Suicidi e rivolte: il caos nelle carceri italiane di Nadia Francalacci Panorama, 2 settembre 2017 Sono 40 i morti suicidi dall’inizio dell’anno, 567 i tentativi, 4.310 gli atti di autolesionismo. Tutti i guai degli istituti penitenziari. Soprattutto tanti morti suicidi. E poi sangue, feriti, strutture devastate. Nelle carceri italiane si sta combattendo una guerra, neppure tanto silenziosa, ma che lo Stato non vuole vedere. Ci sono stati più morti e feriti in quattro giorni nelle celle degli istituti penitenziari italiani che sulle strade di tutto il nostro Paese o nei teatri di guerra dove sono impiegati i nostri militari. Napoli, Cuneo, Pisa, Torino e Ravenna: cinque morti suicidi in meno di 96 ore in altrettante carceri italiane. Quaranta, fino ad oggi dall’inizio dell’anno. A questi, aggiungiamo anche i due tentativi di suicidio in meno di un’ora, la sera del 29 agosto, nel carcere dei Casetti di Rimini: i detenuti si sono salvati solo grazie all’intervento degli uomini della Polizia Penitenziaria. Dati e numeri impressionanti - Questi sono solo gli ultimi di 567 tentati suicidi dal primo di gennaio al 31 agosto dove, nelle carceri, si sono consumati anche 4.310 atti di autolesionismo, 3.562 colluttazioni e 541 ferimenti. La situazione all’interno delle strutture carcerarie italiane non è al collasso, è proprio degenerata. Si susseguono quotidianamente rivolte e aggressioni al personale della polizia penitenziaria. Quattro agenti, 3 sottufficiali e un assistente capo, giovedì scorso, sono stati trasportati all’ospedale di Viterbo dopo essere rimasti feriti nel cercare di sedare una rissa tra due detenuti. Ovviamente non si conteggiano quelli rimasti coinvolti nelle rivolte all’interno del carcere di Pisa oppure in quello fiorentino di Sollicciano dove quattro agenti sono stati aggrediti da un detenuto con un coltello rudimentale. Primo problema: carenza di personale - Gli uomini della polizia penitenziaria, da anni sono sottorganico e da anni continuano incessantemente a chiedere ai governi che si susseguono, di implementare il personale. Ma dallo Stato nessuna risposta. Un silenzio assordante che, giorno dopo giorno, si macchia sempre più di sangue, quello dei reclusi e degli agenti della polizia penitenziaria. A Pisa, ad esempio, il detenuto che si è ucciso poteva essere salvato se non vi fosse stato un solo agente di servizio in tre diverse Sezioni detentive contemporaneamente. La carceri italiane: "discariche sociali" - Le carceri italiane sono diventate "discariche sociali", così le ha definite don Ettore Cannavera, ex cappellano del carcere di Cagliari. "La situazione dei detenuti del carcere di Cagliari è di grande sofferenza - ha spiegato il parroco - su 600 detenuti più della metà sono malati psichiatrici e tossicodipendenti. Poi, manca personale di polizia penitenziaria e gli educatori sono solo 9". La descrizione del carcere sardo tracciata don Ettore non è poi molto diversa dalla situazione nella quale versano tutte le altre strutture penitenziarie italiane. Secondo problema: la mobilità dei reclusi - Pochissimi agenti che devono fronteggiare, in situazioni pericolosissime, ristretti violenti o malati psichiatrici. Il Governo, infatti, ha abbassato ulteriormente i livelli di sicurezza negli Istituti Penitenziari permettendo ai detenuti di stare fuori dalle proprie celle dalle 8 alle 10 ore al giorno. Una politica di "apertura" che, permettendo una promiscuità dei reclusi anche delle diverse sezioni, abbassa il livello di sicurezza. Questa modalità richiede un controllo "dinamico" dei detenuti che è sicuramente difficile da attuare con un numero così ridotto di agenti. Terzo problema: i detenuti psichiatrici - A questa politica di "libera circolazione" dei ristretti nelle carceri occorre aggiungere i detenuti con disturbi psichiatrici che dopo la chiusura degli OPG, proliferano. Ovviamente a nulla sono servite le strutture alternative Rems, che si sono rivelate insufficienti rispetto al fabbisogno. Solo per mano di questi reclusi problematici, negli ultimi 10 giorni ci sono state aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria nelle carceri di Ferrara, Pisa, Civitavecchia, Milano, Ancona, Ariano Irpino, Firenze, Napoli, Viterbo, Udine. Numeri e dati impressionanti, davanti ai quali il Governo non può rimanere in silenzio e voltarsi dall’altra parte ma deve necessariamente attuare, una profonda e urgente riflessione sull’intero sistema penitenziario ed in particolare sulla libertà detentiva concessa ai reclusi alla luce della forte carenza di organico del personale penitenziario. Suicidi nelle carceri. Il Garante dei detenuti: "stiamo scontando una fase di disillusione" Adnkronos, 2 settembre 2017 "I numeri sono sicuramente alti e non possono non interrogare. La mia impressione è che stiamo scontando una fase di disillusione. Nelle comunità vulnerabili, come sono le carceri, bisogna stare attenti quando si suscitano attese, come è successo con gli Stati generali sull’esecuzione penale dello scorso anno". Così il presidente dell’autorità Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, commenta all’AdnKronos gli episodi di suicidi nelle carceri italiane che si sono succeduti nelle scorse settimane. Secondo i dati del Garante sono stati 32 dall’inizio dell’anno fino a luglio, un dato "in crescita rispetto a quello dello scorso anno" con "una media di una morte a settimana". Da ultimi si sono registrati gli episodi di Torino, il 30 agosto, dove si è suicidato un detenuto croato di 37 anni, preceduto in meno di 24 ore da quello di Pisa, dove si è suicidato un detenuto tunisino di 28 anni. A Ravenna, nella notte di ieri, si è impiccato un 51enne di Cervia. Episodi per i quali il Garante ha deciso di intervenire come parte offesa nelle indagini: ieri ha inviato lettere con richieste di informazioni sullo stato dei procedimenti alle diverse procure competenti. "Nelle carceri che frequento vedo molta disillusione, che può colpire i soggetti più deboli - afferma Palma - Non sempre si sono stabiliti buoni protocolli con le Asl relativamente alle condizioni psichiatriche dei detenuti. E in questo ambito spesso si sono fatte ricadere responsabilità su personale non specializzato". Secondo il garante la situazione dei suicidi merita approfondimenti necessari per perfezionare il sistema di prevenzione elaborato dal ministero della Giustizia con la direttiva del 3 maggio 2016, a seguito della quale è stato predisposto il "Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti", con strumenti di rilevazione del rischio, il presidio delle situazioni potenzialmente critiche, i protocolli operativi per la gestione dei casi a rischio e per affrontare le urgenze. "Vedo di buon occhio le misure contenute nel piano - afferma Palma - ma non è in grado di per sé di risolvere la questione dei suicidi in carcere. Va affiancato ad altri strumenti che io chiamo ‘di normalità’, poiché non esiste una soluzione che possa essere esclusivamente di tipo tecnico". Sul fronte della prevenzione, secondo il Garante, "un’operazione che andrebbe fatta è quella di aumentare le possibilità di vita ‘normalè per i detenuti, con più colloqui con le famiglie e maggiori possibilità di lavoro. A Pisa, carcere problematico, le attività finiscono alle tre del pomeriggio, e c’è un problema di carenza di personale, a cui non può essere addebitata la responsabilità per quello che è successo. Quello di cui però il carcere ha bisogno è di riallacciare un legame tra interno e esterno". Secondo il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe) "le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di polizia penitenziaria che mancano" e nelle carceri gli eventi critici "sono decuplicati da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto". Una posizione che vede la netta contrarietà del Garante: "È una chiave interpretativa sbagliata. È importante avere occhi vigili ed è necessario più personale, ma questo non basta se il detenuto vive un’esperienza di vita che percepisce come del tutto aliena dal resto della società". "Vigilanza dinamica significa che vanno studiate le dinamiche tra i soggetti dentro il carcere - aggiunge Palma. Ed il regime aperto è in realtà un modo più occhiuto di sorvegliare. Perché i suicidi avvengono nel chiuso delle celle, e difficilmente riusciamo a conoscere le vicende che hanno portato a quel gesto. È proprio l’interazione e la dinamica dei detenuti a implicare maggiore sicurezza. Naturalmente spetta ai direttori degli istituti organizzare attività adeguate e non lasciare i detenuti i corridoio a far niente. Nelle attività di gruppo si comprendono meglio le dinamiche tra soggetti, comprese quelle di sopraffazione". Il Garante: "per ridurre i suicidi bisogna riallacciare un legame con l’esterno" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2017 "Bisogna stare attenti quando si suscitano attese, come è successo con gli Stati generali sull’esecuzione penale dello scorso anno", così commenta il garante dei detenuti Mauro Palma all’AdnKronos in merito ai tanti sucidi nelle carceri italiane. Il Garante si riferisce all’iniziativa promossa dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nella quale giuristi, volontari, attivisti e figure professionali del settore penitenziario hanno elaborato proposte per migliorare il sistema penale e per garantire la finalità rieducativa della pena. Proposte che hanno poi dato il via alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Riforma che per essere attuata, ha bisogno dei decreti, con un iter che si prospetta troppo lungo. Una speranza che rischia di vanificarsi, tanto che migliaia di detenuti sono in sciopero della fame attraverso l’iniziativa non violenta promossa dal Partito Radicale proprio per chiedere che venga al più presto attuata la riforma. "Nelle carceri che frequento - afferma sempre Palma all’Adnkronos - vedo molta disillusione che può colpire i soggetti più deboli. Non sempre si sono stabiliti buoni protocolli con le Asl relativamente alle condizioni psichiatriche dei detenuti. E in questo ambito spesso si sono fatte ricadere responsabilità su personale non specializzato". Secondo il Garante, la situazione dei suicidi merita approfondimenti necessari per perfezionare il sistema di prevenzione elaborato dal ministero della Giustizia con la direttiva del 3 maggio 2016, a seguito della quale è stato predisposto il "Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti", con strumenti di rilevazione del rischio, il presidio delle situazioni potenzialmente critiche, i protocolli operativi per la gestione dei casi a rischio e per affrontare le urgenze. Sul fronte della prevenzione, secondo il Garante, "un’operazione che andrebbe fatta è quella di aumentare le possibilità di vita normale per i detenuti, con più colloqui con le famiglie e maggiori possibilità di lavoro. A Pisa (dove è avvenuto un suicidio e una rivolta, ndr), carcere problematico, le attività finiscono alle tre del pomeriggio, e c’è un problema di carenza di personale, a cui non può essere addebitata la responsabilità per quello che è successo. Quello di cui però il carcere ha bisogno è di riallacciare un legame tra interno e esterno". Mauro Palma non si trova d’accordo con l’affermazione del sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) che mette sotto accusa la sorveglianza dinamica. "In realtà - spiega il Garante - è un modo più efficace di sorvegliare. Perché i suicidi avvengono nel chiuso delle celle, e difficilmente riusciamo a conoscere le vicende che hanno portato a quel gesto. È proprio l’interazione e la dinamica dei detenuti a implicare maggiore sicurezza. Naturalmente spetta ai direttori degli istituti organizzare attività adeguate e non lasciare i detenuti nei corridoi a far niente. Nelle attività di gruppo si comprendono meglio le dinamiche tra soggetti, comprese quelle della sopraffazione". Magistrati in politica, una riforma al ribasso di Domenico Lusi Pagina 99, 2 settembre 2017 Il Parlamento ha elaborato un Ddl per limitare i cambi di ruolo. Ma con regole più blande di quelle proposte dalle stesse toghe. Scontentando tutti. Lo chiamano "porte girevoli". È il meccanismo per il quale oggi - salvo alcune cautele e accorgimenti procedurali - i magistrati italiani possono entrare in politica, candidandosi o assumendo incarichi di governo, e poi uscirne rientrando in magistratura. Tutto legittimo, sia chiaro. L’articolo 51 della Costituzione garantisce a ogni cittadino, inclusi i magistrati (ai quali però la riforma del 2006, in base all’articolo 98 della Costituzione, vieta non solo l’iscrizione, ma anche "la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici") di candidarsi e accedere agli uffici pubblici e "di conservare il posto di lavoro" al rientro. Il problema è che Mani Pulite prima e venti anni di Berlusconi poi - con lo scontro tra politica e magistratura, le accuse di uso politico della giustizia e di politicizzazione dei giudici, nonché strumentalizzazioni varie - hanno determinato una progressiva delegittimazione dell’operato della magistratura agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica. Ecco allora che episodi come il caso Consip - dove gli stessi investigatori avrebbero manipolato alcuni atti dell’inchiesta - non aiutano, alimentando il sospetto che ci siano indagini orientate a colpire una parte politica (in questo caso il Pd renziano). Da qui la necessità di regole che salvaguardino - non solo nella sostanza ma anche nelle apparenze - l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato che abbia deciso di fare attività politica. Come evitare che possa sfruttare la notorietà che potrebbe venirgli dalle sue inchieste giudiziarie per fare carriera in politica? E come evitare il contrario, che possa usare la sua attività temporanea al servizio della politica per poi rientrare in magistratura e ottenerne gratificazioni in termini di avanzamenti di carriera? Soprattutto, come garantire, di fronte al cittadino, che l’attività dello stesso magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, appaia imparziale e non volta a far prevalere una parte politica? O, detto altrimenti, che il magistrato non solo sia superiore a ogni parzialità, ma anche al di sopra di ogni sospetto di parzialità? Per risolvere la questione più spinosa in materia di giustizia lasciata in eredità dall’era Berlusconi, il Parlamento è da alcuni anni al lavoro su un Ddl che fissi - come chiesto all’Italia, lo scorso autunno, anche dal Gruppo di stati contro la corruzione (Greco), organo del Consiglio d’Europa - limiti più stringenti alla partecipazione dei magistrati alla politica e al loro ricollocamento al rientro. L’attuale legislazione lascia infatti aperti ampi margini di ambiguità e di potenziale sovrapposizione tra i due ambiti, soprattutto a livello di elezioni amministrative (regioni, province e comuni) dove i magistrati che si candidano o vengono cooptati per svolgere un incarico pubblico (membro di giunta) non hanno l’obbligo di mettersi in aspettativa. Risultato: "Attualmente", spiega Eugenio Albamonte, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), "un magistrato può fare ad esempio il sindaco e contemporaneamente continuare a svolgere la propria funzione giudiziaria purché non avvenga nel medesimo circondario". Oppure può decidere di mettersi in aspettativa e candidarsi al consiglio comunale del distretto dove svolge le sue funzioni e, se non eletto, tornare subito nell’ufficio di origine. A mettere ordine ci ha provato il Csm. Con una serie di circolari, l’ultima del 2014, ha disciplinato il rientro in magistratura degli eletti e dei non eletti alle politiche e alle amministrative, stabilendo che se la candidatura è in una circoscrizione fuori del circondario in cui opera, il magistrato viene ricollocato nell’ufficio di appartenenza, in caso contrario viene destinato nel distretto giudiziario più vicino, ma a svolgere funzioni giudicanti - come nel caso di Giuseppe Narducci, ex pm di Calciopoli, poi assessore della giunta De Magistris a Napoli, ricollocato al suo rientro al tribunale Perugia. Il Csm ha inoltre stabilito che il magistrato possa essere trasferito in un distretto situato nella circoscrizione dove è stato eletto o dove ha ricoperto una carica pubblica solo dopo 5 anni. Regole che tuttavia lo stesso Csm giudica insufficienti, come ricordato da Giovanni Legnini il mese scorso in audizione al Senato sul nuovo Ddl. "L’auspicio che ho formulato in quella sede", spiega il vicepresidente del Csm, "è che si possa approvare una norma che impone a chi abbia ricoperto un incarico elettivo o di governo, tanto più se prolungato, di non tornare a fare il magistrato, optando per altre funzioni, quali l’Avvocatura dello Stato, il ministero della Giustizia o altre pubbliche amministrazioni". • All’esame del Senato Il progetto di legge che dovrebbe regolare la materia (presentato nel 2014, dopo la prima approvazione a Palazzo Madama), lo scorso 30 marzo è stato votato dalla Camera - che ha introdotto importanti modifiche - e adesso è tornato al Senato che deve scegliere: approvarlo così com’è o modificarlo, fatto che implicherebbe un altro passaggio a Montecitorio. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, giudica l’impianto del Ddl "condivisibile: credo sia una base di partenza positiva. Non esclude la possibilità per le toghe di un passaggio in politica ma disciplina le modalità di un passaggio da un ruolo all’altro con un po’ di interdizione per un certo periodo". Il testo, come emendato dai deputati, estende anche a livello locale i paletti alla candidabilità (bisogna mettersi in aspettativa sei mesi prima, non si può essere eletti nella circoscrizione dove si è operato nei cinque anni precedenti) e al ricollocamento (i non eletti tornano nell’ufficio d’origine, ma per due anni non possono svolgere funzioni inquirenti, gli eletti a fine mandato vengono assegnati a uffici al di fuori della loro circoscrizione elettorale dove è previsto un periodo di "decantazione" di tre anni durante il quale possono svolgere solo funzioni giudicanti collegiali con il divieto di ricoprire incarichi direttivi e semi direttivi). Il Ddl disciplina anche incarichi, come quelli di diretta collaborazione, finora non coperti dalla normativa. • Se il Ddl fosse già in vigore Così, se oggi fosse stato legge, il Ddl avrebbe impedito la nomina del nuovo procuratore di Napoli Giovanni Melillo - che a febbraio, proprio per poter concorrere all’incarico, si era dimesso da capo di gabinetto del ministro Orlando - dal momento che l’articolo 7 stabilisce un periodo di "decantazione" di un anno per "i magistrati che ricoprono incarichi di responsabilità in qualità di capi degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e dei sottosegretari di Stato". Melillo è stato nominato alla guida della procura di Napoli lo scorso 28 luglio dal Csm, che lo ha preferito a Federico Cafiero De Raho, procuratore di Reggio Calabria. Una nomina delicata, sulla quale l’organo di autogoverno si è spaccato: da un lato i sostenitori di Melillo (nominato con 14 voti a favore, 9 contrari e due astenuti), magistrato autorevole, noto per le grandi capacità organizzative, e dall’altro un folto gruppo di togati per Cafiero De Raho, sia per la maggiore esperienza nel coordinare inchieste antimafia, sia per ragioni di opportunità, visto il precedente incarico di Melillo. La procura di Napoli, infatti, non è solo una delle più importanti d’Italia, ma è sede di inchieste gravide di polemiche e conseguenze politiche, tra cui proprio quella sugli appalti Consip. E interessante al riguardo ricordare l’intervento al plenum del Csm del primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio (che ha votato Melillo) a sostegno del neo procuratore di Napoli. "Il problema", ha detto, ricordando le delegittimazioni subite da Giovanni Falcone e Loris D’Ambrosio, "non sono i servitori dello Stato che non meritano pregiudiziali ideologiche o fatwe per il servizio che svolgono nelle istituzioni, bensì i magistrati che fanno politica pur rimanendo in ruolo, arruolati dai partiti e dai network". • Un nervo scoperto Le parole di Canzio evidenziano come, per la stessa magistratura, quello dei giudici in politica rappresenti un nervo scoperto. Poche settimane prima della nomina di Melillo c’era stato il caso Tenaglia, sul quale a spaccarsi è stata l’Anni, con il gruppo Autonomia e Indipendenza dell’ex presidente Piercamillo Davigo che ha lasciato la giunta del sindacato delle toghe. Pomo della discordia la decisione del Csm di discutere in plenum (ma dopo le polemiche la proposta è tornata in commissione) la nomina a presidente del tribunale di Pordenone di Lanfranco Tenaglia, deputato del Pd per due mandati e rientrato in magistratura (è giudice al tribunale dei minori di Venezia) già da quattro anni - ben oltre i tre di "decantazione" previsti dal Ddl all’esame de Senato. "Non è tollerabile che uno che viene da due mandati parlamentari venga proposto come presidente di tribunale, saltando un collega con più anzianità", aveva detto, senza citare Tenaglia, l’ex presidente Davigo, che chiedeva una presa di posizione esplicita del sindacato rispetto al Csm, dopo che la giunta dell’Anni, a sua volta, si era schierata per una cesura netta tra attività politica e ritorno in magistratura. • Cosa dice l’Anm "Sono convinto", dice al riguardo Albamonte, "che coloro che rientrano in magistratura dopo aver ricoperto incarichi politici tornino a pensare e a decidere da magistrati in modo terzo e imparziale. Si tratta, insomma, di una questione di apparenza di imparzialità, non di sostanza. Il problema è che veniamo da una stagione politica in cui si è fatto un uso pretestuoso della questione. Durante i procedimenti giudiziari i politici, invece di difendersi nel merito, hanno gridato al complotto per delegittimare il giudice, causando così danni alla magistratura, anche in termini di prestigio. Per questo come Anni sul punto abbiamo espresso una posizione più severa del legislatore. Oggi noi, per recuperare credibilità e fiducia agli occhi del cittadino, diciamo: siamo disposti a rinunciare a qualche diritto e ad accettare che un magistrato che abbia svolto mandati elettivi o incarichi di governo non torni più a calcare le aule giudiziarie, né come pm, né come giudice, ma rientri in ruolo con altri incarichi, per esempio al ministero, all’Avvocatura dello Stato o nell’incarico di altre giurisdizioni". Una posizione che non riscuote il consenso di tutti i magistrati. "Sul punto l’articolo 51 della Costituzione è chiaro", spiega Donatella Ferranti, magistrato in aspettativa, deputato del Pd e presidente della Commissione Giustizia della Camera: "Sarebbe conforme alla Costituzione una norma che, esaurito il mandato, imponga al magistrato ricollocato di cambiare lavoro? Perché un professore universitario, cessato il mandato, può riprendersi la cattedra e può tornare a giudicare i suoi studenti (anche quelli con idee politiche diverse) e un magistrato non potrebbe farlo? E chi svolge incarichi apicali in Authority, nell’Anm, come consulente della commissione Antimafia, non fa politica? La verità è che occorrono regole chiare sia per l’ingresso in politica dei magistrati che per il rientro in ruolo, ma senza demonizzare perché la politica non è qualcosa di sporco. Qui alla Camera oggi siamo appena due magistrati su 630 deputati". • Tanto rumore per nulla? Alla ripresa dei lavori parlamentari l’esame del Ddl proseguirà a Palazzo Madama. "Il termine per la presentazione degli emendamenti", spiega il senatore del Pd Giorgio Pagliari, relatore del provvedimento insieme al collega Felice Casson (MdP), "è stato fissato al 6 settembre, dopodiché inizierà la fase in commissione Bilancio, nota per non essere proprio "piè veloce", che dovrà dare i suoi pareri. Solo a quel punto inizierà l’esame degli emendamenti in commissione unificata (Giustizia e Affari costituzionali, ndr)". Previsioni? "Il Ddl", rileva Pagliari, "così com’è presenta a mio parere qualche criticità, la soluzione potrebbe essere un testo che prenda il meglio dei testi licenziati dal Senato e dalla Camera, che non sono antitetici". Anche per Nico D’Ascola (Ap), presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, servono emendamenti per garantire, insieme, il rispetto dell’articolo 51 della Costituzione e "il principio costituzionale dell’imparzialità del giudice" che abbia svolto incarichi politici. "Il testo per com’è congegnato ora non risolverebbe la questione, non possono restare ombre sulla giurisdizione", aggiunge D’Ascola. Tradotto: il Ddl sarà emendato in commissione e, dopo la discussione in Aula, dovrà tornare alla Camera per una nuova approvazione. Il che significa che il rischio che non diventi mai legge è concreto, visto che a febbraio finisce la legislatura. • La vicenda Emiliano In ogni caso il Ddl non affronta due nodi cruciali del rapporto tra magistrati e politica: quello posto da Canzio nel suo intervento al Csm - i magistrati che fanno politica pur rimanendo in ruolo - e quello della partecipazione dei magistrati alla vita dei partiti. Un nodo portato di nuovo alla ribalta dal governatore della Puglia Michele Emiliano, finito sotto procedimento disciplinare al Csm per essere stato segretario generale e poi presidente del Pd pugliese e per essersi candidato alle primarie dello scorso aprile per l’incarico di segretario nazionale del partito. Come detto, la riforma del 2006 vieta non solo l’iscrizione, ma anche "la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici". A fine luglio il Csm ha sospeso il giudizio su Emiliano e ha rimesso la questione alla Consulta, che già nel 2009 aveva dichiarato infondata un’analoga questione e che adesso dovrà tornare a pronunciarsi di nuovo sul tema. Il divieto "oggi ha molto meno senso di un tempo", sottolinea il presidente dell’Anni Albamonte, La norma, prosegue il magistrato, "prende spunto dal dibattito in seno all’Assemblea costituente, ma oggi la distinzione tra l’essere iscritto a un partito ed essere deputato è sempre più stemperata, la Costituzione materiale è cambiata e ha modificato molto il ruolo del parlamentare rendendolo assai meno autonomo rispetto alle segreterie dei partiti". Resta da capire come mai finora la politica, dinanzi alla possibilità di mettere fine alla ultra ventennale diatriba sul ruolo dei magistrati in politica, abbia approvato un testo di legge con paletti assai più blandi di quelli chiesti dagli stessi magistrati. Da Craxi, a Berlusconi, a Renzi. I leader politici e le riforme mancate di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 2 settembre 2017 Se da 30 anni non si riesce a rinnovare le istituzioni è perché coloro che ogni volta sostengono il cambiamento non si rivelano all’altezza del compito. Perché in Italia il fronte delle riforme istituzionali non è mai riuscito finora ad essere maggioritario? Perché alla fine hanno vinto sempre gli altri, quelli che non volevano cambiare? Ciò è accaduto davvero - come ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio del 22 agosto polemizzando con il sottoscritto - perché coloro che fin dagli anni 80 erano favorevoli alle riforme suddette e in un primo momento ne hanno anche appoggiato i vari proponenti (Craxi, poi Berlusconi, infine Renzi) ad un certo punto hanno invece disertato la battaglia, dissociandosi dai proponenti di cui sopra e dai loro progetti? Sicché ora, sempre secondo Ferrara, capita che gli stessi (tra cui per l’appunto sempre il sottoscritto) si ritrovino ancora una volta a invocare come se nulla fosse una riforma costituzionale con conseguente legge elettorale volta a rafforzare il ruolo e i poteri dell’esecutivo, cioè si ritrovano a chiedere esattamente quanto proprio loro hanno contribuito a varie riprese a fare fallire. Non era meglio pensarci prima - si chiede sarcastico Ferrara - e a suo tempo appoggiare fino in fondo i tentativi di cui sopra? In verità, pur animato dal massimo spirito autocritico possibile non mi sembra convincente la tesi che la colpa del fatto che in Italia le riforme istituzionali non si sono fatte starebbe nel debole appoggio e in seguito nell’ostilità verso i suoi proponenti da parte dei "commentatori à la Galli della Loggia" (copyright Ferrara), dei "giornaloni" e magari degli onnipresenti poteri forti. Non sarebbe più opportuno prendere in considerazione l’ipotesi che forse c’è stato qualche buon motivo se quell’appoggio è venuto meno? In realtà se da 30 anni quelle riforme falliscono è per una ragione assai semplice: perché i leader politici che ogni volta le sostengono non si rivelano all’altezza del compito che si prefiggono. Le riforme istituzionali possono arrivare al traguardo per due vie. O dall’alto: perché sono condivise dalle élite, dalla classe dirigente del Paese (politica e non); o dal basso: perché la loro esigenza è sentita in modo fortissimo dall’opinione pubblica, magari in contrasto aperto con le élite stesse. Nel caso nostro, in tema di riforme istituzionali, quasi tutta l’élite italiana è arcignamente arroccata su posizioni ultraconservatrici. In teoria e a chiacchiere non lo sarebbero i ceti produttivi e chi li rappresenta, la Confindustria per esempio. Ma in costoro sono troppo forti la miseria culturale e il legame organico che intrattengono con l’intero apparato politico-amministrativo. Da qui la loro congenita incapacità di articolare un discorso proprio quale che sia, e tanto più di portarlo avanti con coerenza e decisione. E sempre da qui, di conseguenza, la loro perenne subalternità al discorso pubblico ufficiale, dove è tradizionalmente fortissimo il punto di vista di una sinistra la quale dell’intangibilità istituzionale ha fatto da tempo la sua insegna di grande efficacia intimidatrice quanto politicamente suicida. Preclusa la via dall’alto non resta che quella dal basso. L’opinione pubblica italiana, benché in parte non avverta l’urgenza delle riforme in questione, è tuttavia orientata o comunque orientabile senza troppe difficoltà al cambiamento. Essa sente l’opportunità di un governo stabile, di un comando politico più efficace e diretto, di minori passaggi politico-burocratici. Ma perché essa sostenga senza riserve l’idea di conseguenti riforme istituzionali e di un’adeguata legge elettorale di tipo maggioritario è necessario qualcosa di più: deve essere convinta, deve fidarsi. L’opinione pubblica, cioè, deve farsi l’idea che le riforme proposte migliorino effettivamente il quadro esistente. Soprattutto deve convincersi che chi le propone, in ragione della propria personalità, del proprio profilo politico, del modo come argomenta e motiva le ragioni delle riforme in campo, merita la sua fiducia. Deve cioè credere che quelle riforme non sono un espediente di bassa cucina per far fuori l’avversario bensì che esse sono davvero concepite in vista di un interesse collettivo, non già per costruire o rafforzare un qualche potere personale o di partito. Un’impresa non facile. Per convincere l’opinione pubblica in questo senso ci vuole infatti un leader politico all’altezza. Dai modi rassicuranti, che appaia animato da un’autentica convinzione e devoto all’interesse generale, capace di una retorica alta e inclusiva, intellettualmente generoso nei confronti delle opinioni contrarie. Non è la descrizione di una specie di Forrest Gump della politica, di un Chance il giardiniere di palazzo Chigi, come forse è portato a pensare Giuliano Ferrara: è la descrizione di ciò che deve essere un autentico leader democratico. La sola razza politica che riesce a conseguire obiettivi importanti come quelli di cui stiamo discutendo. Ma appartenevano forse a una tale razza i Craxi, i Berlusconi, i Renzi? A me pare di no. Craxi per esempio possedeva una fortissima personalità politica ma racchiusa in un bozzolo di diffidenza e di incomunicabilità che di certo non ne fecero mai un capo popolare; senza contare che ad un certo punto, causa e vittima della pessima fama(meritata) del suo partito, egli divenne l’uomo politico più detestato del Paese. Silvio Berlusconi, dal canto suo, si è sempre mostrato incapace di uscire dal ruolo di capopartito della Destra, per giunta interpretato di preferenza (almeno fino ad oggi) con toni acidi e rancorosi d’inutile contrapposizione verso chiunque non fosse d’accordo con lui, il che gli guadagnò una valanga di no (oltre il 61 per cento) nel referendum del 2006 sul progetto di riforma costituzionale da lui proposto. E infine Renzi. C’è ancora bisogno di dilungarsi sugli errori innumerevoli che egli ha commesso nel preparare, presentare e sostenere la campagna referendaria del dicembre 2016? Davvero si può pensare che qualche editoriale giornalistico, qualche chiacchiera di talk show in più a suo favore sarebbero stati in grado di contrastare la vasta ondata di sincera antipatia e di opposizione che l’allora primo ministro riuscì bravamente a suscitare contro di sé? Non essendo riuscito ad avere dietro a ranghi serrati neppure il proprio partito? La verità è che in Italia, negli ultimi trent’anni, nessuno dei tre ideatori o proponenti delle riforme istituzionali -né Craxi, né Berlusconi, né Renzi - è stato minimamente in grado di risultare davvero convincente, tanto meno di avvicinarsi a portare dalla propria parte la maggioranza dell’opinione pubblica (e perché i cosiddetti commentatori avrebbero dovuto fare eccezione? Anche chi, come il sottoscritto, ha pure votato sì al referendum del 4 dicembre?). Non ci sono riusciti per motivi evidenti: per la loro scarsa capacità d’intendere e padroneggiare l’arena della discussione democratica, per il loro carattere umano irresistibilmente portato alla sopravvalutazione di sé e al disprezzo degli avversari, da ultimo, ma soprattutto, per l’immagine di sé data in precedenza. Nella politica come nella storia la personalità conta, eccome: forse è la sola cosa che conti davvero La rivolta dei giudici precari: no al pagamento "in natura" di Massimiliano Peggio La Stampa, 2 settembre 2017 Lo prevede un decreto del governo. I magistrati: "Testo incomprensibile". Si potrebbe dire, azzardando un po’, che per misurare il grado di civiltà di un Paese bisognerebbe osservare il trattamento economico riservato ai suoi giudici. Soprattutto a quelli onorari, figura singolare del sistema giuridico italiano, che, pur indossando a migliaia la toga e rappresentando lo Stato nei tribunali, non sono in fondo "veri giudici", ma sono "magistrati a tempo", in genere molto prolungato, non godono degli stessi diritti attribuiti ai magistrati di ruolo e in busta paga vengono retribuiti a cottimo, "un tanto ad udienza" s’intende, non a causa. Dopo mesi di proteste e scioperi da parte dei magistrati onorari, e un braccio di ferro con il ministro della giustizia Andrea Orlando, di recente è entrato in vigore il decreto dal titolo "Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio": l’articolo 26, introdotto per ritoccare i meccanismi del calcolo dei redditi, prevede anche il pagamento in "natura". Testuale: "I redditi sono costituiti dall’ammontare delle indennità in denaro o in natura percepite nel periodo di imposta". Non solo gli avvocati, dunque, potranno essere pagati in capponi manzoniani, anche i magistrati onorari avranno una nuova fonte di sostentamento. Giustizia è fatta. A sollevare l’anomalia normativa "priva al momento di alcuna plausibile spiegazione interpretativa" sono i vice procuratori onorari torinesi, tra i più attivi nella campagna di protesta sui contenuti della riforma, da giorni impegnati a scandagliare i 35 articoli del decreto, farcito dalla solita cascata di commi, lettere e rimandi ad altri testi normativi. Errore? Sbavatura? O nuova frontiera retributiva? Le battute si sprecano sul vero senso della "natura" dei compensi, in attesa di un chiarimento ministeriale. "Visto che non abbiamo diritto ai ticket restaurant non vedo altri pagamenti in natura compatibili con il nostro ruolo. Mi domando poi chi li dovrà effettuare", dice sorridendo Paola Bellone, portavoce del Movimento 6 Luglio per la Riforma della magistratura onoraria. Aggiunge: "Ho passato parte delle vacanze estive a leggere il decreto per decifrarlo: a causa dell’ipertrofia di commi è difficile da comprendere anche per un operatore del diritto. Beh, alla fine, sono arrivata alla conclusione che è più facile fare un Sudoku". Il decreto del Governo è entrato in vigore a luglio a conclusione di una lunga battaglia sulla sostanza della riforma, a cui hanno partecipato anche i vertici di varie procure, a partire dal procuratore capo di Torino Armando Spataro, sostenitore delle istanze della magistratura onoraria. I "giudici" non di ruolo, sia nella funzione di vice procuratori onorari come collaboratori dei pm o di giudicanti, da anni, da quando sono stati introdotti per decongestionare le aule ingolfate di processi, si occupano della maggior parte delle cause dibattute nei tribunali. Così sono diventati "precari stabili", con tanto lavoro sulle spalle e pochi diritti. La tanto attesa riforma del governo ha tradito molte aspettative. "La maggior parte delle norme - afferma Paola Bellone - entrerà in vigore fra quattro anni. Nel testo si prevedono varie eccezioni, comprese eccezioni alle eccezioni. In un caso il legislatore ha fatto riferimento a due commi di un articolo che in realtà è composto da uno solo. Insomma qualche sbavatura c’è stata". Mutano alcune competenze, saltano alcuni limiti, ma ne vengono introdotti altri. "Ad esempio non ci occuperemo più di omicidi colposi derivanti da infortuni sul lavoro o incidenti stradali, finora la normalità nel nostro lavoro. Il problema serissimo, al di là della retribuzione in natura, è che il decreto ci qualifica, ai fini fiscali, ai lavoratori autonomi. Ma la disciplina non è quella dei lavoratori autonomi". Diritti dei detenuti, trattamento "umano" per gli stranieri di Giovanni D’agata approdonews.it, 2 settembre 2017 Dopo la sentenza pilota della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulle condizioni di detenzione in Romania, le corti territoriali devono vagliare puntualmente se il condannato rischia trattamenti disumani e degradanti una volta estradato, specie se può finire in una delle carceri della lista nera della Cedu. In caso contrario deve rimanere in Italia Diritti dei detenuti, trattamento "umano" per gli stranieri Dopo la sentenza pilota della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulle condizioni di detenzione in Romania, le corti territoriali devono vagliare puntualmente se il condannato rischia trattamenti disumani e degradanti una volta estradato, specie se può finire in una delle carceri della lista nera della Cedu. In caso contrario deve rimanere in Italia. Altra bocciatura per una corte territoriale in tema di mandato d’arresto europeo e consegna al paese d’origine che per Giovanni D’Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti" continuerà a far discutere anche una parte dell’opinione pubblica italiana che in preda ad un’ingiustificata ondata xenofoba, quando si tratta di stranieri, è troppo spesso pronta a metter da parte i diritti umani delle persone che invece devono essere tutelati ad ogni costo. Anche questa volta è la Corte d’appello di Torino a veder riconosciuta l’illegittimità della propria decisione relativa alla consegna di un cittadino romeno condannato ripetutamente per furto ed oggetto di un mandato d’arresto europeo esecutivo. La Cassazione penale con la sentenza 39865/17, è, infatti, tornata nuovamente sulla questione facendo esplicito riferimento alla recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. 4, Rezmives ed altri contro-Romania del 25 aprile 2017, che, esaminando le condizioni detentive esistenti presso una serie di istituti penitenziari rumeni, ha ribadito che il divieto imposto dall’art. 3 della Convenzione Edu, consacra uno dei valori fondamentali ed inderogabili delle società democratiche, legato al rispetto della dignità umana. Ed arriva a questa conclusione: non può essere consegnato al Paese d’origine per le condizioni inumane delle sue carceri se non viene effettuata una puntuale verifica delle condizioni cui effettivamente verrà sottoposto il detenuto. In tale ottica, la conseguenza è che non si può completare l’iter del mandato d’arresto Ue anche a carico del pluricondannato per furto se l’ufficio dell’esecuzione penale romeno non garantisce che il penitenziario in cui verrà destinato il consegnando sia "vivibile" e non rientri in una delle strutture della black list indicata nella sentenza "Rezmives" che elenca le prigioni locali a rischio: buie, senza servizi igienici separati e invase da topi e insetti. Nella fattispecie giunta all’attenzione dei giudici della Suprema Corte, è stato accolto il ricorso proposto personalmente dall’interessato. La Corte d’appello di Torino aveva erroneamente ritenuto, solo sulla base delle informazioni acquisite direttamente dal tribunale di sorveglianza rumeno, che sussistessero le condizioni della consegna, perché non vi erano documenti che attestassero il reale radicamento del cittadino romeno in Italia. Rilevano, al contrario gli ermellini che la nota di rassicurazioni, "recepita nella sentenza della Corte di appello in verifica, è tuttavia priva di specificità con riguardo al calcolo degli spazi, se effettuato al netto o al lordo di arredi fissi e del locale bagno, dei tempi e luoghi degli spostamento consentiti ai soggetti ristretti all’interno della struttura detentiva della protrazione oraria dell’apertura delle celle collettive, delle concrete caratteristiche e della frequenza delle operazioni di disinfestazione da parassiti. Nel caso in esame tale carenze non possono essere superate in base al principio di affidamento, attesa la recente sentenza pilota della Corte Edu". Tale decisione, ricordano i giudici di legittimità "Ha quindi accertato l’esistenza negli istituti penitenziari specificamente considerati di condizioni di sovraffollamento carcerario, in contrasto con i principi di cui all’art. 3 della Convenzione, non compensate da altri fattori positivi, ma anzi aggravate da ulteriori carenze a ragione dell’assenza di luce naturale, della durata molto breve dell’ "ora d’aria", dell’insalubrità dei servizi igienici, talvolta privi di separazione, dell’assenza di attività socioculturali, della disponibilità insufficiente all’acqua calda, dell’assenza di areazione delle celle, della presenza di insetti e topi, della vetustà dei materassi, della cattiva qualità dell’alimentazione. Tanto è sufficiente per dubitare del fatto che le condizioni materiali della struttura carceraria di iniziale destinazione del ricorrente, oggetto di valutazione negativa da parte della Corte Edu nella sentenza citata, siano migliori di quanto specificamente lamentato dal ricorrente nell’impugnazione. Oltre a ciò, l’indicazione dei successivi luoghi di esecuzione della pena, specificati solo in via orientativa, come verosimile, non consente di escludere la possibilità che il ricorrente sia destinato ad uno degli istituti penitenziari tra quelli indicati nella citata sentenza "Rezmives ed altri" - Gherla, Aiud, Oradea, Craiova, Târgu-Jiu, Pelendava, Rahova, Tulcea, Iasi e Vaslui, già oggetto di precedenti richiamati analoghi pronunciamenti della stessa Corte Edu, come luoghi di espiazione in situazioni integranti violazione dell’art. 3 Cedu e nega l’avvenuta acquisizione di informazioni "individualizzate" e certe, che offrano precise rassicurazioni sui luoghi e sulle modalità di futura espiazione della detenzione". Imputato per mafia ai domiciliari per assistere il figlio autistico Corriere della Sera, 2 settembre 2017 Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, secondo la quale è necessaria anche la presenza del papà in casa. L’uomo è di Gallipoli ed è ritenuto vicino al clan Padovano. Arresti domiciliari per un condannato per reati di mafia per garantire la crescita del figlio affetto da autismo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, secondo la quale è necessaria anche la presenza del papà in casa. La decisione dei giudici - L’uomo è di Gallipoli ed è ritenuto vicino al clan Padovano. Ha un figlio di due anni affetto da un grave disturbo dello spettro autistico. Secondo la Corte di Cassazione, dinanzi alla quale è stato impugnato da parte dell’avvocato, Ladislao Massari, un provvedimento del Riesame che a sua volta confermava un "no" ai domiciliari della Corte d’Appello di Lecce, non era stata presa in considerazione la particolarità del caso. Il bambino infatti viene sì assistito dalla madre, ma vista la sua disabilità ha bisogno di mantenere un rapporto con entrambi i genitori. Il genitore, che quindi ha fatto ritorno a casa, è accusato di associazione mafiosa e estorsione aggravata dalle finalità mafiose. Al bimbo era stato consigliato un trattamento riabilitativo terapeutico, con coinvolgimento di entrambi i genitori. Trattamento al quale ora il padre potrà partecipare. Bloccata la consegna se il Mandato di Arresto Europeo è di un Pm di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2017 Esclusa la consegna del cittadino italiano, indiziato di truffa e appropriazione indebita, se il mandato d’arresto europeo e il titolo cautelare nazionale non sono stati emessi da un giudice ma dal Pubblico ministero del Paese richiedente. La Corte di cassazione, con la sentenza 39861 depositata ieri, ha ordinato l’immediata scarcerazione di un cittadino italiano già "pronto", dopo il via libera della Corte d’appello, a partire per Sofia dove avrebbe "incontrato" i giudici per difendersi dall’accusa di aver violato il codice penale bulgaro. La Suprema corte precisa che all’ufficio del Pm spetta la sola attivazione della procedura. E la possibilità per l’Italia di procedere alla consegna (articolo 1, comma 3 della legge 69/2005) è subordinata alla condizione che il provvedimento cautelare, sul quale si basa il Mae sia stato sottoscritto da un giudice. Una previsione, precisa la Cassazione, "che non riguarda l’atto per il quale si richiede allo Stato membro la consegna o il mandato d’arresto europea, ma si rivolge direttamente al provvedimento cautelare nazionale di limitazione della libertà di una persona". I giudici sottolineano la natura sostanziale della una condizione: solo la "firma" del giudice garantisce la libertà del soggetto raggiunto dal mandato d’arresto europeo. Con la sentenza 39860, sempre di ieri, la Cassazione è tornata sul Mae. Questa volta i giudici della sezione feriale hanno rimediato a una "svista" della Corte d’appello, che aveva disposto la consegna alla Spagna di un cittadino italiano, senza chiarire che l’eventuale pena doveva essere scontata in Italia. A fronte della cittadinanza serviva, infatti, l’impegno da parte del Paese richiedente di rinviare il ricorrente - accusato di associazione a delinquere e truffa - in Italia per scontare la pena nel caso fosse inflitta. La "dimenticanza" non blocca però la consegna perché, trattandosi di un requisito di legittimità, la stessa Cassazione può rimediare, integrando la sentenza impugnata. Pisa: "inizio lo sciopero della fame", il grido del Garante dei detenuti di Carlo Venturini Il Tirreno, 2 settembre 2017 Don Bosco-polveriera dopo la rivolta conseguente al suicidio in cella del giovane tunisino. Franco Corleone annuncia la protesta: "Da mesi aspettiamo il nuovo provveditore ministeriale". "Lunedì inizierò lo sciopero della fame, se non verrà nominato dal ministero della Giustizia il provveditore per i detenuti della Toscana". Lo dice Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti per la Toscana dopo il suicidio del tunisino avvenuto al carcere Don Bosco con conseguente rivolta degli altri detenuti. "Siamo cassandre inascoltate, a mali estremi, estremi rimedi", continua il garante che aggiunge: "Il carcere Don Bosco va abbattuto e ricostruito". Corleone si lamenta di un mancato referente regionale per l’amministrazione carceraria (della Toscana e dell’Umbria) che manca da sei mesi, "e quindi non sappiamo a chi rivolgerci". Corleone fa due distinguo sulla situazione carceraria pisana: uno statistico-sociologico, l’altro infrastrutturale. Il garante parte da alcuni dati, e cioè che i tentati suicidi nel 2016 negli istituti toscani sono stati 125, con punte di 50 a Firenze-Sollicciano, 30 al carcere di Pisa e 13 in quello di Livorno. Ciò che desta maggiore preoccupazione o comunque che dà il polso della vivibilità e sostenibilità della pena detentiva, è il dato sugli atti di autolesionismo, che schizza a 1.103 nelle strutture toscane. A Pisa sono 233, a Firenze-Sollicciano 433, Livorno-Le Sughere 52. "Si deve partire da questi dati che testimoniano il profondo disagio, la pena che si somma alla pena di chi vive in ambienti che sviliscono i diritti umani sanciti dalla Costituzione". Corleone si indigna sul sovraffollamento del Don Bosco progettato per 226 detenuti rispetto ai 277 presenti nel 2016. "L’Italia è al primo posto in Europa per carcerati accusati di detenzione di stupefacenti. Siamo all’ultimo posto per i reati imputabili ai cosiddetti "colletti bianchi". E quindi gli stranieri sono in maggioranza dentro al Don Bosco. I dati divulgati dal Garante provinciale Alberto Di Martino parlano chiaro: gli stranieri, prevalentemente di nazionalità tunisina, marocchina, albanese e rumena, sono in questo momento in maggioranza piuttosto significativa: 164, a fronte di 113 italiani. Sul fronte infrastrutturale, che ha fatto auspicare in maniera provocatoria a Corleone "l’abbattimento del Don Bosco", vale quanto dichiarato da Di Martino. Si va dalla insufficiente altezza di barriere e parapetti rispetto alle norme vigenti, all’inadeguatezza, vetustà e deperimento delle linee telefoniche, del sistema di videosorveglianza alla porta principale. L’area dei detenuti in semilibertà necessita di un totale rifacimento, e preferibilmente la dislocazione all’esterno della casa circondariale. C’è da segnalare che le celle sono ancora munite di bagno alla turca non separato dal vano camera, come invece richiede la legge. "Anche in questo caso si tratta di una situazione illecita - commenta Di Martino. La struttura va rifatta da cima a fondo, pena il regresso a un regime pre-democratico". Frosinone: riesumata la salma di un detenuto trovato morto in cella, si sospetta omicidio linchiestaquotidiano.it, 2 settembre 2017 È stata riesumata ieri mattina nel cimitero di Bari la salma del detenuto trovato morto in una cella del carcere di Frosinone esattamente un anno fa. La Procura vuole vederci chiaro sulle cause della morte perché non si tratterebbe di un caso di suicidio, come dimostrato dall’autopsia svolta dal medico legale Daniela Lucidi, bensì di omicidio. Sotto indagine per il delitto è finito Daniele Cestra, 41enne condannato in via definitiva a 18 anni di reclusione per il delitto di Anna Vastola, 81enne uccisa durante un furto finito in tragedia a Borgo Montenero, in provincia di Latina. L’omicida era stato rinchiuso nel carcere del capoluogo ciociaro e condivideva la cella con un uomo di oltre vent’anni più grande, che era stato arrestato per violenza sessuale sulla figlia, rimasta anche incinta. Tra i due detenuti, stando alle deposizioni raccolte, non correva buon sangue. I motivi potrebbero essere legati al codice d’onore dei detenuti che l’anziano avrebbe violato abusando di sua figlia (all’epoca della violenza di età inferiore a 18 anni) o ad incompatibilità caratteriali. Sta di fatto che un anno fa il 65enne è stato trovato senza vita nella sua cella con un cappio intorno al collo. In prima battuta si era pensato ad una morte per impiccagione ma l’autopsia svolta dalla dottoressa Lucidi portò alla luce una serie di segni sul corpo della vittima compatibili con l’asfissia. In pratica, per il medico legale l’uomo era stato strangolato e la sua morte fatta passare per un suicidio. Cestra, nel frattempo, è stato trasferito nel carcere di Terni da dove avrebbe anche tentato di evadere. La Procura di Frosinone, nella persona del sostituto Vittorio Misiti, quando è venuta a conoscenza della relazione medico-legale ha immediatamente avviato le indagini, affidate ai Carabinieri di Frosinone. Sono state raccolte le deposizioni di alcuni detenuti che sosterrebbero, al contrario di quanto dichiarato all’indagato Cestra, che tra la vittima e il compagno di cella non correva buon sangue. Ma un’ombra è scesa anche su altri due morti sospette, avvenute tutte nelle stesse modalità nelle carceri dove Cestra è stato rinchiuso. Compagni di cella che sarebbero stati trovati impiccati. Subito dopo la riesumazione della salma dell’anziano, la dottoressa Lucidi ha eseguito una serie di accertamenti irripetibili. Poi si procederà con l’analisi degli altri due casi. Se si trattasse di omicidio, la Procura di Frosinone si troverebbe ad indagare su un serial killer. Nel frattempo gli avvocati dell’indagato, Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, preparano la difesa. Non si esclude che chiederanno una perizia psichiatrica per il loro assistito. Sassari: grave situazione idrica nel carcere di Bancali, il Sindaco scrive a Orlando sassarinotizie.com, 2 settembre 2017 Il Sindaco Nicola Sanna ha inviato ieri, 31 agosto, al Ministro della Giustizia Andrea Orlando una lettera per denunciare la grave situazione idrica del Carcere di Bancali. Nella Casa circondariale "Giovanni Bacchiddu", infatti, dalla fine di luglio, il servizio idrico viene erogato in maniera non continuativa, solo per alcune ore nel corso della giornata e l’acqua, per quanto i valori siano rientrati nei parametri di potabilità, risulta ad oggi imbevibile. Già l’11 agosto scorso il Sindaco aveva inviato una lettera al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, al Presidente della Regione Sardegna Francesco Pigliaru, all’Assessore regionale ai Lavori Pubblici Edoardo Balzarini, al Prefetto di Sassari Giuseppe Marani e all’Amministratore Unico di Abbanoa Alessandro Ramazzotti. Nella lettera si sottolineavano non solo le criticità del servizio e le scarse condizioni igieniche ma anche l’impossibilità, da parte dell’Amministrazione carceraria, di fornire un litro d’acqua a detenuto, come accaduto nel corso del 2016. "Alla fine del mese di luglio è stata chiesta al Provveditorato l’autorizzazione per il fornimento di una bottiglia d’acqua al giorno per ogni persona detenuta - tiene a precisare Patrizia Incollu, direttrice della Casa Circondariale. In seguito all’autorizzazione del Provveditore, è stata bandita una gara d’appalto per la fornitura. Apriremo le buste lunedì 4 settembre". In attesa dell’espletazione della gara d’appalto predisposta dall’Amministrazione penitenziaria, dunque, i detenuti che non hanno la disponibilità economica di acquistare il fabbisogno quotidiano di acqua, sono costretti a bere il liquido che fuoriesce dai rubinetti delle camere di detenzione, che si presenta di colore color giallo melma, sedimenta residui e genera mucillagini. Ieri, 31 agosto, sono state donate dalla San Martino 1000 bottiglie per un totale di 1500 litri, ed è possibile che venga offerta, nei prossimi giorni, un’ulteriore fornitura di pari entità. La consegna è stata effettuata dalla Protezione Civile in sinergia con il Settore Lavori Pubblici, che ha fornito supporto logistico per il trasporto di uomini e mezzi dallo stabilimento di Codrongianos fino al Carcere di Bancali. "Se sono gravi le condizioni igienico sanitarie - commenta il Sindaco Nicola Sanna - non è meno grave la mancanza di rispetto dei diritti e della dignità di coloro che sono ospitati nella Casa circondariale. Nonostante la presenza di un Protocollo tra Comune, Prefettura, Vigili del Fuoco, Ente Acque della Sardegna e Abbanoa, il carcere di Bancali continua a non ricevere il servizio sostitutivo di approvvigionamento idrico con autobotti, servizio che il gestore Abbanoa è tenuto a fornire ogni qualvolta si verifichino disagi". Il Sindaco è stato oggi raggiunto telefonicamente dal Sottosegretario alla Giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria, Gennaro Migliore, che ha assicurato il massimo impegno del Ministero per superare le criticità. Salerno: delegazione Radicale al carcere di Fuorni, detenuti in sciopero della fame anteprima24.it, 2 settembre 2017 È prevista stamattina la visita al carcere di Fuorni nell’ambito del Satyagraha nelle carceri, iniziato lo scorso 16 agosto, a cui hanno già aderito con lo sciopero della fame più di settemila detenuti, di questi sessantaquattro a Fuorni alla sezione "Alta sicurezza", tale da poter ottenere urgentemente entro l’estate dal Governo i decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario già approvato dal Parlamento con una legge delega. La delegazione composta dal senatore Franco Cardiello di Forza Italia, dal segretario della Camera Penale Salernitana l’avvocato Saverio Maria Accarino e da Donato Salzano segretario dell’Associazione Radicale "Maurizio Provenza". Al termine della visita prevista intorno alle 12:30, si terrà la conferenza stampa all’uscita del carcere, per fare il punto sull’iniziativa non violenta nelle carceri e sullo stato della condizione detentiva all’interno della Casa Circondariale di Salerno. Ad accogliere i visitatori all’uscita davanti ai cancelli dell’istituto di pena ci sarà il Presidente della Camera Penale avvocato Michele Sarno che illustrerà i prossimi appuntamenti di raccolta firme per i detenuti all’interno delle case di reclusione salernitane, sulla proposta di legge d’iniziativa popolare della "separazione delle carriere dei magistrati", che vede proponente l’Unione delle Camere Penali Italiane e sostenitore il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Rovigo: la denuncia della Polizia penitenziaria "nel nuovo carcere sicurezza a rischio" di Marco Scarazzatti Il Gazzettino, 2 settembre 2017 Le critiche riguardano gli ampi spazi inutilizzati, le carenze di organico e il mancato avvio di attività lavorative per i detenuti. Il direttore e la dirigente della Polizia penitenziaria: "Qui i controlli risultano più difficili". Un paio d’ore nel nuovo carcere di Rovigo, per vedere da vicino la situazione d’emergenza lamentata dal direttore Paolo Malato e dal Commissario capo della Polizia penitenziaria Sandra Milani. "Il carcere così com’è è ancora un cantiere aperto, a corto di personale e con tanti rischi - hanno affermato Milani e Malato ieri in sala conferenze alla presenza, tra gli altri, del deputato Diego Crivellari - Siamo a corto di personale, un piano intero è ancora da aprire e non c’è niente di più insicuro in un carcere, quando si hanno tanti spazi non adoperati e non presidiati". A detta della Milani, c’è pure un forte rischio di fughe, vista la posizione in aperta campagna. "La vecchia sede di via Verdi era più piccola, cadente, però tutto era sotto controllo rispetto a qui: abbiamo migliorato in quanto a qualità, ma non certo di sicurezza. E dall’inaugurazione è passato quasi un anno e mezzo, senza che nulla si sia mosso". Tra i presenti, all’incontro organizzato dal coordinatore regionale, della Funzione Pubblica di Cgil Penitenziari Gianpietro Pegoraro, anche Livio Ferrari del Centro Francescano di Ascolto, Marco Casellato delle Camere Penali di Rovigo, Giulia Bellinello, garante diritti detenuti di Rovigo, Francesca Zanirato, canoista polesana delle Fiamme Azzurre con numerosi titoli italiani vinti. "L’obbiettivo dell’incontro è stato quello di rilanciare l’attenzione sulla casa circondariale, che certo presenta problemi strutturali più volte denunciati anche da questa organizzazione sindacale - ha precisato Pegoraro. Seppure la struttura sia di nuova costruzione, continua a presentare carenze di personale e mancanza di progetti e prospettive di lavoro, sul modello di altri istituti, anche veneti, come Padova e Venezia. Si vuole altresì offrire una diversa idea organizzativa dell’amministrazione penitenziaria, che attraverso fatti concreti e progetti mirati investa sul nuovo istituto polesano affinché il carcere diventi luogo reale di trattamento e di rispetto dei diritti di tutti coloro che vivono il carcere, sia che ne siano detenuti, che ci lavorino o che offrano attività di volontariato". Roma: anche la libertà va in ferie, Tribunale del Riesame "chiuso due mesi" di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 2 settembre 2017 Dietrofront solo dopo le protesti dei legali. Il cartello choc al tribunale che decide le scarcerazioni: "Chiusi due mesi". Può capitare che nella capitale la giustizia vada in ferie. O almeno ci provi. Chiusi dal 1 settembre al 31 ottobre, c’era scritto su un cartello affisso alla porta della cancelleria del Tribunale del Riesame fino a ieri, prima che il malcontento degli avvocati e lo stato di agitazione proclamato dalla camera penale di Roma facesse revocare la misura dal presidente del Tribunale, Francesco Monastero. Perché ad andare in vacanza per due mesi, anche se per problemi di carenza di organico, doveva essere una sezione speciale come quella che decide sulla libertà personale dei detenuti, per lo più di quelli in attesa di giudizio o comunque con condanne ancora non definitive. Un’iniziativa senza precedenti, quella del Riesame di Roma, che avrebbe sospeso la fissazione degli appelli davanti ai giudici della libertà dopo l’eventuale rigetto di un ricorso al gip, azzerando di fatto i diritti dei detenuti, che in pratica avrebbero dovuto attendere la fine di ottobre affinché un giudice prendesse in considerazione le loro istanze di revoca o sostituzione delle misure cautelari. Ma è chiaro che quando di mezzo c’è la libertà personale di chi è dietro le sbarre in carcerazione preventiva, la velocità è un requisito fondamentale e non ci sono problemi di organico che giustifichino slittamenti o ritardi di sorta. Per questo quell’avviso comparso in cancelleria, senza spiegazione alcuna sui motivi che aveva portato alla sospensione, prima che il Tribunale tornasse sui suoi passi aveva provocato la rivolta degli avvocati. La Camera penale di Roma era subito scesa in campo contro "un provvedimento in totale contrasto con le disposizioni del codice, particolarmente attente a garantire al cittadino una rapida decisione in materia di libertà personale". Durissimi i penalisti, avevano accusato il Tribunale di "aver abdicato al compito di garantire quei principi costituzionali, in primis la libertà personale e l’inviolabilità del diritto di difesa, di cui tutti gli individui, soprattutto quelli privati della libertà personale, dovrebbero poter beneficiare senza riserve". Qualsiasi fossero stati i motivi alla base della chiusura post-estiva del Tribunale del Riesame, per la Camera penale di Roma si sarebbero dovuti comunque trovare rimedi alternativi. Tutto questo subbuglio ha fatto sì che il presidente del Tribunale Monastero chiedesse a Bruno Azzolini, che guida il Riesame, a tornare sui suoi passi per continuare in modo regolare l’attività della sua importante sezione, senza costringere i detenuti ad aspettare in cella due mesi più del dovuto prima di sapere se meritano di essere liberati, come può accadere e spesso accade. Roma: giudice super lento, adesso indaga il ministro di Giulio De Santis Corriere della Sera, 2 settembre 2017 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha avviato una verifica all’interno dell’ottava sezione del Tribunale dove uno dei giudici ha impiegato 487 giorni a scrivere il testo (sette pagine) di un verdetto di assoluzione. La pronuncia del dispositivo avvenne l’1 aprile del 2016, il testo è stato reso pubblico il 26 luglio con un ritardo di 427 giorni. Capire le ragioni del corto circuito che hanno ritardato di quattordici mesi (rispetto ai 60 giorni previsti) la consegna delle motivazioni di una sentenza composta di sette pagine. È l’obiettivo delle verifiche avviate dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, all’interno dell’ottava sezione del Tribunale dove uno dei giudici ha impiegato 487 giorni a scrivere il testo di un verdetto di assoluzione. La pronuncia del dispositivo avvenne l’1 aprile del 2016, e il presidente del collegio garantì il deposito delle spiegazioni della decisione entro due mesi. Invece alle parti il testo è stato messo a disposizione lo scorso 26 luglio con un ritardo di 427 giorni. Sotto processo era il funzionario dell’agenzia del Demanio Antonio Ronza, assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di aver assunto presso l’ente cinque persone senza il rispetto delle procedure. Nei giorni scorsi il presidente del Tribunale, Francesco Monastero, ha preso le difese del collega ricordando che la priorità di ogni giudice è la consegna delle sentenze riguardanti detenuti e condannati. Tuttavia anche il presidente ha riconosciuto che il ritardo non rientra tra i dati fisiologici del sistema, seppure subito specificando che l’ingolfamento è avvenuto in una sezione oberata di lavoro (si occupa in via esclusiva di reati contro la pubblica amministrazione). "L’iniziativa del ministro è importante. Anche le sentenze di assoluzione devono essere appellate entro termini certi - osserva l’avvocato Gian Paolo Stanizzi, difensore di parte civile. Nel nostro caso la mia assistita ritiene di essere stata lesa da questa pronuncia, ma il ritardo rischia di aver compromesso le chance di ottenere giustizia: in caso di riforma, il pericolo è l’incombere della prescrizione". A convincere il collegio all’assoluzione, il fatto che l’agenzia del Demanio è un ente pubblico economico. Diritti civili, un’Italia in cui non ci riconosciamo più di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 2 settembre 2017 Di fronte a quello che sta accadendo, in Italia ci vorrebbero dieci, cento, mille manifestazioni contro l’odio razzista e fascista. Esiste un mondo di persone, associazioni, ong che non si riconoscono più nell’Italia che attacca e insulta le Organizzazioni non governative, la presidente della Camera Laura Boldrini, Roberto Saviano o Christian Raimo. Lo scorso fine settimana in California ci sono state manifestazioni contro l’odio. Prima a San Francisco e poi a Berkeley. Dopo i fatti di Charlottesville in Virginia dello scorso 12 agosto la destra razzista bianca, nascosta dietro sigle religiose e nazionaliste, ha continuato nelle sue provocazioni. Erano annunciate due conferenze del Patriot Prayers Group a San Francisco e a Berkeley. Uno dei tanti gruppi dietro i quali si camuffano i suprematisti bianchi. Nelle due città sono state organizzate due contro-manifestazioni, tenute in piedi anche quando le autorità locali hanno vietato le conferenze del gruppo razzista per motivi di ordine pubblico. Un Rally spontaneo, colorato. A San Francisco la manifestazione è partita dalla Harvey Milk Square, nel quartiere di Castro. La comunità Lgbt e le sue bandiere erano tutte schierate in prima fila contro l’odio bianco razzista. Insieme a loro la gente comune progressista che vive a Mission, Castro, Height-Asbury. Ma anche artisti come MC Hammer. L’America dei diritti civili è tornata in piazza, rumorosamente e orgogliosamente. Sin dalla mattina presto si potevano incontrare persone che nel lento e assolato fine settimana si dirigevano con i propri cartelli all’appuntamento. Con Trump i razzisti hanno alzato la testa. Trump che ha graziato l’ex sceriffo dell’Arizona Joe Arpayo, suo sostenitore, condannato per le violenze e gli abusi nei confronti degli immigrati di origine latinoamericana e per violazioni ripetute dei diritti umani. Tra i manifestanti nessuno aveva timore di associare razzismo e fascismo. Dove c’è razzismo c’è sempre fascismo, anche quando il razzismo è patinato, elegante, tacito. C’è chi manifestava per i diritti dei rom, chi contro la violenza bianca di polizia, chi contro Donald Trump. A Berkeley, in prossimità della University of California, migliaia di persone hanno invaso di domenica le strade cittadine. È l’Università dove insegna Löic Wacquant che ha raccontato al mondo come l’intero sistema della giustizia penale americana fosse selettivo, razzista. Un’ipertrofia diretta a incarcerare la povertà e le differenze di razza. La manifestazione di Berkeley era family friendly, come la chiamavano le signore, sin dal treno Bart, quando mi hanno voluto rassicurare che non ci sarebbero stati rischi per i miei tre bimbi. Più tardi, però, ci sono stati scontri dovuti alla presenza non autorizzata di Joey Gibson, leader del Patriot Prayer Group, ugualmente sceso in piazza nonostante il divieto. La colpa sarebbe stata degli anarchici, secondo la polizia. Tutto inizia quando un uomo di origine ispanica alza un cartello dove è scritto: "God bless Donald Trump". La gente gli si rivolta contro cantando "Nazi go home". È complessa la società americana capace di esprimere tutto e il contrario di tutto. In quelle manifestazioni si respirava una società spaccata in due, come le elezioni del 2016 hanno certificato. Negli Usa la base democratica non ha paura però di scendere in piazza e dare del razzista e del fascista al loro presidente. Le grandi firme dei grandi giornali sono tutte schierate contro la deriva bianca, pseudo-religiosa, razzista e fascista. C’è una contrapposizione tra il popolo democratico e la destra razzista. Barack Obama, prima di finire il suo mandato, aveva tentato di ammorbidire la legge sull’immigrazione. In italia nelle ultime settimane è stato combinato un capolavoro politico da parte del ministro dell’Interno Marco Minniti, legittimato dal premier Paolo Gentiloni. In sequenza abbiamo assistito ai decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione con evidenti riduzioni di garanzie, all’attacco concentrico alle Ong costrette a stare ai patti del Governo, agli accordi con le milizie libiche per trattenere i migranti in una terra di torture e morte, agli sgomberi inumani di famiglie lasciate per strada. Il ministro lo avrebbe fatto perché avrebbe avuto timore per la tenuta della democrazia. Il ragionamento ha dell’incredibile: per evitare il fascismo bisogna dare un contentino al popolo che vuole la testa degli immigrati. Nel frattempo la destra fascista e razzista italiana ha alzato la testa, legittimata dalle posizioni governative. Usa solo un linguaggio più crudo. Ma nulla più. I social dimostrano come si sia scoperchiato il vaso di Pandora e, senza autocensure, si insultano liberamente coloro che esprimono posizioni autenticamente democratiche. Di fronte a quello che sta accadendo, in Italia ci vorrebbero dieci, cento, mille manifestazioni contro l’odio razzista e fascista. Esiste un mondo di persone, associazioni, ong che non si riconoscono più nell’Italia che attacca e insulta le Organizzazioni non governative, la presidente della Camera Laura Boldrini, Roberto Saviano o Christian Raimo. Bisogna alzare la testa. Stand up for human rights. La grande bugia sull’immigrazione di Riccardo Magi* Il Manifesto, 2 settembre 2017 Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare. È disumana, totalitaria e persino autolesionista la distinzione, fatta propria da quasi tutte le forze politiche italiane - da Salvini a Renzi, passando per i Cinque stelle - e recentemente anche dalla totalità degli stati dell’Unione europea, tra i rifugiati politici a cui sono dovute l’accoglienza e la protezione internazionale e i migranti economici: i "cattivi" che, invece, abbiamo la facoltà di respingere con tutti i mezzi, anche militari, anche illeciti, e ai quali non riconosciamo il diritto universale di fuggire da una vita di stenti e aspirare a un’esistenza migliore. Una logica alla quale come Radicali ci opponiamo con forza. Da sempre, e non solo quando era terra di milioni di migranti, l’Italia ha difeso la libertà delle persone di attraversare i confini tra gli stati - di migrare per salvarsi dalla guerra, dalla fame, dalla povertà estrema - come diritto inalienabile, prima del diritto ormai affermato di libertà di movimento di merci, servizi, capitali. Del resto la ricca Europa, con mezzo miliardo di abitanti, non solo ha bisogno - e ne avrà sempre di più negli anni a venire - di stranieri che vengano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri cantieri, nelle nostre famiglie, ma sarebbe in grado di gestire agevolmente, solo se lo volessero tutti gli Stati membri, anche flussi straordinari di profughi causati da carestie o guerre. Invece proprio su iniziativa del nostro Paese e sulla base di un intollerabile alibi - "aiutiamoli a casa loro", alcuni Stati membri dell’Ue con l’avallo dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini, hanno deciso per la seconda volta e di nuovo senza nessuno dei passaggi formali necessari, di appaltare ad altri la soluzione, prevalentemente con mezzi militari, del problema. Senza curarsi delle inaudite violenze a cui saranno sottoposti i migranti e di cui saremo complici. L’Italia ha stipulato patti e ha negoziato accordi economici per il controllo della frontiera esterna dell’Unione, se possibile, ancora peggiori di quelli con il governo turco, poiché stretti direttamente con le tribù libiche - cioè i "sindaci" ricevuti dal ministro Marco Minniti al Viminale - che probabilmente sono le stesse che hanno gestito e si sono contese il lucroso traffico dei migranti e i lager nel deserto nei quali vengono derubati, torturati, uccisi i profughi. Non si spiegherebbe altrimenti l’improvvisa interruzione degli sbarchi verso le nostre coste, che non può essere dovuta solo all’attivismo delle motovedette italiane donate ai militari libici. Di fronte a questo grave sovvertimento dei valori in atto, come Radicali Italiani ribadiamo l’urgenza di sconfiggere la grande bugia sull’immigrazione. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare "Ero straniero - L’umanità che fa bene" per superare la Bossi-Fini. Una legge che, mentre i nostri governi sono impegnati ad alzare muri nel Mediterraneo e ai confini dell’Europa, chiede invece di aprire varchi: canali legali e sicuri di ingresso in Italia per i migranti per motivi di lavoro, di studio o di protezione internazionale e la loro accoglienza e inclusione nelle nostre società. Alla base nessuna odiosa distinzione tra chi fugge da guerre e persecuzioni e chi fugge dalla fame e dalla povertà, ma diritti e doveri chiari per tutti. La stessa legge offre anche la soluzione al problema dei 500 mila migranti irregolari presenti in Italia introducendo un permesso di soggiorno temporaneo, condizionato all’integrazione attraverso il lavoro. Come ha lucidamente sottolineato il capo della polizia Gabrielli, "ci sono etnie che non otterranno mai lo status di rifugiati e sono destinati a restare illegalmente: per impedirlo, se non si riesce a ottenere i rimpatri, non resta che l’integrazione, che peraltro è un’opportunità da utilizzare per salvaguardarci dalla criminalità e dal terrorismo". Nei prossimi giorni come Radicali Italiani insieme a Emma Bonino, all’ampia "coalizione" di organizzazioni che promuovono con noi la campagna "Ero straniero" e con il sostegno di centinaia di sindaci che hanno aderito, rilanceremo con nuove iniziative la raccolta firme su questa legge popolare: la sola proposta oggi in campo per rispondere al ricatto della paura con la fermezza della ragione, della legalità e dell’umanità. *Segretario di Radicali Italiani Le Regioni e l’integrazione degli immigranti. Una sfida al muro dei pregiudizi di Marcello Sorgi La Stampa, 2 settembre 2017 Sebbene ancora da definire nei dettagli, e in una materia in cui appunto i dettagli pesano, il nuovo piano del Viminale che punta ad affidare alle regioni il compito di una migliore integrazione di immigrati legali, profughi e richiedenti asilo, per toglierli dalla strada e dalle situazioni di degrado in cui più frequenti sono le tentazioni a delinquere, si presenta, a prima vista, come il secondo passo di Minniti verso una ridefinizione della politica dell’immigrazione del governo. Dopo la drastica svolta che ha portato agli accordi con la Libia, al codice di regole imposto anche alle Ong impegnate, talvolta fin troppo, nelle operazioni di salvataggio nel Canale di Sicilia, alla conseguente riduzione degli sbarchi dei migranti e al riconoscimento a livello europeo di tutte queste azioni nel recente vertice di Parigi da parte di Francia, Spagna e Germania, il ministro dell’Interno cerca di affrontare l’altra emergenza, causata dall’eccessivo affollamento di extra-comunitari che, pur essendo regolarizzati, finiscono a vivere in condizioni sub-umane, influendo sulla sicurezza e più in generale sulla qualità della vita delle nostre metropoli. Basta solo ripercorrere le cronache degli ultimi giorni, dallo stupro di Rimini allo sgombero, con conseguente scia di polemiche, di un edificio occupato da extracomunitari nel centro di Roma, agli scontri, sempre nella periferia della Capitale, tra cittadini italiani e migranti ospiti di un centro di accoglienza. Campanelli d’allarme che hanno fatto alzare la voce al capo della polizia Franco Gabrielli, che in un’intervista al "Corriere della Sera" ha spiegato che la polizia interviene nei casi estremi e nella prevenzione dei reati, specie il terrorismo internazionale, che possono essere incentivati da situazioni sfuggite al controllo; ma non può certo svolgere opera di supplenza rispetto alle amministrazioni locali, tipo quella del Campidoglio, che trascurano le emergenze o non sono in grado di affrontarle. Il piano di Minniti parte esattamente da queste constatazioni: ci sono in questo momento in Italia, mal contati, trentamila immigrati regolari, che in parte usufruiscono ancora del periodo di assistenza ai richiedenti asilo, e in parte ne sono usciti, dato che si tratta di un aiuto a termine, e spesso ne escono come ci sono entrati, senza aver neppure imparato l’italiano, né un mestiere, e soprattutto senza sapere dove andare, cercando il primo rifugio possibile e finendo nelle mani di trafficanti che li introducono a pagamento in soluzioni provvisorie e illegali, com’era appunto quella del palazzo di via Curtatone a Roma. Di lì a entrare nel sistema della piccola, o non tanto piccola, delinquenza, a diventare fattorini dello smercio di droga, a darsi a furti, scippi o rapine, ci vuol poco. Ed è qui, prima che questo accada, che bisogna intervenire, secondo il Viminale: tocca alle regioni, che hanno le competenze e i fondi per la formazione, farlo. In sé, sembra un progetto ragionevole: passare dal rapporto diretto tra i prefetti (cioè tra il governo centrale) e i sindaci, a quello con i presidenti delle regioni. I sindaci infatti spesso non hanno i mezzi o non sono in condizione di svolgere compiti di integrazione degli immigrati, e si limitano a opporre il rifiuto di ospitarli in nome delle resistenze dei cittadini, che temono, in molti casi legittimamente, gli effetti dell’accoglienza disorganizzata sulla convivenza civile. I governatori regionali possono invece costruire, grazie ai bilanci più corposi di cui dispongono, politiche locali dell’immigrazione, senza aspettarsi sempre che sia il governo centrale a togliergli le castagne dal fuoco. Ma è inutile nascondersi che anche un piano come questo è destinato a infrangersi contro il muro di pregiudizio che si sta allungando lungo la Penisola, e soprattutto contro la campagna elettorale che sta per aprirsi in Sicilia, la regione con il maggior numero di sbarchi, e proseguirà in attesa delle elezioni politiche della prossima primavera. Lo scontro più duro è atteso al Nord, nelle regioni Veneto, Lombardia e Liguria, amministrate dal centrodestra, dove più forte soffia il vento del "no agli immigrati" e più presa ha lo slogan sovranista "prima gli italiani". Il referendum per una maggiore autonomia del Nord, voluto dal governatore lombardo Maroni, e l’intera partita del prossimo governo del Paese, a questo punto, si giocheranno essenzialmente su questo. Migranti. L’hotspot di Taranto nel mirino della Corte europea di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2017 Diritti violati nell’hotspot di Taranto nei confronti dei minori non accompagnati e la Corte europea è chiamata ad occuparsene per giudicare l’Italia. La struttura, in pratica, si sarebbe trasformata in una sorta di prigione nei confronti di 14 minori stranieri. I giovani migranti, provenienti da Bangladesh, Gambia, Mali, Senegal, Ghana e Costa d’Avorio, sarebbero stati trattenuti per alcune settimane all’interno della struttura senza poter uscire o contattare qualcuno, né telefonicamente, né via web. Se la storia venisse confermata, ciò prefigurerebbe una grave violazione dei diritti umani. Negli hotspot gli immigrati devono restare per un massimo di 48 ore, il tempo di essere identificati e foto segnalati. Almeno così prevede la normativa italiana che regola il trattenimento amministrativo dei richiedenti protezione internazionale, che la identifica alla stregua di qualsiasi altra misura di polizia limitativa della libertà personale. La questione è giunta davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo grazie al ricorso di Dario Belluccio, avvocato del foro di Bari e componente del direttivo nazionale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Al governo italiano viene contestata la violazione di diversi articoli della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, oltre che quella dell’articolo 13 della Costituzione italiana. Questo prevede che la libertà personale possa essere limitata solo su ordine di un giudice o, in casi eccezionali e qualora ciò sia previsto dalla legge, dalle autorità di pubblica sicurezza con successivo avallo della autorità giudi- ziaria competente. In pratica, la contestazione riguarda nello specifico il trattenimento di minori nell’hotspot di Taranto in modo illegale e ingiustificato, ma anche in condizioni materiali inumane e degradanti, in relazione alla loro condizione di minorenni appena giunti in un paese straniero. Gli immigrati minori non accompagnati non dovrebbero, per legge, essere rinchiusi negli hotspots. Parliamo di minori che si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Si applicano per loro le norme previste in generale dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori e, tra le altre, le norme riguardanti: il collocamento in luogo sicuro del minore che si trovi in stato di abbandono; la competenza in materia di assistenza dei minori stranieri, attribuita, come per i minori italiani, all’Ente Locale (in genere il Comune), l’affidamento del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a una famiglia o a una comunità. L’affidamento può essere disposto dal Tribunale per i minorenni (affidamento giudiziale) oppure, nel caso in cui ci sia il consenso dei genitori o del tutore, dai servizi sociali e reso esecutivo dal Giudice Tutelare (affidamento consensuale). La legge non prevede che per procedere all’affidamento si debba attendere la decisione del Comitato per i minori stranieri sulla permanenza del minore in Italia. E quindi perché ci sono minori non accompagnati rinchiusi, per un periodo lunghissimo, negli hotspots? Libia. La banalità del lager. Rapporto di Medici Senza Frontiere Redattore Sociale, 2 settembre 2017 Sofferenze umane e abusi nei centri di detenzione in Libia. Il rapporto di Msf. Violenze, abusi, mancanza di accesso alle cure. Detenuti in maniera irregolare, abusati, senza accesso alle cure e ad ogni forma di tutela. È lo stato in cui vivono i rifugiati nei centri di detenzione di Tripoli, luoghi "né umani né dignitosi". A denunciarlo, a pochi giorni dal vertice di Parigi, è Medici senza frontiere, nel rapporto "Human suffering", pubblicato oggi. L’ong, da oltre un anno sta fornendo assistenza medica ai rifugiati, ai richiedenti asilo e ai migranti che si trovano nella città. "I detenuti sono spogliati di qualsiasi dignità umana, soffrono di maltrattamenti e non hanno accesso alle cure mediche. La detenzione sta causando danni e sofferenze inutili - spiega il rapporto. È direttamente legato alla maggioranza dei problemi fisici e mentali per i quali i detenuti richiedono un’attenzione medica". In particolare, Msf pone l’accento sul fatto che in assenza di uno stato di diritto il sistema di detenzione sia sempre più dannoso per le persone. "C’è una inquietante mancanza di vigilanza e di regolamentazione - afferma il dossier -. Senza una registrazione formale o una corretta registrazione, una volta che le persone si trovano all’interno di un centro di detenzione, non c’è modo di tenere traccia di ciò che accade loro. Alcune persone sono tenute per lunghi periodi di tempo, altri vengono trasferiti tra diversi centri di detenzione, spostati in luoghi non divulgati o scomparsi durante la notte". L’organizzazione parla esplicitamente di "danni inutili" causati dal sistema e chiede di porre fine alla detenzione arbitraria di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia". "A Tripoli, i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo vengono tutti detenuti in modo regolare per periodi prolungati nei centri di detenzione nominali sotto il controllo del Ministero degli Interni. Le persone sono detenute arbitrariamente senza possibilità di contestare la legittimità della loro detenzione o di trattamento - sottolinea l’ong. Pochi organizzazioni internazionali possono lavorare in Libia a causa della violenza e dell’insicurezza diffusa. Senza un governo unificato in atto, una frammentazione del controllo e una pletora di gruppi armati, un intenso combattimento continua in diverse aree, tra cui le periferie di Tripoli che hanno visto numerosi scontri tra le milizie pesantemente armate dell’anno scorso. La situazione politica rimane fragile, l’economia è crollata e la legge e l’ordine sono scomparsi". Msf spiega, inoltre, che in una Tripoli già frammentata, alcuni centri di detenzione sono più fermamente sotto il controllo del ministero dell’Interno rispetto ad altri. Sono i gruppi armati e le milizie responsabili dei centri di detenzione situati in queste aree. Per questo è molto difficile l’accesso ai pazienti detenuti per le ong. Gli uomini trascorrono mesi in detenzione senza sapere quando saranno liberati. "Le persone sono detenute senza sapere se e quando la detenzione finirà. Sono ansiosi e temiono ciò che accadrà a loro. Con praticamente nessun accesso al mondo esterno, le persone sono disperate, vorrebbero far sapere ai propri cari che sono ancora vivi - continua il rapporto. Le cure mediche nei centri sono fornite da una manciata di organizzazioni umanitarie, che sono in grado di lavorare in ambienti altamente insicuri. L’ong ribadisce che per i suoi medici è estremamente difficile monitorare attentamente i pazienti in detenzione, poiché l’accesso ai centri di detenzione è limitato a volte, o i pazienti semplicemente scompaiono dal centro di detenzione da un giorno all’altro. In tutto sono circa un migliaio al mese i pazienti trattati da Msf per le malattie che sono il risultato diretto delle condizioni nei centri di detenzione, comprese le infezioni del tratto respiratorio, la diarrea acuta, le malattie della pelle e le infezioni delle vie urinarie. "I centri di detenzione non soddisfano norme nazionali, regionali o internazionali e non dispongono di assistenza medica consistente o adeguata", aggiunge Msf. Tra gli altri punti denunciati nel dossier c’è il sovraffollamento dei centri e le violenze accertate sui migranti. "Molti centri di detenzione sono pericolosamente sovraccarichi, con scarsa luce naturale e ventilazione - si legge. Gli edifici sono spesso ex fabbriche o magazzini e mancano delle infrastrutture necessarie per trattenere un elevato numero di persone per lunghi periodi di tempo. In alcune strutture, la quantità di spazio per detenuto è così limitata che le persone non sono in grado di allungare la notte. Questo causa dolori muscoloscheletrici e consente la trasmissione di malattie e infezioni come la scabbia. L’elevato numero di malattie respiratorie infettive è anche influenzato direttamente dalla scarsa ventilazione". Inoltre Msf scrive chiaramente che "gli uomini, le donne e i figli detenuti sono alla mercé delle guardie pesantemente armate che non dispongono di un’adeguata formazione e, secondo quanto riferito, non ricevono stipendi regolari". La maggior parte dei detenuti hanno troppa paura per parlare di violenze e maltrattamenti, ma le squadre mediche trattano le lesioni legate al trauma su base settimanale e hanno trattato i detenuti con le gambe rotte e le ferite da arma da fuoco. "Non solo sono persone sottoposte alla violenza da parte delle guardie, ma sono anche a rischio di violenza da altri detenuti, inclusi quelli scelti dalle guardie per mantenere l’ordine all’interno delle cellule. Le persone con problemi di salute mentale sono particolarmente rischiose -si legge ancora - in più occasioni le squadre mediche hanno assistito ai pazienti psicotici picchiati". Myanmar. La strage dei rohingya: 400 morti nei pogrom dell’esercito birmano di Emanuele Giordana Il Manifesto, 2 settembre 2017 Il "bilancio" lo dà un generale su Facebook. Ma le vittime sono di più: altri 15 corpi trovati sulle rive del fiume Naf, undici sono bambini. Silenzio internazionale mentre l’India di Modi ne espelle 40mila. La Cina difende il governo birmano al Consiglio di Sicurezza Onu: Pechino ha interessi nel Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza. Tra i corpi dei 15 rohingya che il colonnello Ariful Islam dice all’agenzia Reuters di aver trovato venerdì sulle rive del fiume Naf, che divide il Myanmar dal Bangladesh, ci sono in maggioranza bambini: sono undici a non avercela fatta. Ma non sono da annoverare tra i 399 che, con agghiacciante precisione numerica, i militari birmani hanno fatto sapere di aver ucciso nella settimana di fuoco che ha seguito il "venerdì nero" scorso, quando secessionisti rohingya hanno attaccato alcuni posti di polizia scatenando una ritorsione dal sapore di pulizia etnica. Non si tratta di una dichiarazione "ufficiale" ma di un post sulla pagina Fb di uno dei più importanti generali del Paese. La strage dei rohingya ridotta a qualche "like" o a condivisione sul social più diffuso. Il bilancio ufficiale era 108 morti e sembrava già tanto, così come i 3mila scappati oltre confine. Ma da ieri le cifre sono ben altre: 400 i morti tra cui, dicono i militari, 29 "terroristi". E poi ben 38mila profughi - la cifra aumenta di ora in ora - che si aggiungono agli 87mila già arrivati in Bangladesh dopo il pogrom dell’ottobre 2016 (nel precedente, nel 2012, i morti erano stati 200 con oltre 100mila sfollati interni). I dati li fornisce l’Onu che fino a due giorni fa ne aveva contati "solo" 3mila. Ma non è ben chiaro dove questa gente si trovi: secondo fonti locali almeno 20mila sono ancora intrappolati nella terra di nessuno tra i due Paesi e le guardie di frontiera bangladesi tengono il piè fermo. Molti fanno la fine di quelli trovati dal colonnello Ariful se non riescono ad attraversare il fiume - a nuoto o con barche dov’è più largo - mentre altri aspettano il momento buono, quando si può sfuggire alle guardie di frontiera. Quel che è certo è che indietro non si può tornare. I rapporti tra i due vicini sono tesi: Dacca ha protestato per ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di elicotteri birmani in quella che sembra, una volta per tutte, una sorta di soluzione finale per chiudere il capitolo rohingya, minoranza musulmana che prima del 2012 contava circa un milione di persone. Adesso, di questa comunità cui è negata la cittadinanza in Myanmar, non è chiaro in quanti siano rimasti in quello che loro considerano, forse obtorto collo, il proprio Paese mentre per il governo non si tratta che di immigrati bangladesi. Lontano dal Mediterraneo, lungo un fiume che sfocia nel Golfo del Bengala, si consuma lentamente ma con determinazione la persecuzione di un popolo. I militari agitano lo spettro di uno "stato islamico", incarnato da un gruppo secessionista armato responsabile degli attacchi. E se anche i residenti locali non musulmani (11mila) sono oggetto di "evacuazione" dalle zone sotto tiro, Human Rights Watch ha documentato la distruzione di case e villaggi rohingya con incendi che hanno tutta l’aria di essere dolosi. Reazione troppo brutale, come dice la diplomazia internazionale o un piano di eliminazione? "Siamo ormai in una nuova fase - dice a Radio Popolare il responsabile Asia di Hrw - e siamo convinti che dietro alle operazioni dell’esercito ci sia il governo, col piano di chiudere definitivamente la questione cacciando la popolazione rohingya grazie alla campagna militare contro gli insorti". Se la diplomazia resta a guardare, i vicini non sono da meno. La Tailandia si richiama al principio di "non ingerenza". Delhi ha deciso l’espulsione di 40mila rohingya illegali e settimana prossima il premier Modi sarà in Myanmar, Paese strategico per l’economia del colosso asiatico. La decisione ha però suscitato polemiche, editoriali sui giornali e anche il ricorso di due rohingya alla Corte suprema che, proprio, ieri ha accolto la richiesta: pare che Delhi intenda espellere persino chi già gode dello status di rifugiato con l’Acnur (14mila persone). C’è poi un altro colosso - la Cina - che difende le ragioni del governo birmano nelle riunioni del Consiglio di sicurezza dove fa sentire il suo peso perché la questione rohingya resti al palo. Pechino è il maggior investitore e ha interessi anche nel Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza. È interessata al porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio. Non solo i cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale ma finanziano l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, Cina del Sud. C’è un altro investimento nella cosiddetta Kyaukphyu Special Economic Zone che prevede una linea ferroviaria. Un corridoio ritenuto vitale nel suo progetto One Belt, One Road, meglio noto come "Nuova via della seta". E per evitare complicazioni Pechino ha ottimi rapporti con un parlamentare locale dell’Arakan National Party, ritenuto un bastione del nazionalismo identitario locale. È il partito che vorrebbe nel Rakhine lo stato di emergenza. Filippine. Duterte ai militari: "pronti a bombardare le moschee" di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 2 settembre 2017 Dopo 100 giorni di scontri la battaglia di Marawi - città fantasma - contro l’Isis continua. Oltre 300mila sfollati secondo la Croce Rossa. E il presidente ordina di bombardare le scuole musulmane e i luoghi di culto. Lo scorso 30 agosto la battaglia di Marawi tra l’esercito filippino e il gruppo terroristico affiliato ad Isis, noto come Maute Group (il nome ufficiale è Dawla Islamiya), è entrata nel centesimo giorno di conflitto. Da oltre tre mesi i reparti speciali dell’esercito di Manila stanno cercando di liberare la capitale della provincia di Lanao del Sur, che coi suoi 200mila abitanti deteneva il primato di prima città a maggioranza musulmana del paese. Oggi i bombardamenti operati dalle forze armate governative hanno ridotto gran parte di Marawi a un cumulo di macerie. Una città fantasma da cui gli abitanti hanno tentato di fuggire in massa nei primi giorni del conflitto, in molti cercando ospitalità da parenti e amici, ma a migliaia costretti a una residenza forzata nei campi per i cosiddetti "rifugiati temporanei". Dagli ultimi dati della Croce Rossa, gli sfollati sarebbero almeno 300mila, tra cittadini di Marawi e abitanti dei dintorni. Le autorità, sottovalutando l’organizzazione e i reclutamenti di Dawla Islamya, pensavano si trattasse di un fuoco di paglia, una rivolta in risposta al tentato arresto di Isnilon Hapilon, il leader della sigla terroristica filippina Abu Sayyaf nel 2016 nominato emiro dell’intero sudest asiatico dai vertici di Isis. Lo scorso 23 maggio, invece, i commando che rispondono agli ordini dei fratelli Maute - Omar e Abdullah - hanno messo in atto un piano evidentemente preparato nei dettagli, prendendo il controllo di Marawi assieme ai terroristi di Hapilon, cogliendo di sorpresa le forze dell’ordine. Secondo le stime divulgate dall’esercito, delle centinaia di terroristi che avevano preso la città ne sono rimaste poche decine, asserragliati in alcune moschee e letteralmente circondati dai reparti speciali di esercito e polizia. Nonostante gli ostaggi liberati o fuggiti siano già più di 1.700, lo scorso 25 agosto il portavoce delle Forze Armate delle Filippine (Afp), generale Restituto Padilla, ha comunicato che i terroristi starebbero tenendo ancora in ostaggio almeno 30 persone, tra cui il prete cattolico Padre Teresito "Chito" Suganob. Un dettaglio non da poco in un paese a maggioranza cristiana e profondamente religioso. Con un bilancio delle vittime che continua a salire - almeno 45 civili, 133 soldati e 617 terroristi, secondo i dati di Afp - il presidente Rodrigo Duterte lo scorso 30 agosto ha di fatto dato l’ok per il bombardamento di madrase (scuole coraniche) e moschee a Marawi, sacrificando gli ostaggi: un’opzione in passato messa sul tavolo dai vertici militari ma finora sempre accantonata. Duterte, primo presidente nella storia delle Filippine originario dell’arcipelago di Mindanao, dove si trova Marawi e dove è concentrata la maggioranza dei musulmani del paese, sa che bombardare i luoghi di culto della comunità islamica locale potrebbe incendiare le polveri di un risentimento vecchio di secoli tra la popolazione Moro, l’insieme dei clan di Mindanao accomunati dalla fede nell’Islam, e la maggioranza cristiana nel paese. Proprio ora che le ventennali trattative per la creazione di uno stato federato dei Moro - il Bangsamoro, "Popolo Moro" o "Nazione Moro" - sembrano sul punto di chiudersi positivamente, frutto del dialogo istituzionale con le due sigle storiche dell’indipendentismo Moro: Moro National Liberation Front (Mnlf) e Moro Islamic Liberation Front (Milf). Duterte, durante il discorso tenuto a Taguig City, ha riportato le parole pronunciate davanti ai soldati impegnati a Marawi nel corso della sua ultima visita alla città, lo scorso 24 agosto: "L’opzione (di bombardare le moschee, ndr) è già nelle vostre mani, non possiamo rimanere in stallo per un anno intero. Porterà ancora più odio, al posto di curare il paese, ma sta andando avanti da troppo tempo ed ormai la decisione non è più nelle mie mani". Per contrastare il terrorismo islamico, Duterte aveva imposto la legge marziale nell’arcipelago di Mindanao fino allo scorso 22 luglio, poi rimandato fino alla fine dell’anno. Fanno sei mesi, durata record seconda solo alla legge marziale indetta dal dittatore Marcos nel 1973 e terminata nel 1981. Marocco. Grazia reale per ù 665 detenuti in occasione della Festa del sacrificio Nova, 2 settembre 2017 In occasione della Festa islamica del sacrificio (Eid al Adha), il re del Marocco, Mohammed VI, ha emanato un decreto di grazia che riguarda 665 detenuti. Alcuni di questi sono sotto custodia e altri sono liberi dopo essere stati condannati da vari tribunali nel regno, spiega in una nota l’agenzia di stampa marocchina "Map". I beneficiari del perdono reale che sono in carcere sono 563, di questi hanno ottenuto la fine della pena in 538. Si tratta del terzo decreto di grazia reale emanato negli ultimi mesi in occasione di festività nazionali marocchine che hanno coinvolto anche alcuni detenuti arrestati dopo le proteste dei mesi scorsi ad al Hoceima. Lo scorso 20 agosto il re del Marocco Mohammed VI ha concesso la grazia a 415 persone, tra cui 14 condannati per terrorismo, in occasione del 64mo anniversario della Rivoluzione del re e del popolo marocchino, ricorrenza dell’esilio forzato del sovrano Mohammed V durante l’occupazione francese nel 1953. Delle 415 persone, 343 sono detenute in carcere. Tra i detenuti graziati figurano anche 14 condannati per terrorismo (13 a meno di 30 anni di carcere, uno a morte) che hanno partecipato al programma "Mossalaha" (riconciliazione). Secondo il ministero della Giustizia, i detenuti oltre a mostrare "pentimento per gli atti compiuti, attaccamento ai valori della nazione, ai sacri principi e alle istituzioni nazionali, hanno rivisto le loro posizioni e i loro pensieri, rigettando l’estremismo e rinnegando fortemente il terrorismo e si sono rimessi sulla retta via, dimostrando una condotta irreprensibile durante il periodo di detenzione". In 13, condannati a pene detentive, si sono visti cancellare pena e reato; l’unico condannato a morte ha avuto commutata la pena in 30 anni, beneficiando così di una "grazia parziale".