi stessi abusati da piccoli in un caso su cinque. Ci sono Paesi, come la Francia, dove dal 1998 il giudice, dopo l’espiazione della pena, impone all’autore di reati sessuali di seguire un periodo (da 2 a 5 anni) di “controllo medico-socio-giudiziario”: se non vi si sottopone, scatta un reato autonomo che determina un’altra condanna. Le sedute con i familiari - Dal 2005 Giulini, con il Centro italiano per la promozione della mediazione, e d’intesa con il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano, a Bollate prova invece far usare ai condannati il tempo della pena, anziché farlo solo scorrere in attesa del ritorno in libertà: in modo che quel tempo serva al detenuto - su base volontaria - per assumere la responsabilità, e prima ancora la coscienza, di ciò che ha fatto. Dopo tre mesi di osservazione, il detenuto firma un contratto simbolico con l’équipe per impegnarsi a un anno di trattamento, con quattro sedute settimanali, e una bisettimanale anche con i familiari. È un lavoro complicato, per nulla scontato, a volte crudo (intuibile guardando le riprese del film “Un altro me” realizzato nel 2016 da Claudio Casazza e premiato alla 57esima edizione del Festival dei popoli di Firenze): a cominciare dalla rimozione delle negazioni dietro le quali il sex offender si trincera, e cioè la negazione di quanto ha commesso, della propria consapevolezza, del dolore della vittima, della progettualità, della sessualità, e naturalmente la negazione di tutte queste negazioni. Oltre che sui disturbi della personalità, il lavoro si concentra sulle distorsioni cognitive che permettono agli autori di reati sessuali di sopportare nella propria psiche ciò che infliggono alle vittime. Tutte dinamiche che l’evocazione della castrazione chimica non coglie per nulla, e non solo per la scientificamente non dimostrata relazione tra riduzione del testosterone e riduzione della libido: i sex offenders appaiono non tanto persone che praticano una modalità aggressiva di esprimere la sessualità, quanto soggetti che canalizzano sulla dimensione sessuale il loro esprimere aggressività e volontà di annullare la vittima. Esperienze isolate - “È triste che se ne parli solo quando ricapita uno di questi fatti - commenta amaramente Giulini, si dovrebbe invece pensarci prima e fare sistema ed estendere quelle che oggi sono esperienze isolate”: Bollate appunto, poi due anni di esperimento a Rebibbia (ma il finanziamento è finito proprio adesso), qualcosa a Piacenza, in futuro Pavia. Eppure l’Italia ha in teoria recepito l’articolo 13-bis della Convenzione di Lanzarote, che ad esempio pone a carico degli Stati la necessità di uno specifico trattamento psicologico per i condannati per sfruttamento sessuale dei minori. E soprattutto i risultati una strada indicano: in 12 anni, su 248 condannati trattati in carcere dall’équipe di Giulini, 8 hanno ricommesso un reato sessuale. E se da 3 anni anche gli imputati (prima ancora delle sentenze) possono chiedere di essere trattati, qui i casi di recidiva sono sinora 3 su 350. Cagliari: Sdr “a Uta un detenuto attende da due anni un intervento alla prostata” Cagliaripad.it, 30 settembre 2017 “Un detenuto di 67 anni di Guasila, E.S., ristretto nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, attende da due anni di subire un intervento chirurgico alla prostata. Una situazione inaccettabile per una persona che vive una condizione di perdita della libertà in stato di salute precaria”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando “la gravità della situazione peraltro segnalata più volte dai Medici dell’Istituto Penitenziario. “L’uomo - sottolinea Caligaris - lamenta la mancanza di risposte nonostante i solleciti e lo sciopero della fame, della sete e dei medicinali portato avanti per una settimana. La vicenda appare poi come una beffa perché E. S. ha dovuto rinunciare a svolgere qualunque attività lavorativa in carcere in attesa dell’intervento chirurgico e non si è visto respingere l’istanza di trasferimento in una Casa di Reclusione all’aperto per le non idonee condizioni di salute”. “Nello scorso mese di agosto, il coordinatore sanitario della Casa Circondariale ha ampliato la richiesta di offerta sanitaria alle Casa di Cura convenzionate con il sistema sanitario nazionale. Fino ad ora però - conclude la presidente di Sdr - nessuna risposta. Forse è il caso di ricordare che il diritto alle cure e alla salute è sancito dalla Costituzione, sottoscritto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con circolari inequivocabili, irrinunciabile principio della sanità penitenziaria. Troppo spesso però non viene pienamente rispettato per i cittadini privati della libertà che si sentono di infima serie”. Napoli: sanità, sovraffollamento e nuovo direttore del carcere di Fabrizio Ferrante napolitoday.it, 30 settembre 2017 Gli ex detenuti in presidio a Poggioreale. Questa mattina, 29 settembre, gli ex detenuti organizzati di Napoli insieme all’ex Opg occupato “Je so pazz” e a Gioco di squadra Onlus, hanno dato vita a un presidio all’esterno del carcere di Poggioreale. Diverse le ragioni che hanno indotto Pietro Ioia, storico attivista per i diritti dei detenuti, a convocare una manifestazione silenziosa quanto efficace. Mercoledì 4 ottobre una delegazione composta da membri delle tre associazioni entrerà in carcere per parlare di sanità dietro le sbarre, sovraffollamento e presunti pestaggi ai danni dei detenuti. Dal carcere, tramite un commissario della Penitenziaria, fanno sapere che tutto scorre tranquillamente, che il sovraffollamento non è causato dal carcere e che una manifestazione sarebbe da tenersi magari a Roma (dove si decide) e non a Poggioreale che, come ogni carcere, è ultimo anello della catena della giustizia. La metratura delle celle e i detenuti che possono accogliere è stabilito infatti dal Dap ma Ioia non ha mancato di far notare l’anomalia riscontrata poche settimane fa al padiglione Milano, in cui in una cella erano stipati nove detenuti con letti a castello su tre livelli. Quanto ai pestaggi, questi sono stati smentiti sebbene si sia specificato che talvolta è necessario intervenire per reprimere situazioni difficili. Sulle motivazioni che hanno portato gli ex detenuti in piazza si è soffermato il leader degli ex D.O.N. Pietro Ioia: “La ragione di questo presidio sta nel fatto che stiamo ricevendo parecchie lettere da detenuti ammalati e qualche altro recluso sostiene di essere stato picchiato. Vogliamo essere ricevuti dal dirigente sanitario e dal comandante - ha aggiunto Ioia - anche per sapere quando sarà possibile vedere il nuovo direttore. Continueremo a manifestare, oggi non potremo inviare una delegazione all’interno in quanto mancano il dirigente sanitario e il vicario ma entreremo mercoledì. Quanto al nuovo direttore, speriamo che entro la prossima settimana possa essere nominato e insediarsi. Poggioreale si sta di nuovo sovraffolando - ha concluso - parliamo di oltre 2000 detenuti su una capienza di 1600. Occorrono seri provvedimenti, Poggioreale è un carcere difficile che continueremo a marcare stretto. Non abbasseremo la guardia”. Sul fronte della sanità dietro le sbarre si è invece soffermata Carmela Esposito, presidente di Gioco di Squadra Onlus, attiva sul territorio di San Giorgio a Cremano ma da sempre vicina alla realtà carceraria finanche a livello nazionale. Carmela Esposito ha ricordato in particolare come i detenuti non siano curati e ciò che la sanità pubblica, di fatto, rifiuta di fare per garantire i loro diritti: “Molti detenuti non vengono trasferiti in ospedale perché non ci sono posti. L’ospedale Pascale deve aprire assolutamente il padiglione detentivo, cosa che si rifiuta di fare non garantendo i ricoveri ma solo fino al pre-ricovero. Non è possibile che un detenuto va a fare la chemio e subito dopo viene riportato in cella. Alcuni fanno la terapia negli stessi giorni dei colloqui, a cui i detenuti si presentano ugualmente per non far pensare ai parenti che stanno male”. Ma non c’è solo il cancro: “Vi sono poi detenuti diabetici - ha continuato l’attivista - che dovrebbero mangiare diversamente dagli altri mentre sappiamo per certo che viene fatta la richiesta ed è puntualmente disattesa. Le celle, inoltre, non possono includere assieme detenuti sani e affetti da malattie infettive, in quanto si abbassano le difese immunitarie mettendo a rischio la salute di tutti. Ci avviciniamo al mese di ottobre, dedicato alla prevenzione ma come al solito i reclusi sono sempre esclusi, anche se non c’è nessuna legge che lo preveda”. Infine una stilettata a parte del mondo politico: “Non possiamo affidarci a chi fa le passerelle come alcuni politici e associazioni o a chi chiede soldi ai detenuti. Occorre presentare un progetto serio alla Comunità Europea per evitare che chi finisce di scontare la pena, una volta a casa, si rende conto di doverne scontare un’altra: il cancro in stato avanzato perché non è stata fatta la prevenzione. Inoltre in carcere non arrivano i farmaci anche per chi è cardiopatico. Col passaggio della sanità penitenziaria dallo Stato alle Regioni abbiamo fatto enormi passi indietro. Di questo parleremo mercoledì quando entreremo nel carcere di Poggioreale”. Vibo Valentia: carcere al collasso; 408 detenuti e 137 agenti, è allarme zoom24.it, 30 settembre 2017 Oggi il sit-in davanti ai cancelli di contrada Castelluccio. L’appello raccolto dall’on. Dalila Nesci. Sessanta agenti in meno nella pianta organica del carcere di Vibo Valentia. È quanto denuncia il Sappe, il sindacato degli agenti della polizia penitenziaria. Una denuncia che oggi si trasformerà in un sit-in davanti i cancelli dell’istituto penitenziario. Impietosi i numeri snocciolati al sindaco che da più mesi in maniera continua ma inascoltata denuncia la situazione ormai divenuta insostenibile. Nell’istituto vibonese si trovano 408 detenuti, di cui circa 230 appartenenti alla criminalità organizzata. Numeri. Il dato sul rapporto tra personale e detenuti è, per quanto riferito dal Sappe, di un agente ogni tre detenuti, pari al 33%. Sempre secondo il Sindacato, nel resto della Calabria la percentuale in questione sale al 52%, mentre la media italiana è del 66%. In molti casi, per garantire i circa 1200 trasferimenti annui di detenuti - spostati per processi, visite e permessi - a Vibo Valentia viene utilizzato il personale interno dell’Istituto, abbassando inevitabilmente i livelli minimi di sicurezza. Una situazione su cui da mesi il Sappe lancia appelli, esponendo numeri e criticità. Se, infatti, nel 2001 la dotazione era di 202 unità, quella attuale ne prevede sole 140, ben 60 unità in meno. Un Istituto, inaugurato nel 1997, dove svolgevano servizio ben 257 unità di Polizia Penitenziaria. Oggi, invece, quello che emerge è che su oltre 400 detenuti presenti, dei quali circa 230 appartenenti alla criminalità organizzata, operano solo 137 unità Polizia penitenziaria, con un rapporto di 1 agente per 3 detenuti. Dalila Nesci. Sul caso si dice pronta ad intervenire la parlamentare vibonese Dalila Nesci che ha annunciato la sua presenza al sit-in di oggi pomeriggio. “Porterò il caso in parlamento. Vibo Valentia - ha scritto - non può essere terra di nessuno, abbandonata dallo Stato e costretta a subire tagli e paradossi inaccettabili”. Padova: detenuto omicida e laureato evade grazie al permesso premio di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 30 settembre 2017 Il serbo Boris Rasnik è sparito nell’auto che lo aspettava davanti alla comunità “Piccoli passi”: aveva ucciso un giovane e commesso altri crimini, a giugno la tesi in Filosofia con il massimo dei voti. Nonostante una pesante condanna alle spalle per omicidio e un fine pena previsto per il 26 maggio 2024, detenuto modello per tutti. Tanto da conquistare il 16 giugno scorso una laurea in Filosofia all’università di Padova con il massimo dei voti discutendo una tesi sulla filosofa e scrittrice francese Simone Weil, dopo aver conseguito la maturità all’Itc Einaudi. Non a caso era stato definito “un esempio altamente positivo in tutta Italia di come possa e debba essere organizzato il reinserimento del detenuto nella società civile attraverso l’offerta di studi”. Tre mesi più tardi, il 27 settembre, il tradimento: s’è volatilizzato durante un permesso di tre giorni e mezzo da trascorrere nella comunità “Piccoli Passi”, a Padova, in via Po 261, poco lontano dal carcere Due Palazzi. Una macchina lo attendeva all’esterno della struttura, e lui è s’è infilato nell’abitacolo in tutta tranquillità, benché dovesse essere sempre scortato. E poi via, probabilmente verso la Serbia il paese d’origine. Ora chi lo troverà più Boris Rasnik, 43 anni il prossimo 6 ottobre originario di Belgrado, alias Goram Hauk e, ancora, Kristian Vuktic solo per citare qualche esempio, in totale una trentina di generalità false? Come è possibile che un recluso con un curriculum così pesante possa eclissarsi da un istante all’altro sotto gli occhi di chi ne aveva la responsabilità? Dietro le sbarre dal 9 ottobre 2003 in seguito all’estradizione dalla Germania, era stato condannato a 23 anni di reclusione a Torino per aver ucciso a colpi di pistola, nel 1996, un connazionale durante una lite; poi un’altra condanna di 4 anni per furti e altri crimini commessi in diverse città d’Italia. È il 23 agosto scorso quando il tribunale di Sorveglianza di Padova concede il permesso premio. “Il detenuto uscirà dalla casa di reclusione alle 9 del 26 settembre e vi farà rientro non dopo le ore 18 del 29 settembre accompagnato da un volontario della struttura”. Il 31 luglio Rasnik aveva presentato la richiesta di permesso “per potersi recare nella comunità “Piccoli passi” con possibilità di uscire qualche ora della giornata per piccoli acquisti a Padova sempre accompagnato dai volontari per tutta la durata del permesso o per mangiare una pizza con la famiglia proveniente dalla Germania e da Belgrado”. Condotta impeccabile dentro il penitenziario, per il serbo è arrivato il via libera “rilevato che non vengono segnalate irregolarità comportamentali in ambito intramurario...” si legge nel decreto del tribunale di Sorveglianza, “preso atto della corretta fruizione dei precedenti permessi concessi e ritenuta l’opportunità di consentire all’interessato la prosecuzione dell’esperienza premiale allo scopo di coltivare i propri interessi socio-riabilitativi e familiari... avuta la disponibilità della struttura e il parere favorevole del direttore”. Chiare le prescrizioni da rispettare rivolte tanto al detenuto quanto ai responsabili della comunità ospitante: Rasnik era autorizzato a “uscire dalla struttura tre ore al giorno per tutti i giorni di permesso purché sempre accompagnato dai volontari disponibili o dai familiari, rimanendo nel territorio comunale di Padova e potendo sconfinare in quello di Limena esclusivamente per l’impiego del mezzo pubblico”. E ancora: “Non si accompagnerà a pregiudicati o tossicodipendenti, esclusi gli altri ospiti; non assumerà stupefacenti o alcolici; sarà prelevato e accompagnato in istituto da un operatore de “I Piccoli passi”. E, allora, come è giustificabile quella fuga? Che garanzie sono in grado di offrire le comunità che ospitano i detenuti in permesso, strutture private alle quali di fatto sono demandati la rieducazione e il controllo delle persone condannate tanto per guida in stato di ebrezza quanto per un assassinio? Prato: inaugurazione della Casa Jacques Fesch, accoglierà detenuti in permesso premio agensir.it, 30 settembre 2017 La Casa Jacques Fesch, nella diocesi di Prato, è stata completamente ristrutturata ed è pronta ad accogliere nuovamente i detenuti in permesso premio. La struttura e le sue funzioni saranno presentate alla città domani, sabato 30 settembre, alle 11,30 con una inaugurazione ufficiale. L’appuntamento è in via Pistoiese 515/c, accanto al vecchio chiesino di Narnali. Saranno presenti il vescovo di Prato Franco Agostinelli, la direttrice della Caritas diocesana Idalia Venco, il direttore della casa circondariale di Prato Vincenzo Tedeschi, la garante per i diritti dei detenuti Ione Toccafondi e Rodolfo Giusti, responsabile del progetto “Non solo carcere”, grazie al quale la Casa è stata ristrutturata. Nel 1990 a Prato è stata aperta la Casa Jacques Fesch, dedicata al criminale francese convertito in prigione, fortemente voluta dai cappellani del carcere per dare un tetto a quei detenuti che hanno ottenuto un permesso premio ma non hanno un posto dove stare. La Casa fornisce dunque un servizio di alloggio temporaneo alternativo all’istituto di pena. Un luogo protetto dove i carcerati possono incontrare i loro familiari. La struttura, che si trova a Narnali, grazie al progetto Caritas è stata ristrutturata per aumentare e diversificare la propria capacità di accoglienza. Brescia: detenuti a piedi verso Santiago, perché il cammino è riscatto e riabilitazione di Andrea Mattei Gazzetta dello Sport, 30 settembre 2017 Otto ragazzi italiani colpevoli di gravi reati partiranno il 13 ottobre per un pellegrinaggio “alternativo” al carcere. Un progetto di recupero che in Europa funziona da molti anni: “Il cammino è una riabilitazione molto più efficace della galera, perché la recidiva è di appena un terzo”. Otto giovanissimi detenuti in cammino verso Santiago. Non è una vacanza, né una fuga rocambolesca, ma un esperimento di rieducazione minorile, perché “camminare può essere una medicina, il carcere no”. È da questi presupposti che la Cooperativa sociale Fraternità Impronta di Ospitaletto, in provincia di Brescia, ha selezionato un gruppo di ragazzi tra i 17 e i 19 anni che hanno commesso reati anche gravi e attualmente sono sottoposti a detenzione: avranno l’opportunità di essere messi alla prova in questo nuovo progetto. Scarponi ai piedi e zaino in spalla, partiranno il prossimo 13 ottobre da Ponferrada per provare a raggiungere in una decina di giorni Santiago di Compostela, dopo aver percorso a piedi circa 200 km. “Hanno commesso reati gravi, ma pensiamo che abbiano diritto a un’altra possibilità”, spiega al Corriere Pierangelo Ferraresi, presidente della cooperativa di cascina Cattafame e responsabile dell’area minori, che li accompagnerà in questa sfida. “Cerchiamo di impostare la nostra attività su esperienze valoriali, per evitare che i ragazzi si trovino di nuovo nei guai, ma questa è una scommessa anche per noi”. Usare il cammino come strumento di “redenzione” e di riscatto è una pratica che si sta faticosamente introducendo nel sistema penitenziario italiano. Mentre all’estero è consuetudine da tanti anni. Il Belgio in questo senso è all’avanguardia da un pezzo. Nel 2009, La Retta Via, bellissimo docu-film di Roberta Cortella e Marco Leopardi, raccontava la storia di Ruben e Joachim, due giovani detenuti belgi di 17 e 16 anni che, grazie alla Ong Oikoten, camminano per 2.500 km dal Belgio alla Spagna per scontare la loro pena in maniera diversa dal carcere. Sono 35 anni che gli adolescenti belgi viaggiano a piedi sui sentieri d’Europa per evitare di tornare in prigione: vanno verso Capo Nord, Santiago di Compostela, Roma, Istanbul… E, nel tempo, il loro esempio è stato imitato da francesi, spagnoli e tedeschi. Il cammino, quindi, come strumento di riabilitazione. “Una riabilitazione che funziona più del carcere, perché la recidiva è di appena un terzo”, spiegano gli operatori di Oikoten-Alba, l’associazione fiamminga che per prima, nel 1982, ha lanciato questo rivoluzionario progetto. Tre mesi di cammino, un accompagnatore non professionista e più di 2.000 km di salite e discese, sudore e dolore: un percorso fisico non facile, un viaggio soprattutto interiore, dove la tentazione di mollare prende spesso il sopravvento e si paga a caro prezzo, perché il patto prevede che chi molla torna indietro, alla sua cella. A volte la fuga è la scorciatoia scelta da alcuni, ma se si arriva a destinazione, il premio è la libertà. E la scommessa di ricominciare. Alba (Cn): domani apre “Vale la pena 2017, il bello del carcere” comune.alba.cn.it, 30 settembre 2017 Si riparte con Vale la pena 2017, da Alba il 1° ottobre. Giunta alla settima edizione, la kermesse è dedicata quest’anno all’economia penitenziaria. Esposizioni, mostre, momenti di riflessione, approfondimenti sulle tematiche carcerarie e l’immancabile presentazione del vino prodotto con l’uva coltivata nella Casa Circondariale di Alba, da cui la manifestazione prende il nome, saranno il cuore della manifestazione. La rassegna di cibi, oggetti artigianali, abiti e accessori prodotti all’interno delle carceri con progetti finalizzati al reinserimento delle persone detenute, prende avvio la prima domenica del mese di ottobre in piazza Elvio Pertinace, dove il Mercato della Terrà ospita “Produzioni Ristrette”, dalle ore 9:00 alle 18:00. È previsto un intenso programma di iniziative su carcere e dintorni che continuerà anche dopo il 1° ottobre, sino a dicembre, il cui sguardo si focalizzerà con particolare interesse sul tema del lavoro all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. Vale la pena è un evento importante per la Casa Circondariale di Alba, in particolare per la presentazione del vino prodotto all’interno dell’istituto. La coltivazione dell’uva Barbera e di qualche pianta di moscato e dolcetto è nata nel 2006. Attualmente le persone detenute impegnate nel vigneto sono otto, ma per il 2018 è in programma un corso di formazione di altre persone da inserire nel progetto. L’Istituto Enologico Umberto I di Alba provvede alla vinificazione, imbottigliamento ed etichettatura stimando una produzione annua di 1.400 bottiglie. Mentre per quel che riguarda il processo di coltivazione del vigneto e la raccolta è curata dall’agronomo Giovanni Bertello, impegnato da anni con i progetti agricoli del penitenziario di Alba. Nella giornata di domenica saranno presentati anche altri prodotti di eccellenza realizzati nelle carceri italiane, un’occasione per sensibilizzare cittadini e opinione pubblica su come un maggiore impiego delle persone detenute nel mondo del lavoro, significhi investire in dignità, legalità e sicurezza, come sottolinea Alessandro Prandi, Garante comunale albese dei detenuti: “Su dieci persone che entrano nelle prigioni italiane, sette ci torneranno; si tratta di una delle recidive più alte in Europa. Il rapporto si inverte se durante la carcerazione hai potuto seguire un percorso finalizzato ad acquisire o ampliare competenze in ambito lavorativo. È nostra intenzione sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni locali e il tessuto imprenditoriale del territorio sulle opportunità normative, fiscali e di crescita sociale che questo investimento potrebbe comportare”. Bologna: Cinevasioni, il documentario “Varichina” apre il Festival del cinema in carcere Redattore Sociale, 30 settembre 2017 Dieci film in concorso, 2 eventi speciali, tanti ospiti e una giuria formata dai detenuti che hanno frequentato il corso CiakinCarcere. Annunciato il programma della seconda edizione del festival che si svolgerà nella sala cinema della Casa circondariale di Bologna. Dal 9 al 14 ottobre. Sarà “Varichina. La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis”, il documentario di Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo, il primo film in concorso per la seconda edizione di “Cinevasioni”, il Festival del cinema in carcere organizzato dall’Associazione Documentaristi Emilia-Romagna in collaborazione con la Casa circondariale Dozza di Bologna e con il ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che si terrà nella Casa circondariale di Bologna dal 9 al 14 ottobre. Il film - che racconta la storia di un parcheggiatore abusivo nella Bari degli anni Ottanta, omosessuale appariscente, bistrattato da tutti, che si difende dalla malignità facendo di se stesso un personaggio - sarà proiettato nella sala cinema del carcere il 9 ottobre alle 10.30. Dieci le opere in concorso, tra fiction e documentari, che saranno accompagnate e presentate dai loro autori o da chi vi ha preso parte. A giudicarle sarà, come nella prima edizione, una giuria formata dai detenuti che hanno partecipato al laboratorio “CiakinCarcere” e presieduta da una figura di spicco del cinema italiano. Al vincitore, che sarà proclamato il 14 ottobre, andrà la Farfalla di ferro, fabbricata nell’officina metalmeccanica “Fare impresa in Dozza” attiva all’interno del carcere. Alle proiezioni, una al mattino e una al pomeriggio parteciperanno sia i detenuti sia il pubblico esterno (qui le modalità per partecipare). Il 9 ottobre alle 14.30 è in programma la proiezione di “Sicilian Ghost Story” di Grassadonia e Piazza, vincitore dei Nastri d’Argento alla scenografia e alla fotografia, che narra la storia della 13enne Luna, impegnata nella solitaria e spaventosa ricerca di un amico scomparso e ispirato alla storia vera del figlio del pentito di mafia Santino Di Matteo. Il 10 ottobre alle 10.30 sarà la volta di “Easy - un viaggio facile facile”, road movie comico che segna l’esordio alla regia del riminese Andrea Magnani: il protagonista Isidoro, detto Easy, è una ex promessa dei go-kart che viene ingaggiato dal fratello per trasportare il feretro di un muratore fino in Ucraina. Nel pomeriggio alle 14.30 sarà proiettato “Cronaca di una passione”, film di Fabrizio Cattani che racconta un amore interrotto da crisi e cartelle esattoriali. Il quinto film è “Chi salverà le rose?” che racconta la storia d’amore tra due uomini anziani, interpretati da Carlo Delle Piane e Lando Buzzanca e il tentativo di appianare gli attriti prima che sia troppo tardi (11 ottobre alle 9.30). Nel pomeriggio alle 14.30 tocca a “La pelle dell’orso” di Marco Segato con Marco Paolini, Lucia Mascino, Paolo Pierobon: Pietro, uscito dal carcere, è il bersaglio di una piccola comunità montana che lo considera una bestia. Il 12 ottobre sono in programma “The habit of beauty”, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Mirko Pincelli che racconta la storia d’amore di una coppia separata da anni per il trauma della morte di un figlio, e “La ragazza del mondo” di Marco Danieli (David di Donatello per il miglior regista esordiente) che racconta l’incontro tra Giulia, testimone di Geova, e Libero, che proviene da un mondo diverso dal suo. Gli ultimi due film in concorso sono “Più libero di prima” di Adriano Sforzi sulla storia di Tomaso Bruno che ha passato cinque anni in un carcere indiano con l’accusa infondata di omicidio (13 ottobre alle 9.30), e “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni, vincitore di tre Nastri d’Argento, sull’amicizia tra un giovane scapestrato e un vecchio poeta malato di Alzheimer (13 ottobre alle 14.30). In programma 2 eventi speciali: il primo è la proiezione fuori concorso di “Shalom! La musica viene da dentro - Viaggio nel Coro Papageno”, il film di Enza Negroni sul coro composto dai detenuti della Dozza (9 ottobre alle 9), il secondo sarà annunciato - insieme al presidente della giuria - il 5 ottobre. Milano: come il lavoro aiuta il recupero dei detenuti, mostra al museo diocesano di Zita Dazzi La Repubblica, 30 settembre 2017 Una giornata dedicata al carcere e ai suoi “abitanti” oggi al museo diocesano Carlo Maria Martini. Dalle 10 in corso di porta Ticinese 95 ci sarà l’esposizione di prodotti fatti a mano dai detenuti: cibo, artigianato, oggetti, e il racconto di varie esperienze di lavoro per chi è ammesso al servizio esterno in articolo 21. Alle 13, dopo un dibattito, si esibirà anche il coro del reparto “La Nave” di San Vittore, la sezione che ospita i carcerati affetti da Hiv o tossicodipendenti, un luogo dove da anni si sperimentano metodi all’avanguardia per il recupero delle persone. A dirigere i cantanti reclusi sarà come sempre Paolo Foschini. Per tutto il pomeriggio poi si continuerà a parlare di varie esperienze e progetti per superare la detenzione in senso stretto con l’associazione nazionale Antigone e testimonianze anche da altre città. Trento: “Out”, un market dedicato ai prodotti di qualità realizzati dai detenuti ildolomiti.it, 30 settembre 2017 “Out vuole combattere lo stereotipo culturale del detenuto parlando dell’altro lato del carcere. Vuole riflettere su come la detenzione possa realmente avere valenza rieducativa”. “Il lavoro può essere momento di riscatto. Può diventare leva e opportunità per cambiare vita, in particolar modo, per chi si trova a scontare una pena detentiva in un carcere. Un’occupazione può dare nuove prospettive, nuove competenze, nuove possibilità”. La locandina con gli appuntamenti dell’iniziativa che si terrà nel fine settimana, organizzata dalla collaborazione tra Impact Hub e La Sfera, la cooperativa sociale che da anni lavora all’interno della Casa circondariale di Trento con il progetto “Galeorto”, si chiama “OUT”. “Out è un market dedicato ai prodotti di qualità realizzati dai detenuti nelle carceri italiane - spiegano gli organizzatori - è musica dal vivo, cultura e sport. È un momento di incontro e riflessione sulle sinergie che si possono creare tra il dentro e il fuori del carcere”. Ma non solo: “OUT vuole combattere lo stereotipo culturale del detenuto parlando dell’altro lato del carcere. Vuole riflettere su come la detenzione, e in particolare l’esperienza lavorativa durante il periodo di reclusione, possa realmente avere valenza rieducativa. L’obiettivo è quello di valorizzare prodotti belli, originali, di qualità realizzati da detenuti reclusi negli Istituti penitenziari italiani attivi in progetto di inserimento lavorativo. Il programma delle iniziative parte venerdì 29 settembre con la proiezione de “Il più grande sogno” di Michele Vannucci, vincitore del 3 Future Award, riconoscimento al film più originale, innovativo e con le migliori qualità espressive. Il film, che sarà all’Astra alle ore 21, raccontala vera storia di Mirko Frezza, 40 anni, e una vita vissuta fregandosene delle regole. Appena uscito di prigione vuole ricominciare da capo. L’occasione per rifarsi una vita sembra arrivare da un’improbabile candidatura: Mirko, a suo modo popolare nella borgata degradata in cui vive, viene eletto presidente del comitato di quartiere. Dopo la proiezione sarà possibile incontrare il protagonista, modererà l’incontro l’avv. Igor Brunello. Sabato 30 settembre e domenica 1 ottobre, a Impact Hub dalle 10.30 alle 19.00, lo spazio di via Sanseverino 95 ospiterà un mercatino di prodotti - abbigliamento, accessori, oggetti artigianali, prodotti alimentari - realizzati da detenuti di alcune carceri italiane. “Sarà un’occasione per conoscere realtà diverse provenienti da tutta Italia e per acquistare oggetti e prodotti di qualità, assaggiare qualcosa di buono, ascoltare buona musica. Potrai inoltre visitare la cella in piazza animata dagli operatori di Apas - spiegano i promotori dell’iniziative - e visitare una mostra fotografica dedicata all’ex-carcere di via Pilati curata da Luca Chisté. Sarà possibile mangiare con Frambìs, cucina sarda e arrosticini, e bere con la birra dell’Agribirrificio Argenteum. Sabato pomeriggio, dalle 16 alle 17, ci sarà la presentazione della mostra a cura del fotografo Luca Chistè e l’incontro con Tommaso Amadei, responsabile dell’Area Educativa della Casa Circondariale di Trento. Alle 17 dj set con Ostinato Fella: fragranze musicali in beats, jazz, rnb, soul, funky, elettronica, hip hop e world. Il successivo lunedì 2 ottobre si sarebbe dovuta disputare una partita di calcio tra l’AC Trento, nota squadra del territorio da poco promossa in serie D, e un gruppo di detenuti appassionati di calcio. Ma la partita non avrà luogo poiché i giudici non hanno ritenuto di avallare la proposta. Bologna: lascito di 25mila volumi, la biblioteca della Dozza intitolata a Pavarini La Repubblica, 30 settembre 2017 Leggere e studiare per riflettere sugli errori e riconquistare la dignità di persone libere. È questo lo spirito con il quale è stata inaugurata ieri la biblioteca “Massimo Pavarini” al carcere della Dozza di Bologna. La raccolta è stata realizzata proprio grazie al lascito del professor Pavarini, docente di diritto penale e penitenziario dell’Alma Mater, scomparso nel settembre di due anni fa. Una donazione che il giurista aveva predisposto già prima della sua morte e che sua moglie, Pirchia Schildkraut Pavarini, si è incaricata di trasformare in realtà. La raccolta consta di circa 25mila volumi, 300 dei quali non reperibili in altre biblioteche italiane o europee, cui si aggiungono 300 estratti, 40 titoli di riviste e materiale audiovisivo con la registrazione di un corso accademico di criminologia e diritto penale tenuto nel 2008 all’Università Federale del Paranà di Curitiba. Il fondo è stato interamente schedato dagli uffici dell’Università di Bologna e diventerà parte del Sistema bibliotecario di Ateneo, accessibile a tutti gli interessati, carcerati e non. Massimo Pavarini, nato a Bologna nel 1947, è stato uno dei protagonisti della scuola penalistica bolognese. I suoi interessi si sono concentrati sul tema della pena detentiva, che ha studiato con approccio teorico ed empirico. Airola (Bn): Raiz e Lucariello “ecco il rap scritto per noi dai giovani detenuti” di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 30 settembre 2017 Il rapper e il cantante hanno girato un videoclip nel carcere minorile di Airola dopo un laboratorio durato 4 mesi. “Aiutami a dormire, svegliami domani. Puorteme là fore”. Inizia così il rap scritto da 4 giovani detenuti con Lucariello e Raiz nel carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento. Il titolo è “Puorteme là fore”. Dopo un laboratorio di scrittura d’autore e un corso di formazione per tecnico del suono durato 4 mesi, il rapper e il cantante interpretano il pezzo scritto interamente dai ragazzi. Girano un videoclip con loro all’interno del carcere segnato nel 2016 da una rivolta per il mancato arrivo delle sigarette (30 mila euro di danni e due agenti feriti). Il brano racconta una storia di abbandono e speranza, un rapporto complicato con un padre spesso assente, la voglia di amore e di riscatto. Da una parte la vita dura del carcere, dall’altra brandelli di tenerezza che resistono magari nell’incontro con figli e mogli durante i colloqui. Spesso hanno una famiglia fuori nonostante la minore età. ra le frasi raccolte dai detenuti in quaderno e assemblate con il lavoro di gruppo, ci sono i sogni di chi ha alle spalle reati diversi e nei casi più gravi deve scontare fino a 30 anni di carcere. Nel filmato realizzato da Johnny Dama, i volti sono oscurati. “Pourtame là fore” è il risultato dei laboratori “Le ali dei Leali”, organizzati da the “CO2 crisis opportunity onlus” nell’ambito del progetto “Il palcoscenico della legalità”. In particolare Lucariello, al secolo Luca Caiazzo, ha seguito i ragazzi durante i corsi di scrittura e quello di tecnico del suono: “Non creiamo facili illusioni - dice il rapper - ma cerchiamo di dare un’opportunità concreta, anche economica attraverso l’acquisizione del diritto d’autore. La scrittura collettiva aiuta a uscire da percorsi mentali complicati e sofferti, stimolando a ragionare sul significato delle parole”. “Ferro batte ferro” di Pino Roveredo. Il detenuto che si fa garante di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 30 settembre 2017 La storia di un ragazzo entrato in carcere minorenne e oggi “voce” di chi è privato della propria libertà. A quasi 63 anni, in tutta Italia è l’unico ex detenuto a ricoprire il ruolo di “garante per le persone private della libertà personale”. Contrariamente alle anime belle della pubblicistica più o meno accademica, a Pino Roveredo l’incarico della Regione Friuli restituisce giustizia e libertà. Lui ha quasi tatuata la data del 22 agosto 1972, quando ancora minorenne diventa “figlio del carcere”. E da scrittore e operatore sociale (non solo nella sua Trieste) ha pubblicato un libro davvero speciale: Ferro batte ferro (Bottega Errante Edizioni, pp. 112, euro 13). “Il carcere è un marchio che non puoi cancellare dalla pelle e dalla vita”. È la verità imparata fin dall’impatto alla matricola d’ingresso, prima ancora di entrare in cella. “In carcere il momento peggiore è la notte. Quando spengono le luci si spegne tutto, voci, urla, lamenti. Si tacciono le serrature e lo sbattere dei cancelli, nell’aria si ode soltanto il rumore degli scarponi delle guardie vigilanti e ogni tanto, qua e là, colpi di tosse e qualche dialogo imposto dal delirio”. La violenza spietata si stempera un po’ con i libri: il giallo cui hanno strappato le ultime pagine; l’erotismo mascherato dal frontespizio di Manzoni; Vasco Pratolini e soprattutto Se questo è un uomo, regalato ai tre figli nel 14esimo compleanno. In carcere Pino scriveva già: lettere a fidanzate, famiglie, avvocati. Poi ha perfezionato la sua originale prosa letteraria, vincendo il Campiello nel 2005. E gli affidano sempre corsi di scrittura, dopo il debutto al Centro di salute mentale che fu di Basaglia. Ma lui non rinuncia a descrivere senza infingimenti: “La società ha bisogno di delinquenti su cui puntare il dito, per sentirsi migliore. Il Sert ha bisogno dei tossici per dare un motivo alla sua esistenza. Le rivendite alcoliche hanno bisogno degli alcolizzati per mantenersi in vita. I tabaccai e il monopolio di Stato hanno bisogno dei fumatori per riempirsi le tasche con la disgrazia altrui”. Pino Roveredo conosce di prima mano gli abissi in cui si può sprofondare: la detenzione e la contenzione, la condanna senza appello se l’esistenza combacia con il vizio, la legge del riscatto come uno specchio. Così confessa: “Ho iniziato a occuparmi degli altri, gli ultimi in classifica. Con grande egoismo, perché in verità ho cominciato a farlo per occuparmi di me stesso, mettendo così in pratica l’uso del Salvarsi salvando!”. In ciascuna delle quattro parti del libro, il “garante” non libera la coscienza di chi obbedisce all’ordine della sicurezza. Anzi, il detenuto di 17 anni apre la cella del padre di famiglia: “Oggi lo posso dire, il ferro si può vincere e le sbarre si possono piegare, e oltre si può trovare il regalo della vita. Mi ricordo che da ragazzini, nei miei primi giri in tribunale, un’assistente sociale ipotizzò per me il ruolo futuro di persona irrecuperabile. Sono quarant’anni che, con tutti i muscoli che posso, riesco a smentirla ogni giorno, un giorno”. È il finale perfetto di un bel libro che merita di essere infilato nello zainetto scolastico dei “coetanei” di Roveredo. “Paco. A Drug Story”, di Valerio Bispuri. Lo sballo dei poveri di Manuela De Leonardis Il Manifesto, 30 settembre 2017 Un incontro con il fotoreporter Valerio Bispuri che a Ferrara, per il festival di Internazionale, presenterà oggi il suo libro “Paco. A Drug Story”, edito da Contrasto. Un progetto durato quindici anni di lavoro fra i quartieri degli emarginati di Buenos Aires, dove circola quella sostanza che porta alla devastazione fisica e mentale nel giro di un anno e mezzo. È sempre una sincera curiosità verso l’essere umano ad indirizzare un percorso che per Valerio Bispuri (Roma, 1971) non è mai soltanto professionale. Complice, talvolta, la casualità. Come quando negli anni Novanta, seguendo un amico, s’iscrive a un corso gratuito di fotografia. La svolta arriverà però nel 2001: dopo un lungo viaggio in Sudamerica che il fotoreporter definisce il suo “cammino che guevariano”, quello che era un hobby diventa professione. “Al ritorno avevo capito due cose: volevo vivere in Sudamerica e fare il fotografo”, spiega Bispuri. Sceglierà come seconda patria l’Argentina e solo recentemente, dopo aver vissuto per dieci anni a Buenos Aires (ci torna almeno due o tre volte l’anno, girando anche in altri paesi latinoamericani), nel 2010 ha deciso di trasferirsi nuovamente a Roma, dove vive suo figlio. Pubblicato da Contrasto, il libro “Paco. A drug story” (verrà presentato oggi al festival Internazionale di Ferrara, presso il cinema Apollo) è come il precedente Encerrados - viaggio socio-antropologico all’interno di oltre settanta carceri del Sudamerica - la chiave di lettura per raccontare un continente. I due progetti, realizzati parallelamente, sono caratterizzati dalla stessa determinazione dell’autore nel narrare le fragilità degli uomini e il vortice di buio che li attanaglia. Immagini crude di miseria, disperazione, ingiustizia e consolazione artificiale davanti alle quali Bispuri si pone con un distacco che non è mai assoluto. “Mi ritengo molto più un giornalista che un artista. Anzi quando mi chiamano artista mi sento un po’ fuori luogo, perché la mia idea di fotografia è sempre d’indagine”. “In Paco. A drug story” è lo stesso fotoreporter ad accompagnare le fotografie a colori con delle note: “Lomas de Zamora è una delle periferie di Buenos Aires più colpite dal paco. Ragazzini tra i dieci e i ventidue anni si muovono come lupi tra vicoli bui, la pelle consumata, magri, affamati, le labbra spaccate, lo sguardo fisso nel vuoto. Non ci sono regole o leggi, l’unico e il solo scopo è procurarsi quanti più “sassolini” possibili”. I “sassolini” sono le dosi di paco, una terribile droga che dà assuefazione anche a distanza di anni, ottenuta con gli scarti della lavorazione della cocaina miscelati a cherosene, colla, veleno per topi o polvere di vetro. Bastano pochi secondi per raggiungere “il piacere di fumare la morte”, come scrive il giornalista César Gonzalés nelle pagine del libro: arrivare a fumarne anche venti dosi al giorno porta alla totale distruzione. Un fenomeno drammatico, ancora poco conosciuto oltreoceano, che ci costringe ad aprire gli occhi, sfidando quell’ostinata indifferenza che non è meno letale. Come è nato il progetto sul “paco” cui ha lavorato negli ultimi quindici anni? Si è trattato di chiudere un capitolo su un tema apparentemente conosciuto come quello della droga. In questo caso di una droga che si chiama paco. La sua particolarità è la distruzione a cui conduce. Viene fabbricata con i residui della cocaina, quindi è un concentrato di cocaina con un effetto venti volte più forte di una dose di quella droga. Dura pochissimi secondi e dà una dipendenza totale. In un anno, un anno e mezzo, si arriva alla totale devastazione fisica e mentale con la pazzia o la morte. È una droga che sta disintegrando una grande popolazione dell’America del Sud, soprattutto ragazzi, ed è in grande espansione. Paco è nata dalla crisi economica che ha colpito l’Argentina nel 2001, quando lo stato è crollato e anche i narcotrafficanti si sono dovuti in qualche modo adeguare all’economia, inventandosi questa droga. All’inizio era considerato lo sballo dei poveri, perché una dose costa 50 pesos, che sono circa due euro. Il suo prezzo è rimasto invariato, ma nel tempo il suo uso si è espanso anche nella classe medio borghese ed è uscita già da tempo dall’Argentina diffondendosi in Brasile, Cile, Paraguay. La pubblicazione del libro sancisce la conclusione delle sue ricerche? Sì. Il lavoro che è durato tanto tempo perché credo che nella fotografia sia necessario andare in profondità. Bisogna capire prima di raccontare. Da anni non accetto più incarichi dai giornali proprio perché ritengo che in due settimane, o anche un mese, non si possano narrare tematiche complesse. In questo caso, avevo sentito parlare di quella droga e ci sono entrato dentro per capire, parlando sia con le persone che aiutano i ragazzi che ne fanno uso che con i consumatori stessi, quando non erano sotto effetto. È stato un processo lungo e stressante. Penso che in questo momento la fotografia abbia bisogno più di contenuto che di estetica. Qual è il punto centrale del suo racconto visivo? Essere riuscito a entrare in una cucina dove si prepara il paco. È stato un lavoro d’indagine e contatti che è durato quasi due anni, perché chiaramente i narcotrafficanti non volevano assolutamente che un fotografo profanasse un luogo del genere. È stata un’esperienza molto forte. Ci sono riuscito nel 2015: era una domenica in cui si disputava una partita di calcio tra due squadre importanti di Buenos Aires, Boca Juniors e River Plate, e anche i narcotrafficanti erano presi dalla partita. Sono stato bendato e portato nella periferia estrema di Buenos Aires. Tra gli altri progetti a cui lei si dedica parallelamente, oltre a quello sulle carceri italiane ce n’è uno sulla tratta delle donne in Argentina e un altro sui sordo-muti… La più grande sfida a livello fotografico è esplorare il mondo dei sordo-muti. Per affrontare questo tema sto anche cambiando il mio modo di fotografare. Raccontare qualcosa che è invisibile è come rappresentare il silenzio. Sto lavorando principalmente a Roma, ma in fondo non è tanto importante il luogo quanto l’interiorità. Un’altra problematica drammatica è quella della tratta delle donne in Argentina. Sono migliaia, infatti, le donne che spariscono ogni giorno. Si calcola che siano 20 o 30mila negli ultimi trent’anni, più dei desaparecidos della dittatura. Vengono rapite e portate nei postriboli clandestini. Ce ne solo 1200 solo a Buenos Aires, ma non si sa dove si trovino. Sono in contatto con ragazze che sono riuscite a scappare che, ancora traumatizzate, raccontano storie a loro accadute incredibili. Anche qui il punto centrale sarà quando riuscirò ad entrare in un postribolo clandestino. Bisogna sempre avere l’idea di quello che si vuole dire e avere in mente i punti con cui strutturare la storia. Poi, però, c’è l’istinto, l’inconsapevolezza nel momento stesso in cui si scatta, insomma quel qualcosa che rompe le corde della precisione del narrare. D’altronde, la vita è fatta d’istinto, di sfocati. Migranti. “Non copriamo le violazioni di Tripoli”. I dubbi delle Ong italiane in Libia di Carlo Lania Il Manifesto, 30 settembre 2017 In una riunione alla Farnesina la richiesta di autonomia da Tripoli. “Ma visti i buoni rapporti che ha con il governo libico, ministro riesce a convincere il premier Serraj a firmare almeno la convenzione di Ginevra e quella sui diritti dell’infanzia?”. La domanda arriva nel bel mezzo della riunione convocata lunedì scorso alla Farnesina dal ministro Angelino Alfano con più di venti Ong italiane. Riunione voluta dal titolare degli Esteri per avviare il progetto del governo di coinvolgere in Libia le organizzazioni umanitarie con programmi di assistenza ai migranti e alla popolazione locale. La domanda, posta dai rappresentanti della Croce rossa e dell’ong Terre des Hommes, spiazza però Alfano: “Ricordatevi che situazione c’era in Libia solo un anno fa. Ogni cosa a suo tempo”, è la risposta. Parte in salita il progetto del governo di coinvolgere le ong italiane nelle gestione dei centri libici in cui sono detenuti i migranti. Un’esigenza nata per superare quelli che lo stesso Alfano, durante la riunione, ha definito dei “campi di prigionia” all’interno dei quali uomini, donne e bambini vivono in condizioni disumane. Sostituirsi ai libici non è però operazione semplice. La stessa Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati che presto potrebbe tornare nel paese nordafricano, starebbe incontrando infatti difficoltà per aprire un centro di transito a Tripoli. “Un edificio con capacità di mille persone, per riunire i rifugiati o i richiedenti asilo più vulnerabili per poi farli partire verso paesi terzi”, ha spiegato pochi giorni fa il rappresentante dell’Unhcr in Libia, Roberto Mignone, alla commissione Diritti umani del Senato. L’accordo c’è, ma l’Unhcr reclama la massima autonomia nella gestione del centro e soprattutto vuole che ai libici sia chiaro che si tratterà di una struttura aperta e non di un luogo dal quale i migranti non potrebbero uscire. Due condizioni che starebbero rallentando notevolmente le trattative. Condizioni, quelle poste dall’agenzia Onu, condivise in pieno dalle ong italiane, molte delle quali temono di finire col fare la foglia di fico coprendo, con la propria presenza, le violazioni dei diritti umani compiute dai libici. Per questo la firma delle due convenzioni internazionali da parte di Tripoli sarebbe una garanzia per avviare il lavoro. “È una precondizione indispensabile tanto quanto garantire la sicurezza degli operatori che dovessero decidere di recarsi in Libia, anche perché significherebbe che il governo libico si vuole rafforzare a livello internazionale”, spiega il presidente di Terre des Hommes, Raffaele K. Salinari, per il quale “è difficile che Unhcr e Oim possano intervenire senza la copertura di quelle convenzioni”. Dubbi sull’operazione anche da parte di Msf. L’organizzazione - già attiva in Libia - non parteciperà al progetto del governo italiano del quale ha rifiutato anche i finanziamenti. “La convenzione di Ginevra - spiega Marco Bertotto, responsabile advocacy di Msf - sancisce che l’ingresso illegale in un paese per un rifugiato non rappresenta un reato. Ma non riconoscendola, per la Libia il rifugiato non esiste e considera tutti i migranti come irregolari da imprigionare nei centri. Mi sembra che qui si stiano facendo le cose al contrario: prima intrappoliamo le persone in Libia e poi ci chiediamo come liberarle”. Dubbi comuni a molte ong, alcune delle quali pur aderendo al progetto del governo preferirebbero lavorare su progetti rivolti alla popolazione libica piuttosto che nei centri dove i migranti sono detenuti. Il governo intanto accelera i tempi. Dopo un primo bando realizzato nei mesi scorsi dall’ufficio di Tunisi dell’agenzia italiana per la cooperazione, adesso si sta lavorando al secondo bando al quale le ong interessate potranno partecipare con progetti mirati all’assistenza socio-sanitaria e all’educazione. “La speranza - spiegano alla Farnesina - è riuscire a concludere la fase preparatoria entro la fine di ottobre”. Migranti. La carica dei profughi bambini che riporta in vita i piccoli borghi di Maria Novella De Luca La Repubblica, 30 settembre 2017 Nell’Irpinia profonda l’arrivo dei migranti in attesa di un permesso umanitario fa riaprire le scuole e ripartire l’economia. E ora gli italiani restano nei comuni che volevano lasciare. “Si chiama Victory, ma per noi è Vittorio, anzi Vittò. E da quando a Petruro sono arrivati Vittò, Testimony, Marvellous, Shiv e tutti gli altri, anche noi vecchi abbiamo ricominciato a sentirci vivi, qui prima c’erano soltanto silenzio e funerali”. Ubaldo Mazza, 80 anni, ex minatore, “zio Ubaldo” per tutti, una selva di capelli bianchi, gioca con Victory, nigeriano di 17 mesi, catapultato dalla vita con la mamma Precious in questo borgo dell’Irpinia arroccato tra boschi e castagneti. Strade di pietra, vento, montagne, l’odore del mosto e dell’uva. “Sapete? Andrà all’asilo. Con tutti questi nuovi bambini il Comune ha deciso di riaprirlo, qui la scuola era chiusa da vent’anni”. Victory corre, saltella, guarda zio Ubaldo e ridono come matti, il mondo - a volte - può anche essere salvato dai ragazzini, un vecchio e un bambino che sanno di essere una coppia irresistibile, testimonial, anzi, di una “integrazione possibile”. Italiani e migranti insieme in un progetto che la Caritas di Benevento ha chiamato Rete dei comuni welcome. Ossia un’alleanza basata sull’accoglienza e su un “welfare locale ad esclusione zero” che fermi l’esodo da questi piccoli paesi bellissimi ma ormai spopolati tra il Sannio e l’Irpinia, disseminati di vitigni abbandonati, campi incolti, bar deserti e nascite zero. E dunque porte aperte ai profughi in attesa di asilo che attraverso i fondi degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) stanno riportando vita, nascite e reddito tra le strade deserte dei borghi. Ma anche alle famiglie italiane più fragili che qui potrebbero ritrovare migliori condizioni di vita. E bisogna addentrarsi nel silenzio di Petruro Irpino, provincia di Avellino, 210 abitanti, dove grazie a sette bambini migranti a breve riaprirà l’asilo, per assistere a un esempio di laboratorio sociale. Dove Precious, nigeriana, fa il tirocinio da parrucchiera, mentre la piccola Testimony passa le sue mattine con Teresa, ragazza italiana che le fa da baby sitter e così si paga gli studi, mentre la mamma Pamela, anche lei nigeriana, lavora in un’azienda agricola. Nella loro lindissima casa, Rajvir Singh e la moglie Meher, afghani di religione Sikh, preparano ravioli di verdure da cuocere in un brodo speziato, in attesa che Shiv, 10 anni, torni con lo scuolabus. Perseguitati in Afghanistan perché di religione Sikh, Rajvit, Meher e Shiv portano nel cuore il dolore più grande. Racconta Marco Milano, esperto di relazioni internazionali, oggi responsabile dello Sprar: “I talebani hanno ucciso davanti ai loro occhi il fratello di Shiv, Meher non si è mai ripresa…”. Per questo Rajvit vuole restare in Italia. “Qui è bello, ci sono le montagne e la terra. Posso lavorare e mio figlio può crescere nella pace”. E Rajvit entrerà a far parte della cooperativa che italiani e migranti stanno per fondare recuperando terre e coltivazioni. “Il Greco di Tufo, l’Aglianico, il Fiano, abbiamo un patrimonio di vigneti che rischiano di morire. Molti giovani di qui - dice Marco Milano - emigrati al Nord o all’estero, stanno tornando per partecipare ai progetti “welcome”. Tanto che oltre ai bambini stranieri ricominciano a nascere i figli di coppie italiane...”. Ma non c’è solo Petruro Irpino. A Chianche, dove “c’erano più lampioni che abitanti”, era rimasta una sola adolescente italiana, Carmela, adesso ci sono quindici rifugiati e tra poco aprirà un nuovo alimentari “etnico”. Il cibo è memoria e gli odori che escono dalle cucine si mescolano, il riso e pollo dei migranti, i fusilli al pomodoro delle case italiane. “Favorite - dice ZìNgiulina - la mia porta è aperta”. Carmela ha un bel sorriso: “Studio a Benevento ma qui, a casa, mi sentivo davvero sola. Adesso con le ragazze e i ragazzi migranti è tornata la vita...”. A Rocca Bascerana i rifugiati sono trenta, il sindaco Roberto Del Grosso dice con chiarezza: “L’integrazione c’è stata, possiamo ospitarne altri”. “Con i 35 euro al giorno destinati ai richiedenti asilo - spiega Francesco Giangregorio dello Sprar di Chianche - paghiamo i corsi, ma affittiamo anche case dai proprietari italiani. Gli ospiti, poi, con i cinque euro al giorno che vengono loro consegnati come pocket money, fanno la spesa nei negozi di qui che infatti stanno riaprendo”. Insomma una micro-economia che ricomincia a muoversi grazie a un melting pot italiano e straniero che consuma e chiede servizi. Donne, uomini e bambini che hanno vissuto l’orrore, i lager libici, gli stupri e adesso tra questi boschi che volgono all’autunno sembrano respirare. Hayatt, etiope, bella e riservata, oggi diventata “operatrice agroalimentare”, fuggita dopo lo sterminio della sua famiglia. Mercy e Evelyn, nigeriane, scampate (forse) alla tratta. E tanti, ottenuto lo status di rifugiati scelgono di restare. Noman, ad esempio, assunto legalmente come edile alla fine del tirocinio, così come Seck, del Mali, in una ditta di compostaggio. “Il nostro obiettivo è che restino, ripopolino i nostri comuni e si integrino in percorsi di legalità”, spiega con passione Angelo Moretti, responsabile comunicazione della Caritas, cuore e anima della rete dei “Comuni Welcome”. “I grandi centri di accoglienza del Sud sono in mano alla criminalità, lo sappiamo. Nei nostri progetti gli ospiti invece devono formarsi, vivono in piccoli gruppi, i bambini vanno a scuola. E questo dà dignità. Abbiamo lavorato molto prima che i migranti arrivassero per preparare l’integrazione. Oggi raccogliamo i frutti. E anche questa economia inizialmente assistita, si sta trasformando in economia reale, con le cooperative tra italiani e migranti”. Alle 5 del pomeriggio sulla piazza di Petruro quindici bambini giocano a pallone. Italiani, afghani, nigeriani, sudamericani, ghanesi. “Goal” lo sanno dire tutti. “Quante voci - dice Zio Ubaldo - sembra di essere cinquant’anni fa”. Egitto. Richiedenti asilo siriani lasciati in un limbo di povertà e discriminazioni di Davide Lessi La Stampa, 30 settembre 2017 Sono 130mila. Il Fondo dell’Onu per la popolazione (Unfpa) denuncia: “Tra le donne crescono i casi di mutilazioni genitali”. L’Europa ha già investito 7,9 milioni per la crisi. Nel 2011, quando tutto è iniziato, Ahmar Kaddah viveva a Daara, in Siria. Studente di diritto internazionale aveva appena messo in piedi uno studio legale con un amico. “Mi avevano buttato fuori dall’università di Damasco - racconta. - Dicevano che la mia famiglia faceva parte dell’opposizione”. Dopo due anni passati sotto assedio, nella città simbolo della resistenza ad Assad, l’edificio dove lavorava viene bombardato. Lui decide di scappare, si porta con sé la compagna e il loro bambino. Oggi, quattro anni dopo, Ahmar vive in Egitto. Ha visto nascere altri due figli. Si è riuscito a laureare grazie a una borsa di studio del progetto Hopes, finanziato anche dalla Direzione generale per gli Aiuti umanitari e la protezione civile della Commissione europea (Echo). “Qui mi sento al sicuro”, dice Ahmar, 31 anni, nel cortile della sede del British Council. “Ma non ho troppe speranze per il futuro: ho provato a cercare lavoro come avvocato ma sono siriano, mi sento discriminato. Così tiro avanti vendendo gelati”. Ahmar è solo uno dei 123 mila siriani registrati dall’Unhcr nel Paese di Al Sisi. L’Egitto, con i suoi quasi 90 milioni di abitanti, ospita in tutto 211 mila richiedenti asilo e rifugiati di 63 nazionalità diverse. Ma la comunità siriana è quella più numerosa. Come Ahmar moltissimi siriani si trovano ora “bloccati” in uno Stato in crisi dove una persona su quattro vive al di sotto la soglia di povertà, una su due non lavora e la svalutazione della moneta ha portato a un raddoppio dei prezzi dei generi alimentari negli ultimi sei mesi. “La situazione economica e sociale si sta deteriorando: ci sono sempre più persone vulnerabili, anche tra i migranti”, commenta Aldo Biondi, assistente tecnico della Direzione generale europea Echo. E spiega: “L’Egitto è tra i 5 più grandi Paesi al mondo ad ospitare i siriani”. Ma i numeri sono più bassi è così, a differenza di altri Stati (come il Libano, la Giordania o le più vicine isole greche), non ci sono campi profughi o hotspot. “I richiedenti asilo vivono nelle grandi città, soprattutto nelle aree periferiche: Cairo, Alessandria e 6 ottobre”. A 35 chilometri dal Cairo, direzione nord-est, un’intera parte della città di Obur sembra diventata un quartiere della periferia di Damasco. È qui che la scuola della fondazione Syria Al Gad Relief si occupa dei bisogni primari della comunità siriana: educazione, integrazione e percorsi professionali. Tra i corridoi dell’istituto, frequentato per l’80 per cento da bimbi siriani, Hayat racconta la sua storia: “Mio padre è sparito cinque anni fa durante la guerra e due mesi fa è morta mia madre che era scappata con me e i miei fratelli dalla Siria”. Hayat ha 18 anni. Per arrivare in Egitto ha preso un aereo verso il Sudan e da lì è risalita, illegalmente, attraversando i confini meridionali. Per mandare avanti ciò che resta della famiglia, i suoi due fratellini più piccoli e una sorella di 21 anni, ha abbandonato gli studi. “Non posso avere sogni. L’unica speranza è quella di raggiungere un mio fratello che si è rifugiato in Svezia”. È a ragazze come lei che si rivolgono gli aiuti umanitari europei, 7,9 milioni di euro stanziati dal 2016 a oggi (3,4 solo nel 2017) per diversi progetti di integrazione e inserimento sociale. Uno degli interlocutori della Commissione europea è l’Unfpa, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. Al quartiere generale del Cairo si snocciolano i numeri di quella che sembra ormai diventata una bomba demografica. Con un tasso di fertilità del 3,5% per ogni donna l’Egitto cresce ogni anno di circa 2,4 milioni di abitanti. È come se, ogni sei mesi, una città grande come Milano spuntasse, andando a sommarsi ai residenti urbani concentrati nel 5% del territorio nazionale (il restante 95% desertico, non è abitato). “La questione migratoria con questi dati sembra essere passata in secondo piano”, ammette Aleksandar Bodoriza, il rappresentante dell’Unfpa per l’Egitto. C’è il rischio di sottovalutarla. E di non percepire cosa stia accadendo. “I nostri gruppi di studio hanno registrato un fenomeno inaspettato e, per certi aspetti, sconvolgente: le donne siriane rifugiate qui praticano alle loro figlie la mutilazione genitale”, denuncia Germanie Haddad assistente del rappresentate all’Unfpa. “Non abbiamo ancora dei numeri certi ma questa pratica, nonostante sia stata criminalizzata per legge, è molto diffusa tra le egiziane e non riguarda solo le musulmane. Probabilmente è un caso di percezione della pressione sociale: le donne siriane arrivate in Egitto cercherebbero così un modo per farsi accettare dalla comunità di accoglienza”. Un fenomeno inquietante che, se confermato dagli studi di gruppo in corso, diventerebbe sintomatico dell’alta vulnerabilità dei siriani in Egitto. Una comunità senza prospettive di lavoro, che ha dilapidato i suoi capitali e ora rischia di “integrarsi” con pratiche che non le sono mai appartenute culturalmente. Tunisia. Timori per la sorte dei minori rinchiusi nelle carceri libiche Ansa, 30 settembre 2017 Sono 39 i minori tunisini, di età compresa tra i 3 e i 12 anni, figli di foreign fighter, rinchiusi nelle carceri libiche. Lo ha detto Monia Jdoubi, segretario generale dell’Associazione di salvataggio dei tunisini bloccati all’estero nel suo intervento a margine della conferenza nazionale sull’educazione prescolare organizzata dal ministero tunisino degli Affari religiosi. Per cercare di risolvere questa delicata vicenda l’associazione ha fatto sapere di aver interessato tutti i ministeri competenti e anche la commissione parlamentare dei Tunisini all’estero. La Jdoubi, ricordando che una sua recente visita in Libia al fine di trovare una soluzione con il governo libico non ha sortito gli effetti sperati, ha insistito sulla necessità di accelerare le pratiche burocratiche per far tornare in patria questi minorenni, e in qualche caso anche le loro madri, stimando che siano vittime del terrorismo. Al loro ritorno in Tunisia, ha sostenuto Jdoubi, questi bambini potrebbero essere reintegrati in unità speciali di protezione dell’infanzia al fine di sostenerli psicologicamente ma anche economicamente, visto che nella maggior parte dei casi, non possono godere più nemmeno del sostegno dei familiari. Stati Uniti. “Juvenile in Justice”, un’inchiesta fotografica sui detenuti minorenni tpi.it, 30 settembre 2017 Un fotografo ha visitato centinaia di carceri minorili negli Stati Uniti e ha fotografato migliaia di giovani detenuti, raccontando le loro storie. Richard Ross è un fotografo e professore statunitense. Nel 2007 ha cominciato a lavorare al progetto Juvenile in Justice, visitando centinaia di carceri minorili negli Stati Uniti e fotografando migliaia di minorenni in prigione. I volti dei ragazzi non appaiono mai negli scatti pubblicati. Ross è sempre rispettoso nei loro confronti, non ha mai provato a imporsi in modo autoritario. Quando entra nelle loro celle, si toglie le scarpe e si siede per terra, facendo foto e chiacchierando con i giovani detenuti. Per la maggior parte del tempo, però, si limita ad ascoltare le loro storie. “Faccio in modo che siano loro ad avere autorità su di me, non il contrario” ha detto Ross. Questi incontri hanno un forte impatto emotivo sul fotografo. “È impossibile lasciarli. La scorsa settimana stavo parlando con una ragazza che ha provato a uccidersi più volte. È stata stuprata e picchiata, è rimasta senza una casa. Stava piangendo disperatamente, con singhiozzi che le sconquassavano il corpo. Visto che è una ragazza minorenne, e ha bisogno di supporto psichiatrico, non mi era permesso toccarla. Tutto quello che volevo fare era abbracciarla e dirle che andrà tutto bene, ma non potevo. E tra l’altro non è vero: non andrà tutto bene”. Tramite le sue fotografie, Ross racconta le storie dei giovani detenuti, e cerca di promuovere un cambiamento nel sistema di giustizia per i minorenni. In ventidue stati federali degli Stati Uniti, i bambini dai 7 anni in su possono essere condannati e imprigionati.