In Italia ci vogliono 1.600 giorni per una sentenza definitiva di Paolo Biondani L’Espresso, 29 settembre 2017 Processi che non finiscono mai, contraddizioni, assurdità che gridano vendetta: il nostro sistema legale resta lontanissimo dagli standard dei paesi più avanzati. Come dimostrano queste storie di ordinaria malagiustizia. Processi lentissimi, tribunali in perenne arretrato, sentenze senza effetti. Sono malattie croniche del nostro sistema legale, che una serie di recenti riforme, dopo decenni di leggi e leggine con risultati nulli o negativi, ora promettono di guarire. La realtà della giustizia italiana resta però lontanissima dagli standard dei paesi più avanzati. Lo confermano magistrati e avvocati di grande esperienza. E lo documentano troppe vicende che a Londra, Berlino o Parigi suonerebbero inverosimili. Prima di interrogare giuristi e addetti ai lavori, per capire quale diritto possano aspettarsi i cittadini dopo le ultime riforme, conviene partire da qualche caso concreto. Storie di ordinaria malagiustizia. Che fanno comprendere perché, nonostante i primi segnali di miglioramento, tra i professionisti della legge regna ancora il pessimismo. Il primo caso evidenzia una verità da non dimenticare mai: di ritardata giustizia si può morire. In Sicilia, nel 1993, un piccolo imprenditore edile denuncia per concussione (estorsione di tangenti) il dipendente comunale che gli blocca tutti i cantieri. Dopo lunghe indagini e un processo approfondito, il funzionario viene condannato in primo grado, nel 2001, a cinque anni di reclusione. La condanna è confermata in appello, nel 2006. Quindi l’imprenditore si prepara a incassare il risarcimento: manca solo il timbro della Cassazione. Ma nel 2010 la Corte Suprema annulla tutto, per queste ragioni: “La sentenza d’appello era scritta a penna e in diversi passaggi risultava illeggibile, per cui la Cassazione ha riscontrato difetti di motivazione”, chiarisce l’avvocato Rosario Pennisi. Tornato in appello, il nuovo processo (il quarto) si chiude nel 2016 con un verdetto capovolto: l’ex condannato viene assolto. A quel punto il denunciante si sente dire che non avrà nessun rimborso, anzi sarà lui a dover pagare le spese legali. Poche ore dopo, l’imprenditore si uccide. “Aveva affidato la sua vita a questo processo, dopo il blocco dei cantieri era stato aggredito anche dalle banche, si è sentito tradito e rovinato”, ricorda il suo avvocato catanese: “Si è sparato nella sua casa, a Linguaglossa. Io resto convinto che avesse ragione. Invece ho dovuto spiegare alla vedova, ai tre figli, che la giustizia ci ha punito dopo averci dato ragione due volte. Un processo non può durare 23 anni e portare a sentenze così contraddittorie”. Dal profondo Sud al ricco Nord, è allo sfascio la legalità quotidiana. In Veneto ogni avvocato può fornire elenchi di orrori giudiziari. Caso più comune: l’omicidio colposo. Nel 2012 un poliziotto che lavora per i tribunali muore in un assurdo incidente stradale. Lascia la moglie, casalinga, e due bimbi di sei mesi e due anni. La procura di Verona chiude l’indagine nel 2014 e nel 2015 l’accusato viene rinviato a giudizio. Ma poi si ferma tutto: il tribunale è intasato di processi. Ora la vedova è bloccata dalla legge, come migliaia di vittime di incidenti o infortuni sul lavoro: il processo penale è destinato alla prescrizione e la successiva causa civile ha una durata prevista, in Veneto, di oltre dieci anni. “La giustizia in Italia ha toccato il fondo”, è l’amaro commento dell’avvocato della vedova, Davide Adami: “Il processo funziona solo nella fase cautelare, con gli arresti, ma i dibattimenti sono un disastro. A Venezia la corte d’appello, che ha croniche carenze di organico, fissa i processi con anni di ritardo. Così i reati ordinari vengono cancellati dalla prescrizione. E la lentezza favorisce anche gli errori giudiziari: a distanza di anni, i testimoni non ricordano e i giudici non hanno più il tempo di approfondire”. La Sardegna è una delle regioni più colpite dal mal di giustizia, con casi di ritardo da primato mondiale. Qui, nel 1960, muore il proprietario di 721 ettari di terreni sulla splendida costa fra Chia e Teulada. Il ricco possidente ne lascia gran parte (508 ettari) ai due figli maschi, scontentando le quattro femmine, che impugnano il testamento per lesione della “legittima”, la quota minima obbligatoria. La procedura avanza lentissima e col passare degli anni muoiono giudici, periti, avvocati e gli stessi eredi, per cui la causa si ferma più volte e poi prosegue tra i discendenti. La sentenza di primo grado viene emessa nel 2009: dall’avvio della causa sono passati 49 anni. Ma la legge prevede anche il giudizio d’appello e la Cassazione, che in teoria potrebbe annullare e far ripetere l’intero processo. Nel giustizialismo reale c’è solo un problema che preoccupa i cittadini e le imprese più della lentezza dei processi: l’incertezza del diritto. Le leggi dovrebbero essere chiare e condurre a sentenze prevedibili, invece spesso i verdetti sono dubbi e contrastanti. Anche su questioni essenziali per lo Stato come le entrate fiscali. Il più grave caso di evasione degli ultimi anni è documentato dalla lista Falciani: oltre centomila soggetti, tra cui 7.499 italiani, che avevano decine di miliardi in una banca svizzera, quasi mai dichiarati. In Germania, Francia e altri paesi sono piovute condanne e risarcimenti. In Italia i giudici tributari (che spesso non sono magistrati) hanno deciso in ordine sparso: con le stesse prove, alcuni accusati sono stati condannati, altri assolti; molti hanno avuto sentenze contrastanti in primo e secondo grado; qualcuno è riuscito addirittura a far distruggere il suo nome dalla lista per ordine del giudice. In questo caos, si attendeva il faro della prima sentenza della Cassazione, che nell’aprile 2015 ha convalidato la lista Falciani e stangato gli evasori. Pochi giorni dopo, però, un collegio tributario di Milano ha riaperto la via contraria: la lista non vale più, tutti assolti, almeno fino alla nuova Cassazione. La giustizia che porta al suicidio un imprenditore, ignora la morte di un poliziotto e migliaia di altre vittime di omicidi colposi, fa durare una lite familiare più di mezzo secolo, lascia impuniti gli evasori anche quando la Cassazione sigilla le prove: sembrano casi limite, ma in Italia sono la normalità. L’effetto di una stratificazione storica di leggi sbagliate, che porta un giudice come Piercamillo Davigo, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, a bocciare l’impostazione anche delle ultime riforme: “Si continua a intervenire sull’offerta di giustizia, sulle regole dei procedimenti e sulla magistratura, mentre il problema è un eccesso patologico di domanda: si fanno troppi processi solo per perdere tempo e sperare di farla franca. Negli Stati Uniti il 90 per cento degli imputati chiede il patteggiamento prima dell’unico grado di giudizio, perché teme condanne molto più pesanti. Anche in Germania, Francia o Inghilterra la prescrizione è rarissima. In Italia siamo gli unici ad avere tre gradi di giudizio, la prescrizione più favorevole del mondo e il patteggiamento anche in appello. Il risultato è che non patteggia quasi nessuno, i giudici sono oberati di processi e troppi delinquenti restano impuniti”. Nel ventennio berlusconiano i governi di centrodestra hanno varato leggi punitive per i magistrati: dalla prescrizione più facile, al taglio delle risorse. Dal 2012 i ministri della giustizia hanno studiato riforme diverse, per migliorare soprattutto la giustizia civile: dal processo telematico al tribunale specializzato per le imprese. Ma le novità funzionano solo in alcuni distretti, come Torino, Bolzano o Milano. E la durata delle cause continua a restare sub-europea: in media, più di otto anni. Anche nel civile, sostiene Davigo, servirebbero “riforme coraggiose”: “I giudici italiani decidono molti più processi dei colleghi stranieri, ma sono affogati da quattro milioni e mezzo di cause pendenti: un’enormità. Il problema è che in Italia chi sa di avere torto resiste comunque. Nei paesi dove i processi civili funzionano, c’è un automatismo: chi fa perdere tempo ai tribunali, rischia una stangata. La giustizia può avere tempi decenti se si ha il coraggio di disincentivare l’abuso dei processi”. Il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, vede “luci ed ombre” nelle riforme varate dal ministro Orlando: “Certamente utile, soprattutto nel civile, è lo sforzo di limitare il sovraccarico della Cassazione, per concentrare la nostra Corte Suprema sui casi veramente dubbi. Se la sentenza definitiva arriva prima, oltre ai tempi si riduce l’incertezza del diritto: la Cassazione può recuperare il suo ruolo-guida ed evitare che i singoli tribunali, nell’attesa, adottino pronunce contrastanti, che creano sconcerto tra i cittadini”. “Nella direzione della legalità vanno anche le misure per sospendere la prescrizione, che però avranno effetto solo tra molti anni”, aggiunge Salvi. La prescrizione è una specialità italiana: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma non può più essere condannato, perché sono scaduti i termini. Il centrodestra nel 2005 ha facilitato questo tipo di impunità. La riforma Orlando è corsa ai ripari riallungando i termini, ma si applica solo ai reati futuri, per decisione della Corte Costituzionale. Per almeno 7-8 anni, dunque, la prescrizione continuerà ad incenerire oltre 130 mila processi all’anno. Con punte di oltre il 40 per cento nelle corti d’appello di Venezia e Napoli. Di fronte a una giustizia che gira a vuoto, Salvi considera sprecata l’occasione di una riforma strutturale: “In generale è mancata la necessaria consequenzialità logica. Resta, ad esempio, l’annoso problema delle notifiche degli atti, una delle principali cause di ritardo. Non sono state fatte scelte nette di semplificazione, ma con le mezze misure i processi continueranno a saltare. Liberare la Cassazione rischia di servire a poco, se insieme si aggravano i carichi delle corti d’appello. Anche il dovere per i pm di chiudere le indagini in tre mesi rischia di restare inapplicato, se non si aumentano i giudici e il personale: la procura di Roma ha oltre 50 mila indagini già concluse che restano ferme perché è il tribunale a non avere forze sufficienti”. Consapevole che la crisi dei processi sta demolendo la credibilità dei magistrati, il pg Salvi chiede anche ai colleghi una svolta autocritica: “Per troppi anni abbiamo dovuto concentrarci sulle grandi emergenze: terrorismo, mafia, corruzione. Questo impegno ci ha portato a sottovalutare la giustizia quotidiana. Come magistrati dobbiamo porci il problema di garantire a tutti i cittadini una giustizia realmente efficace”. Dall’altra parte della barricata, Mario Zanchetti, avvocato e professore di diritto penale, rimprovera al ministro Orlando di non aver consultato i legali, ma gli riconosce “i primi passi nella giusta direzione: sono positive, in particolare, tutte le norme che riducono il sovraccarico di processi evitabili, come l’estinzione del reato per chi ripara il danno. Trovo invece pessime certe ricadute nel vizio delle grida manzoniane: aumentare le pene minacciate per i reati che non si riesce a punire. Ai miei studenti amo ricordare che il codice Rocco, in vigore dal 1930, prevede fino a dieci anni di carcere per un furto di bicicletta, ma non ha abolito i ladri. Oggi la classe politica tende a scaricare tutto sui giudici: ambiente, salute, immigrazione, crisi... E se i processi civili non funzionano, si minaccia il carcere. Più della lentezza delle cause, che non riguarda tutte le regioni italiane, è proprio l’abuso dei processi a tenere lontani molti investitori stranieri”. Per fermare il cortocircuito tra giustizia ed economia in crisi, il governo ha varato un disegno di legge che punta a rivoluzionare le procedure di fallimento, oggi disastrose. Roberto Fontana è uno dei magistrati convocati dal parlamento per illustrare le “misure d’allerta alla francese”. “Il discorso è semplice”, spiega: “In Italia i fallimenti emergono in ritardo, dopo tre o quattro anni, quando dell’azienda restano solo le macerie. Il danno è enorme. I tribunali fallimentari si trovano a gestire oltre 30 miliardi di passivi all’anno: tasse e contributi non pagati, dipendenti senza stipendio, fornitori indebitati che mandano in dissesto altre imprese. La nostra proposta è di imitare il modello francese: il fisco, l’Inps, i collegi sindacali segnalano le crisi nei primi sei mesi a un organismo camerale, che convoca l’imprenditore prima che sia troppo tardi, con incentivi per chiedere il concordato e limitare le perdite”. Per una volta, la riforma sembra piacere a magistrati, avvocati e politici di ogni tendenza: già votata dalla Camera, attende l’approvazione del Senato. Ma con la finanziaria e le elezioni alle porte, il tempo stringe. E la giustizia rischia un altro fallimento. La lentezza della giustizia è colpa di leggi repressive come quella sulle droghe di Stefano Anastasia* e Franco Corleone** L’Espresso, 29 settembre 2017 Dopo la nostra inchiesta sui problemi dei tribunali italiani, l’intervento di due Garanti dei detenuti. Che puntano il dito sulla presenza di norme che intasano le Aule e un sistema carcerario che non svolge il suo compito. Caro direttore, abbiamo apprezzato la scelta di dedicare la copertina dell’Espresso del 24 settembre alla questione della giustizia, alla sua crisi e ai possibili rimedi. Il nodo, che ha a che fare con la democrazia e con lo stato di diritto, non è nuovo. Da decenni, da diverse posizioni di responsabilità e di impegno, siamo sensibili alle ragioni del diritto penale minimo e del garantismo. Posizioni tacciate di illuminismo e di astrattezza mentre in questi anni prevaleva un sostanzialismo giuridico che ha prodotto giustizialismo panpenalistico. Le ragioni hanno radici profonde e vengono da lontano. Ci piace ricordare due volumi fondamentali del giurista democratico Achille Battaglia pubblicati da Laterza, “Processo alla giustizia” nel 1954 e “I giudici e la politica” nel 1962. Il baco, avrebbe detto Ernesto Rossi, sta nella incomprensibile (o comprensibilissima?) scelta della Repubblica di non cancellare il Codice penale del 1930, il più fascista dei codici, secondo la definizione del guardasigilli Alfredo Rocco. D’altronde c’è poco da stupirsi se pochi anni fa nella Aula del Senato la ministra della Giustizia Severino poteva impunemente tessere l’elogio di Rocco, teorico dello stato etico e autoritario. Sono cambiati i problemi? Certo, ad esempio se gli omicidi nel 1949 erano 2.770, l’anno scorso erano meno di 500. La percentuale di impunità negli anni cinquanta si attestava sull’80 per cento. La lunghezza dei processi nel penale e nel civile è un dato di fatto che sembra irrisolvibile, nonostante razionalizzazioni tecniche che non paiono essere risolutive, dall’istituzione del giudice di pace all’accorpamento delle sedi di tribunale. Neppure l’introduzione di riti alternativi e di alternative al processo hanno risolto le difficoltà e hanno sciolto la montagna di arretrato. Sarebbe necessaria una analisi approfondita soprattutto nel civile, scavando sulle abitudini del settore pubblico di alimentare cause inutili e seriali per vertenze sugli stipendi e sulle pensioni. Comunque alcune questioni devono essere prese di petto, dalla prescrizione alla materia cautelare, dal giudizio di legittimità alle intercettazioni. Ma, nel penale la verità è che la situazione è così grave perché in questi anni vi è stato un aumento abnorme di norme incriminatrici, di fattispecie criminali legate alle continue emergenze. Altro che riforma del codice penale! Tra tutte, la più importante, la legge sulle droghe che dal 1990 quando fu approvata la legge Iervolino-Vassalli, fortemente voluta da Bettino Craxi, aggravata dalla Fini-Giovanardi nel 2006 ha intasato le aule di giustizia. Basta leggere i dati che abbiamo pubblicato con la Società della Ragione e molte altre associazioni negli otto Libri Bianchi sugli effetti della legge proibizionista. I numeri dei carichi pendenti, delle denunce, degli ingressi in carcere, delle presenze nelle galere, delle segnalazioni ai prefetti danno l’idea plastica di una repressione di massa e di processi che troppe volte sono finiti in suicidi di giovani che non hanno retto la stigmatizzazione o in tardive assoluzioni come nel processo agli organizzatori del festival reggae Rototom. È un peccato che la lettera che Lirio Abbate ha voluto rivolgere al ministro Orlando non sfiora neppure la complessità di questi problemi, quelli della realtà del carcere e dell’esecuzione penale, ma che ponga come centrale un problema poco più che corporativo, come quello di una ennesima riforma della polizia penitenziaria. Una proposta che confonde l’esecuzione della pena con le funzioni e i controlli di polizia e che, giustamente, non ha avuto alcuna considerazione negli Stati generali dell’esecuzione penale cui ha partecipato l’intero mondo che si occupa di queste cose in Italia. Addirittura Lirio Abbate propone l’ampliamento di competenze dei Gom, il reparto dedicato alla gestione dei detenuti in regime di 41bis, come se fossimo in uno stato di polizia con un sistema carcerario interamente improntato alla massima sicurezza. Per riformare il carcere c’è bisogno di direttori capaci e adeguati allo spirito degli Stati generali, di educatori e di assistenti sociali negli uffici dell’esecuzione penale esterna. Al contrario di Abbate, noi siamo consapevoli che vi è un legame tra la giustizia e il carcere, nel senso che la galera è la discarica sociale che raccoglie le scorie prodotte da una giustizia di classe, formate da consumatori, di droghe tossicodipendenti, poveri, stranieri, emarginati, ma la risposta non può che essere la limitazione della risposta carceraria e l’affermazione dei diritti, civili e umani per gli ultimi. Come Garanti e come rappresentanti delle associazioni che si battono per l’abolizione dell’ergastolo e la modifica del 41bis, siamo disponibili a organizzare con L’Espresso, erede della tradizione laica e della cultura democratica, un convegno per ripartire da Cesare Beccaria e non da Bava Beccaris. *Stefano Anastasia è il garante dei detenuti del Lazo e presidente della Società della Ragione **Franco Corleone è un blogger dell’Espresso sui temi della giustizia ed è garante dei detenuti della Toscana La riforma del codice antimafia è una vittoria dei populisti di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 29 settembre 2017 La Camera ha approvato le modifiche al codice Antimafia, già licenziate dal Senato, che parificano i corrotti ai mafiosi, consentendo il sequestro del patrimonio di chi sia sospettato di essere corrotto; perciò, vale la pena ripetere, sulla base di un mero sospetto. Non occorre spendere molte parole per sottolineare la profonda inciviltà di una riforma del genere. Basta considerare che il diritto di proprietà è, ai sensi dell’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali dei cittadini dell’Unione Europea, uno dei diritti fondamentali dell’individuo. Ebbene, la riforma consente che il diritto di proprietà possa essere negato senza la prova che i beni provengano dalla corruzione o che una corruzione vi sia effettivamente stata. Anche personaggi pubblici che svolgono un ruolo centrale nella lotta alla corruzione hanno espresso riserve sulla adeguatezza e legittimità della riforma. Nonostante tutto questo, la riforma è passata attraverso un atto di forza del “giustizialismo” presente in Parlamento. Peraltro, le cronache parlamentari riferiscono che la preoccupazione di chi, forzando la mano, ha voluto l’approvazione della riforma, non era tanto l’esigenza di lottare contro la corruzione, quanto piuttosto l’esigenza di non perdere e, anzi, di guadagnare voti. In particolare, il giustizialismo grillino ha portato la lotta politica in tema di giustizia su di una frontiera estrema, rispetto alla quale l’accrescimento o la perdita di consensi prescinde da qualsiasi razionalità e si svolge esclusivamente sul piano di un irrazionale estremismo ideologico avulso da qualsiasi contatto con la realtà. Ma proprio qui sta il punto. Nel momento nel quale un provvedimento palesemente assurdo, tanto assurdo che in sede di approvazione è già stata anticipata la necessità di apportare dei correttivi, è approvato a tambur battente per ragioni di consenso elettorale, il tema vero diventa quello del livello culturale della platea elettorale. Il fenomeno del populismo e della acquisizione dei consensi attraverso la vellicazione della pancia degli elettori è sempre esistito. Tuttavia la lotta al populismo non è sempre consistita nel suo inseguimento. Basta pensare alla reazione dei grandi partiti al fenomeno dell’Uomo Qualunque. La risposta è stata sul piano della razionalità e della aderenza ai grandi principi di uno Stato democratico. Ed in questo i grandi partiti hanno anche svolto un ruolo di educazione e di crescita culturale. Era attraverso la cultura, cioè, che gli estremismi irrazionali ed i populismi inconcludenti erano combattuti. Oggi il tema della crescita culturale della platea elettorale non è più oggetto di attenzione. Il principio dell’uno vale uno ha legittimato una retrocessione dei punti di riferimento agli istinti più primordiali e rozzi. Ecco, perciò, che il Parlamento finisce con l’essere, in questa prospettiva, lo specchio di una società tornata indietro. La quale ragiona attraverso dogmi e spinte irrazionali, dimenticando la strada di una faticosa, ma solida, crescita della intera società. Ovviamente è una situazione che dà frutti avvelenati. La progressiva erosione delle garanzie e l’estremismo come modello di riferimento potranno, in breve tempo, bruciare definitivamente le fondamenta democratiche del Paese. Nel momento in cui la platea elettorale è disabituata dal ragionare e valutare con attenzione la portata dell’abbandono dei principi fondamentali, il terreno diventa fertile per la coltivazione di qualsiasi estremismo. Si tratta di una responsabilità storica di una dirigenza politica che mostra tutta la sua insufficienza culturale nel momento in cui non è capace di avere un ruolo di guida, ma riesce solo ad andare al traino delle pulsioni più irrazionali, assecondandole e favorendole. Codice antimafia, l’evasione fiscale non giustifica più la sproporzione fra reddito e patrimonio di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2017 In presenza di sproporzione tra redditi dichiarati e beni posseduti, per evitare la confisca non è possibile giustificare la legittima provenienza dei beni stessi provando che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale. È una delle novità del codice antimafia riguardo alle due forme di confisca già previste dal nostro ordinamento. Per sottrarre le ricchezze ritenute criminali, negli anni sono state introdotte, tra l’altro, due misure ablative molto importanti che permettono, in estrema sintesi, la confisca anche in assenza di dimostrazione certa della provenienza illecita delle ricchezze. Esse si basano, sostanzialmente, su presunzioni legate al carattere ingiustificato delle disponibilità rispetto ai redditi dichiarati dagli interessati ed all’attività da loro svolta. Sono due misure previste rispettivamente nel procedimento previsto dal Dlgs 159/2011 (la confisca di prevenzione), applicabile anche al di fuori di fatti di mafia, e nell’ambito del procedimento penale (la confisca per sproporzione o allargata, ex articolo 12-sexies del Dl 306/1992). In entrambe le disposizioni, seppur con differenze, è in sostanza data la possibilità all’autorità giudiziaria di confiscare quei beni nella disponibilità della persona nei cui confronti è instaurato il procedimento di prevenzione (nel primo caso) ovvero del condannato per determinati reati (nel secondo caso) che abbiano un valore sproporzionato rispetto al proprio reddito. Da rilevare che, mentre la confisca prevista dall’articolo 12-sexies è subordinata alla condanna per alcuni delitti, la confisca di prevenzione è ancorata a un giudizio di pericolosità che prescinde dall’accertamento in ordine alla commissione di reati. L’interessato, per evitare la confisca, deve giustificare la legittima provenienza di tali beni. A questo proposito, in molti casi, il destinatario della misura giustifica la disponibilità allegando proventi non dichiarati al fisco ma conseguiti con attività lecite. Per i casi di confisca di prevenzione, la giurisprudenza di legittimità ha quasi sempre negato che i proventi dell’evasione possano rilevare per provare la provenienza legittima dei beni. Nella confisca allargata, invece, non sono mancate pronunce della Cassazione in senso contrario. I giudici, in sintesi hanno spesso ritenuto che, in questa specifica confisca, si debba tener conto di tutte le fonti lecite di produzione del patrimonio, sia dichiarate ai fini fiscali, sia che provengano dall’attività economica svolta, benché non dichiarate, in tutto o in parte. Sulla questione sono anche intervenute le Sezioni unite (sentenza 33451/2014), che hanno sostanzialmente avallato questa differente possibilità, a seconda del tipo di confisca, di ricorrere, o meno, ai proventi dell’evasione fiscale per giustificare la sproporzione. Con il nuovo codice noto come antimafia (che in realtà estende una serie di istituti a violazioni che possono non rilevare rispetto all’associazione mafiosa), viene ora introdotta una esplicita modifica in entrambe le tipologie di confisca. Viene così precisato che il proposto per la misura di prevenzione, oppure il condannato nell’altro caso, non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale. L’altolà di Grasso: “Il Codice antimafia non si cambia” di Dino Martirano Corriere della Sera, 29 settembre 2017 Il presidente del Senato: “È nel programma del Pd”. Ma tra centristi e Forza Italia cresce la protesta. Orfini (Pd): “Un patto per le correzioni ? Io non l’ho fatto”. Altolà del presidente del Senato Pietro Grasso a chi, in Forza Italia e tra i centristi, ma anche nel Pd, chiede al governo un decreto correttivo del nuovo codice antimafia con l’intento di mettere in sicurezza i “colletti bianchi” indiziati di corruzione dalle misure di prevenzione antimafia. “Se si tratta di valutare l’applicazione della legge nessun problema - ha detto Grasso. Se però arriva un decreto che tra due settimane cambia la legge allora sarebbe un segnale negativo, un boomerang per le forze politiche che l’hanno approvata”. Ricordando che il codice antimafia è “nel programma del Pd”, il presidente del Senato - che da magistrato è stato giudice a latere dello storico maxi processo contro Cosa nostra - ha voluto comunque rassicurare chi teme un’ondata giustizialista: le misure di prevenzione si applicano “quando si tratta di un sistema corruttivo, quando c’è una rete e una reiterazione delle condotte”, perché “si tratta di bloccare i soldi che finiscono nei paradisi fiscali e poi non si trovano più”. Brunetta: “Aberrazione giuridica” - Col nuovo codice antimafia varato mercoledì, dunque, si estendono le misure di prevenzione personali e patrimoniali anche agli indiziati di associazione a delinquere finalizzata ai reati contro al pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato). “Un’aberrazione giuridica”, per il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta, che dice di essere “molto preoccupato perché si consente di confiscare beni senza sentenze passate in giudicato ma solo con attività istruttorie”. Mentre Ernesto Auci, deputato di Scelta civica, parla di “follia” perché “basta il solo sospetto di corruzione prima ancora del rinvio a giudizio per vedersi sequestrare i propri beni”. Negativo anche il giudizio di Fabrizio Cicchitto (Ap) che, unito ai mille mal di pancia interni al Pd, ha prodotto un ordine del giorno dem, approvato dalla Camera, che impegna il governo a monitorare l’applicazione della legge e, semmai, ad aprire la strada a un decreto correttivo. Finocchiaro: gli effetti andranno monitorati - Ma Matteo Orfini, presidente del Pd, frena: “Se c’è un patto non l’ho fatto io”. E il ministro per i rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro, rassicura i suoi interlocutori: “Ora si estende la possibilità del sequestro e della confisca dei beni ai casi in cui i reati contro la pubblica amministrazione sono collegati a un’associazione criminale, quando esiste una organizzazione che si occupa ad esempio di pilotare appalti o si impossessa di denaro pubblico, spesso con la partecipazione di pubblici funzionari”. Certo - rassicura - “la legge andrà monitorata nei suoi effetti e sarà l’applicazione anche prudente che verrà fatta dai magistrati a consentire di verificare la sua efficacia”. Rimane però l’interrogativo sull’efficacia di una riforma che estende le misure di prevenzione a molti potenziali soggetti indiziati (ci sono pure gli stalker e i foreign figthers) i cui fascicoli potrebbero intasare, se non paralizzare, le sezioni specializzate dei tribunali distrettuali chiamate a trattare in via esclusiva i procedimenti previsti dal codice antimafia. Flick: Codice antimafia legge inutile e dannosa, serve solo per tacitare la piazza Il Mattino, 29 settembre 2017 “Corruzione e mafia sono diverse, questa è la giustizia del sospetto. Il principio che la corruzione è l’altra faccia della mafia contribuisce largamente ad accrescere la confusione che caratterizza le misure di prevenzione e la loro applicazione”. A turbare è peraltro il fatto che misure di prevenzione così pervasive spostano l’afflittività della sanzione penale alla fase preliminare, in assenza di giudicato. “Il punto è un altro. Stiamo spostando il tiro: dalla repressione che lo Stato non è in grado di fare alla prevenzione. Da un lato chiediamo ai soggetti privati di fare prevenzione sotto minaccia di una pena (penso ai modelli di comportamento e alla compliance del decreto legislativo 231 del 2000); dall’altra moltiplichiamo gli adempimenti burocratici previsti per la pubblica amministrazione. Un’aspettativa illusoria, quella di supporre che chi deve impiegare il tempo a riempire moduli non trovi poi quello per corrompere. Si tratta insomma di forme di prevenzione che rischiano di diventare soprattutto, se non soltanto, apparenza. A ciò si aggiunge che stiamo sostituendo una repressione che si dimostra inefficace con una prevenzione che inevitabilmente finisce per essere fondata soltanto sul sospetto”. È incostituzionale il fatto che sulla base del sospetto siano mortificati i diritti della difesa, dal momento che il contraddittorio tra le parti è negato dalle misure di prevenzione? “È fuori di dubbio che nell’ambito delle misure di prevenzione il principio di legalità è fortemente attenuato. Ed è molto attenuato anche il diritto di difesa”. Come spiega il fatto che un governo di centrosinistra abbia imboccato con la riforma della giustizia prima, e con il nuovo Codice antimafia poi, una deriva securitaria, che resuscita i fantasmi di un diritto illiberale e autoritario? “La spiegazione è esemplificata dal famigerato reato di clandestinità, che dovrebbe colpire i migranti che si sono introdotti in modo illecito nel territorio dello Stato. È un reato inutile, il cui tentativo di repressione è inefficace e non fa altro che far perdere tempo ai tribunali. La magistratura e la classe politica riconoscono che è inutile, ma non viene abolito perché la gente non capirebbe. Ho paura che la confisca fondata sul sospetto sia stata messa a punto soltanto per lanciare un segnale all’opinione pubblica”. Ha destato molto stupore, in questo senso, anche l’estensione delle misure di prevenzione allo stalking. Si tratta di un crimine odioso da condannare con forza, ma che cosa c’entra con l’illecito arricchimento e il sequestro dei beni? “Non posso che ribadirlo: si tenta di rispondere alla domanda di tranquillità sociale con rimedi che all’apparenza soddisfano l’opinione pubblica, ma che in realtà sono assolutamente risibili. Si usano le leggi come messaggi sociali da lanciare ai cittadini, a prescindere dalla loro efficacia e dai loro aspetti più problematici”. Tra sequestri e confische sono finora finite sotto chiave qualcosa come 18mila aziende, per un patrimonio stimato di circa 21 miliardi di euro, spesso mal gestito. Non si rischia così di mettere nelle mani della magistratura, oltre che i destini della politica, anche quelli dell’economia? “Escludo che il Codice possa essere stato scritto con queste intenzioni, ma è nota a tutti la situazione di contrasto tra economia e giustizia, quella che definirei un’invasione di campo della giustizia nell’ambito economico. Ma nei fatti il legislatore persegue una logica più semplice: usare il pugno di ferro a parole nei confronti di chi non è in grado di difendersi, per dimostrare che la sua azione legislativa serva a qualcosa”. Il nuovo Codice arriva peraltro dopo una riforma della Giustizia approvata con voto di fiducia, che conteneva anch’essa misure ispirate a un certo populismo penale, come la dilatazione dei tempi della prescrizione. “Si è parlato con eccessivo ottimismo di una riforma epocale. Ma di fatto la legge sul processo penale si è limitata a toccare due punti essenziali: l’ennesimo dibattito sulle intercettazioni, di cui si discute da venti anni senza trovare una linea ragionevole di intervento, e poi l’allungamento della prescrizione e il suo ancoraggio all’aumento edittale. Un problema questo che non può essere affrontato con un aumento smisurato delle pene”. Su queste colonne giuristi molto autorevoli hanno esposto una censura unanime: il nuovo Codice antimafia è ritenuto inutile, controproducente e anticostituzionale. Una posizione che anche lei condivide? “Inutile lo è senz’altro, perché già oggi disponiamo di molti strumenti per privare del profitto il corruttore o il corrotto. E di certo è controproducente, perché non fa altro che aggiungere confusione a confusione. Sull’incostituzionalità preferisco non pronunciarmi. Dato il mio ruolo passato nella Consulta, sarebbe inopportuno anticipare giudizi. Ma voglio lanciare anche un allarme su un altro fenomeno: la dilatazione del concetto di corruzione, anche rispetto a comportamenti di mala amministrazione colposa, che però sono, giuridicamente parlando, altra cosa. L’enfasi con cui i media portano avanti questa denuncia è preoccupante e contribuisce a confondere nella coscienza civile il diritto con l’etica. Ma c’è anche un altro rischio: che la corruzione venga combattuta solo in quanto fattore anti-concorrenziale per eliminare i concorrenti, soprattutto a livello di contrasto alla corruzione internazionale. Questo rischia di diventare il diritto dei potenti”. La guerra di Giancarlo Caselli all’agropirateria: più pene e più galera di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 29 settembre 2017 Oggi sono previste sanzioni “blande” e la Commissione presieduta dall’ex procuratore di Torino ha formulato nuove fattispecie di reato. La sicurezza alimentare e la contraffazione agroalimentare sono argomenti da sempre al centro del dibattito politico, in particolare per i risvolti in tema di tutela della salute dei cittadini e della leale concorrenza negli scambi commerciali. Nel 2015, anno di Expo, il ministro della Giustizia Andrea Orlando nominò una Commissione ad hoc, presieduta dall’ex procuratore di Torino Giancarlo Caselli, con lo scopo di riscrivere i reati in materia agroalimentare, con l’obiettivo di migliorare le azioni di contrasto alle infiltrazioni da parte delle organizzazioni criminali. La commissione ha terminato i propri lavori l’anno scorso, provvedendo a formulare nuove fattispecie di reato e nuove pene che andranno a comporre una nuova sezione del codice penale denominata “Agropirateria”. Nessun seguito, però, si è avuto a livello legislativo e, a pochi mesi dalle elezioni, difficilmente il tema sarà affrontato dal Parlamento. Alcuni di questi temi sono stati, comunque, discussi in occasione di una tavola rotonda organizzata la scorsa settimana dalla Nona commissione del Consiglio superiore della magistratura, presieduta dal consigliere Alessio Zaccaria, alla quale hanno partecipato il vice presidente Giovanni Legnini e il vice presidente della Corte Suprema Cinese Zhang. Attualmente lo strumento principale per combattere le contraffazioni è rappresentato da una apposita normativa contenuta nel codice penale. Secondo lo studio elaborato, queste norme non sono però sufficienti per garantire una efficace azione di contrasto. Il motivo è stato ravvisato nell’eccessiva modestia della sanzione penale prevista, tale da non determinare una seria deterrenza, anche alla luce degli interessi da tutelare, tra cui il diritto alla salute. Se le norme italiane prevedono sanzioni “blande”, un aiuto non è offerto dalla normativa comunitaria che, rigorosa in tema ambientale, non mostra la stessa sensibilità in tema agroalimentare, dimenticando che ambiente ed alimentazione costituiscono aspetti complementari della tutela della salute. Molto critica, infine, l’analisi svolta dalla commissione sotto l’aspetto procedurale. Emblematico il caso delle contraffazioni dell’olio extravergine di oliva, scoperte dopo controlli “a valle”, a campione sul prodotto finito e imbottigliato. Controlli che spesso risultano essere inefficaci in quanto le frodi vengono realizzate con sofisticate tecniche di laboratorio e le violazioni raramente possono venire alla luce. Le investigazioni in materia, invece, dovrebbero colpire le condotte “a monte”, indirizzando gli accertamenti quanto meno verso la fase antecedente all’imbottigliamento, volti ad acclarare la sussistenza di irregolarità relative alla acquisizione della materia prima, o per quanto concerne i processi produttivi, con l’uso di materiali o di tecniche illecite per il confezionamento dell’olio extravergine. L’ora di un nuovo garantismo di Annalisa Chirico Il Foglio, 29 settembre 2017 In Italia ci confrontiamo con un singolare paradosso: i processi durano troppo a lungo, talvolta si estinguono per prescrizione, allora è meglio anticiparli sui giornali, nei talk show, nelle sedi politiche. Fino a qualche anno fa sarebbe stato, in una parola, impensabile. Che a confrontarsi sul rapporto tra giustizia e politica in casa Pd, nei giorni dell’ennesimo cortocircuito mediatico-giudiziario, siano due eretici come Giuliano Ferrara e Luciano Violante, richiama alla mente il “Cambia todo cambia” di Mercedes Sosa. Tutto cambia, e forse la rottamazione culturale più rivoluzionaria impressa dalla leadership di Matteo Renzi riguarda segnatamente la relazione incestuosa tra sinistra politica e giudiziaria. Per lungo tempo una parte dell’establishment progressista ha pensato di brandire la giustizia come arma contundente contro l’avversario, come prerogativa per sentirsi dalla parte giusta della storia, come patente di un fantomatico primato morale. Così all’anomalia tutta italiana di un premier ultra-processato si è aggiunta quella di un fronte liberal incapace di emanciparsi da un certo giustizialismo chiodato e di strappare alla destra una battaglia squisitamente di sinistra, quella per una giustizia giusta ed efficiente. Amica dei cittadini, di chi vuole inventare e intraprendere nel rispetto della legge. “Fino a prova contraria” è la risposta all’immobilismo della classe dirigente. Oggi cambiare si può, non è un caso che tra noi vi siano numerosi magistrati: la stragrande maggioranza delle 9mila toghe italiane sono ben consapevoli dei guasti attuali e del danno reputazionale arrecato da pochi, screditati, colleghi. Se la politica non avesse ceduto al mito della subalternità, non avremmo sprecato vent’anni, forse Tangentopoli non avrebbe spianato la strada alla “società giudiziaria”, forse non leggeremmo il mea culpa tardivo di Antonio Di Pietro (“Ho fatto politica sulla paura delle manette”), forse l’affermazione secondo la quale non esistono innocenti ma colpevoli non ancora stanati sarebbe stata ridicolizzata come un delirio isolato e non la dichiarazione del numero uno dell’Anm. Forse non avremmo assistito alla parabola di magistrati che fondano partiti, si candidano disinvoltamente alla premiership e pretendono di correre alle primarie tenendo nell’armadio la toga linda e stirata, pronta all’uso. Forse l’Europa non chiederebbe all’Italia di regolare le “porte girevoli” tra aule giudiziarie e palazzi della politica, né solleciterebbe il paese dei Verri e dei Beccaria ad approvare leggi per “rafforzare la presunzione d’innocenza”, forse non si sarebbe affermato come genere ad hoc quel “giornalismo da trascrizione”, il copyright è del Garante della privacy, che consiste nella pedissequa riproduzione di atti investigativi. Forse vivremmo in un paese più civile, più democratico, più libero. Invece ci confrontiamo con un singolare paradosso: i processi durano troppo a lungo, talvolta si estinguono per prescrizione, allora è meglio anticiparli sui giornali, nei talk show, nelle sedi politiche. Il Triangolo della Repubblica giudiziaria funziona su tre punte: qualcuno indaga, il solito giornale si guadagna lo scoop, la solita falange pentastellata monta la campagna partisan a suon di hashtag e mozioni parlamentari. Tempa rossa: archiviati, con un ministro dimissionato dallo scempio mediatico. Consip: verminaio di infedeltà e manipolazioni con uomini dello stato indagati per falso, violazione del segreto, depistaggio. Un mosaico inquietante, un’autentica caccia all’uomo. Possiamo voltarci dall’altra parte anche questa volta, ricorrere ad auliche espressioni come “la giustizia faccia il suo corso, l’operato dei magistrati non si commenta”. Raccontiamoci pure che va tutto bene, madama la marchesa. Purché sappiate che nessuno è immune, non esistono intoccabili. C’è un grido d’allarme che oggi, a differenza di ieri, si solleva all’interno dello stesso mondo togato. Fino a prova contraria, noi siamo schierati e non arretriamo. Francesca Occhionero: “pensavo che in cella ci andasse chi commette dei reati…. invece” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 settembre 2017 “Mi preparavo a trascorrere un’altra notte in cella. Un’ora dopo mi sento chiamare dall’altoparlante “Occhionero scendi a piano terra” e la guardia “prepara la tua roba e vattene perché sei libera”“. Comincia così il racconto al Dubbio di Francesca Occhionero, scarcerata lo scorso 25 settembre, dopo circa 9 mesi di detenzione preventiva nel carcere romano di Rebibbia, nel quale era rinchiusa perché accusata di cyber spionaggio col fratello Giulio, che rimane a Regina Coeli. Nel provvedimento firmato dal giudice Bencivinni si legge che viene concesso alla Occhionero l’obbligo di firma e dimora a Roma, oltre il parere favorevole per i domiciliari del pm Albamonte, per questi due motivi: la “condotta rispettosa” tenuta in carcere e gli elementi emersi dall’incipit dell’istruttoria dibattimentale “consentono di ritenere che vi sia stato un parziale ridimensionamento” della posizione della donna. “Ho sempre avuto l’impressione di essere stata arrestata sulla base di un fumus che non si è mai concretizzato in una serie di prove ci racconta nello studio del suo avvocato Roberto Bottacchiari. Al giudice è bastato da un lato che le intercettazioni fossero chiarite e dall’altro sentire paradossalmente solo il primo teste dell’accusa, il dottor Pereno del Cnaipic (Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia postale), per capire che contro di me non ci sono elementi probanti: nessuna esfiltrazione di dati, nessun collegamento con il malware e i server”. E sul perché abbia fatto nove mesi di carcere preventivo Francesca Occhionero si dà due spiegazioni: “Avendo avuto molto tempo di pensare in cella, temo che abbiano strumentalizzato la mia detenzione per fare leva su Giulio, e per acquisire conoscenza di elementi da poter poi contestare in maniera specifica, anche se ad oggi manca ancora l’individuazione di un fatto criminale”. E sul rapporto con suo fratello, che i giornali hanno descritto talvolta come in crisi, ci risponde: “Assolutamente, il rapporto tra me e mio fratello è solidissimo”. Tornando al 25 settembre, le chiediamo cosa ha fatto appena saputo di dover lasciare Rebibbia: “In pochissimo tempo ho preparato la mia roba. Poi grandi abbracci più o meno sinceri: ho stretto amicizie profonde che mi hanno fatto trascorrere domeniche normali. Prima di uscire mi hanno prelevato il dna. E poi l’incontro con mio marito fuori dal carcere. Ero emozionata ma anche tesa perché credevo che qualcuno potesse cambiare idea e rispedirmi dentro. La prima notte non ho dormito, ero adrenalinica, carica, non sapevo cosa fare”. Il mattino invece sono subentrati sentimenti contrastanti: “Da un lato avevo una grande voglia di uscire, di tirare subito su le tapparelle e di andare a correre lungo il Tevere, ma poi è subentrata l’ansia del giudizio popolare. Sono entrata in banca e mi sono sentita gli occhi addosso di chi sussurrava nelle orecchie il mio nome, guardandomi e pensando di non essere visto. Mi sono resa conto di avere una popolarità negativa”. E sulla celebrità che il caso ha suscitato: “Non mi ero resa conto subito di quello che riportavano i giornali e le televisioni, perché nei primi giorni di detenzione non mi era stato permesso di accedere a nulla. Poi ho notato due cose: che per la stampa mio fratello era ingegnere nucleare, io semplicemente “la sorella di” o la runner. Tutti avevano omesso il mio dottorato di ricerca in chimica. Poi ho letto che mi dipingevano come “lady hacker”, “la bella spia” e mi sono resa conto che si trattava di una montatura, di una enorme bufala che si smonterà. Ma purtroppo qualcuno dentro e fuori il carcere ha goduto nel vedermi rinchiusa”. Qualche mese fa il Dubbio pubblicò in esclusiva una sua lettera dal carcere in cui denunciava le pessime condizioni di detenzione: “Le prime notti ho pianto, poi alla disperazione è subentrata la rabbia per una situazione così surreale e shoccante. Ho passato i primi venti giorni nella sezione Camerotti, dove ci sono quelli in attesa di giudizio. Avevo paura ad uscire dalla cella fredda e spoglia per farmi la doccia, temevo di essere aggredita. Non capivo perché le guardie mi davano del “tu” e si rivolgevano a me con “questa”, “quella”, palesando una chiaro atteggiamento di insufficienza. Poi sono stata trasferita in un reparto migliore. Comunque non sono mai riuscita ad abituarmi alla condizione di detenzione perché per me ogni giorno era l’ultimo psicologicamente, non riuscivo a entrare nel sistema, lo rigettavo, pensavo di uscire subito. Passavo il tempo leggendo e scrivendo, anche un libro sulla mia vicenda, e facendo sudoku. E poi nell’ultimo mese sono riuscita a far riaprire una palestra donata al carcere da De Rossi e Totti e ho insegnato fitness a oltre 50 detenute”. Sarà il processo a mettere un punto a questa storia ma concludiamo chiedendo a Francesca che idea in generale si sia fatta di questa vicenda: “All’inizio pensavo che qualcuno doveva far carriera sulla nostra pelle. Adesso credo che siamo un perfetto capro espiatorio, il soggetto giusto a cui dare la colpa di qualcosa messo in piedi da altri nel passato, essendoci altri sei malware in circolazione”. Un ultimo pensiero sul carcere: “È un mondo che non mi aveva mai incuriosita. Confesso di aver avuto un pregiudizio, per cui se qualcuno entrava in carcere doveva aver fatto qualcosa. Il classico luogo comune su cui mi sono dovuta ricredere. Ora dico che bisogna pregare di non incappare nella giustizia; purtroppo si è incrinata la mia fiducia in alcuni ambiti delle istituzioni e delle forze dell’ordine”. Al via il nuovo processo Cucchi. La sorella Ilaria: “ora ci aspettiamo giustizia” di Marco Sarti linkiesta.it, 29 settembre 2017 Il 13 ottobre inizia il Cucchi bis. A processo cinque carabinieri, alcuni di loro accusati del pestaggio al giovane. Intanto spunta un nuovo testimone che racconta di aver incontrato Stefano a Regina Coeli. “Era aggrappato alle sbarre perché non riusciva nemmeno a stare in piedi”. Sono passati esattamente otto anni. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009, pochi giorni dopo essere stato arrestato e dopo aver subito un violento pestaggio. Se n’è andato “tra atroci dolori e solo come un cane”, ricorda oggi la sorella Ilaria. Ma la sua è una morte ancora senza responsabili. Tra due settimane, al termine di un lunghissimo percorso giudiziario, inizierà il nuovo processo. Il 13 ottobre è in programma la prima udienza del Cucchi bis. Stavolta sul banco degli imputati ci saranno cinque carabinieri. Tre di loro sono accusati di aver picchiato il giovane fino a provocarne la morte. Altri due, tra cui il maresciallo Roberto Mandolini, ex comandante della stazione Appia, per falsa testimonianza e calunnia. “Sarà un processo estremamente duro, difficile” ammette Fabio Anselmo, avvocato della famiglia. “Ma sarà soprattutto un processo con una nuova atmosfera”. A Palazzo Madama, incontrando i giornalisti, Ilaria ricorda il clima che finora ha accompagnato il suo dramma, dentro e fuori dalle aule di giustizia. “Sono stati anni interminabili”, racconta visibilmente emozionata, con la voce che trema. “Abbiamo dovuto affrontare un processo da soli, contro tutto e contro tutti. Un processo in cui dovevamo dimostrare che Stefano non era morto da solo”. Nell’incontro con la stampa c’è anche il senatore Luigi Manconi. Il presidente della commissione Diritti umani insiste molto su questo aspetto. “Sulla vicenda di Stefano Cucchi - spiega - c’è una questione pesante come un macigno che riguarda il risarcimento morale nei suoi confronti. Per anni è stato presentato come corresponsabile della propria morte, se non addirittura l’unico responsabile. Parte della stampa e della classe politica hanno cercato di sfregiarne l’immagine per ricostruire un identikit criminale”. Una campagna di discredito, quasi tesa a giustificare la tragedia. “Sarà difficile essere ripagati, ma almeno la memoria ci aiuterà a non dimenticare queste infamie”. Adesso la famiglia volta pagina. Si ricomincia. Archiviate le sentenze che finora non hanno portato a nulla, si apre il nuovo processo. “Si parlerà di quello che è davvero successo, della verità” insiste Ilaria. “I responsabili di quel violentissimo pestaggio saranno chiamati a rispondere delle loro azioni”. In aula ci sarà un nuovo testimone. Un detenuto che ha incontrato Stefano durante la breve permanenza nel carcere di Regina Coeli, un paio di giorni dopo il suo arresto per droga. Il 22 settembre scorso si è presentato in procura per raccontare quello che ha visto. “Il valore della sua deposizione è importante - racconta oggi l’avvocato Anselmo - perché descrive uno Stefano in grande difficoltà fisica. Aggrappato alle sbarre della cella, perché non era neppure in grado di stare in piedi da solo. Con buona pace di chi parla di lesioni dolose lievi”. La battaglia processuale è solo all’inizio. L’avvocato non nasconde le difficoltà che ancora aspettano la famiglia. Ammettendo che alcuni reati, tra cui la calunnia, rischiano di cadere in prescrizione. “Il tema centrale del processo non sarà tanto la responsabilità di quel pestaggio - racconta - perché è difficile da smentire, se non impossibile. Piuttosto sarà l’aspetto medico-legale”. Le lesioni provocate dai carabinieri hanno realmente provocato la morte del giovane, come sostiene l’accusa? L’avvocato Anselmo è fiducioso: “Le nuove perizie hanno chiarito molte cose”. E per questo ringrazia la procura di Roma e la squadra mobile della polizia, “che hanno svolto un lavoro eccellente”. A Palazzo Madama, ad ascoltare Ilaria, c’è il senatore Sergio Lo Giudice, che ha recentemente promosso il disegno di legge sull’introduzione del reato di tortura. E con lui i rappresentanti delle associazioni da sempre vicine alla battaglia della famiglia Cucchi: Amnesty International, Emergency, A Buon diritto, Cittadinanzattiva. “Adesso - spiega Ilaria - il processo potrà dimostrare che la giustizia può essere davvero giusta e uguale per tutti”. Nell’accertamento della verità c’è un debito nei confronti del fratello, ma non solo. “Mi piace pensare che la morte di Stefano e il dolore che abbiamo sopportato in questi anni non sono stati inutili”, continua. “Serviranno per i tanti, troppi, Stefano Cucchi che quotidianamente subiscono soprusi. Per loro non ci sarà alcun processo e di loro non sentirete mai parlare”. Intanto domenica primo ottobre, nell’anniversario del compleanno, sono stati organizzati alcuni appuntamenti a Roma per ricordare il giovane scomparso. Al mattino si terranno due gare di corsa nel parco degli Acquedotti, lo stesso dove otto anni fa Stefano è stato arrestato. In serata è previsto un incontro con artisti e musicisti presso l’ex Dogana. “Ricordare Stefano nel giorno del suo compleanno - spiega Ilaria - vuole essere un segnale di speranza e non di resa. Vuol dire che non bisogna mai smettere di crederci e di battersi fino in fondo per la verità e per la giustizia. E per il rispetto dei diritti umani”. Carcere degradante: i dubbi sui danni alle Sezioni unite di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 22764/2017. I rimedi individuati per i detenuti in stato di degrado, sulla scia della sentenza Torreggiani sono un’indennità o un risarcimento? Le regole da applicare sulla prescrizione del diritto possono essere gli stessi previsti dalla legge Pinto per l’eccessiva durata dei processi? Sono interrogativi che i giudici della Terza sezione civile della Corte di cassazione chiedono di sciogliere alle Sezioni unite (ordinanza interlocutoria 22764). Nell’ordinanza i giudici analizzano gli scenari possibili, come evidenziati nella causa occasione del rinvio. Nello specifico il detenuto chiedeva il risarcimento per i danni subìti in seguito a una detenzione inumana in diverse carceri italiane per 3.189 giorni che moltiplicati per 8 euro al giorno danno un totale di 25.512 euro. Il ministero della Giustizia, nella sua opposizione, aveva eccepito la prescrizione del diritto per i periodi precedenti i 5 anni o, in subordine i dieci anni, dalla domanda. Il Tribunale ha invece rigettato l’eccezione della prescrizione, escludendo la possibilità di stabilire una decorrenza rispetto ad un diritto non riconosciuto prima dell’introduzione dell’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario (Dl 92/2014). Per i giudici poteva valere piuttosto il termine di decadenza dei sei mesi dalla data di entrata in vigore del Dl per chi allora non era più detenuto. Porre il solo limite della decadenza senza prescrizione avrebbe - sottolinea la Cassazione - effetti significativi nel bilancio dello Stato, come evidenziato anche dal?Csm (delibera 30 luglio 2014). Ora l’ultima parola spetta alle Sezioni unite. Cassazione, uccise il figlio nel 2013: era adottivo, per i giudici no all’ergastolo La Repubblica, 29 settembre 2017 Per il Codice Penale resta la distinzione di status con i figli legittimi e, non esistendo tra assassino e vittima un rapporto di consanguineità, è esclusa l’aggravante specifica, quindi il carcere a vita. La Corte d’assise quantificherà ora una pena minima di 16 anni. Per lo stesso caso, Corte diritti umani condannò Italia. Il figlio che uccise quattro anni fa, era adottivo, quindi l’assassino non può essere condannato all’ergastolo: è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione accogliendo il ricorso della difesa di Andrei Talpis, 57 anni, originario della Moldova, che la notte del 26 novembre 2013, a Remanzacco (Udine), colpì a morte con un coltello da cucina il figlio adottivo di 19 anni. L’uomo era tornato a casa verso le 4, completamente ubriaco e se l’era trovato davanti, l’aveva accoltellato perché cercava di difendere la madre dalla sua furia. “La morte è avvenuta per effetto di una sola coltellata, inferta all’esito di una lotta corpo a corpo, mentre il figlio tentava di disarmarlo”, ha detto Roberto Mete, difensore dell’imputato. Il ragazzo era stato formalmente adottato dalla coppia in Moldavia. E ora si svolgerà un nuovo processo. Come racconta oggi il Messaggero Veneto dal momento che tra Talpis e la vittima non esisteva un rapporto di consanguineità, se sul piano civilistico vale la parificazione di status con i figli legittimi operata dalla legge, secondo il Codice Penale, invece, la distinzione permane e basta a escludere l’aggravante specifica. Questo ha sostenuto la difesa nel ricorso discusso martedì davanti alla I sezione della Corte di Cassazione e questo hanno affermato i giudici di legittimità cancellando l’ergastolo inflitto dal gup di Udine nel 2015 e confermato dalla Corte d’assise d’appello di Trieste nel 2016. In caso di omicidio è l’aggravante specifica che in virtù dell’esistenza di una discendenza tra la vittima e il suo carnefice, prevede la pena del carcere a vita. La Corte di Cassazione ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte d’assise d’appello di Venezia per la quantificazione della pena, prescrivendo che non scenda sotto i 16 anni di reclusione. Lo sconto fino a un terzo della pena previsto dalla scelta del rito abbreviato consentirà di restare al di sotto dei 30 anni. “Sulla disparità ancora presente tra figli naturali e adottati dovrà eventualmente pronunciarsi la Corte Costituzionale: fino a che la legislazione vigente è questa è doveroso che i tribunali la applichino” ha detto l’avvocato Mete”. “In Cassazione c’è stata unità di vedute - ha concluso - tanto che lo ha riconosciuto anche la Procura generale, che ha chiesto l’accoglimento di queste nostre istanze”. Nessun commento dalle parti civili che si erano costituite nel processo per l’omicidio del ragazzo e il ferimento della madre e che hanno riferito di attendere le motivazioni della Suprema Corte. L’imputato, già in carcere, deve infatti rispondere anche dell’accusa di tentato omicidio della moglie Elisaveta, sua coetanea e connazionale. A marzo scorso la Corte europea dei diritti umani aveva condannato l’Italia a pagare alla donna 30 mila euro per non avere fatto abbastanza per proteggere lei e i loro figli dalle violenze domestiche. I giudici di Strasburgo avevano stabilito che “non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta” dalla mamma del ragazzo, “le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della donna alla morte di suo figlio”. La Corte europea dei diritti umani ha agito per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali. I giudici di Strasburgo hanno rilevato che “la signora Talpis è stata vittima di discriminazione come donna a causa della mancata azione delle autorità, che hanno sottovalutato (e quindi essenzialmente approvato) la violenza in questione”. “La donna aveva denunciato più volte il marito, aveva anche chiesto aiuto, ma il Comune non aveva ritenuto la situazione così grave - hanno spiegato gli avvocati della vittima - addirittura, il marito, il giorno stesso in cui ha poi ucciso il figlio e ferito gravemente la moglie, era stato fermato in stato di ubriachezza, ma era stato poi rilasciato”. Il ribaltamento deciso dalla Cassazione, non incide in alcun modo sulla decisione europea. Attacco no-Tav non fu terrorismo di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 28 settembre 2017 n. 44850. L’attacco no-Tav al cantiere di Chiomonte (To) del maggio di 4 anni fa non fu un attentato e neppure aveva, giuridicamente, finalità terroristiche. La Prima penale della Cassazione (sentenza 44850/17, depositata ieri) chiude definitivamente il capitolo dell’azione notturna di quattro imputati - all’epoca dei fatti di età compresa tra 23 e 41 anni - confermando la sentenza di appello e smentendo il “rigore” del primo grado. A smontare la tesi dell’attentato aveva già provveduto la Corte d’appello - impugnata dal procuratore generale - mediante un approccio tecnico alla fattispecie - un po’ controversa - dell’articolo 280 del Codice penale. La norma richiede infatti, alla base, di “attentare alla vita od alla incolumità di una persona”, presupponendo un’attività preparatoria adeguata e la finalità diretta in modo non equivoco a provocare l’evento desiderato (non avendo ruolo qui, per consolidata giurisprudenza, il dolo eventuale). Le risultanze peritali sul lancio delle molotov dentro il tunnel (aspetto controverso nel ricorso), e soprattutto una chiara e non controversa intercettazione telefonica tra due imputati, hanno portato ad escludere l’idoneità e la volontà dell’azione “attentatoria” - che non può che essere costruita nell’alveo del delitto tentato - alla incolumità/vita di persone: in realtà, scrive la Prima, obiettivo dell’azione era solo mettere fuori gioco i macchinari utilizzati per scavare il tunnel contestato. Ancor più severa la censura della Prima sezione penale è sulla lamentata “finalità terroristica” dell’azione dei no-Tav. Anche qui i vincoli della norma (articolo 270-sexies del Codice penale) sono stretti e tipizzati, andando dalla finalità di intimidire la popolazione a quella di destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali del Paese, o di un’organizzazione internazionale, ovvero “costringere i poteri pubblici a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto”. Il percorso logico della finalità terroristica prevede quindi un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell’intero paese colpito dagli atti “terroristici”. Nel caso specifico, scrive la Corte, non basta che i quattro imputati volessero provocare (i gravi) danni effettivamente realizzati, ma occorre che la loro condotta “crei la possibilità concreta, sul piano oggettivo, che essi si verifichino, secondo lo schema di un evento di pericolo concreto, da valutarsi alla stregua del criterio della prognosi postuma tenendo conto della natura della condotta e del contesto in cui essa si colloca”. In concreto, infine, dovrebbe essere l’istituzione pubblica l’entità minacciata dalla condotta dei quattro lanciatori di molotov, presupposto per la realizzazione del danno grave al Paese quando non dell’”immobilismo indotto” ai pubblici poteri legittimati a prendere le decisioni. E quattro molotov, obiettivamente, non bastano a uno scopo così “politico”. Bologna: quel suicidio in questura a e il buco nero delle camere di sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 settembre 2017 Aperto un fascicolo per la morte del senegalese Oumar Ly Cheikou, oggi l’autopsia. Giallo sul suicidio avvenuto venerdì scorso all’interno della camera di sicurezza della questura di Bologna. Parliamo del senegalese Oumar Ly Cheikou tratto in arresto dai poliziotti perché la convivente, in seguito ai maltrattamenti ricevuti, li ha contattati per farli venire in casa. Qui c’è un buco nero. La dinamica dell’arresto e del suicidio viene spiegata con un generico comunicato stampa della polizia. “Purtroppo non conosco i dettagli - spiega a Il Dubbio Rosa Ugolini, l’avvocata difensore dei familiari del senegalese, perché non ho avuto accesso alla relazione della polizia che racconta in che modo è stato tradotto in questura, quante persone erano presenti nel momento del suicidio”. Inizialmente, il pubblico ministero, assieme al medico, aveva costatato il decesso e sembrava finita lì. Dopodiché il magistrato Giuseppe Amato ha deciso di disporre l’autopsia per fugare ogni dubbio. Quindi si è aperto un fascicolo per omicidio colposo e sono sotto indagine i due agenti di polizia che sarebbero stati presenti in questura. “Non ho nessun elemento necessario per fare alcuna ipotesi - spiega sempre l’avvocata Ugolini -, l’unica cosa che sappiamo è che il decesso è avvenuto intorno alle 22: 50/ 23 con l’intervento del 118 che la compagna ha visto giungere in questura”. L’autopsia verrà effettuata oggi e solo così si potrà confermare o meno la causa della sua morte. Nel frattempo rimane l’interrogativo se la camera di sicurezza della questura di Bologna sia idonea o meno ad accogliere gli arrestati. Interviene nella vicenda anche il consiglio direttivo della camera penale di Bologna. “Si apprende da fonti sindacali - scrivono infatti il presidente Roberto D’Errico e il segretario Ettore Grenci - che nella questura di Bologna i locali da vigilare sono quattro, con organico che molto spesso prevede il servizio di soli due agenti, e che il sistema di sorveglianza a mezzo telecamere, installato per controllare in tempo reale le celle di sicurezza, si blocca spesso diventando di fatto inutilizzabile”. Continua il comunicato dei penalisti: “Il consiglio è sempre stato convinto che non si possa intervenire su vicende così delicate con facili semplificazioni o, peggio, sommari processi, tanto più che sono in corso accertamenti per stabilire esattamente modalità e cause di tale tragico gesto. Non si può tuttavia nascondere profonda inquietudine nell’aggiungere un’altra persona alla lista dei tanti, troppi, che ogni anno si tolgono la vita in condizione di restrizione della propria libertà personale”. Le camere di sicurezza sono delle stanze presenti nelle caserme dei carabinieri e nelle questure che servono per trattenere le persone in attesa di un processo per direttissima. L’idea di ricorrere più spesso a questa modalità è stata partorita dall’ex guardasigilli Paola Severino per evitare le cosiddette “porte girevoli” che ingolfano gli istituti penitenziari. Quindi le persone possono essere trattenute per 48 ore. Paradossalmente, in alcuni casi, sarebbe preferibile il carcere. Le camere di sicurezza, in alcuni casi, non possiedono nulla: non hanno finestre, non hanno bagno, non hanno acqua corrente, non hanno strutture dove poter far respirare una boccata d’aria, non hanno mense dove poter consumare i pasti. Ma non solo. Il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura, nella sua ultima relazione, ha evidenziato che nelle camere di sicurezza non risulta nessun registro relativo alla custodia delle persone. Oppure, ancora peggio, i registri vengono compilati a posteriori. Messa così, può risultare che le camere di sicurezza siano un vero e proprio buco nero dove, in teoria, può avvenire di tutto. E infatti non è la prima volta che sono accaduti dei fatti tragici. Tre sono i casi, alcuni definitivamente archiviati, che destano ancora qualche perplessità. Uno riguarda Georgi Bacrationi, georgiano clandestino di 25 anni, che l’ 8 ottobre 2008 aveva rubato un lettore Mp3 dalla Feltrinelli milanese di corso Buenos Aires e venne fermato dagli uomini dell’Unità operativa contro la criminalità diffusa. Venne condotto, in stato di arresto, presso la camera di sicurezza situata nel sottosuolo della questura di via Fatebenefratelli. Ufficialmente morto per overdose da metadone. L’allora pubblico ministero di turno, incaricato dell’indagine, Giulio Benedetti, volle vederci chiaro. Fece prelevare ogni tipo di campione della camera di sicurezza con la porta blindata, la branda e un lavandino. Vi trovò tracce di metadone. Georgi Bacrationi, insomma, era morto di overdose dopo aver assunto la droga proprio in questura. Quanto basta per ipotizzare l’omicidio colposo. Ma la mancanza di un nesso provato tra la presenza dello stupefacente e la morte portò all’archiviazione. Eppure rimane la domanda rimasta inevasa per sempre: com’è possibile morire per overdose dentro una questura? Stessa sorte toccata, un anno prima, ad Antonio D’Apote, un tossicodipendente di 49 anni. Fermato dalle Volanti in evidente stato di agitazione, probabilmente dovuta all’assunzione di droga, D’Apote venne portato nella questura milanese non senza difficoltà. I verbali di arresto parlano di resistenza e minacce a pubblico ufficiale e di gravi atti di autolesionismo: avrebbe sbattuto così tante volte la testa da solo che si è ammazzato. Sì, sempre all’interno della camera di sicurezza. Questa storia non può non evocare una vicenda simile. Questa volta nella questura di Varese. Parliamo di Giuseppe Uva, di mestiere gruista, morto esattamente il 14 giugno 2008 nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri di via Saffi a Varese. La sorella Lucia ha potuto osservare il corpo nell’obitorio. Presentava una grossa tumefazione viola sul naso, la nuca, al tatto, era segnata da un bozzo gonfio. Scendendo lungo il corpo, si trovava un livido enorme sulla mano e il fianco era attraversato da lunghe strisce viola. E poi portava un pannolone bianco da adulto incontinente che gli cingeva i fianchi: a spostare i lembi, di quel pannolone, si vedevano i testicoli tumefatti e una traccia di sangue che fuoriusciva dall’ano. Ufficialmente, come nel caso di D’Apote, si è fatto male da solo mentre era trattenuto in questura. La sorella Lucia ancora attende la verità e in questi giorni si sta svolgendo il processo d’Appello. Ancona: celle disumane e difficile convivenza tra cristiani e musulmani di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 29 settembre 2017 “Ecco la mia vita in carcere”. Nella missiva si parla anche di ritardi nella consegna dei pacchi provenienti dall’esterno con generi alimentari. I detenuti hanno dovuto aspettare settimane a causa dell’assenza del personale. Restano alquanto critiche le condizioni delle carceri anconetane, in particolare la casa circondariale di Montacuto dove un grave sottorganico della Polizia Penitenziaria e degli educatori si somma all’assenza del direttore e del Provveditore regionale, come già raccontato in numerosi servizi di Ancona Today delle settimane scorse. I sindacati sono sul piede di guerra ma ancora non sembra muoversi nulla, né per una migliore condizione lavorativa degli agenti, vittime di violenza da parte di alcuni detenuti, né per la dignità della stessa popolazione carceraria costretta a scontare la pena al di sotto del livello di umanità ma anche al di fuori della legalità imposta dalle leggi italiane ed europee. Proprio alla redazione di Ancona Today è arrivata la lettera di un detenuto marchigiano di 29 anni, recluso nel carcere di Montacuto e che, tramite il suo avvocato Francesca Petruzzo, ci racconta come si vive da detenuto. Noi la pubblichiamo integralmente. “Venerdì 25 agosto nei reparti delle sezioni comuni sono state aggiunte una decina di brande in eccedenza distribuite tra 3°,4°,5°,6°, cosicché nelle stanze detentive si raggiungeva un numero complessivo di 5 brande creando così una condizione di sovraffollamento, non essendo più rispettati i parametri della normativa Cedu, che pongono come misura minima di spazio calpestabile 3,30 mq. Ne è seguita una protesta pacifica di tutti i detenuti del 3° e 4° reparto che prima del rientro finale delle 20, per segnalare l’esasperazione che si veniva a creare, hanno smontato le brande in eccedenza non rientrando nelle proprie celle all’orario di chiusura. Seppur una violazione del codice penitenziario, per tutta la durata della protesta i modi sono stati sempre pacifici e disposti al dialogo con il personale di polizia penitenziaria e all’arrivo del commissario, a cui sono state manifestate le problematiche, tutto è rientrato immediatamente. I problemi rappresentati, a fronte della decisione del provvedimento, andavano a tutelare le condizioni di vita dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria, visto che le condizioni di sovraffollamento causeranno un inevitabile aumento del malfunzionamento della casa circondariale di Ancona-Montacuto. Il personale di polizia penitenziaria non è in numero sufficiente rispetto alla popolazione carcerarie e ciò causa un aumento delle ore di lavoro e di straordinario peraltro non retribuite. Inoltre la carenza del suddetto personale causa una carenza per il servizio di piantonamento o scorta. I detenuti non effettuano un regolare periodo di convalescenza in ospedale quando necessario e sono costretti a rinunciare a presenziare alle udienze. I detenuti lamentano di non essere seguiti dal personale educativo per il loro programma trattamentale. Dopo aver fatto domanda per colloquiare con gli educatori trascorrono anche mesi, non per demerito del personale ma perché a fronte di più di 300 detenuti ci sono tre educatrici. Malfunzionamento del servizio odontoiatrico: da anni nei confronti del dentista dell’istituto sono state emesse denunce e plurime raccolte firme per l’evidente inefficienza e mancanza di professionalità. Inoltre è previsto che le brande in eccedenza dovranno essere montate in ogni cella, così il totale dei detenuti passerà da 46 a 58/59 per reparto. Da segnalare da tempo l’innalzamento del tasso di conflittualità tra detenuti e personale di polizia penitenziaria e detenuti stessi. Diverse sono state le aggressioni che si sono registrate negli ultimi tempi. La struttura presenta molte problematiche: detenuti con problemi psichiatrici, di tossicodipendenza che necessiterebbero di trattamenti e reparti specifici sono mescolati al resto della popolazione detenuta. Questo fa si che la convivenza tra le parti sia resa ancora più complicata. Altri problemi sono causati dall’indice ormai elevato di eterogeneità culturali presenti nell’istituto, le presenze di etnie diverse sono causa di conflittualità e disagio, una gran percentuale di detenuti stranieri non ha nemmeno la conoscenza della lingua italiana. Nell’istituto, negli ultimi periodi, si registrano sovente ritardi nella consegna dei pacchi provenienti dall’esterno che possono contenere generi alimentari. I detenuti hanno dovuto aspettare settimane per la loro consegna, nonostante consegnati dalla posta al carcere, causa sempre l’assenza del personale. Ritardi di giorni sono avvenuti anche per la consegna dei vaglia, l’assenza di personale ha causato problemi con il centralino e i detenuti non hanno potuto mettersi in contatto con i propri avvocati. All’interno della casa circondariale ci sono 4 celle inagibili: celle numero 933, 935 IV reparto; 903, 907 VI reparto. Nonostante i lavori di ristrutturazione conclusi recentemente le celle non sono oggetto di riparazione perché dal provveditorato non vengono stanziate le cifre necessarie (circa 16.000 euro). L’eccedenza dei detenuti e il continuo flusso di nuovi giunti fa si che essi debbano permanere per giorni in isolamento o zona filtro. La zona dell’isolamento versa in condizioni disumane e non accettabili per le più basilari condizioni di vivibilità: sporcizia, mancanza di armadietti, tavoli, tv. Le celle sono “lisce” adibite alle punizioni. La cucina non è capace di sopportare la varietà dei vitti. La differenza tra cristiani e musulmani fa si che di regola molti piatti non vengano cucinati per la presenza di carne di maiale e si adotta una uniformità del menù per venire incontro alle diverse esigenze, non rispettando così appieno le tabelle ministeriali per i detenuti che presentano disturbi alimentari come diabetici e celiaci, che sono costretti a mangiare quasi sempre la stessa pietanza. Dal 2014 ad oggi si sono registrati 5 decessi, sintomi delle precarie condizioni di vita a Montacuto, della mancanza di sorveglianza e della mancanza di cure idonee in caso di gravi patologie”. Campobasso: Antigone Molise “il carcere è obsoleto e inadeguato, va chiuso” altervista.org, 29 settembre 2017 Il carcere di Campobasso va chiuso. Questa posizione, marcatamente provocatoria, di Antigone Molise vuole denunciare la situazione di assoluto disagio che quotidianamente si vive all’interno della Casa di Reclusione di Campobasso. “La struttura - sottolinea Gian Mario Fazzini - aperta nel 1863 è un luogo assolutamente angusto e inadeguato alla vera funzione che un carcere dovrebbe oggi avere nei confronti dei detenuti: quello di custodia e riabilitazione dei detenuti ad un auspicabile reinserimento nella società. Gli ultimi episodi di violenza verificatisi all’interno della struttura (siano essi relativi ad una rissa tra detenuti che ai tantissimi casi di autolesionismo) denunciano una situazione davvero inadeguata ed assai lontana dai canoni di accoglienza e riabilitazione sociale preposti alle amministrazioni penitenziarie: un disagio evidente sia per chi ci lavora (Amministrazione e polizia penitenziaria) sia per chi deve scontare una pena detentiva definitiva o semplicemente se si è in attesa di giudizio. È necessaria una chiara presa di posizione anche da parte delle istituzioni preposte al controllo del sistema penitenziario e alla giusta osservanza dei diritti dei detenuti: chiediamo dunque un preciso riscontro a questa nostra denuncia a quanti (Presidente della Giunta Regionale, Sindaco, Tribunale di Sorveglianza…) debbano esprimersi con autorevolezza e coscienza nei riguardi di una sfera sociale così devastata. In tal senso si avverta chiara e forte la assoluta latitanza del “Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale” (di recente nomina da parte del Consiglio regionale del Molise, ma - ad oggi - incredibilmente assente e lontana dai ruoli e doveri ad essa assegnati. Noi siamo in prima linea e continueremo con l’impegno di sempre alla difesa del sistema penitenziario e alla tutela dei diritti dei detenuti”. Padova: il carcere più umano fa male agli agenti, al Due Palazzi aggressioni moltiplicate di Michela Nicolussi Moro Corriere Veneto, 29 settembre 2017 Sindacati contro il decreto “celle aperte” che consente ai detenuti di girare sui piani. È nato nel 2014, dopo la sentenza Torreggiani emessa dalla Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per “trattamenti inumani o degradanti” subiti da sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza, costretti in celle triple, con meno di 4 metri quadrati a testa a disposizione. Ma oggi il sistema di “sorveglianza dinamica” nelle carceri, che prevede celle aperte dalle 8.30 alle 18/19 e possibilità per i reclusi di stare sul corridoio del proprio piano, socializzare, godere di due ore d’aria in più (8 invece di 6), di sei colloqui mensili con i familiari al posto di 4 e di cinque telefonate al mese contro quattro, inizia a scricchiolare. “Il nuovo regime, che avrebbe dovuto agevolare condizioni di vita più umane e abbassare il livello di tensione fra i detenuti, in realtà ha aumentato del 700% le aggressioni agli agenti in servizio nelle carceri e del 200% il loro carico di lavoro - denuncia Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato polizia penitenziaria, ieri in visita al Due Palazzi. Oggi negli istituti di pena del Veneto si contano tre attacchi al personale a settimana e contiamo solo i casi in cui i colleghi finiscono in ospedale e ne escono con diversi giorni di prognosi. Il problema è che gestire la sorveglianza dinamica con un organico sottodimensionato di circa il 24% è impossibile: a fronte di 2006 detenuti (a Padova sono 596 al penale e 200 al circondariale, ndr) invece dei 1961 previsti, si contano 1437 poliziotti al posto dei 1818 segnati in organico. Una situazione che sta favorendo anche le risse tra detenuti, soprattutto di etnie diverse, e i tentativi di evasione. So torni alle celle chiuse”. C’è poi un altro pericolo concreto, segnalato dal Viminale e legato al fatto che gli stranieri rappresentano il 55% della popolazione carceraria, percentuale massima riscontrata nelle regioni a statuto ordinario e nettamente superiore alla media italiana, ferma al 32,9%. Ovvero il rischio di reclutamento di nuovi terroristi: per ognuna delle dieci carceri veneti sono una decina i sorvegliati speciali. Si tratta di detenuti islamici segnalati al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dal ministero dell’Interno o dagli stessi agenti perché protagonisti di gesti, comportamenti o discorsi sospetti. “Il rischio di proselitismo da parte dell’Isis è concreto - conferma Di Giacomo, che sta facendo il giro delle prigioni italiane - ma non abbiamo strumenti per contrastarlo. Non vengono organizzati corsi di arabo per il personale né assunti mediatori culturali. Le poche risorse sono state usate per aumentare dell’83%, cioè a 8 euro l’ora, lo stipendio dei 14mila detenuti che lavorano a livello nazionale, invece di investirli per coinvolgere in attività gli altri 50mila, nullafacenti”. Sulle barricate pure la Cgil Penitenziari, che con il segretario regionale Gianpietro Pegoraro denuncia: “Non abbiamo partecipato ai festeggiamenti per il bicentenario della polizia penitenziaria per contestare l’abbandono del sistema carcerario, la drammatica carenza di personale e il forte disagio in cui lavorano i poliziotti, da otto anni senza rinnovo del contratto. Il rischio crescente per la loro incolumità fisica è dovuto anche all’aumento di reclusi con problemi mentali, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, e al grave ritardo nell’aggiornamento tecnologico degli strumenti di ausilio alla sorveglianza. E cioè poche telecamere e vecchie, cancelli non automatici, scarsi investimenti nell’edilizia penitenziaria, mancanza di dispositivi elettronici salvavita per gli agenti. Sì alla sorveglianza dinamica, ma potenziando il personale e le ore di lavoro per i detenuti”. I sindacati stanno preparando una manifestazione a Roma. Milano: Gabriele, ergastolano, con la sua cella ai “Frutti del carcere” di Elisabetta Ponzone Vita, 29 settembre 2017 Ieri Gabriele mi ha mandato una foto. Con Andrea ha ricostruito una cella. La casa quotidiana delle persone detenute. Sbarre, finestra, lavandino, branda, cesso. È una sorta di museo itinerante che vuole far riflettere sull’uomo, gli spazi, sui diritti e sui doveri. In anteprima verrà esposta ai Frutti del carcere, a Milano, sabato 30 settembre nel chiostro del Museo Diocesano in via di Porta Ticinese 95. La quinta edizione della manifestazione cittadina durante la quale Milano si interroga sui temi della detenzione e delle alternative al carcere con tantissimi incontri e testimonianze, esponendo inoltre il meglio delle produzioni realizzate da persone detenute ed ex che, attraverso il lavoro, si guadagnano una vita migliore. “Speriamo venga tanta gente. - Dice Gabriele - Soprattutto giovani. Ho un sacco di cose da dire!”. Ognuno è invitato a lasciare il suo messaggio appeso alle sbarre. Gabriele, siciliano verace, classe 1970 è in carcere dal 1995. Ergastolano, ma oggi semilibero. In pratica va a dormire dentro, nel carcere di Milano-Opera, ma lavora fuori dove ha messo in piedi un giardino condiviso in un terreno agricolo nel sud di Milano, in zona 6, accanto al villaggio Barona, nel quale si organizzano attività di integrazione sociale coinvolgendo la cittadinanza, il territorio e detenuti volontari in permesso che, tra una pianta di insalata e un cestino di mirtilli, fanno capire ai ragazzini, con quell’innata semplicità, che la criminalità non vale la pena e bisogna tendere a una vita migliore. Sulla cella Gabriele ha scritto: “In ogni tempo, quando di tempo pareva non ne avessi, mi rinchiudevano nel mio spazio. Mio l’avevo fatto, insieme ai miei pensieri. Il bagno mi aspettava per liberarlo da ogni sgradevole odore, il letto mi voleva solo poche ore, la notte, poiché il mio peso infastidiva il suo riposare. Quel pezzo di ferro m’addrizzava la schiena; se provavo a spostarlo qualcuno da sotto mi bussava: non volevano sentire il lamento acuto di quel ferro inumidito. Eravamo io, il cesso e il letto, a comunicarci disappunto per la nostra solitudine. Di questo trio volevano far parte anche il lavandino e gli armadietti, il loro contributo non volevano fosse taciuto. L’armadio più grande lamentava la pochezza di indumenti nel suo spazio, si sentiva sprecato; il più piccolo, poggiato su bombolette di gas vuote, non trovava giusto sopportare tutto quel peso di pasta pelati e altre “ciberie”, appeso come un disabile su stampelle coperte di polvere e martoriate dai colpi di scopa che disturbavano il suo sonno. Il lavandino soffriva, costretto in ogni stagione al freddo gelido dell’acqua. Tutti in disappunto comunicavano tra di loro e infine con me. Volevano che io trovassi soluzioni a quella solitudine e malinconica compagnia. Cominciai così a farmeli amici, a rendermi utile a loro. Il letto non lo spostavo più, mi sdraiavo sotto di lui per pulirlo dall’umidità. L’armadio più grande lo riempivo di libri e di lettere, così da farlo sentire finalmente realizzato. Il più piccolo lo usavo per farci il forno, e il lavandino iniziò a conoscere l’acqua calda, resa tale dall’amico mio prediletto, il fornello. Tutto pareva funzionare bene, nessuno più lamentava solitudine, gli spazi e le cose li usavo senza disturbare nessuno. Ma a volte la prepotenza di qualche “garante del nulla” voleva farci un dispetto, ci separava. A suo dire, quei suppellettili a me cari potevano diventare armi e strumenti per inganni. I miei amici finivano in magazzino, me li portavano via. Rimanevo nuovamente solo, io, le mura e i cancelli. Miei cari compagni di solitudine, branda, fornello, armadi e lavandino, e anche tu, mio fetente cesso, oggi che posso stare in mezzo a tanta gente e a tante cose belle, vorrei portarvi nei miei pensieri per raccontare chi sono stato ieri”. Gabriele lavora con Opera in Fiore, una delle cooperative sociali che lavorano con persone detenute dentro e fuori le carceri milanesi e che da qualche anno, tutte insieme, hanno dato vita al Consorzio Vialedeimille, il concept store pioniere dell’economia carceraria nato su iniziativa dell’assessorato alle Politiche del Lavoro del Comune di Milano. I Frutti del carcere: sabato 30 settembre 2017 dalle 10,00 alle 18,30 al Museo Diocesano di Milano, in Corso di Porta Ticinese 95. INGRESSO GRATUITO. L’evento è promosso dall’Associazione milanese Per I Diritti in collaborazione con La Camera Penale di Milano, la Caritas Ambrosiana, il Consorzio VialedeiMille, il Ministero della Giustizia, i Chiostri di Sant’Eustorgio e il Festival per i Diritti con il patrocinio del Comune di Milano, l’Ordine degli Avvocati di Milano e la Fondazione Cariplo. facebook.com/PerIDiritti #tuttiInvitati! Benevento: “buttare via la chiave non è la soluzione del problema carcere” ilquaderno.it, 29 settembre 2017 “E ora la palla passa a me”. Dal libro di Antonio Mattone l’invito ad una analisi sociologica e psicologica della detenzione e degli interventi possibili. Una sorta di ipocrisia vittoriana ammanta da sempre la questione della detenzione carceraria in Italia. Da un lato l’art. 27 della Costituzione [Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato], dall’altro una facile risoluzione ai problemi della mancata rieducazione e reinserimento sociale che hanno valso all’Italia, tra l’altro, la condanna di Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo del 2013 per trattamento inumano ai detenuti. Un vuoto legislativo lascia all’azione dei tanti volontari operosi e al senso di umanità di chi vi opera quanto invece andrebbe sancito per vie legali. Ospite ieri presso la sede del Centro di Cultura “Raffaele Calabria” è Antonio Mattone, esponente della Comunità di Sant’Egidio di Napoli. Autore del libro “E ora la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere”. A commentare i temi scottanti connessi con la condizione carceraria sono intervenuti mons. Felice Accrocca arcivescovo di Benevento, Cosimo Giordano già direttore di carceri italiani e tra questi, del carcere di Poggioreale a Napoli; il vicesindaco di Benevento Mario Pasquariello. Ha moderato i lavori Ettore Rossi, direttore dell’Ufficio per i problemi Sociali e il Lavoro della diocesi di Benevento che ha ricordato come il Laboratorio Cives intende mantenere un’attenzione costante sulla realtà del carcere, avendo già approfondito il tema della giustizia riparativa. “Se la società si divide tra chi vuole cancellare anche dalla vista le carceri e chi vuole costruire un ponte tra questo mondo e la comunità, noi siamo da questa seconda parte, perché abbiamo un’umanità che ci accomuna indipendentemente dagli errori commessi da chi è attualmente dietro le sbarre”. Luisa Del Vecchio e Antonio Assante hanno letto alcuni passi tratti dal libro. Cosimo Giordano ha ripercorso gli anni bui del carcere di Poggioreale quando, “in strutture fatiscenti e in condizione di promiscuità, di carenze del sistema sanitario interno e di incapacità di offrire percorsi alternativi di recupero, si consumava il fallimento del sistema carcerario e si lasciava di fatto nelle mani dei clan malavitosi la conduzione della struttura”. Il direttore ricorda la mattanza dei detenuti avvenuta in occasione dell’apertura in via precauzionale delle celle a seguito del terremoto del 23 novembre del 1980. “Anche il mondo dalla parte dei giusti contò le sue vittime: sei agenti di custodia furono trucidati nello stesso periodo. Le mura del carcere sembravano permeabili: vi si nascondevano coltelli, armi automatiche e candelotti di dinamite. Fu il fallimento dello Stato, che rispose con la linea dura, “necessaria ma non esaustiva - ha sottolineato Giordano - fu allora che si comprese che la formula del rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave aveva fatto il suo tempo. La sentenza Torreggiani, pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel 2013, racconta il direttore, aprì la via ad un nuovo modo di concepire la detenzione, anche se ad oggi la strada da percorrere in tal senso è ancora impervia. Molta la riluttanza, anche dello stesso personale di polizia penitenziaria che teme per l’ordine e la sicurezza interna quando si affronta il tema delle carceri aperte”. “La società civile in genere è disorientata dal clima di recrudescenza terroristica, che finisce col frenare anche il legislatore, anche per motivi meramente elettorali”, denuncia il vicesindaco Mario Pasquariello che, pure, riconosce la necessità di “offrire riscatto a chi lo cerca e pone in capo alle autorità legislative la responsabilità del cambiamento. Se solo ripercorriamo le condizioni ulteriori di abbrutimento di questa estate: quaranta gradi da affrontare in condizioni di sovraffollamento, comprendiamo come una svolta sia non solo necessaria, ma urgente”. Mons. Accrocca ripercorre la sua esperienza presso una comunità di recupero per tossicodipendenti. “Tutti i ragazzi - sottolinea - avevano già affrontato il carcere e questo non li aveva resi migliori. Perseguire la linea del “buttiamo via la chiave”, argomenta, “paga elettoralmente ma costa allo Stato in termini economici e sociali”. Di fatto ogni detenuto costa allo Stato circa 184 euro al giorno. Denuncia il vuoto gridare nei talk show ed invita a non ragionare con la pancia, ma a riflettere nei tempi e nelle modalità necessarie ad affrontare temi così scottanti, la cui risoluzione non può che riverberarsi con esiti positivi sulla società. Poi conclude con una riflessione sull’attualità dell’arruolamento nelle fila del fondamentalismo e il parallelismo con l’antico arruolamento degli emarginati nella rete della camorra. C’è evidentemente un problema sociale, ma anche valoriale, che va affrontato per evitare a monte che si finisca in carcere. “Solo perché si è stati in carcere non vuol dire che si diventi migliore”. Così esordisce Antonio Mattone che per l’esperienza ventennale di volontariato si sente di ribadire che il carcere impoverisce, rende disumani e allontana dagli affetti, gli unici che, invece, possono aiutare il recupero. Introduce il tema della giustizia riparativa e riporta il caso del figlio di Giuseppe Salvia, cui è intestato il carcere di Poggioreale essendone stato vicedirettore e fatto uccidere dalla camorra per ordine di Cutolo. A distanza di anni dall’uccisione del padre il giovane figlio chiese ed ottenne di poter partecipare alla messa di Natale nel carcere insieme ai detenuti, ma in incognito. Da allora, precisa l’autore, non manca di farlo ogni anno ed ha coinvolto anche sua madre. Evidentemente non è la negazione dell’altro, ma il recupero e la riabilitazione che sottraggono vittima e carnefice all’ergastolo del “fine pena mai”, intesi in termini di sofferenza interiore, mai rielaborata. Massa Carrara: anche i migranti e i detenuti a “Puliamo il Mondo 2017” Il Tirreno, 29 settembre 2017 Obiettivo comune: rendere migliore il nostro territorio. Partiranno dalla stazione di Massa e attraverseranno la città muniti di guanti, scopa e sacchi per la spazzatura “perché è importante educare la cittadinanza alla manutenzione del territorio”. Sono passati venticinque anni dalla prima edizione di “Puliamo il Mondo” l’iniziativa organizzata da Legambiente che sabato a Massa coinvolgerà anziani, italiani e non, amministrazioni locali, imprese e scuole: uniti a ripulire la città dai rifiuti abbandonati. 25 anni di impegno civile, sociale e di volontariato ambientale con 15 milioni di persone coinvolte in tutta Italia e 100.000 aree ripulite. “È un’occasione buona per educare all’ambientalismo - spiega Paolo Pagni, presidente Legambiente circolo Massa e Montignoso - un momento in cui la comunità si rimbocca le maniche e ritrova un obiettivo comune: la preservazione del territorio. Ma sarà anche un momento di forte inclusione sociale per le fasce più deboli, come migranti e detenuti. Un volontariato socio-ambientale”. Ad aderire all’iniziativa di Legambiente, patrocinata dal Comune di Massa, anche la Coworkeria, Asmiu, l’associazione Ape Carica e la Proloco di Massa Antica. Oltre che un gruppo di migranti di Villa Serena e del progetto Sprar di Massa e otto detenuti della Casa di reclusione di Massa. “Continuano a promuovere questi progetti perché per tutelare l’ambiente è necessario che non esistano barriere tra le persone - ha commentato la dirigente della Casa di reclusione di Massa, Maria Martone - e nel nostro carcere sensibilizziamo i detenuti all’importanza della raccolta differenziata, che mettiamo in pratica da circa un anno e mezzo. L’esempio che danno con la loro partecipazione è di grandi civiltà”. L’invito di Legambiente e dell’amministrazione comunale è aperto a tutta la cittadinanza. Appuntamento alle 9 alla stazione di Massa, proseguendo per viale della Stazione, fino al centro città. Legambiente metterà a disposizione di tutti i partecipanti un kit per le pulizie composto da guanti, maglia, pettorina, materiale informativo da distribuire e pinze in dotazione per la raccolta dei rifiuti. I sacchi per la raccolta dei rifiuti, che verranno inizialmente divisi in plastica e vetro, sono forniti dal centro Asmiu. “Incontro di formazione e di informazione - ha commentato l’assessore Elena Mosti - sperando che le generazioni future siano più consapevoli di essere protagonisti della salvaguardia del territorio”. Augusta (Sr): la prima compostiera costruita con il contributo dei reclusi di Mariangela Scuderi diario1984.it, 29 settembre 2017 L’inaugurazione nell’ambito dell’Ecofesta, che avrà luogo nel carcere di Brucoli. Nel carcere di massima sicurezza, ubicato sulla provinciale Augusta-Brucoli, ci sarà la prima compostiera di comunità costruita con la partecipazione dei detenuti. La realizzazione della compostiera, gli specifici corsi di formazione (a cura dell’associazione Rifiuti Zero) e il conferimento della frazione umida si inseriscono in una delle azioni del progetto “Fare con meno”. La casa del compost, così appellata per le grandi dimensioni, è in grado di assorbire l’organico prodotto da circa 120 persone. È costituita da 3 camere, di cui due chiuse, in cui si introduce l’organico e avviene il processo di compostaggio, una aperta per lo stoccaggio della frazione secca (segatura, sfalci di potatura,) che viene aggiunta all’organico. È realizzata integralmente in legno: lamellare di abete per il telaio esterno, massello di larice per i telai interni, le pareti divisorie e tutti i rivestimenti esterni. La struttura in abete è trattata con un impregnante naturale a base di oli vegetali e cera d’api. L’ assemblaggio avviene a secco senza l’uso di collanti chimici. Il progetto è stato curato dell’arch. Marco Terranova con i materiali forniti dalla segheria Vecchio di Linguaglossa. È, dunque, un prodotto totalmente fatto in Sicilia. L’installazione è avvenuta all’interno di un cantiere sotto la supervisione dell’architetto Terranova. Hanno partecipato attivamente 3 detenuti ogni giorno, affiancati dagli agenti della polizia penitenziaria. Il processo d’installazione è stato un importante occasione di condivisione, di scambio, e di formazione reciproca, civica e sociale. L’inaugurazione sarà nel pomeriggio di venerdì 29 settembre. Ai corsisti dei quattro laboratori organizzati nella due giorni di Ecofesta verrà offerto un pranzo preparato dai detenuti (grazie alla sponsorizzazione di Megara Ambiente e Agritecnica Scivoletto) e servito nella nuova aula realizzata per il corso alberghiero di prossimo avvio. Seguirà una breve cerimonia di consegna di encomi ai detenuti che si sono spesi per la realizzazione di queste opere. Dopo l’inaugurazione, al termine del pranzo, avverrà il primo conferimento con gli scarti di lavorazione del pranzo. L’assessore all’ambiente del Comune augustano, Pulvirenti, nel ringraziare la casa di reclusione per la grande disponibilità ha manifestato orgoglio per la realizzazione di un’opera che pone Augusta come “città virtuosa” (per usare le parole dell’ambientalista americano i Paul Connett.) L’appuntamento è in piazza Turati alle ore 18,30, per l’avvio dell’Ecofesta e il giorno successivo alle 9.30 al salone di rappresentanza del municipio per la sessione laboratoriale. L’Ecofesta si concluderà il 29 Settembre alle 21.30 alla villa comunale con il concerto gratuito dei Qbeta. Venezia: convegno “Hiv in carcere, il valore della prevenzione e della conoscenza” eventa.it, 29 settembre 2017 Presentazione dei risultati del progetto “Free to Live Well with HIV in Prison”. Il progetto “Free to live well with HIV in prison - FLEW” nasce da un’evidenza: l’elevata diffusione in ambito carcerario delle infezioni da HIV, HCV, HBV e TB con un’alta percentuale di detenuti inconsapevoli del proprio status sierologico. Il periodo di detenzione rappresenta una opportunità unica per i soggetti in stato di restrizione per conoscere I rischi dovuti a determinati comportamenti e per accedere a percorsi diagnostici e terapeutici. Sulla base di questi presupposti il progetto FLEW ha coinvolto 10 Istituti Penitenziari distribuiti in 6 Regioni italiane, tra cui 2 carceri con sezioni femminili e maschili e, per la prima volta, un carcere minorile. A tutti i detenuti coinvolti è stato offerto un programma di educazione sanitaria sull’infezione da HIV ed i test rapidi per HIV. Inoltre sono stati coinvolti anche il personale sanitario ed il personale penitenziario. Gli obiettivi fondamentali sono stati 3: implementare conoscenze, atteggiamenti e competenze dei detenuti per compiere scelte responsabili e consapevoli riguardo alla propria salute; implementare conoscenze, atteggiamenti e competenze del personale penitenziario; raccogliere elementi conoscitivi sulle necessità informative dei detenuti e predisporre strumenti per rispondere a tali necessità. Il progetto, nato dalla collaborazione di Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), NPS (Network Persone Sieropositive) e l’Università Cà Foscari di Venezia con il supporto incondizionato di ViiV Healthcare, è stato basato sulla logica della peer education e si è articolato in sei parti, tra loro strettamente interconnesse, diversificate a seconda dei beneficiari dell’intervento: intervento formativo/informativo a favore della persone detenute; accesso al test per l’HIV e per l’HCV; intervento nelle strutture penitenziarie per minori; attività di formazione a favore del personale di polizia penitenziaria, degli educatori e dei volontari; attività di ricerca e sperimentazione e conseguente predisposizione di materiale informativo; consolidamento della rete. Sono stati raggiunti dal programma di educazione sanitaria 680 detenuti, che includevano 29 donne e 52 minori, ed hanno rappresentato il 20.5% dei detenuti presenti. Nel carcere minorile di Casal del Marmo l’85% dei minori ha completato il questionario proposto. Il progetto ha coinvolto 220 agenti di polizia penitenziaria che hanno rappresentato il 10% dello staff presente; è stato dimostrato grande interesse per i fattori di rischio soprattutto connessi all’attività quotidiana svolta a contatto con i detenuti ed è stata richiesta la possibilità di eseguire i test rapidi HIV. Sono stati somministrati questionari di valutazione sulla conoscenza dell’infezione da HIV ai detenuti adulti, ai detenuti minori ed al personale penitenziario. L’analisi dei risultati dei questionari ha mostrato come lo stigma e le paure rispetto all’infezione da HIV siano ancora oggi presenti nella popolazione detenuta con timori maggiori nella popolazione detenuta più giovane. Parleremo di questo il 29 settembre 2017 dalle 9.00 alle 13.30, presso l’Aula Baratto dell’Università Cà Foscari di Venezia, con esperti e rappresentati del mondo sociale, scientifico e penitenziario. Un incontro-seminario, suddiviso in tre sessioni in cui, attraverso uno scambio tra relatori e platea, si cercherà di approfondire i risultati emersi dal Progetto che hanno bisogno di una maggiore e profonda comprensione per essere tradotti in consapevolezza collettiva. Per agevolare la partecipazione e condividere con voi il successo del progetto, i cui risultati scientifici sono rilevanti e certamente di interesse, Simspe rende disponibile un rimborso per le spese di viaggio, previa presentazione di preventivo di spesa e approvazione da parte del coordinamento del progetto Simspe. Arezzo: la “Notte dei Ricercatori”, nel carcere un progetto di filosofia con i detenuti gonews.it, 29 settembre 2017 La filosofia può aiutare i detenuti, supportare la loro emancipazione e la loro rieducazione. Con questo obiettivo, da oltre un anno, il Dipartimento di Scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale dell’Università di Siena porta avanti nella casa circondariale di Arezzo il progetto “Filosofia in carcere”. E oggi, venerdì 29 settembre, in occasione di “Bright”, la Notte dei ricercatori, dalle ore 16 sarà proposto un evento proprio all’interno del carcere di San Benedetto, al quale parteciperanno il direttore della struttura Paolo Basco e la direttrice del Dipartimento Loretta Fabbri, insieme ad Alessandro Fo, docente dell’Ateneo e responsabile di numerosi progetti nelle carceri toscane sulla poesia, la fiaba e la letteratura, e a Simone Zacchini, responsabile del progetto aretino. “La prima parte del lavoro si è conclusa - spiega Simone Zacchini - ed è servita anche a raccogliere gli scritti di una decina di detenuti dai quali emerge come la filosofia permetta di acquisire una visione più critica del contesto in cui vivono e di come possa essere usata per sviluppare una visione plurale dei significati che la realtà carceraria tende ad appiattire. Negli ultimi mesi - ha aggiunto il professor Zacchini - abbiamo iniziato un lavoro nuovo con detenuti e studenti universitari sul significato del ‘dialogò, su come appunto si dialoga, come si svolge in filosofia un’argomentazione, come si discutono le tesi di un interlocutore e come si supportano le proprie. L’intenzione è di arrivare a mettere in scena, nell’estate prossima, uno spettacolo teatrale”. Nel corso dell’evento in carcere saranno proposti anche alcuni interventi musicali, del baritono Mario Cassi, che interpreterà arie d’opera e canzoni napoletane tradizionali, e della studentessa universitaria Melania Mattii, oltre ad alcune pagine di Platone lette da Ivan Romano, giovane attore senese. Negli altri appuntamenti di “Bright” ad Arezzo, tutti dedicati al tema della diversità, con l’obiettivo di far conoscere ai cittadini l’importanza della ricerca per promuovere l’inclusione sociale, si parlerà di multi-cultura in classe (ore 10,30, aula magna del campus del Pionta), a partire dai video sul tema prodotti dagli studenti di alcune scuole superiori aretine, e di diversità e violenza di genere (ore 18, aula teatro del campus del Pionta) con gli studenti del liceo Colonna di Arezzo, che metteranno in scena lo spettacolo “Amore malato”, con il quale si chiuderà la Notte dei ricercatori ad Arezzo Sempre al Pionta, nel pomeriggio, verrà inoltre lanciato un crowdfunding per sostenere la realizzazione nel campus di alcuni servizi per supportare gli studenti con figli, progettati dagli stessi studenti universitari. Il programma dettagliato della Notte dei ricercatori ad Arezzo è pubblicato nel sito del Dipartimento dell’Università di Siena www.dsfuci.unisi.it e su www.bright-toscana.it. Bologna: colletta del libro per la scuola del carcere di Giada Magnani bandieragialla.it, 29 settembre 2017 I libri abbattono i muri, fanno evadere con la mente, ci insegnano ad essere liberi e sono uno strumento di riscatto. Per questo la Federazione librai e la Federazione cartolai di Confcommercio Ascom Bologna danno via alla V edizione della Colletta del libro e della cartoleria per la scuola del carcere, dal 4 ottobre al 31 ottobre. Il materiale sarà inviato alla scuola del carcere e agli studenti del centro per l’Istruzione degli adulti “Cpia Metropolitano”, che si occupa d’istruzione carceraria presso la Casa Circondariale di Bologna e presso l’Istituto Penale Minorile. L’iniziativa è nata cinque anni fa, poiché molti ragazzi in carcere non hanno la possibilità di acquistare i libri o farseli procurare dai genitori. I libri e il materiale di cartoleria della colletta saranno donati ai 160 detenuti che frequentano i corsi alla Dozza e al carcere minorile del Pratello. In quest’ultimo caso le letture devono essere facilitate, poiché spesso i bambini e ragazzi si approcciano per la prima volta ai libri. L’obiettivo è quello di dare l’opportunità a molti di imparare la lingua e alfabetizzarsi. Oltre a far acquisire competenze che saranno utili una volta usciti dal carcere, c’è soprattutto la voglia di ridonare dignità ai detenuti, offrendo loro uno strumento per sognare, immaginare e diventare consapevoli di una vita diversa da quella vissuta finora. Come partecipare all’iniziativa? I libri, soprattutto quelli scolastici, possono essere acquistati nuovi nei nostri negozi secondo una lista data dalle stesse professoresse della scuola del carcere. Lo stesso vale per la cancelleria, i quaderni e il materiale di cartoleria. Alla raccolta prendono parte tutte le librerie e le cartolerie di Bologna e provincia associate a Confcommercio Ascom. Inoltre, accedendo al sito www.itacalibri.it si può trovare una pagina dedicata a questa iniziativa, per acquistare e donare un libro per tutto l’anno. Un piccolo gesto può fare la differenza nella vita di un futuro uomo. Ferrara: da Tasso agli Ubu, la compagnia di attori-detenuti in scena ferraraitalia.it, 29 settembre 2017 Venerdì 29 e sabato 30 settembre sarà possibile conoscere il progetto Teatro Carcere di Ferrara, un’esperienza che prosegue dal 2005, dietro la guida del Teatro Nucleo. Due spettacoli e un incontro di analisi e presentazione alla libreria “IBS+Libraccio” inserito nel quadro del Partecipato di Internazionale. Si comincia venerdì 29 alle 11 alla libreria “IBS+Libraccio” con “Le aporie del Teatro Carcere” un incontro organizzato da Teatro Nucleo in collaborazione con l’Istituto Gramsci, durante il quale sarà presentata un’analisi del lavoro del teatro della Casa Circondariale “Carmelo Satta” attorno ai due spettacoli “L’irresistibile ascesa degli Ubu” e “Me che libero nacqui al carcer danno”, previsti in scena rispettivamente la sera stessa nella Casa Circondariale e la mattina seguente al Teatro “Julio Cortàzar”. Seguirà la presentazione della rivista “Quaderni di Teatro Carcere” edita dal Coordinamento Regionale Teatro Carcere, associazione attiva dal 2011, nata dal Forum - voluto dal Teatro Nucleo a Ferrara nel 2009 - e creata da tutti i teatri che in Regione realizzano attività nelle carceri. Il Coordinamento inoltre integra attraverso un Protocollo anche il Ministero della Giustizia (Prap) e ben tre assessorati regionali, con la consulenza scientifica dell’Università di Bologna, è stato riconosciuto organismo regionale dalla Legge 13 e funziona programmando diverse attività di promozione, produzione e ricerca. Infine durante l’incontro sarà presentato “Astrolabio”, il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Moderatore dell’incontro sarà Roberto Cassoli. Una presentazione di “Astrolabio” sarà anche offerta al pubblico che si recherà presso la Casa Circondariale per partecipare allo spettacolo “L’irresistibile ascesa degli Ubu”, sarà sufficiente arrivare sul posto alle 19.30, un’ora prima dell’inizio dello spettacolo. Sempre venerdì alle 20.30 all’interno della Casa Circondariale “Carmelo Satta”, si svolgerà la prima assoluta di “L’irresistibile ascesa degli Ubu”, prima puntata di una epopea di Padre UBU. L’accesso allo spettacolo è riservato ai soli prenotati e siamo felici di comunicare che i biglietti per questo debutto sono esauriti. Per chi non fosse riuscito a prenotarsi per il debutto di della nuova produzione, il programma prosegue il 30 settembre alle 11 al Teatro “Julio Cortàzar” con un evento speciale voluto anche per celebrare i 450 anni dell’anniversario della nascita di Claudio Monteverdi. Grazie a uno speciale permesso premio ottenuto da alcuni - le figure centrali - dei detenuti attori che hanno dato vita a “Me che libero nacqui al carcer danno”, lo studio sul “Combattimento di Tancredi e Clorinda” dalla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso, spettacolo diretto da Horacio Czertok, drammaturgia in collaborazione con Paolo Billi. Lo spettacolo è una produzione del Teatro Nucleo, realizzata con patrocinio del Comune di Ferrara- ASP, nell’ambito del progetto del Coordinamento Regionale Teatro Carcere. Inoltre contribuiscono e hanno contribuito a sostenere la ricerca nel laboratorio teatrale della Casa Circondariale di Ferrara i programmi Grundtvig, ora Erasmus Plus, dell’Unione Europea. Si tratta di un’occasione molto importante durante la quale sarà possibile conoscere uno spettacolo che ha segnato una tappa fondamentale del lavoro condotto nella Casa Circondariale dal Teatro Nucleo in questi anni. Sarà possibile assistere all’evento presentandosi al Teatro “Julio Cortàazar” (Via Ricostruzione, 40) alle ore 11 di sabato 30 settembre. Ingresso 10 euro, ridotto 5 euro (fino a 12 anni). È possibile prenotare il proprio posto scrivendo all’indirizzo: biglietteria@teatronucleo.org. Infoline: 0532464091 - 338676159. L’eutanasia dei diritti di Chiara Saraceno La Repubblica, 29 settembre 2017 Non c’è solo l’affronto allo Ius soli. Anche la legge sulle “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento sanitario”, il cosiddetto biotestamento, come quelle sulla cittadinanza e sul diritto a portare anche il cognome della madre (che pare persino sparita del tutto dall’agenda), sembra destinata a non arrivare alla meta, condannata all’eutanasia parlamentare. Dopo essere stata approvata dalla Camera in aprile, calendarizzata dapprima dal Senato a giugno, rimandata a settembre, ora è stata di nuovo rimandata in attesa dei pareri di varie commissioni: un’utile scusa per allungare i tempi e non portarla in aula. Si vogliono evitare scontri non solo con l’opposizione, ma anche interni alla maggioranza in un clima pre-elettorale difficile, dove la minoranza interna alfaniana ha assunto sempre più un enorme potere ricattatorio, giocato quasi esclusivamente nel contrasto all’estensione dei diritti civili. Esattamente ciò che vogliono coloro che si oppongono a qualsiasi riconoscimento del diritto di ciascuno, anche quando impossibilitato a farlo da sé, a rifiutare cure che ritiene un inutile prolungamento delle proprie sofferenze e/o di una vita che non considera più dignitosa. Eppure, quella approvata alla Camera dopo molte discussioni e mediazioni, è una normativa molto ragionevole e consapevole dei possibili rischi di arbitrio. Assegna, infatti, non solo diritti, ma anche molta responsabilità a tutti i soggetti coinvolti: il diritto, ma anche il dovere a essere adeguatamente informati sulla prognosi della propria situazione e sulle opzioni disponibili. Quindi il dovere dei medici di informare correttamente e con efficacia, dialogando con il malato e i suoi famigliari, prestando loro attenzione e tempo. Il diritto alle cure palliative e alla sedazione profonda, formalmente già in vigore, ma non sempre attuato per mancanza di risorse, tempo, competenze e luoghi adatti. Il diritto del minore a esprimere la propria volontà, che tuttavia deve essere sempre accompagnata dalla volontà dei genitori e, in caso di scelta di interrompere le cure, anche del giudice tutelare. Anche le cosiddette Dat, Dichiarazioni anticipate di trattamento, attraverso le quali una persona potrebbe lasciare le sue volontà circa i trattamenti sanitari a cui essere sottoposta, o da rifiutare nel caso non fosse più cosciente a causa di un incidente o una malattia, non solo devono essere rese con una modalità a rilevanza pubblica. Devono anche essere sottoposte a verifica di appropriatezza nel momento in cui dovessero essere concretamente attivate. È anche riconosciuto il diritto del medico all’obiezione di coscienza, nonostante la vicenda della obiezione di massa rispetto all’interruzione volontaria di gravidanza abbia ampiamente dimostrato quanto essa possa ledere di fatto i diritti delle donne che desiderano abortire. In altri termini, si tratta di una normativa molto (per alcuni troppo) cauta. Soprattutto, non è una legge sulla eutanasia, ma sul diritto a non contrastare la morte quando, non solo non vi è più speranza, ma le condizioni del mantenimento in vita sono intollerabili a giudizio dei diretti interessati. A questo proposito vale la pena di rammentare che già ora, se una persona è in grado di intendere e volere, è maggiorenne e può usare braccia e gambe, può lasciare un letto d’ospedale, rifiutare l’alimentazione forzata o una operazione chirurgica che ritiene inutile. Può farlo anche quando l’operazione non sarebbe inutile. Così come può stringere le labbra per impedire di essere nutrita, come ho visto fare da molti grandi anziani. Imporre le cure o il nutrimento in queste situazioni sarebbe considerato, anche penalmente, un reato contro l’integrità personale. Ma se per sventura si viene intubati e, come si dice colloquialmente, si “viene attaccati alle macchine”, anche se si è ancora in grado di esprimere la propria volontà questa non ha più valore. I dolorosi casi di Welby e altri testimoniano che non c’è grido, volontà tenacemente espressa che trovi ascolto legittimo in assenza di una norma. Può solo incontrare, come accade più spesso di quanto non si ammetta, l’ascolto pietoso, ma discrezionale e rischioso, di un medico che se ne assume il rischio. La legge in oggetto intende appunto correggere questo, ingiusto, scarto nel riconoscimento della libertà delle persone a preservare la propria integrità e autonomia di giudizio anche di fronte alla morte. In una società liberale e democratica non discriminare tra chi può esercitare il proprio diritto a scegliere di accettare la morte rifiutando le cure e chi, invece, non può farlo, pur volendolo ed esprimendosi in questo senso o avendolo detto quando ne era in grado, dovrebbe essere un valore e un obiettivo condiviso. Di più, è proprio la libertà dei più deboli e indifesi che andrebbe riconosciuta e sostenuta. Opporsi a questa libertà in nome del “valore della vita” è un atto di insopportabile sopraffazione e una mancanza di rispetto. Chi cavalca la rabbia dei poveri di Gianluca Di Feo La Repubblica, 29 settembre 2017 Si definiscono patrioti, ma sono soltanto fascisti. Gli stessi che vivevano relegati ai margini della cronaca. Ora hanno fiutato il vento vincente dei populismi e si impossessano del malessere delle nostre periferie. Periferie da troppo tempo abbandonate a se stesse, dove tutti si sentono traditi dalle istituzioni. Ovunque, ma soprattutto nella Capitale. “In almeno cinque o sei quartieri di Roma, Forza Nuova è egemone. Famiglie e cittadini scendono in piazza ad appoggiare le nostre iniziative, facendo emergere una vera questione sociale”, proclama Roberto Fiore, il leader più politico del neofascismo. A guidare ieri la resistenza contro lo sgombero di un alloggio popolare occupato abusivamente e destinato a una coppia italo-etiope c’era un suo vecchio sodale, Giuliano Castellino, più abituato a usare le mani che non le parole: una figura per decenni relegata nelle curve peggiori degli stadi e negli angoli oscuri degli intrecci malavitosi, che adesso si erge a “patriota”. Castellino e i suoi hanno lanciato pietre contro la polizia, ferendo tre agenti, ma sono riusciti nel loro scopo: imporsi come i Robin Hood della maggioranza rabbiosa di queste borgate. Da mesi la fascia di palazzi desolati che circonda la Capitale si è trasformata nel laboratorio di un populismo apertamente neofascista. Squadracce che si impadroniscono con la violenza della piazza, che sfruttano ogni problema per sbandierare il manifesto della loro ideologia, semplificata in un unico slogan che legittima qualunque abuso: “Prima gli italiani”. Un manifesto di rapida presa in quartieri dominati dalla paura verso lo straniero, dove persino chi saccheggia abitualmente i supermercati - come è accaduto un mese fa al Tiburtino III - si muta in eroe della rivolta contro gli immigrati. Un copione che ormai si ripete dal 2014, dall’assedio nero al centro per profughi minorenni di Tor Sapienza. Non importa chi abbia torto o ragione, ogni singolo episodio diventa un focolaio di intolleranza. Tre giorni fa l’aggressione di un malese, subito arrestato, contro due fidanzati che si baciavano nei pressi del centro islamico di via San Vito, a pochi metri da Santa Maria Maggiore, ha innescato la mobilitazione di tutte le destre, da Giorgia Meloni a Casa- Pound. Tutte pronte a invocare la chiusura dell’unico luogo di preghiera della comunità del Bangladesh che vive e lavora nella zona di Piazza Vittorio, senza mai avere creato problemi. E lunedì notte c’è stata la guerriglia di Guidonia, con la caccia all’uomo lanciata da cento persone dopo che un rom alla guida di un furgone aveva scatenato il panico facendo gimkane sui marciapiedi. “Noi qui già siamo considerati scarti, se qui ci mandano gli scarti di Roma (riferito ai nomadi) finisce che tra poveri, lasciati soli, vince FS più prepotente. È normale, è la legge della strada”, ha dichiarato uno degli “insorti” a Federica Angeli. Può uno Stato arrendersi alla legge della strada? L’epicentro di questo malessere che issa sul podio i nuovi fascisti è la periferia romana, dove ogni concetto di convivenza si sta sgretolando nel crollo dei servizi elementari, come la pulizia urbana e i trasporti pubblici. Le stesse borgate che quindici mesi fa decisero il trionfo di Virginia Raggi adesso si mostrano deluse dai Cinque Stelle, come da tutti gli altri partiti tradizionali. Ma l’abisso sociale in cui sprofondano questi territori è questione antica, che nessuno ha voluto affrontare. A ogni elezione si ripetono promesse che non vengono mantenute, si elaborano piani d’intervento mai attuati, c’è persino una commissione parlamentare d’inchiesta che da oltre un anno accumula audizioni e studi sul tema. Il tempo per i discorsi è finito, a Roma e in tutta Italia. Non possiamo permetterci di ignorare oltre la situazione di questi quartieri dove l’insicurezza genera intolleranza e amplifica i messaggi del nuovo fascismo: in gioco c’è l’essenza della nostra democrazia, con il rischio di vedere rapidamente crescere il peso elettorale di formazioni contrarie ai valori della Costituzione. Serve fermezza nel reprimere chiunque faccia bandiera della violenza e della xenofobia. Ma servono soprattutto provvedimenti urgenti e concreti per testimoniare la presenza delle istituzioni. Non esistono più un noi e un loro: quello che accade lì, condizionerà anche il futuro politico del Paese. Migranti. Ius soli, Delrio contro Boschi: “la legge si può ancora approvare” di Leo Lancari Il Manifesto, 29 settembre 2017 Il ministro dei Trasporti fa capire che il governo potrebbe ancora porre la fiducia sulla legge. Pressing anche da parte della chiesa. La possibilità di approvare o meno lo ius soli è diventata ormai un balletto quotidiano in cui, a turno, esponenti del governo si smentiscono a vicenda, rendendo il futuro della legge una sorta di lotteria che verrà decisa forse da chi prenderà la parola per ultimo. Solo mercoledì sera era stata la sottosegretaria Maria Elena Boschi a chiudere definitivamente i giochi intervenendo alla festa dell’Unità di Roma: “Lo dico con dispiacere perché è una legge giusta, ma è complicato avere i numeri per approvarla. Lo faremo nella prossima legislatura se il Pd avrà una maggioranza numericamente più importante”. Parole che erano state lette dai più come la rinuncia da parte del governo, ma anche del Pd, a battersi per il provvedimento che riconoscerebbe la cittadinanza a 800 mila ragazzi nati in Italia da genitori immigrati. Anche perché le dichiarazioni della Boschi arrivavano subito dopo la decisione, presa nel pomeriggio al Senato nel corso della capigruppo, di non inserire neanche il provvedimento nel calendario dei lavori di ottobre. ma soprattutto dopo che sia il ministro degli esteri Alfano, che quello della Salute Lorenzin, entrambi di Ap, si erano detti decisi a non votare un’eventuale fiducia sulla legge. Passano però solo ventiquattro ore e ieri, a sorpresa, cambia di nuovo tutto. A parlare questa volta è il ministro dei Trasporti Graziano Delrio, cattolico e deciso sostenitore del provvedimento. Delrio fa riferimento a quanto promesso a luglio dal premier Gentiloni, quando disse che in autunno avrebbe posto la fiducia. Ma soprattutto smentisce quando detto dalla Boschi. “L’autunno è appena cominciato e l’inverno non è ancora arrivato - dice. C’è ancora tempo per approvare la legge. Gli italiani sono ancora favorevoli allo ius oli, l’opinione pubblica non ascolta chi grida più forte”. In realtà proprio i sondaggi. secondo i quali l’approvazione del ddl sulla cittadinanza farebbe perdere il 2% dei voti al Pd, hanno spiegato finora le incertezze di governo e maggioranza, per non parlare dell’opposizione di Alternativa popolare. Ieri comunque è stato il giorno dei favorevoli alla legge, con la chiesa che è tornata a fare pressing. Parole a favore dello ius soli sono arrivate sia dal segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, che dal segretario di stato della Santa Sede Pietro Parolin. Con il primo che fa arrabbiare le persone omosessuali creando un contrasto - in realtà inesistente - tra due diritti: “Si è accelerato sui diritti delle persone dello stesso sesso - ha detto Galantino riferendosi alle unioni civili - non si è voluto farlo con quelli degli italiani mantenuti senza cittadinanza”. Cosa fare della legge è sicuramente stato uno dei punti che il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda ha discusso ieri a palazzo Chigi con il premier. Sono settimane che Gentiloni non interviene sull’argomento, neanche per zittire i suoi ministri, mentre Matteo Renzi gli ha scaricato già da tempo la responsabilità di ogni scelta sullo ius soli. “Spetta al premier decidere se mettere o meno la fiducia”, ha spiegato più volte il segretario del Pd. Con Zanda, Gentiloni si sarebbe limitato a confermare la linea attendista: se si trovano i numeri per far approvare la legge si va avanti, altrimenti no. Linea che sembra ancora una volta escludere la possibilità di un voto di fiducia. La confusione generata dall’altalena di questi giorni è tale che anche Romano Prodi a un certo punto sente il bisogno di fare chiarezza: “Ma di che stiamo parlando?” ha chiesto ieri l’ex presidente del consiglio. “Lo ius soli è una cosa normale. Chi fa la scuola qui, chi lavora qui ne ha diritto. L’errore è che lo abbiamo mischiato con i problemi dell’immigrazione”. A spingere per il via libera alla legge anche il presidente del Senato Pietro Grasso, secondo il quale entro la fine dell’anno per lo ius soli potrebbero presentarsi una nuova possibilità: “Sono fiducioso - ha detto ieri - che, dopo aver messo in salvo i conti, magari a novembre possa aprirsi una finestra per calendarizzare e avere la maggioranza per approvare lo ius soli”. Migranti. A Foggia rivolta contro il ghetto: “siamo ostaggi della mafia nigeriana” di Niccolò Zancan La Stampa, 29 settembre 2017 Il Centro migranti è stato inghiottito dalla baraccopoli abusiva. I cittadini: “Abbandonati dallo Stato, qui lavorano solo i neri”. Nel punto esatto in cui un blindato dell’esercito italiano presidia l’ingresso posteriore del Cara di Borgo Mezzanone, uno dei tre più grandi centri per richiedenti asilo d’Italia, incomincia la bidonville dei migranti. La chiamano “la pista”. Ogni giorno tirano su una baracca nuova, sono ormai più di settecento. Rumore di martelli su lamiere, chiodi che trapassano vecchie tavole di compensato. Vedi montagne di rifiuti stratificati, roghi di plastiche, fumi neri, niente bagni, un travaso continuo di persone e le ragazze, nuove anch’esse, appena arrivate da Foggia, in attesa su vecchi divani sfondati davanti alla baracca bordello. C’è una grande discoteca sotto una tettoia verde. La chiesa degli afghani. Il ristorante dei pakistani. Ma la zona più grande è quella gestita dalla mafia nigeriana. Dove comanda un tale con due occhi allucinati, che seduto davanti a una bandiera americana, con tre cani tristi fra i piedi, domanda: “Tutto a posto?”. Si potrebbe iniziare da una ragazza nigeriana di 23 anni di nome Victory Uwangue, spogliata e bruciata viva proprio qui, nel mese di dicembre, probabilmente perché voleva opporsi al suo destino. Oppure dalla richiesta ancora valida, formalizzata da quasi tutti i residenti del paese, per ottenere una linea di pullman dedicata a loro, un pullman per soli bianchi: “Perché la circolare è piena di stranieri. Noi siamo 700, loro più di 5000 e non ce la facciamo più”. O magari dal ragazzo del Gambia arrestato per rapina e accusato ingiustamente anche di stupro, un errore molto cavalcato che ha portato la gente in piazza e qualcuno ad armarsi. Oppure si potrebbe ricordare il bracciante senegalese investito da un pirata della strada mentre tornava da una giornata di lavoro a 3 euro l’ora, tirato giù come una bestia randagia sulla provinciale per Cerignola. Hanno appena cancellato le scritte sui muri contro la responsabile locale della Caritas, l’insegnante Dina Diurno: “Te la fai con i neri”. Hanno appena condannato a 14 e 10 anni di reclusione i contadini Ferdinando e Raffaele Piacente, padre e figlio, che inseguirono nei campi e ammazzarono a fucilate, sparandogli alle spalle, Mamaodou Sare dal Burkina Faso, colpevole di aver cercato di rubare due meloni. Eppure, no. La cosa più impressionante è un’altra. È questa cancellata divelta. Il confine saltato. I militari di là con le radio, di qua la sopraffazione, mentre va in scena un passaggio incontrollato e osmotico fra il centro per i richiedenti asilo e la bidonville della pista. Adesso, proprio lì nel varco, un buco nella rete, c’è un signore che urla perché non vuole fotografie, mentre smercia bottiglie di birra doppio malto marca “Pals Strong”. Ammesso che siano ancora in funzione, ci sarebbero quattro telecamere lungo il perimetro del Cara. Ma non servono a niente. E se si osserva la scena dall’alto, si può notare come le baracche ormai circondino il centro su due lati, quasi inglobandolo. “È questo che cerchiamo di ripetere da mesi”, dice l’insegnante Diurno. “Qui i problemi sono troppi. Si mischiano diverse forme di illegalità. Diversi tipi di migrazione”. Assieme ad altre cinque volontarie, sta cercando di recuperare vecchi abiti che potrebbero tornare utili. “Siamo soli. Abbandonati. Inascoltati. Qui manca tutto, bisognerebbe ripristinare la legalità ad ogni livello”. Nel bar principale, il Caffè del Borgo, i migranti vengono chiamati “carbonella” e “Africa”. Accanto al frigo delle bevande ci sono due foto di Mussolini. All’angolo con il locale, c’è la fermata del pullman che ogni quarantacinque minuti si riempie e si svuota. Non c’è altro modo per andarsene da qui, verso Foggia. La signora Annamaria Goffredo è una di quelle che ha chiesto e continua a chiedere una linea dedicata: “Ci insultano, fanno la pipì per strada. Le nostre ragazze vorrebbero prendere il pullman, ma non possiamo lasciarle andare in questa situazione. Abbiamo chiesto alla squadra mobile e alla prefettura, hanno risposto che non possono farci niente. Dicono che non ci sono altri mezzi disponibili. E poi c’è un altro problema grave, che non favorisce un clima pacifico. Solo i neri hanno un lavoro. Per noi non ce n’è”. I neri hanno un lavoro accettando condizioni da schiavi. Li vedi uscire ogni mattina dal Cara attesi dai caporali bulgari, che prenderanno la paga dagli agricoltori italiani. Pomodori, carciofi, olive. Chi lavora dieci ore nei campi arriva a guadagnare 34 euro per la giornata. Ma è ovvio che nella bidonville chiamata “la pista” gli affari sono anche altri. Il barista del Caffè del Borgo si chiama Alex D’Antini: “Cosa vi devo dire? Che molti di loro hanno la macchina ma nessuna assicurazione? Che se fanno un incidente scappano e abbandonano il mezzo? Che spesso vengono qui con 7 documenti diversi per fare il Postepay? Che alcuni hanno mazzette di soldi in mano alte così, troppi soldi?”. È tutto estremo, qui. Saltato. Come quel confine fra il Cara e la pista. Un anno fa, il giornalista dell’”Espresso” Fabrizio Gatti aveva fatto un reportage dentro al centro per richiedenti asilo, “il ghetto di Stato”. Il suo lavoro aveva suscitato grande indignazione e messo in moto una commissione parlamentare d’inchiesta. Oggi la situazione è peggiorata. Il ghetto è rimasto identico. Intorno si è allargata a dismisura la bidonville gestita dalla criminalità organizzata. La gente del posto non ne può più. E per quanto possa sembrare un’affermazione retorica, è difficile dare torto al barista Alex D’Antini: “Se volete sapere come sia la vita qui, vi affitto una casa a spese mie. Accomodatevi. Venite ad abitare per un mese da queste parti. Poi ne parliamo”. Segnatevi questo punto sulla mappa: Borgo Mezzanone, Foggia, Puglia, Italia. È il prossimo posto dove trionferanno il populismo, la destra estrema e anche la voglia di vendetta. Qui ogni giorno perdono i poveri e i più poveri ancora, in un presente indistinto dove lo Stato appare fallito. Negli ultimi mesi, da queste parti, si è fatta vedere una sola forza politica: i fascisti di Forza Nuova. Marocco. Nella rivolta del Rif i detenuti entrano in sciopero della fame controlacrisi.org, 29 settembre 2017 Gli avvocati: “Alcuni gravemente indeboliti”. L’Osservatorio marocchino sulle prigioni e la Campagna Internazionale di solidarietà con il movimento popolare del Rif noto come ‘Hirak’ esprimono preoccupazione per la salute di alcuni detenuti in sciopero della fame appartenenti al Hirak. Numerose persone recluse a Casablanca, 32 secondo il portale d’informazione “Rif online”, hanno smesso di mangiare da circa due settimane. La decisione è stata presa in seguito a una sentenza della giustizia marocchina che ha rigettato, il 15 settembre, diverse domande di liberazione condizionale da parte di detenuti incarcerati per aver partecipato a manifestazioni del Hirak. Alcuni dei reclusi che aderiscono alla protesta sono “gravemente indeboliti dal digiuno”, secondo quanto riferiscono alla stampa i loro avvocati, in particolare coloro che hanno smesso di bere oltre che di mangiare. Secondo testimonianze raccolte dal portale d’informazione di Radio France International, l’amministrazione penitenziaria ha messo in atto pesanti ritorsioni dopo l’inizio della protesta, con furti in cella e trattamenti degradanti. Oltre a chiedere la liberazione dei 300 detenuti politici vicini al Hirak, i prigionieri in sciopero continuano a rivendicare maggiori impegni governativi per lo sviluppo della regione del Rif. Qui il movimento popolare noto come Hirak o Al-Hirak Al-Shaabi è cominciato circa undici mesi fa nella città di Al-Hoceima. Le manifestazioni si sono propagate con più vigore dalla fine dello scorso maggio, estendendosi alle maggiori città del Paese. Myanmar. La persecuzione dei Rohingya e la richiesta di embargo sulle armi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 settembre 2017 Oggi il Consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà in sessione pubblica per esaminare la situazione di Myanmar. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, riferirà sulla crisi in atto nello stato di Rakhine. La riunione del Consiglio di sicurezza si svolge quasi un mese dopo l’inizio della brutale campagna dell’esercito di Myanmar nello stato di Rakhine, lanciata all’indomani degli attacchi armati contro decine di posti di blocco, rivendicati dall’Esercito di salvezza dei rohingya dell’Arakan, che il 25 agosto avevano causato almeno 12 morti tra le forze di sicurezza. Da allora, quasi mezzo milione di rifugiati ha oltrepassato il confine col Bangladesh. In altri termini, poco meno della metà di una popolazione di 1.200.000 abitanti ha abbandonato le sue case. In poco più di un mese i morti sono stati centinaia. Amnesty International ha documentato come le forze di sicurezza abbiano incendiato interi villaggi abitati dai Rohingya e abbiano sparato sugli abitanti in fuga: in quanto massicci e sistematici attacchi contro la popolazione civile, si tratta di crimini contro l’umanità. Nonostante il governo di Myanmar sostenga che le operazioni militari siano terminate, Amnesty International ha verificato che gli incendi sono stati appiccati fino alla settimana scorsa. La situazione è resa peggiore dalle gravi limitazioni che Myanmar ha imposto all’arrivo degli aiuti umanitari nello stato di Rakhine. Amnesty International ha ricevuto notizie attendibili sul rischio che sopraggiunga la fame, dato che l’offensiva dell’esercito costringe a lasciare i villaggi e che chi vi rimane riesce a malapena a procurarsi da mangiare. Amnesty International ha esortato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite - e l’Italia, come membro non permanente, può avere un ruolo importante - a fare tutto il possibile per porre fine ai crimini contro l’umanità e alla pulizia etnica in corso contro la popolazione civile Rohingya in Myanmar, anche imponendo un embargo totale sulle armi dirette verso il paese. Arabia Saudita. Le donne potranno guidare, ma sono ancora molti i diritti negati di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 settembre 2017 Dall’estate 2018 non solo uomini al volante. I Saud provano a ripulirsi l’immagine ma la caduta del divieto è merito delle attiviste. Donald Trump, uomo che ha più volte calpestato la dignità delle donne, ha applaudito con entusiasmo al “passo in avanti positivo” fatto dall’alleata monarchia saudita che ha accordato alle donne la possibilità di prendere la patente e, dalla prossima estate, di guidare l’auto. “Il presidente Trump saluta positivamente la decisione del regno saudita di autorizzare le donne a guidare nel regno. Si tratta di un’avanzata positiva per la promozione dei diritti delle donne in Arabia saudita”, ha scritto la Casa bianca in un comunicato. Dichiarazioni e commenti simili si leggono e si ascoltano ovunque in queste ore, in Occidente come nel mondo arabo. Già si parla di un’Arabia saudita avviata sulla strada del progresso grazie a re Salman e si esalta il giovane principe Mohammad promotore del piano di riforme economiche e sociali “Saudi Vision 2030”. Tanti sottolineano che tre giorni fa, per la prima volta, e grazie ancora al giovane Mohammed, l’Arabia saudita ha permesso alle donne di andare allo stadio per partecipare alle celebrazioni dell’87esimo anniversario della fondazione del regno. Ed entusiaste sono anche la giapponese Toyota e la sudcoreana Hyundai, dominatrici del mercato dell’auto in Arabia saudita, che prevedono un vertiginoso aumento delle vendite di autovetture. Certo, non si può non salutare con favore la decisione presa a Riyadh che però non è merito del principe o di suo padre ma della determinazione delle donne saudite che in anni recenti e più lontani, come Manal Sharif nel 2011, hanno sfidato, pagando di persona, il divieto di guida imposto dall’alleanza monarchia-clero wahhabita. Grazie ai social sono emerse la campagna #IwillDriveMyself e altre iniziative ma nessuno può dimenticare le 50 donne che nel 1990 si misero alla guida contemporaneamente finendo poi arrestate, detenute e, infine, costrette a lasciare il lavoro e private della cittadinanza. Allo stesso tempo questa novità potrebbe indurre ad allentare l’attenzione sull’Arabia saudita erroneamente vista sulla strada di profonde riforme, ad ogni livello. Al contrario nel regno proprietà della famiglia al Saud sono tanti i diritti negati alle donne, in un sistema politico e sociale che proibisce la formazione di partiti, movimenti, sindacati e associazioni, e nega libertà di pensiero ed espressione. Le donne potranno guidare l’auto ma in generale la loro libertà di movimento resta molto limitata: non possono viaggiare se non accompagnate da un tutore (il padre, un fratello o un parente maschio) che deve dare l’approvazione anche se vogliono andare all’università, intraprendere attività lavorative e persino se devono sottoporsi a trattamenti medici. Il sospetto è che la monarchia saudita abbia scelto di muovere questo passo non per rispettare un diritto sacrosanto bensì per ragioni economiche - darà una scossa al mondo del lavoro - e per assicurare immunità, almeno parziale, alle sue politiche interne e regionali, contando sul favore che il via libera alla guida alle donne avrebbe ottenuto nei Paesi occidentali, fondamentali per la sua sicurezza e difesa. Mentre da anni in Medio Oriente si parla solo di violazioni di diritti umani in Siria, l’Arabia saudita tiene nelle sue prigioni migliaia di detenuti politici - tra cui intellettuali, scrittori e semplici blogger, porta avanti una guerra sanguinosa in Yemen, non protegge i diritti di milioni di lavoratori stranieri presenti nel suo territorio e esegue annualmente dozzine di condanne a morte. Sul piano religioso, i Saud hanno intensificato la repressione delle proteste nelle regioni orientali del Paese popolate da sciiti e una roccaforte delle rivolte, la città di Awamiya, è stata in gran parte distrutta nel silenzio internazionale. L’entusiasmo per il “passo positivo” fatto dalla monarchia ha inoltre oscurato un rapporto diffuso nelle ultime ore da Human Rights Watch sull’istigazione all’odio contro gli sciiti che svolgono il clero e le istituzioni pubbliche. Il rapporto (“Non sono i nostri fratelli”) denuncia come sia consentito ai religiosi wahhabiti di demonizzare, anche in documenti ufficiali, i cittadini sciiti. “L’istigazione all’odio favorisce la discriminazione sistematica della minoranza sciita ed è usata da gruppi violenti per attaccarla”, spiega Sarah Leah Whitson, direttrice Hrw per il Medio Oriente.