"La salute mentale e psichica dei reclusi deve essere tutelata" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2017 Intervista al Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Rems, salute mentale in carcere, 41 bis. Ne parliamo con Stefano Anastasia, tra i fondatori dell’associazione Antigone, da più di un anno garante dei detenuti della regione Lazio. Da poco è stato attivato il servizio di Telemedicina rivolto alla popolazione detenuta del carcere di Regina Coeli e quello di Civitavecchia. È importante implementare l’offerta dell’assistenza sanitaria in carcere? Si tratta di un servizio che era già stato avviato dall’ospedale romano San Giovanni in forma sperimentale, ma che poi si interruppe per un motivo logistico. Sono stati presi degli accorgimenti ed ora è stato riattivato. L’assistenza sanitaria in carcere è l’esigenza primaria che avvertono i detenuti. Trattandosi frequentemente di una popolazione che ha una storia di difficoltà e marginalità sociale, le difficoltà e le sofferenze in carcere sono molto più diffuse rispetto a quello che avviene nel mondo libero. Il problema enorme dei detenuti è che non possono provvedere da sé come fanno i cittadini normali, ovvero comprare le medicine e/o farsi assistere da un ambulatorio medico. Il carcere in sé è patogeno, la detenzione aumenta lo stress psicologico. È motivo di ansia e depressione. Per questo la salute è la principale preoccupazione del mondo penitenziario. Lei non parla solo di salute fisica, ma anche mentale. Si è interessato molto della situazione psichiatrica, in particolar modo dell’efficienza delle residenze per l’esecuzione misure di sicurezza sanitaria. Ho visitato tutte e cinque le Rems della regione Lazio e ho una valutazione abbastanza positiva. Ovviamente chi conosce gli ex Opg, non può che apprezzare il passo avanti con la loro chiusura. Le Rems hanno certamente alcune difficoltà gestionali e, in alcuni casi, problemi riguardanti i diritti della dignità della persona come sollevato dalla recente relazione del comitato europeo per la prevenzione della tortura. Casi che però non riguardano le misure di sicurezza della regione Lazio. Le difficoltà maggiori, in realtà, sono fuori. Non si riescono a gestire tutte le complesse domande di assistenza psichiatrica e le Rems non possono far fronte a questo problema. Quest’ultime sono in overbooking. Per fare un esempio, nella regione Lazio ci sono 91 ospiti nelle Rems, mentre in lista d’attesa ci sono 40 persone. Qui nasce un problema. Una parte sono in libertà, un’altra invece è in carcere. Una situazione che ritengo inaccettabile perché a mio parere si può configurare come sequestro di persona. Non parliamo di persone raggiunte da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, ma di custodia presso le residenze sanitarie. E qui parliamo di casi che possono sfociare in tragedia. Sì, come il caso di Valerio Guerrieri. Un ragazzo di 22 anni che si è ammazzato durante la permanenza al carcere di Regina Coeli. Al di là di ogni valutazione circa il grave discorso dei suicidi che avvengono in carcere, lui lì non doveva starci. Da dieci giorni aveva un provvedimento di misura di sicurezza e non doveva stare a Regina Coeli. Ad oggi, solo in quel carcere, ci sono sei internati illegittimamente. Parliamo di persone che dovrebbero stare in una Rems, oppure in libertà nell’attesa che vengano liberati i posti. C’è una evidente disparità. Come mai alcune persone possono stare in libertà in lista d’attesa, mente altre vengono recluse in carcere? Secondo lei, perché? Prima di essere tradotte in una Rems, abbiamo delle persone in libertà e nell’attesa non commettono alcun reato. Quindi c’è un’eccessiva preoccupazione da parte della magistratura che ordina la restrizione in carcere. Inoltre, aggiungo, che il problema dell’overbooking delle Rems è dovuto al fatto che molto spesso la magistratura ricorre a misure cautelare di internamento verso quelle strutture, mentre nella realtà in alcuni casi si possono evitare. Ma questo è scaturito dal fatto che le misure di sicurezza non sono in strutture come gli Opg. Se prima, un magistrato, ci pensava due volte nell’utilizzare l’internamento in quelle strutture, oggi lo concede con più facilità visto che sono residenze non contenitive. In sintesi, non tutti i reati commessi da persone con patologie psichiatriche sono tali da giustificare l’internamento. Qui subentra il ruolo dei dipartimenti di salute mentale. Sì, qui c’è un altro grande problema. La riforma della legge Basaglia che ha abolito i manicomi si regge esattamente sul fatto che nel territorio esista una rete di servizi e presa in carico delle persone affette di patologie psichiatriche, comprese quelle che hanno commesso dei piccoli reati tali da non giustificare il ricorso al contenimento. Dovrebbero attivarsi di più. L’altro versante riguarda il sistema penitenziario. All’interno del carcere, il dipartimento di salute mentale deve cambiare modalità di azione rispetto al passato. Un tempo interveniva per trasferire i detenuti con patologie psichiatriche negli Opg, oggi, invece, deve prendere in carico i detenuti psichiatrici prescrivendo dei piani terapeutici e di sostegno. Come del resto fa il servizio per le dipendenze. Un modello, quest’ultimo, che dovrebbe essere esteso anche nei confronti della salute mentale in carcere. A breve, secondo le parole del guardasigilli riferite durante un incontro con l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini e il giornalista Massimo Bordin, dovrebbero giungere a Pa- lazzo Chigi i decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Intanto tra quei decreti dovrà essercene anche uno ad hoc riguardante la riforma delle misure di sicurezza, un aspetto molto importante proprio per quello che ci siamo detti. Se i decreti tengono fede alle indicazioni che sono maturate nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale, si tratterebbe di un passo in avanti molto importante nel senso della decarcerizzazione e delle garanzie dei detenuti. Detto ciò, non nascondo che non sarà facile visto che siamo a un passo da una campagna elettorale politica. Mi auguro che il ministro Orlando abbia il coraggio e la determinazione di tenere la barra dritta sulle idee che sono maturate durante gli stati generali. Visto che parliamo dei diritti delle persone condannate e quelle che si trovano sotto processo, rischia di diventare la pietra dello scandalo da parte delle campagne politiche forcaiole. Lei è garante anche della regione Umbria, un recluso al 41 bis di Terni ha avuto la possibilità di ottenere un colloquio con lei senza restrizioni. Sì, grazie all’esposto presentato dal recluso, il magistrato Fabio Gianfilippi ha stabilito che i detenuti possono fare un colloquio con i garanti in maniera riservata, senza vincoli e senza vetro divisorio. In sintesi, senza tutte quelle misure che vengono disposte quando un recluso nel carcere duro deve fare un colloquio con i propri famigliari. Però l’amministrazione penitenziaria si oppone e ha fatto ricorso, perché considera i colloqui svolti dalla figura istituzionale del garante uguale a quella dei familiari. Dap: aumentano i detenuti al 41bis ma mancano strutture, creata una "lista d’attesa" corrierequotidiano.it, 28 settembre 2017 Negli ultimi anni si registra un "aumento del numero di detenuti sottoposti al regime di 41 bis", ma non vi è una "sufficiente ricettività: alcuni sono in "lista d’attesa" a causa della mancanza di strutture adeguate". A lanciare l’allarme è stato il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, durante l’audizione svolta oggi in Commissione diritti umani del Senato. "Ho avuto anche incontri alla Direzione nazionale antimafia con i sostituti procuratori, perché si ragioni sul limitare il numero di persone da sottoporre al 41 bis", ha aggiunto il capo del Dap, che, in particolare ha messo in evidenza il "gravissimo ritardo" che riguarda la realizzazione della struttura per chi è sottoposto al regime di carcere duro nel penitenziario di Cagliari-Uta: "La competenza è del Mit - ha spiegato Consolo - la ditta che seguiva i lavori è fallita, durante un sopralluogo la struttura è risultata in stato di abbandono". Approvato il nuovo Codice antimafia: confisca dei beni anche per la corruzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2017 Misure di prevenzione estese agli indiziati di reati contro la pubblica amministrazione e stalking. Trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari. Confisca rafforzata. Controllo delle imprese infiltrate e misure di sostegno alle aziende confiscate meritevoli. È legge con il voto della Camera il nuovo Codice antimafia con un pacchetto di norme già nella fase di redazione oggetto di tensioni e polemiche. Che hanno poi avuto un riflesso ieri con l’approvazione di un ordine del giorno sul punto più delicato, l’estensione dell’area delle misure personali e patrimoniali a chi è anche solo indiziato di associazione a delinquere finalizzata a peculato, corruzione propria e impropria, corruzione in atti giudiziari, concussione e induzione indebita, oltre allo stalking. L’ordine del giorno impegna il Governo a valutare, dopo un monitoraggio sulla prima applicazione delle novità, un ripensamento all’equiparazione tra mafioso e corrotti. Intanto però, dalla Cina, esulta il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "c’è una spinta significativa alla trasparenza della gestione dei beni confiscati e a superare anche elementi di opacità che hanno caratterizzato la questione negli anni passati, diminuendo molto la discrezionalità". In questo senso, osserva Orlando, la legge è molto importante "perché credo si tratti di fare i conti con un patrimonio che ha dimensioni enormi, quindi deve essere gestito secondo regole più chiare rispetto a quelle seguite finora". Il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione è reso più trasparente, garantito e veloce (trattazione prioritaria con rafforzamento delle sezioni competenti, copertura immediata dei vuoti in organico, relazioni periodiche sull’operatività delle sezioni, utilizzo delle videoconferenze, immediata decisione sulle questioni di competenza). Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo è inserito tra i soggetti titolari del potere di proposta delle misure di prevenzione. Per facilitare le indagini patrimoniali tutti i titolari del potere di proposta di prevenzione avranno accesso al Sid, il sistema di interscambio flussi dell’agenzia delle Entrate. Il sequestro di partecipazioni sociali "totalitarie" si estende a tutti i beni aziendali. A provvedere materialmente al sequestro sarà ora la polizia giudiziaria (non più l’ufficiale giudiziario). Se il bene immobile è occupato senza titolo, il giudice delegato ordina lo sgombero. Gli immobili, tra l’altro, potranno anche essere concessi in locazione alle forze di polizia o alle forze armate e ai vigili del fuoco. È stabilito espressamente che non si può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli è frutto di evasione fiscale. Se il tribunale non dispone la confisca, può applicare l’amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario. È ampliato l’ambito di applicazione di sequestro e confisca per equivalente, mentre la confisca allargata diventa obbligatoria anche per alcuni ecoreati e per l’autoriciclaggio e trova applicazione anche in caso di amnistia, prescrizione o morte di chi l’ha subita. In caso di revoca della confisca, la restituzione del bene avviene per equivalente se nel frattempo è stato destinato a finalità di interesse pubblico. È introdotto il nuovo istituto del controllo giudiziario delle aziende quando sussiste il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose che ne condizionino l’attività. Il controllo giudiziario, previsto per un periodo che va da un anno a tre anni, può essere chiesto volontariamente anche dalle imprese che hanno impugnato l’informazione antimafia interdittiva di cui sono oggetto. Una volta disposto, gli effetti dell’interdittiva restano sospesi. Gli amministratorii giudiziari dovranno essere scelti tra gli iscritti all’ Albo secondo regole di trasparenza che assicurino la rotazione degli incarichi, al ministro della Giustizia spetterà individuare criteri di nomina che tra l’altro tengano conto del numero degli incarichi in corso (comunque non superiori a 3). Nuovo Codice antimafia. Una scelta sbilanciata di dubbia costituzionalità di Marcello Clarich Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2017 Modifiche al codice antimafia approvate ieri in via definitiva dal Parlamento, ma con una "riserva mentale" nella parte in cui equiparano corrotti e mafiosi ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione. Nel varare in via definitiva il pacchetto di disposizioni, la Camera dei deputati ha approvato anche un ordine del giorno. Un ordine del giorno che impegna il governo a monitorare e a proporre eventuali modifiche delle norme che consentono di sottoporre a misure di prevenzione personali e patrimoniali gli indiziati di reato di associazione a delinquere finalizzata a una serie di reati contro la pubblica amministrazione. Ma perché i dubbi dei deputati, già emersi durante l’iter legislativo che ha portato a vari rimaneggiamenti del disegno di legge originario? Va anzitutto ricordato che il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati l’11 novembre del 2015 prevedeva l’applicazione delle misure preventive personali e patrimoniali agli "indiziati" dei principali tipi di reati collegati alla corruzione previsti dal codice penale. In questo modo però si sarebbe esteso moltissimo un istituto che per tradizione riguarda soprattutto alcune tipologie di delinquenti abituali per i quali si può giustificare una sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Ogni estensione del campo di applicazione va calibrata con estrema cautela. L’"indiziato" di un reato infatti è in una posizione ben diversa dal "condannato" con sentenza passata in giudicato. Attenua, ma non supera il problema il fatto che anche le misure di prevenzione sono disposte da un giudice all’esito di un procedimento in contraddittorio. In uno Stato di diritto esse si possono giustificare, appunto, soprattutto nei confronti di delinquenti professionali o abituali (come i mafiosi) i cui patrimoni, non proporzionati al reddito ufficiale, sono il risultato di attività illecite reiterate. Di recente il nostro Paese è stato anzi condannato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (sentenza del 23 febbraio 2017 nella causa de Tommaso contro Italia) in relazione alla possibilità di applicare misure di sorveglianza speciale preventive sul presupposto di una generica pericolosità di certi individui. Il fatto corruttivo episodico, contemplato nella versione originaria del disegno di legge, non sembrava dunque conforme ai principi costituzionali ed europei. Il testo approvato dal Senato il 7 luglio scorso ha cercato di correre ai ripari restringendo il campo di applicazione della norma agli indiziati dei reati di truffa aggravata e di associazione a delinquere semplice con finalità corruttive. Ma anche la nuova formulazione non elimina del tutto i dubbi sulla razionalità e conformità alle norme costituzionali espressi dai penalisti più sensibili al rispetto delle garanzie dei cittadini e da più parti politiche. La Camera dei deputati in sede di esame finale del testo si è così trovata di fronte a un’alternativa poco piacevole: emendare il testo inviandolo nuovamente al Senato con il rischio, negli ultimi mesi della legislatura, di far naufragare una legge che contiene comunque molte novità importanti; approvare un testo con alcune pecche piuttosto gravi. Da qui l’ordine del giorno, che però lascia il tempo che trova atteso che l’impegno del governo a monitorare la legge è generico e sembra ancora meno credibile la prospettiva di modifiche legislative a tempi brevi. In definitiva, non resta che confidare sul senso di misura dei giudici che applicheranno le nuove norme e forse su qualche intervento dei giudici di Strasburgo o del Palazzo della Consulta. Processo penale. Più vincoli agli imputati e ai pm sulle impugnazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2017 Il ministero della Giustizia alza il sipario sui primi provvedimenti di attuazione della legge delega sul processo penale. All’ordine del giorno del preconsiglio dei ministri in calendario per questo pomeriggio (alle 15,30) con riunione del Consiglio dei ministri fissata per le 18, figurano infatti i decreti legislativi che rivedono la disciplina delle impugnazioni e danno esecuzione alla riserva di Codice. Spazio poi all’esame definitivo per il decreto che rivede il libro XI del Codice di procedura penale. Di rilievo l’intervento sulle impugnazioni, con l’obiettivo di restituire efficienza, coniugando garanzie e tempi: sarà così limitata la ricorribilità per Cassazione delle sentenze d’appello, emesse nei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace, ai vizi di giudizio e di procedura. Riformulata poi l’area di appellabilità oggettiva del pubblico ministero: l’accusa potrà così appellare liberamente tutti i proscioglimenti, ma potrà impugnare in Corte d’appello le condanne solo nel caso in cui hanno modificato il titolo di reato, oppure hanno escluso l’esistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o ancora hanno stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Rivista poi la possibilità di appello dell’imputato, in modo da permettergli di impugnare tutte le condanne, e vietargli (nuovamente) di appellare i proscioglimenti pronunciati perché "il fatto non sussiste" o "l’imputato non lo ha commesso". Esclusa poi l’appellabilità delle condanne alla sola pena dell’ammenda e dei proscioglimenti o dei non luogo a procedere relativi a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Per quanto riguarda il decreto sul nuovo libro XI si stabilisce l’esecuzione sul territorio italiano delle decisioni emesse dalle autorità giudiziarie degli Stati membri e la possibilità per l’autorità giudiziaria italiana di chiedere a queste ultime l’esecuzione delle proprie decisioni. Si prevede la trasmissione diretta delle decisioni tra le autorità giudiziarie: l’autorità italiana riceve, quindi, direttamente le decisioni e i provvedimenti esteri da riconoscere ed eseguire nel territorio dello Stato; l’esecuzione non deve, tuttavia, violare gravemente i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato, i diritti fondamentali della persona e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La documentazione e le ulteriori informazioni necessarie per l’esecuzione sono oggetto di trasmissione diretta tra le autorità giudiziarie. È prevista la tempestività del reciproco riconoscimento delle decisioni, comprese quelle sulle responsabilità delle società, l’insindacabilità nel merito delle decisioni emesse all’estero, la loro ricorribilità nei modi ordinari e il riconoscimento degli eventuali diritti dei terzi di buona fede. Il concorso truccato per magistrati. Un avvocato svela la truffa del 1992 di Selma Chiosso La Stampa, 28 settembre 2017 Il Csm ammette: il suo scritto non è mai stato esaminato. Era vestita di bianco, Francesca Morvillo. è il 23 maggio 1992 e all’hotel Ergife di Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. Lei alle 16 saluta, deve prendere l’aereo per Palermo. Rimarrà uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Concorso tanto particolare da finire ora in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Il dietro le quinte lo si deve 25 anni dopo alla caparbietà di Pierpaolo Berardi, avvocato astigiano. L’allora giovane legale è uno dei candidati. Quando legge il titolo del tema di penale si frega le mani soddisfatto: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale; la prova di amministrativo fila liscia; quella di diritto privato e romano è stata oggetto di un seminario seguito poco prima. Un anno dopo, quando escono i risultati degli scritti, non riesce a credere ai suoi occhi: bocciato. Ed è lì che inizia la sua battaglia; da un lato Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, dall’altra il ministero e il Csm che oppongono resistenza. L’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale. "Mi dissero al telefono che il verbale non c’era" racconta oggi. Quando, dopo un ennesimo vittorioso ricorso al Tar, ha prove e verbali ecco cosa scopre: "I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no". Va avanti e la legge gli consente di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scopre altre perle: temi riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro (si potevano solo consultare i codici) è degno di Pico della Mirandola: pagine e pagine copiate da manuali di Diritto. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del tribunale dei ministri. Il ministero con estremo imbarazzo risponde a Berardi: le sue prove non sono in archivio. Un giallo. Partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo. Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna. Caso Cucchi. Un nuovo testimone conferma: "Stefano non stava in piedi" di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 settembre 2017 Al via il 13 ottobre il processo ai cinque carabinieri. E domenica si corre per il Terzo Memorial. C’è un nuovo testimone in grado di confermare le gravi condizioni fisiche in cui versava Stefano Cucchi quando, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, venne portato in carcere a Regina Coeli dopo essere stato arrestato dai cinque carabinieri che il 13 ottobre prossimo saliranno sul banco degli imputati nel processo bis. Il 22 settembre scorso l’uomo, che ha visto e parlato con Stefano quella notte in una cella del carcere romano, ha finalmente trovato il coraggio di rispondere alle domande del pm Giovanni Musarò della procura di Roma. "Lo ha fatto perché ora il clima è cambiato, è caduto il muro di omertà", racconta l’avvocato Fabio Anselmo durante la conferenza stampa tenuta ieri a Palazzo Madama con Ilaria Cucchi e il presidente della Commissione diritti umani Luigi Manconi. "Una deposizione, quella del nuovo teste, molto importante perché ci descrive uno Stefano particolarmente in difficoltà fisiche per le percosse ricevute, aggrappato alle sbarre e che non riesce a reggersi in piedi, con buona pace di coloro, periti compresi, che parlavano di lesioni dolose lievi", riferisce ancora il legale che spiega: "L’uomo era stato già interrogato dagli inquirenti ma finora non aveva parlato perché era in carcere, a Regina Coeli, e aveva paura, ma ora descrive anche il clima in cui era costretto a vivere chi era depositario di una verità diversa da quella cosiddetta ufficiale". "Adesso tutto è cambiato: nel prossimo processo l’imputato non sarà Stefano Cucchi", afferma, piena di speranza, la sorella Ilaria che ricorda il lungo e dolorosissimo percorso intrapreso dalla sua famiglia quasi otto anni fa, proprio in quella stessa sala Nassirya del Senato, per appurare la verità sulla morte del giovane che il prossimo 1° ottobre avrebbe compiuto 39 anni. Quattro gradi di giudizio e una lunga campagna denigratoria "da parte di una certa stampa, di un certo maleodorante ceto politico e perfino di una certa procura - ricorda il senatore Manconi - tesi a sfregiare l’identità di Stefano Cucchi e a sostenere la tesi che il ragazzo fosse stato il principale se non l’unico responsabile della propria morte". Una lunga storia processuale, a carico solo dei medici dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma dove il 22 ottobre 2009 Cucchi morì, finita con una prescrizione: infatti la sentenza del processo d’appello bis che aveva assolto i cinque medici che avevano in cura il detenuto è stata annullata in Cassazione il 19 aprile scorso, giusto il giorno prima che il reato di omicidio colposo contestata ai sanitari decadesse per scadenza dei termini. "Incalcolabile il danno fatto alla Giustizia fino ad oggi", sottolinea Ilaria Cucchi. Ma il 13 ottobre andranno a processo i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco (accusati di aver pestato Cucchi fino a procurargli le lesioni che secondo le perizie medico legali di parte ma anche della procura sono poi divenute mortali), e i loro colleghi Vincenzo Nicolardi e il maresciallo Roberto Mandolini, comandante della stazione Appia dove Cucchi fu portato dopo l’arresto, che dovranno rispondere di falso, falsa testimonianza e calunnia (gli ultimi due reati sono però a rischio prescrizione). Uno dei punti più importanti del dibattimento - e più critici - sarà proprio quello medico-legale, nell’ambito del quale si dovrà verificare se le lesioni procurate dal pestaggio dei carabinieri abbiano causato, come sostiene la famiglia e il pm, la morte di Cucchi. Ma "la nuova perizia che ha provato la frattura recente delle vertebre e i nuovi accertamenti della procura aprono però nuove speranze - sostiene l’avvocato Anselmo - e sgomberano il campo dalle falsità fin qui affermate". "Noi abbiamo avuto la "fortuna" di arrivare a un processo vero - conclude Ilaria - ma non dimentichiamo che ogni giorno ci sono persone che subiscono soprusi senza poter ottenere giustizia". Anche per loro, per non dimenticare i "tanti Stefano Cucchi", domenica 1° ottobre la famiglia "festeggerà" il compleanno del giovane, ora che si prospetta una nuova chance di arrivare alla verità, con il "Terzo Memorial Stefano Cucchi" a cui aderiscono moltissime associazioni locali e nazionali. Due gli appuntamenti della giornata: al mattino, l’Unione italiana sportiva per tutti (uisp.it) organizza una gara agonistica di corsa di 6 km e una non agonistica di 3 km all’interno del Parco degli Acquedotti. Dalle 19 in poi la maratona diventa musicale e artistica e si trasferisce all’Ex Dogana di San Lorenzo dove madrina della serata sarà Jasmine Trinca. Caso Soldi. Morte per Tso violento: cominciato il processo con 100 testimoni di Federica Cravero e Jacopo Ricca La Repubblica, 28 settembre 2017 I difensori degli agenti municipali hanno chiamato a deporre anche l’ex sindaco Fassino e l’ex capo della Polizia municipale, Gregnanini. A oltre due anni dalla morte si è aperto oggi il processo per la morte di Andrea Soldi, il 45enne torinese malato di schizofrenia paranoide morto il 5 agosto 2015 durante un trattamento sanitario obbligatorio in piazzetta Umbria. Alla sbarra lo psichiatra dell’Asl che aveva in cura l’uomo e che ha partecipato al Tso assieme a tre agenti della polizia municipale di Torino del "nucleo mirati", per tutti e 4 l’accusa, sostenuta dalla pm Lisa Bergamasco, è di omicidio colposo. Il giudice ha deciso di sentire tutti i 106 nomi presentati da accusa, difese e parti civili al processo, Anna Ronfani (per lo psichiatra), Stefano Castrale, Gino Obert e Gian Maria Nicastro. L’avvocato Castrale, che difende i vigili urbani ha chiesto che a testimoniare ci siano anche l’allora sindaco, Piero Fassino, l’ex assessora alla polizia municipale, Giuliana Tedesco, e l’ex comandante Alberto Gregnanini. Tutte testimonianze che intendono fare luce su quali fossero le prassi e le regole solitamente adottate nei confronti di pazienti psichiatrici che devono essere ricoverati in modo coatto. Inoltre gli avvocati della difesa, hanno chiesto alla corte di eseguire una perizia per accertare le cause del decesso e quindi stabilire con una consulenza super partes, che vada oltre quelle del pm e delle parti, il nesso di causalità tra la morte di Soldi e le operazioni svolte dai tre vigili urbani e dallo psichiatra finiti alla sbarra per il trattamento sanitario obbligatorio. All’udienza di questa mattina anche il padre e la sorella della vittima, Renato e Maria Cristina, assistiti dall’avvocato di parte civile, Giovanni Soldi. La loro richiesta di risarcimento, che si aggira sui 700mila euro, non ha finora trovato l’ok degli imputati e dei possibili responsabili civili, Asl e Città di Torino che si erano fermati sotto i 500mila euro. Fra il pubblico, presenti pure numerosi colleghi dei vigili, che hanno voluto manifestare così la loro vicinanza; a fine udienza hanno anche circondato e scortato i tre verso l’uscita. La causa è stata aggiornata al 23 ottobre. Le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte da sole come fonte di prova Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2017 Dichiarazioni della parte offesa - Unica fonte di prova della colpevolezza del reo - Ammissibilità - Condizioni - Verifica di attendibilità più rigorosa rispetto alle deposizioni dei testimoni Le dichiarazioni della parte offesa possono essere legittimamente poste da sole a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto. Il vaglio positivo dell’attendibilità del dichiarante deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, per cui tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. La credibilità della persona offesa dal reato rappresenta, affermano i giudici, una questione di fatto, che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 19 settembre 2017 n. 42749. Dichiarazioni della parte offesa - Unica fonte di prova della colpevolezza del reo - Ammissibilità - Indagine necessaria sulla credibilità di chi l’ha resa. La deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere anche da sola assunta come fonte di prova della colpevolezza del reo, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa: ciò vale, in particolare, proprio in tema di reati sessuali, l’accertamento dei quali passa, nella maggior parte dei casi, attraverso la necessaria valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 1 dicembre 2011 n. 44644. Dichiarazioni della parte offesa - Unica prova della responsabilità dell’imputato - Ammissibilità - Condizioni. La deposizione della parte offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato purché sia sottoposta a indagine positiva circa la sua attendibilità: infatti, alle dichiarazioni indizianti della persona offesa non è indispensabile applicare le regole di cui all’articolo 192 c.p.p., commi 3 e 4 che richiedono la presenza di riscontri esterni. Tuttavia, considerato l’interesse di cui la parte offesa è portatrice, soprattutto quando essa è costituita parte civile, più accurata deve essere la valutazione e più rigorosa la relativa motivazione ai fini del controllo d’attendibilità rispetto al generico vaglio cui vanno sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone: in tale ottica, può concretamente apparire opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 27 luglio 2010 n. 29372. Dichiarazioni della parte offesa - Fonte di prova - Condizioni - Obbligo di motivazione - Reati sessuali - Accertamento - Valutazione delle versioni opposte di imputato e parte offesa. È principio consolidato che la testimonianza della persona offesa, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata: in particolare, allorché si verta in tema di reati sessuali che, commessi naturalmente "in privato", non possono che essere accertati attraverso la valutazione e la comparazione delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 4 luglio 2008 n. 27322. Incidente stradale, prelievo ematico inutilizzabile se non necessario per la cura di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2017 Corte d’Appello di Cagliari - Sezione 1 - Sentenza 18 maggio 2017 n. 360. A seguito di un incidente stradale, il prelievo ematico operato dai sanitari da cui risulta l’assunzione di sostanze psicotrope (o di alcool oltre la soglia consentita) da parte del conducente, non è utilizzabile come prova del reato, qualora la anamnesi del Pronto soccorso - nel caso, trauma torace, contusione bacino - non lo rendeva necessario, ed esso sia stato eseguito su indicazione della Polizia. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Cagliari, sentenza del 18 maggio 2017 n. 360, accogliendo il ricorso di una donna condannata, in primo grado, a otto mesi di reclusione (pena sospesa) ed all’ammenda di 3mila euro, per aver guidato di notte in condizioni di alterazione psicofisica (erano infatti state trovate tracce di cocaina nel sangue), con l’aggravante di aver provocato un incidente. Secondo la ricorrente infatti dal momento che il prelievo non era stato effettuato nell’ambito di un protocollo sanitario, "avrebbe dovuto farsi avviso alla persona della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, derivandone - in difetto - l’inutilizzabilità degli esiti dell’accertamento". Non è dunque applicabile in questa ipotesi l’orientamento di legittimità che prevede l’utilizzabilità degli accertamenti disposti in casi di incidente anche se privi del consenso della parte. Inoltre, prosegue la decisione, benché sia ormai decorso il termine massimo di prescrizione, deve pronunciarsi l’assoluzione nel merito. Va infatti applicato l’indirizzo di Cassazione per cui "una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui "positivamente" deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze". Un principio, prosegue la decisione, applicabile essendo fondata l’eccezione di inutilizzabilità degli accertamenti e mancando altri elemento di prova. L’avvertimento del diritto a farsi assistere da un difensore, spiega infatti la Corte, comporta una "nullità di ordine generale a regime intermedio". E, come affermato dalle Sezioni Unite, "la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., può essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado". Il termine dunque risultava rispettato, e la nullità non può reputarsi sanata "con la conseguenza di rendere inutilizzabile a fini probatori l’esito di quell’accertamento". Né l’istruttoria ha evidenziato prova aggiuntive, "neppure di carattere indiziario", idonee a precludere una pronuncia assolutoria, in luogo del semplice decorso della prescrizione. Dalla lettura degli atti e dalla deposizione dell’agente della Polizia Municipale, infatti, emerge che la donna "era fuori dal veicolo, "in piedi, normale", e non vi era alcuna traccia, all’interno del veicolo, o sulla persona, di stupefacente o comunque indicativa di una sua recente assunzione. Ubriaco provocò incidente, sentenza creativa: "In discoteca a spiegare i rischi dell’alcol" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 settembre 2017 Il 59enne milanese provocò un incidente a dicembre 2015, mentre si trovava in stato di ebbrezza. Il giudice Guido Salvini ha sospeso il procedimento e disposto la messa alla prova per sei mesi presso l’Associazione vittime della strada. Uscire dalla discoteca alle tre del mattino mezzi ubriachi o "strafatti" di droga, stare per mettersi alla guida, e però trovare un tizio che ti mette in mano una cartolina simil-multa con tutte le possibili disastrose conseguenze di quel superficiale comportamento e con le sanzioni potenzialmente rischiate: potrà capitare a Milano il giovedì e il sabato notte a quanti, fuori dalle discoteche, si imbatteranno non in uno strano vero vigile urbano che elevi contravvenzioni, ma in un normale automobilista che sino all’impatto con il Tribunale era proprio come loro. E che invece adesso, allo scopo di provare a estinguere il processo intentatogli per aver provocato due anni fa un incidente stradale guidando in stato di ubriachezza, svolgerà un lavoro di pubblica utilità nell’Associazione dei familiari delle vittime della strada, piazzando sul parabrezza delle auto o consegnando alle persone le cosiddette "multe morali" quale contenuto del progetto di messa alla prova valsogli ora davanti al giudice la sospensione del processo penale per sei mesi. Introdotta nel 2014 anche per i maggiorenni sulla scia della pluriennale esperienza positiva tra i minorenni, la messa alla prova è un istituto giuridico con il quale lo Stato prende in considerazione la possibilità di rinunciare alla propria potestà punitiva di un catalogo di reati sotto i 4 anni di pena massima, a condizione però che abbia successo un periodo di prova dell’imputato sotto la guida e il controllo dell’autorità giudiziaria. Prova di che? Della responsabilizzazione dell’autore del reato, e anche della ricomposizione di un rapporto tra l’autore del reato e la vittima, o (laddove non vi sia una vittima diretta) con la collettività. Dunque questo istituto - nel quale ha un ruolo cruciale l’Uepe, e cioè l’"Ufficio esecuzione penale esterno" che predispone il programma di trattamento, ne controlla l’esecuzione, e infine ne stila gli esiti in una relazione conclusiva al giudice - è un ibrido: la messa alla prova un po’ è "pena" (perché come una sanzione tradizionale prevede obblighi e prescrizioni imposte dal giudice all’autore del reato), e un po’ invece è "giustizia riparativa", con elementi di mediazione e condotte riparatorie. Nel caso giudicato dal Tribunale di Milano, un imprenditore 59enne alle tre di notte del 20 dicembre di due anni fa, uscendo da una discoteca e mettendosi alla guida in stato di pesante ubriachezza, aveva provocato un incidente stradale andando a sbattere da solo, per fortuna senza coinvolgere altri veicoli o investire pedoni. Prima ancora del processo il difensore Giovanni Brambilla Pisoni ha chiesto la sospensione del procedimento e la messa alla prova, il pm ha dato parere favorevole, l’Uepe ha proposto un programma di trattamento, e il giudice Guido Salvini ha valutato che possa avere un esito positivo. Così, a fronte della sospensione del procedimento per 6 mesi, l’imputato affidato all’Uepe svolgerà un lavoro di pubblica utilità nella Onlus "Associazione familiari e vittime della strada". E cioè dovrà "distribuire fuori dalle discoteche, a Milano e nell’hinterland, materiale con un messaggio di sensibilizzazione contro l’uso dell’alcol alla guida", e "partecipare al progetto di cosiddetta "multa morale": progetto che "consiste nell’individuare persone che commettono infrazioni (quali il telefono alla guida o il mancato uso delle cinture), e consegnare loro una cartolina con la quale vengono illustrate le conseguenze". Il 9 aprile 2018 le parti si rivedranno in Tribunale per fare il punto dell’esperimento in una apposita udienza, e, se la messa alla prova avrà avuto esito favorevole, il giudice dichiarerà estinto il reato. Genova: genitori in carcere, come recuperare il rapporto con i figli piccoli? di Anna Spena Vita, 28 settembre 2017 Finanziato dal Bando Prima Infanzia, approvato dell’impresa sociale Con i Bambini, "la barchetta rossa e la zebra" vuole combattere la povertà educativa minorile dei figli di genitori detenuti nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Ponte Decimo di Genova. Nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Ponte Decimo di Genova, la vita dei detenuti cambia passando attraverso il rapporto che hanno con i loro figli e viceversa. Il progetto si chiama "La Barchetta rossa e la Zebra", Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus è il promotore dell’iniziativa con il supporto di associazioni locali, con lunga esperienza maturata nelle due case circondariali, che avranno come capofila la cooperativa sociale il Cerchio delle Relazioni. Finanziato dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni), approvato dell’impresa sociale "Con i Bambini" la barchetta e la zebra vuole combattere la povertà educativa minorile dei figli di genitori detenuti. "Questo non è un progetto pensato a tavolino", racconta a vita.it Maria Chiara Roti, vicepresidente di Fondazione Rava. "La barchetta e la zebra nasce dal basso, da un bisogno intercettato sul campo. La direttrice del carcere di Marassi, Maria Milano, vedendo l’impegno della Fondazione nel progetto "A Casa del re" ci ha chiesto di fare qualcosa per i figli delle persone detenute nel suo carcere; allora non avevamo fondi". Lo stimolo a fare di più arriva sempre da chi è sul campo. "Le abbiamo però promesso che avremmo provato a risolvere questo bisogno non appena ne avessimo avuto la possibilità: il bando di Coi Bambini ci è sembrata subito l’occasione giusta". I bimbi beneficiari del progetto saranno circa 240. Durerà tre anni: i primi sei mesi saranno dedicati alla ristrutturazione degli ambienti: "Creando spazi protetti", spiega Maria Chiara Roti, "sarà possibile sostenere e tutelare i bambini, evitando loro lunghissime attese prima di poter accedere all’interno delle strutture penitenziarie e offrendo attività formative e ludiche che favoriscano l’incontro e la relazione con il genitore". La seconda fase, che durerà 24 mesi sarà tutta dedicata all’operatività e alla formazione di personale dedito all’accoglienza delle famiglie nelle carceri. "Ma sia chiaro", aggiunge Maria Chiara, "l’incontro tra il bimbo ed il genitore rimane un momento privato". "La detenzione porta a situazioni di sofferenza, separazione, rottura, allontanamento, che possono avere gravi ripercussioni a livello psicologico. Per questo abbiamo costituito un documento di lavoro ad hoc con partner pubblici, Associazioni locali e di volontariato che erogheranno, sia servizi di accoglienza e presa in carico delle famiglie in situazione di esclusione sociale, sia in condizione di reclusione di uno dei componenti. Inoltre potremo contare sulla consulenza e supporto di Bambinisenzasbarre e Reggio Children". Anche se il progetto nasce per rispondere alla povertà educativa, il raggio d’azione sarà molto più grande: "Questa povertà e fragilità delle famiglie di un detenuto solo la punta di un iceberg", dice Maria Chiara. "Dentro le famiglie di un detenuto ci possono essere tanti altri tipi di povertà: affettive, sanitarie, scolastiche. Conoscere le famiglie significa prenderle in carico. Avere la possibilità concreta di aiutarle. Creare con loro una relazione basata sulla fiducia". "La barchetta rossa e la zebra" sperimenta soluzioni innovative finalizzate a ridurre la povertà educativa, sociale, sanitaria e psicologica dei minori, figli di detenuti, attraverso un approccio territoriale di rete, che attiva effetti positivi quindi non solo sui bambini ma anche sui genitori e sulle loro famiglie. Ed anche sul sistema penitenziario e giudiziario, sui decisori politici, sul territorio e la società nel suo insieme. Catanzaro: Radicali in visita al carcere "finalmente attuata la sorveglianza dinamica" cn24tv.it, 28 settembre 2017 Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, accompagnato da Valentina Anna Moretti e da Marco Calabretta, si è recato a visitare nel carcere di Catanzaro "Ugo Caridi" per verificare le condizioni di detenzione e la gestione dell’Istituto. Ad accogliere la delegazione radicale, autorizzata dai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, il Direttore della Casa Circondariale Angela Paravati, l’Ispettore Capo Giacinto Longo ed altro personale del Reparto di Polizia Penitenziaria in servizio nell’Istituto. La delegazione ha visitato la struttura dell’ex centro diagnostico terapeutico, oggi denominata Servizio Multi-professionale Integrato di Assistenza Intensiva, avviata nelle scorse settimane e destinata all’assistenza sanitaria specialistica delle persone detenute provenienti sia dagli Istituti Penitenziari della Regione Calabria che da altre Regioni d’Italia. Per tanti anni i Radicali Italiani hanno battagliato in Parlamento per l’apertura del Centro Clinico e lo dimostrano le numerose Interrogazioni rivolte al Governo ed in particolare modo ai Ministri della Giustizia e della Salute in questa e nelle precedenti legislature. "Abbiamo visitato tutta la struttura, nonostante ancora non sia avviata a pieno regime. Per il momento sono attive solo la riabilitazione estensiva a ciclo continuativo con 11 posti letto ed i servizi sanitari generali ed ambulatoriali dell’istituto con 15 branche specialistiche e di un’attività di riabilitazione di tipo fisioterapico con 6 posti letto, anche con una piscina ed attrezzature di ultima generazione. Prossimamente e, comunque entro la fine dell’anno, appena l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro ultimerà la selezione del personale paramedico, saranno attivati anche i servizi psichiatrici (3 e 4 piano) e, più precisamente, la Sezione per la tutela intramuraria della salute mentale composta da 8 posti letto e da una Sezione per l’Osservazione Psichiatrica con altri 5 posti letto. Sulla questione, prosegue il radicale Quintieri, continueremo ad essere vigili affinché le procedure non vadano per le lunghe come spesso avviene in questi casi. Tant’è vero che, nei prossimi mesi, torneremo a far visita all’Istituto Penitenziario di Siano. Per il resto, la delegazione, ha visitato anche la Sezione che una volta ospitava i semiliberi, recentemente ristrutturata con manodopera detenuta, ove sono state allestite - ed a breve saranno funzionanti - 5 camere con annessi servizi, dalle quali i detenuti potranno collegarsi in videoconferenza per assistere ai processi che li riguardano, diminuendo le numerosissime traduzioni extramoenia. Nell’Istituto, al momento della visita, erano presenti 530 detenuti, 83 dei quali stranieri, 285 con condanna definitiva ed altri 245 giudicabili (imputati, appellanti e ricorrenti). Tra di essi 254 (100 definitivi) appartengono al Circuito dell’Alta Sicurezza (236 all’AS3 criminalità organizzata e 18 all’AS1 ex 41 bis, molti dei quali ergastolani ostativi). Inoltre, per quanto riguarda i detenuti "comuni", vi erano 273 persone appartenenti al Circuito della Media Sicurezza (114 definitivi, 68 dei quali a custodia aperta, c.d. "sorveglianza dinamica") ed infine 1 semilibero e 2 internati. Il personale del Reparto di Polizia Penitenziaria presente in Istituto è di 280 unità mentre quello della professionalità giuridico pedagogica è di 5 unità. Entrambi sono decisamente carenti rispetto alle esigenze dell’Istituto ed andrebbero subito potenziati. Recentemente, grazie alla Cassa delle Ammende, sono stati approvati e finanziati 2 progetti, presentati dalla Direzione dell’Istituto ed i cui lavori inizieranno a breve. Uno riguarda il rifacimento del campo sportivo e l’altro la realizzazione dell’area verde, entrambi per la media sicurezza. Altre proposte sono state avanzate ma si è ancora in attesa del parere del competente Ufficio del Provveditorato Regionale della Calabria. È stata ampliata l’area verde con la creazione di un vigneto ed è stato ceduto il laboratorio di ceramica ad una Cooperativa che al termine del corso di formazione previsto per il 23 ottobre, procederà all’assunzione di 2 detenuti appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza. Quello che di più positivo abbiamo riscontrato è che il 4 piano del nuovo Padiglione della Media Sicurezza, composto da 68 detenuti, è stato finalmente avviato a "custodia aperta". Catanzaro (dopo Paola che però ha un Padiglione specifico) è il primo Istituto in Calabria ad attuare il modello operativo della "sorveglianza dinamica". Mentre in tutta Italia, da tempo, sono aperte anche le Sezioni di Alta Sicurezza, in Calabria, stiamo ancora valutando, sperimentalmente, di aprirne qualcuna di Media Sicurezza. Questo, conclude Emilio Enzo Quintieri, capo della delegazione radicale, è inaccettabile perché costituisce una disparità di trattamento e più volte lo abbiamo già segnalato ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria chiedendo che le direttive dipartimentali vengano rispettate ed attuate anche in Calabria. Livorno: "troppi detenuti e docce ko, le Sughere sono indecenti" di Gianni Tacchi Il Tirreno, 28 settembre 2017 La denuncia del Garante regionale Corleone dopo la visita all’interno del carcere "La cucina della media sicurezza andrebbe chiusa per motivi igienici: è vergognosa". "La sezione di media sicurezza è sempre più invivibile e gli interventi di ristrutturazione in quest’area restano la nostra priorità: le docce sono inagibili e i detenuti sono costretti ad andare in un’altra struttura del carcere per lavarsi, mentre la cucina è in condizioni indecenti e andrebbe chiusa subito per motivi igienici. Ma i problemi non mancano neanche tra i piani dell’alta sicurezza, che non sono adatti per far scontare pene così lunghe alle persone". E proprio sulle criticità della sezione che riunisce anche 33 ergastolani, dopo la visita di ieri mattina all’interno delle Sughere, si è concentrato il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone, che aveva "ricevuto numerose lettere dall’alta sicurezza per denunciare condizioni di vita inaccettabili". Accompagnato dal garante comunale Marco Solimano e da Alessandro Scotto che fa parte dello stesso ufficio livornese, Corleone ha riscontrato anche i danni causati dal tragico nubifragio dello scorso 10 settembre. "L’alluvione ha colpito alcune apparecchiature elettriche e mandato in tilt il sistema informatico del carcere - ha sottolineato - inoltre l’acqua ha invaso un magazzino in cui c’erano anche capi di abbigliamento dei detenuti. Insomma, problemi su problemi. Noi denunciamo da anni che qualcosa non va in questo carcere, ma adesso la situazione è diventata insostenibile sotto ogni punto di vista". È il sovraffollamento, secondo il garante regionale, a rappresentare il problema principale dell’alta sicurezza. "In questa sezione ci sono 117 detenuti - ha evidenziato Corleone - ma il limite massimo è di 99. Com’è possibile? È possibile perché alcune celle, nate e strutturate per ospitare due persone, hanno tre letti. E questo è un problema enorme per chi deve passare la vita in carcere. Inoltre i passaggi sono troppo stretti e mancano gli spazi fuori dalle celle per studiare e socializzare". E poi c’è l’assurdità di una cucina nuova, completata due anni fa, che però non è mai stata usata. "Anche questo è qualcosa di incredibile - ha aggiunto - i locali non hanno superato il collaudo perché le colonne portanti hanno un diametro inferiore rispetto a quanto previsto dalla legge, dunque mancano le condizioni di sicurezza. Per l’adeguamento stiamo aspettando l’intervento del Provveditorato per le opere pubbliche, ma intanto i pasti per i detenuti della sezione di alta sicurezza vengono preparati nella cucina del reparto di media sicurezza, dove ci sono altri 112 carcerati. Ecco perché bisogna intervenire urgentemente anche sotto questo punto di vista". In mezzo alle riflessioni sul futuro delle Sughere è finita anche la Casa di reclusione dell’isola di Gorgona, che dipende da Livorno e non ha una sua autonomia. "Questo non può essere più accettato - le parole di Corleone - Gorgona ha circa 100 detenuti e una sua specificità, pertanto obbliga ad avere delle responsabilità precise. Serve una direzione diversa rispetto a Livorno, altrimenti il rischio è quello di occuparsi dell’isola solo nei ritagli di tempo". E anche questo, come ha detto e ripetuto il garante regionale dei diritti dei detenuti, verrà portato all’attenzione del nuovo provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone e del presidente regionale del Tribunale di sorveglianza Marcello Bortolato. "D’altronde i problemi sono troppi, manca uniformità di trattamento rispetto ad altri istituti penitenziari e certi interventi non si possono più rimandare". Padova: 150 detenuti in più rispetto al previsto, eventi critici aumentati del 700% padovaoggi.it, 28 settembre 2017 La denuncia del sindacato di Polizia penitenziaria: "355 agenti per 580 detenuti alla Casa di reclusione". Sarebbero 8 i detenuti di origine musulmana a rischio radicalizzazione, all’interno del carcere "Due Palazzi". A renderlo noto è il sindacato della Polizia Penitenziaria. "Il nostro personale è impreparato per la gestione di questo problema - afferma Aldo Di Giacomo - il problema esiste e il Governo deve affrontarlo. Solo 10 poliziotti in tutta Italia conoscono l’arabo". Il nodo della radicalizzazione all’interno della casa di reclusione è solo una delle difficoltà denunciate. "Negli scorsi mesi, sono stati trovati tanti telefonini all’interno della struttura - dice Di Giacomo - Sono aumentate le risse e le aggressioni ai danni degli agenti. La carenza del personale sta portando all’aggravarsi della situazione. A Padova ci sono circa 150 detenuti in più rispetto al previsto e sono aumentati del 700% gli eventi critici". La Casa di reclusione di Padova ha una dotazione organica prevista di 434 unità, ma è amministrata con soli 355 agenti a fronte di una popolazione detenuta pari a 580. L’istituto ha una forte presenza negativa di distacchi in uscita, sono infatti 47 le unità fuori sede. Nella casa circondariale di Padova è prevista una dotazione organica di 155 unità, è amministrata attraverso 154 agenti e 32 unità in distacco fuori sede a fronte di una popolazione detenuta pari a 220. Sul tema intervengono anche i sindacati. "Nei giorni scorsi si è festeggiato in tutte le carceri del Veneto il bicentenario della Polizia Penitenziaria", dichiara il coordinatore regionale Veneto della Fp Cgil Penitenziari, Gianpietro Pegoraro, "La Fp Cgil non ha partecipato agli appuntamenti istituzionali per protestare ed evidenziare lo stato di abbandono del sistema carcerario e per sottolineare il forte disagio destinato ai poliziotti penitenziari della nostra Regione. Il rischio crescente per la loro incolumità fisica, l’aumento dello stress correlato al loro lavoro, il grave ritardo nell’aggiornamento tecnologico degli strumenti di ausilio alla sorveglianza, la drammatica carenza di personale pari a 8 mila unità a livello nazionale non ci permette oggi di condividere alcun festeggiamento". "Abbiamo più volte segnalato al Ministro Orlando l’uso discriminatorio dei distacchi del personale di Polizia Penitenziaria attuato dall’Amministrazione Penitenziaria, che avviene senza regole", aggiunge Pegoraro, "poiché si distaccano con facilità personale di polizia che non ha gravi motivi famigliari mentre per chi ha gravi motivi il suo distacco è incerto; non è per niente conciliante con la buona gestione del sistema carcerario veneto poiché coinvolgendo Istituti che presentano la maggior carenza di personale che non verrà mai sostituito. Come sindacato abbiamo chiesto e chiediamo al Ministro che siano poste delle regole in materia di distacchi e maggior trasparenza da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, cosa che oggi non c’è". Treviso: detenuto a rischio morte, ma impossibile da liberare di Federico de Wolanski La Tribuna di Treviso, 28 settembre 2017 Gioani Almenari, 40 anni, per medico legale e Ulss è "incompatibile al carcere". Il Riesame ha bocciato la scarcerazione: è già evaso, e nessuno potrebbe curarlo. Nel curriculum furti, rapine, condanne. L’ultima a 4 anni e vari mesi, e sempre per reati contro il patrimonio. Ma nella scheda anche un complicato intervento al cuore subito l’anno scorso, una gravissima cardiopatia che gli ha causato un’invalidità permanente del 100% e che oggi costringe il carcere di Treviso ad affiancargli un altro detenuto col compito di seguirlo e controllarlo costantemente. Il pericolo non è che fugga, è che muoia. Gioani Almenari, 40 anni, origini veneziane, residente a Motta di Livenza, è detenuto in carcera a Treviso dal giorno in cui evase dai domiciliari che gli erano stati concessi nel 2016 proprio per il suo precario stato di salute e venne trovato dai carabinieri a vagare in stato semi-confusionale nell’opitergino. Il tribunale, da quando è dietro le sbarre, gli ha assegnato un amministratore di sostegno, Denis Mazzon, che da mesi si occupa del suo caso ed oggi lancia un allarme: "Deve uscire da lì". A dirlo non è solo lui, è anche il medico legale che l’ha visitato l’ultima volta e perfino l’azienda sanitaria che in un documento ha definito il regime carcerario "non adatto alla gravità della situazione cardiologica, con serio rischio morte". "Piaccia o meno, Almenari ha un cuore che fa il 20% di quello che dovrebbe, e non migliorerà. La sua è una condizione critica, stabilmente" dice Mazzon, "certificata come incompatibile al carcere ma non riusciamo a farla valere". Pare un paradosso ma è così. L’avvocato e l’assistente hanno fatto ricorso al Riesame chiedendo la scarcerazione, ma ha ricevuto risposta negativa e il quarantenne, nonostante viva appeso a un filo, resta in cella a Treviso. Precisamente nella cella più vicina all’infermeria. Le ragioni del rigetto? Ad Almenari viene contesta la precedente evasione, ma soprattutto il fatto che nessuno sarebbe in grado di dargli l’assistenza domiciliare perenne necessaria se venisse mandato a regime carcerario in casa. La madre infatti è anziana, e parenti disposti a gestirlo - con le complicanze sanitarie del caso - non ci sono. Oltretutto strutture per gestirlo a livello ospedaliero dovrebbero essere pagate, e comunque richiederebbero un piantone; e istituti ospedalieri penali non lo accettano volentieri. La Ragione? Piaccia o meno, il cuore di Almenari potrebbe essere una bomba a orologeria, e pochi vogliono ritrovarsi con un’emergenza cardiaca tra le mani. O peggio ancora una morte in corsia. Risultato? Gioani resta in carcere, una condanna doppia. "È giusto che paghi la sua pena" dice Mazzon, "ma che la paghi in un modo dignitoso. Sicuramente nelle vesti di amministratore non posso e non giustifico i reati che ha commesso, ma nemmeno la morte per abbandono. Se può essere assistito degnamente è giusto che lo sia. Se è certificato che non deva tare in carcere, si deve trovare un altro luogo di detenzione". Si sta cercando anche il modo di interessare il Ministero. Salerno: fuga-beffa dal carcere, detenuto riacciuffato ma è polemica di Rosa Coppola Corriere del Mezzogiorno, 28 settembre 2017 Lui è Rostas Istvan, un romeno di diciotto anni detenuto nel carcere di Salerno con precedenti per rapina. Aveva puntato il coltello alla gola di un 40enne, rimasto anche ferito. E ieri mattina, intorno alle 11, durante la cosiddetta ora d’aria, il giovane è evaso dalla Casa Circondariale. Per ritornarci poco dopo, acciuffato dai carabinieri verso le 14 a Pagani, a nord del capoluogo. Una fuga-beffa, eseguita con facilità. Secondo una prima ricostruzione dei fatti (per motivi di sicurezza non viene fornita la dinamica ufficiale), il romeno sarebbe riuscito a scavalcare il muro di cinta e a scappare. Correre, con tutto il fiato che aveva, e raggiungere la strada. Saltare, senza biglietto, sul pullman e dirigersi verso Pagani dove risiede. Qui è stato bloccato dai carabinieri nei pressi del capolinea dei bus. "Stiamo accertando la dinamica dei fatti ed avere una visione completa; non posso che riservarmi su questo punto" esordisce Stefano Martone, direttore dell’istituto penitenziario salernitano e aggiunge: "Sicuramente, come tutte le carceri di Italia, viviamo un momento di difficoltà legato al numero esiguo di personale e una percentuale, crescente, di detenuti. Un aumento che supera il 15%. Abbiamo anche noi un sovraffollamento: registriamo circa 100 detenuti in più su una pianta organica che ne prevede circa 384. Il Ministero è a conoscenza delle criticità e sta lavorando per risolverle". Agguerriti, invece, i sindacati. Ciro Auricchio dell’Uspp (Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria) accusa: "Basti pensare che un solo agente, invece di cinque, è deputato al controllo dell’area dove oggi si sono perse le tracce del detenuto". Emilio Fattorello, segretario nazionale del Sappe per la Campania, aggiunge: "Sono anni, ormai, che denunciamo la gestione deficitaria della sicurezza. Abbiamo presentato una interrogazione parlamentare, depositato documenti, ci siamo rivolti al giudice del lavoro: non sappiamo più cosa fare. Sì, è una evasione annunciata". Daniele Giacomaniello, segretario provinciale della Uil Pa della Polizia Penitenziaria, aggiunge: "Salerno è carente di circa 70 unità (in totale ne sono circa 200 ma non tutti nel carcere, ndr): abbiamo necessità di sistemi tecnologici e intelligenti: denunciamo da anni ma vi è immobilismo". Reggio Calabria: "Includere gli Esclusi". Ergastolo, ostatività e riforma penitenziaria di Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 28 settembre 2017 Venerdì 29 settembre alle ore 15, presso lo spazio sociale Nuvola Rossa di Villa San Giovanni in via 2 novembre n. 82, si svolgerà una giornata di incontro e dialogo tra familiari di detenuti, associazioni, collettivi, persone sensibili e solidali sul tema dell’ergastolo e delle condanne ostative. Un tema difficile da affrontare in un paese che ha ormai elevato a sistema l’ emergenza e il giustizialismo. Il governo sta per varare la riforma dell’ordinamento penitenziario e dalle dichiarazioni del ministro Orlando e dei suoi sottosegretari, si percepisce la vanificazione degli Stati Generali dell’esecuzione penale dove era stata stigmatizzata l’impossibilità di accedere ai benefici penitenziari per i condannati ai sensi del 416bis. La modifica sostanziale e non formale del 4bis era stata salutata come elemento qualificante di tutta la riforma che avrebbe ridato speranza agli "uomini ombra" liberandoli dalla logica ricattatoria della collaborazione ma, ormai, appare del tutto evidente che la direzione che sta prendendo questa riforma, ammesso che vedrà la luce, non porterà nessun cambiamento sostanziale ma solo operazioni di facciata che, anche negli aspetti migliori, va a duplicare l’esistente. Le domande che si pongono sono tante e altrettanti i luoghi comuni. "La riforma in cantiere è in linea con la Costituzione e con le Carte internazionali dei diritti dell’uomo? Come si possono scardinare questi automatismi? Qual è il ruolo che possono assumere i familiari delle persone detenute, a fianco delle associazioni e delle persone sensibili a questi temi che vogliono combattere questa battaglia contro le pene che uccidono la speranza?". Di questo parleremo venerdì con: Ornella Favero - direttrice di Ristretti Orizzonti, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Franca Garreffa - docente Unical e tutor di studenti ristretti Mimmo Petullà - sociologo e antropologo delle religioni Antonello Nicosia - Docente di Pedagogia, studioso esperto in Trattamento Penitenziario, Direttore del Centro Studi Pedagogicamente Giuseppe Lanzino - Avvocato Associazione Yairaiha Onlus: Sandra Berardi - presidente Yvonne Graf - socia Giusy Torre - socia Italia Zagari - socia L’incontro è aperto a tutti e tutte, la stampa è invitata a partecipare. Firenze: ragazzi autori di reato messi alla prova restaurando panchine Redattore Sociale, 28 settembre 2017 Sulle panchine di piazza Galilei, ripulite in sei mesi da 12 giovani autori di reato, sono state incise frasi celebri relative agli errori che si commettono nella vita, tra cui: "Non saper rimediare a un errore è cosa peggiore dell’errore stesso"; "L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla". "Non saper rimediare a un errore è cosa peggiore dell’errore stesso"; "L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla"; "Gli errori sono il solito ponte tra inesperienza e saggezza". Sono soltanto alcune frasi celebri relative agli errori che si commettono nella vita. Queste e altre frasi sono state incise su quindici panchine nel piazzale Galilei a Firenze. A inciderle, durante il restauro delle panchine, sono stati i ragazzini autori di reati. Nello specifico, tutto il lavoro di pulitura e di restauro delle panchine, durato circa sei mesi, è stato compiuto da 12 giovani italiani e stranieri dai 17 ai 22 anni, che hanno compiuto reati di droga e furti e che sono stati messi alla prova con provvedimento del Tribunale di Firenze. Una positiva valutazione di questa potrebbe valere l’annullamento della condanna. L’operazione, realizzata col determinante contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, è stata resa possibile dall’importante lavoro svolto dalle Associazioni Apab e Aleteia in stretta collaborazione col Comune di Firenze. L’iniziativa conclude la fase sperimentale del progetto MeF, ideato dalle associazioni fiorentine Aleteia e Apab per aumentare l’efficacia della giustizia alternativa e realizzato anche in questo caso col determinante contributo della Fondazione CR Firenze. Esso consiste nell’attivazione di percorsi riparativi e di responsabilizzazione della persona che potrebbero portare ad una possibile diminuzione della recidiva attraverso una metodologia integrata di mediazione, riparazione e formazione di soggetti in esecuzione di pena. Solo in Toscana il bacino di utenza interessato si aggira attorno alle 2.000 persone tra adulti e minori in esecuzione pena e in messa alla prova. Bolzano: le foto per sconfiggere la monotonia del carcere di Fabio Zamboni Alto Adige, 28 settembre 2017 Da 4 anni i detenuti partecipano ad un laboratorio che li assorbe e li distrae. Il curatore Degiorgis: "L’idea è stata quella di portare l’arte fuori dal museo". Ci sono parecchi modi per evadere dal carcere. Da quattro anni, i detenuti della Casa circondariale di Bolzano, in via Dante, ne utilizzano uno virtuale ma prezioso: partecipando a un laboratorio fotografico evadono dalla monotonia della loro vita quotidiana, e persino dal loro limitatissimo punto divista. le porte blindale, le sbarre alle finestre, l’alto muro che chiude il cortile per l’ora d’aria, sono diventate infatti la cornice e il soggetto di un ambizioso progetto curato da Nicolo Degiorgis. Il noto fotografo e curatore d’arte contemporanea bolzanino ha guidato ieri mattina un gruppo di giornalisti a visitare la mostra Prison Photography dentro il carcere, per presentare la parte "nascosta" di quello che è un grande progetto curato dal e al Museion. Accanto a lui, la direttrice di Museion Letizia Ragaglia, la direttrice del carcere Anna Rita Nuzzaci, e un folto gruppo di carcerati, autori delle foto e semplici spettatori. "L’idea - ci dice il curatore Degiorgis - è stata quella di portare l’arte fuori dai museo, in luoghi lontani dalla fruizione dell’arte. E il laboratorio è staio per quattro anni, e lo sarà ancora, uno stimolo della fantasia ma anche concettuale per chi sta chiuso qui dentro. Con il valore aggiunto della scoperta di un punto di vista differente: le cose che i carcerali hanno attorno sono state viste davvero con occhi diversi. E poi ci siamo confrontati su vari temi importanti come la patria che è il punto di partenza del lavoro in corso al Museion nella mostra "I Hamatli & Patriae" ma anche come la migrazione e l’identità". Con un obiettivo ambizioso: "Giovedì - aggiunge Degiorgis - sarò a Roma, al Ministero, perché vogliamo esportare questo progetto in altre carceri italiane". La mostra, nella cornice del carcere, ha un impatto forte: i soggetti Immortalati e interpretati dai cento detenuti che hanno preso parte al laboratorio e che hanno realizzato un libro le cui pagine, strappate, sono quelle esposte singolarmente qui e nel Passage del Museion, sono i muri sbrecciati, le sbarre che diventano opere grafiche, i tatuaggi, gli oggetti della vita quotidiana: un corano, un rosario, un pacchetto di sigarette, un dado. Messaggi scritti su un cartone ("I love U mom", ti amo mamma), o tatuati ("Odio questo posto". "Sono senza amici"); e poi cartine di posti che rimandano ai luoghi di provenienza: Tunisia, Romania". E, ancora, ritratti di "colleghi" carcerati, pixelati per via della privacy o mimetizzati da maschere o da giochi di luce creati con gli accendini. Un microcosmo che ci raccontano gli stessi autori delle foto, perlomeno i pochi autorizzati a violare la loro stessa privacy. Il tunisino Ahmed Alì, qui dentro dal 2010 per spaccio e con ancora 10 mesi da scontare: "La fotografia mi ha fatto scoprire un’altra vita. Adesso so che una foto non vale l’altra, e ho incominciato a farmi mandare da casa le immagini della mia figlia più piccola. E poi durante il laboratorio abbiamo parlato spesso - e ci siamo anche scontrati - con Nicolò (Degiorgis, ndr) e con gli altri detenuti di emigrazione, di religione, di Trump. E stata una bellissima esperienza". Anche Pietro Caruso da Catania sconta una pena (2 anni e due mesi} per droga: "Con la fotografia ho scoperto di poter vedere le cose che mi circondano in modo diverso". E ci mostra l’immagine di un volo di piccioni che. beati loro, scavalcano facilmente il muro di cinta: "Così abbiamo interpretato l’idea di libertà". Letizia Ragaglia sottolinea l’apertura di Museion ad altre realtà e dà appuntamento al 14 novembre quando al vicino museo d’arte contemporanea si terrà un dialogo su questa iniziativa con la partecipazione della direttrice del carcere. Arriva il momento di uscire, e allora ce ne andiamo con l’idea che forse ha proprio ragione l’onorevole Kronbichler quando dice che il carcere di Bolzano, per quanto fatiscente" può vantare un’umanità invidiabile. Roma: magistrati, detenuti e rifugiati, ecco il calcio che unisce Dire, 28 settembre 2017 Magistrati, detenuti, migranti e studenti uniti per un giorno da un pallone e un tiro dal dischetto. È successo ieri pomeriggio nel campo del carcere romano di Rebibbia, dove si è disputato un triangolare tra una squadra di giudici di Magistratura Democratica formata per l’occasione, la formazione di Rebibbia e l’Atletico Diritti, un team speciale costituito da migranti, rifugiati, studenti universitari e persone in esecuzione penale autorizzata, nato nel 2014 con la Società Polisportiva Atletico Diritti da un progetto delle associazioni Progetto Diritti e Antigone, con il patrocinio dell’università di Roma Tre. Una formazione che da ieri si arricchisce anche del contributo dello studio legale associato Legance e di Banca Etica, che ha donato dei palloni e le nuove maglie col proprio logo accanto a quello di Roma Tre. Dopo aver disputato per tre stagioni consecutive il torneo ufficiale di Terza Categoria, ricevendo il premio Disciplina della Figc e nel 2016 il premio Sport e Integrazione del Coni, l’Atletico Diritti prosegue nel suo lavoro di integrazione, nella consapevolezza che lo sport costituisce uno strumento ineguagliabile per l’inclusione. E con questa consapevolezza tutti i giocatori sono entrati in campo, ciascuno coi suoi colori. Bianco e rosso per l’Atletico Diritti, verde e nero per i detenuti di Rebibbia, bianco e azzurro per i giudici di Magistratura Democratica. Magistrati che per una volta sono entrati nel carcere romano, "non per lavoro, ma per contribuire sul campo a dare uno spettacolo di dignità, con allegria", come sottolinea Rocco Mattuolo della Procura di Rieti. Ed è proprio l’allegria il sentimento che si respira anche tra gli spettatori di questa partita un po’ sui generis. Dagli agenti della polizia penitenziaria, ai detenuti, a chi si impegna quotidianamente per rendere il carcere un luogo dignitoso, come le associazioni Antigone e Progetto Diritti. Come a dire che a volte basta una partita a colmare i vuoti di una società distratta e a riaffermare un modello di antirazzismo, tolleranza, uguaglianza e superamento dei pregiudizi, proprio a partire dallo sport, in grado di parlare a tutte le età e le estrazioni sociali. "Abbiamo messo in piedi questa squadra decidendo di non giocare nei campionati amatoriali perché, altrimenti, non avremmo avuto comunicazione- dichiara prima della partita il presidente di Antigone Patrizio Gonnella-. Abbiamo scelto la Terza categoria perché la Seconda abbiamo deciso di conquistarcela sul campo. È importante lo sguardo con cui si riesce ad entrare nelle carceri- aggiunge-, noi spesso siamo critici, ma lo siamo sempre per chiedere di alzare gli standard. Oggi il nostro sguardo racconta una bella storia di sport e integrazione". "Si vince insieme" sottolinea il sottosegretario al ministero della Giustizia Gennaro Migliore, mentre Susanna Marietti, presidente dell’Atletico Diritti e coordinatrice di Antigone, mette l’accento sull’adesione della squadra alla campagna #SignAndPass, lanciata allo stadio Camp Nou dalla Fundaciò Barcellona F.C. e dall’Unhcr per sensibilizzare sulla drammatica condizione che milioni di rifugiati stanno vivendo in tutto il mondo. Non solo calcio. Atletico Diritti è sport solidale a tutto tondo, con la squadra di cricket, che nel sud pontino ha ottenuto ottimi risultati con i lavoratori immigrati ribellatisi al caporalato, e la squadra di basket, che disputerà il suo primo campionato di Promozione nella stagione 2017/18. E tra i tifosi dell’Atletico Diritti, c’è anche Zerocalcare in maglia bianco rossa che, nel disegno donato per l’occasione dal fumettista, assente all’incontro per motivi personali, decide di parteggiare così: "Daje forte Atletico Diritti! (anche se quando gioca contro i detenuti di Rebibbia io devo tifà pure per loro perché tengono alta la bandiera di zona)". Milano: Franco Mussida, i detenuti, la musica e le nove grandi "famiglie emotive" di Paolo Foschini Corriere della Sera, 28 settembre 2017 Il chitarrista racconta il suo impegno per i giovani e il mondo dei penitenziari. Dopo una vita con la Pfm e il lavoro a San Vittore, oggi punta sul "Progetto Co2". Migliaia di composizioni rock e classiche per il recupero dei detenuti in dodici istituti di pena. Due ricordi, tra le migliaia di una vita in musica. Il primo: "Un ragazzo che avevo conosciuto a San Vittore. Erano gli anni in cui a Milano avevamo realizzato la scuola di musica in carcere. Una grande avventura. Lui era il migliore di tutti, impegnato, affidabile, sempre il primo. Un amico alla fine. Quando terminò la sua pena e finalmente uscì lo invitai a casa mia. Mi rubò il libretto degli assegni quella sera stessa, non lo vidi più. Tempo dopo morì per strada da solo. Compresi allora perché esiste una stessa parola per dire scontare una pena e provare pena. Ho sempre pensato che avrei potuto essere al suo posto, che nessuno di noi è mai al riparo dalla propria debolezza. E che una delle cose più importanti che non dobbiamo mai smettere di imparare è l’umiltà, la possibilità del fallimento". L’altro ricordo è opposto: "Carcere di Venezia, cento detenuti davanti a me. Stavo sperimentando con loro il Progetto Co2, la musica come chiave delle emozioni: gli stati d’animo divisi per categorie e la musica come strumento per comprenderle. Ho mandato un pezzo di Morricone. Si è fatto un silenzio magico. Al termine, senza essersi accordati, hanno sollevato tutti e dico tutti lo stesso cartello: nostalgia. E io avrei fatto lo stesso. Anche questa è una cosa che so da sempre, ma quello è stato un momento di grande conferma: possono esserci tutti i muri del mondo ma la cosa che abbiamo in comune, l’umanità, l’amore che portiamo dentro, è più forte di quei muri. Non sempre è facile tirarla fuori, quella cosa. Ma la musica in questo può essere davvero un grande aiuto". Lui è Franco Mussida. Conosciuto soprattutto come uno dei più grandi chitarristi viventi nonché come fondatore della Pfm, da cui uscì nel 2015 per "troppi altri impegni" dopo mezzo secolo di dischi e concerti, a 70 anni compiuti in marzo Mussida è appunto molto altro: artista, scrittore, tuttora impegnato praticamente da mattina a notte nella sua seconda casa che è il Cpm di Milano - scuola di musica da lui creata nell’84, riconosciuta dal Comune come "benemerita" per "l’attività svolta a favore dei giovani", oggi prima scuola di musica moderna in Italia riconosciuta dal Ministero come Università - e da tre anni inventore e realizzatore di un progetto, il citato Co2, che lo ha riportato a lavorare per i detenuti non più del solo San Vittore, ma di dodici carceri italiane. Un progetto premiato quest’anno con la medaglia della Presidenza della Repubblica. "La musica - dice - è amore vibrante organizzato. Io avevo cominciato nell’88 a sperimentarla in un luogo di sofferenza come San Vittore". Poi è arrivato Co2: "In pratica è una audio-teca digitale realizzata grazie alla collaborazione della Siae con migliaia di brani strumentali di ogni genere, divisi in 9 grandi famiglie emotive classificanti a loro volta - ed è stato un lungo lavoro con una équipe di esperti e psicologi - 27 diversi stati d’animo. La sperimentazione ha confermato che l’ascolto di quella musica in quel momento, unito alla coltivazione di questo esercizio nel tempo, può essere parte di un percorso straordinario sulla via del recupero: proprio a partire dalla conoscenza profonda di sé che per un detenuto, come per chiunque del resto, è il primo passo per potere dare un indirizzo consapevole alla propria vita. La Musica - con la maiuscola, conclude l’artista Mussida - non è solo corrente vitale che contiene tutti i sentimenti dell’uomo. È un balsamo, una vitamina che occorre imparare nuovamente a somministrare. E chi fa il musicista ne ha la responsabilità". Pisa: riparte la scuola di teatro Don Bosco all’interno della Casa circondariale pisainformaflash.it, 28 settembre 2017 Prosegue il progetto della Scuola di teatro "Don Bosco", presentato dall’Associazione Culturale e Compagnia Teatrale pisana I Sacchi di Sabbia, grazie al finanziamento della Fondazione Pisa attraverso il bando pubblico dedicato al sostegno delle attività culturali, sociali e di volontariato. Le lezioni ripartiranno dal 2 ottobre e si concluderanno alla fine di maggio 2018. "L’idea della Scuola di Teatro "Don Bosco" - spiega Francesca Censi, coordinatrice e docente del progetto - è nata nel 2011 all’interno della Casa Circondariale Don Bosco di Pisa, grazie al contributo della Regione Toscana, e in questi anni si è strutturato come luogo di confronto umano e culturale nel quale i detenuti-allievi hanno potuto fare un’esperienza di socialità e comunicazione attraverso il linguaggio del teatro, della letteratura e della poesia". "Grazie alla continuità del progetto - aggiunge Giulia Solano, docente e attrice dei Sacchi di Sabbia - che in questi anni è stata garantita dalla Regione Toscana e da Fondazione Pisa, quest’esperienza sta diventando un punto di riferimento stabile all’interno delle attività della Casa Circondariale Don Bosco: è uno strumento che può realmente contribuire al recupero psicosociale, emotivo, culturale del soggetto detenuto e partecipare, così, alla funzione riabilitativa e rieducativa della detenzione, come dice la nostra Costituzione". "Il progetto "Scuola di Teatro Don Bosco" - aggiunge Carla Buscemi, formatrice del progetto - dà la possibilità ai partecipanti di essere inseriti in un percorso formativo, di crescita, di messa in discussione di sé, che permette l’acquisizione di una maggiore conoscenza della lingua italiana e delle proprie capacità espressive". "Quest’anno - specifica Gabriele Carli attore e formatore dei Sacchi di Sabbia - la Scuola di Teatro "Don Bosco" intensifica la sua attività sia nella sezione maschile che in quella femminile, e prevede delle lezioni che saranno strutturate in vere e proprie materie: lettura, dizione, interpretazione, canto e coordinamento motorio. I temi e i testi intorno cui si svolgerà l’itinerario formativo saranno tratti da grandi classici della storia del teatro, primi tra tutti: Shakespeare, Pirandello e Eduardo De Filippo". Italia, qui l’inquinamento uccide di più di Roberto Giovannini La Stampa, 28 settembre 2017 La classifica europea mette sotto accusa le nostre città. Concentrazioni record di polveri sottili Pm 2,5. La notizia è che l’aria nelle città è migliorata negli ultimi anni, ma nonostante le nuove regole l’Italia primeggia nella triste classifica europea dei morti per inquinamento. Come spiega il Report sulla qualità dell’aria che sarà presentato domani, realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile con Enea e Ferrovie, l’Italia con oltre 90.000 morti premature batte i grandi paesi europei. Parliamo di 1500 decessi per milione di abitanti, contro i 1100 in Germania, gli 800 della Francia e della Gran Bretagna, e i 600 della Spagna. La situazione dell’aria resta molto critica in tante parti d’Italia, indica questo importante rapporto. Si sa che l’aria peggiore c’è nella Valle Padana, ma problemi seri ci sono anche nelle aree metropolitane di Roma e Napoli, a Firenze, in Puglia a cominciare da Taranto, e sulla costa sud est della Sicilia. I responsabili? C’è il traffico automobilistico, come si può facilmente immaginare, a partire dai motori diesel. Ma con qualche sorpresa, oltre all’industria e al riscaldamento residenziale, ormai pesano in modo significativo anche il riscaldamento a biomasse legnose, tradizionali o a pellet (soprattutto a Milano e Firenze), e l’agricoltura, che genera molta ammoniaca. L’aria inquinata è un problema continentale: secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente in Europa ogni anno si registrano oltre 500.000 morti premature a causa dell’inquinamento atmosferico, circa 20 volte il numero di vittime per incidenti stradali. Per la Commissione Ue, i costi connessi agli impatti sulla salute dell’inquinamento atmosferico pesano tra il 2 e il 6% del Pil europeo. Ma l’Italia va peggio: siamo in procedura di infrazione sia per il particolato che per il biossido di azoto. Per le PM2,5, le polveri sottili più fini, segniamo valori di concentrazione record, così come per l’ozono. E quel che conta, non stiamo migliorando abbastanza: di questo passo non rispetteremo i target fissati per il 2030 dalla nuova direttiva europea sugli inquinanti atmosferici. Come detto, il traffico stradale è il maggior responsabile dell’inquinamento, soprattutto per ossidi di azoto e particolato. Ma i dati rivelano che ci sono altre sorgenti di inquinamento, finora poco o nulla considerate, come la biomassa legnosa. Tra il 1990 e il 2015 la quota del legno per i consumi energetici nel settore residenziale è passata dal 13 al 25%. Secondo l’Ispra, la combustione di biomasse è responsabile del 99% delle emissioni di particolato del settore residenziale. Le tecnologie "tradizionali" (caminetti aperti e stufe manuali), che rappresentavano il 74% degli impianti in Italia nel 2012, sono stati responsabili del 90% delle emissioni di particolato del settore, contro il 9% di emissioni imputabili alle tecnologie "avanzate" (stufe a pellet, caminetti chiusi e stufe a ricarica automatica. Resta il fatto che a Milano la combustione del legno, specie in impianti a bassa efficienza, vale addirittura il 20% delle PM10 totali. Scopriamo poi il ruolo dell’"inquinamento extraurbano": la produzione agricola (con i fertilizzanti) e la zootecnia. E infine, c’è l’industria, la generazione elettrica e lo smaltimento dei rifiuti: le innovazioni tecnologiche non hanno risolto. Il rapporto propone un decalogo di interventi per affrontare il problema. Varare una strategia nazionale per la qualità dell’aria, ridurre le auto private in città, inserire gli obiettivi su clima e inquinamento nelle politiche energetiche, dare più risorse per il trasporto pubblico condiviso, finanziare la ricerca e il monitoraggio, migliorare le performances ambientali dei mezzi di trasporto, riqualificare edifici pubblici e privati, limitare le biomasse per il riscaldamento domestico, controllare le emissioni dell’agricoltura, migliorare le tecnologie nell’industria. Proposte serie, che però non sembrano nei piani del governo. Edo Ronchi, già ministro dell’Ambiente e presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, è preoccupato. "Onestamente per il momento vedo poco impegno - spiega - nonostante qualche visibile miglioramento, mi pare che Comuni e territori siano lasciati da soli ad affrontare un problema che richiederebbe ben altri interventi". E gli accordi tra ministero dell’Ambiente e Regioni, come quello firmato da Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna? "Certamente sono utili - commenta Ronchi - ma solo a livello di cornice, per gli obiettivi che pongono. Quanto invece alle misure in grado di avere un impatto reale, hanno effetti davvero limitati". Ius soli, il Pd cede ad Alfano. E Gentiloni resta in silenzio di Carlo Lania Il Manifesto, 28 settembre 2017 Anche la ministra Lorenzin dice No. La legge sparisce dal Senato. Zanda: "Discuterla ora equivarrebbe a ucciderla". "Mancano 24 voti", spiega nel pomeriggio di ieri il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. "Mancano 30 voti", rilancia poco dopo la ministra per i Rapporti con il parlamento Anna Finocchiaro. Pallottoliere alla mano, il rappresentante del principale partito di maggioranza e quello del governo concordano nel sentenziare la fine dello ius soli. Certo, sia l’uno che l’altra assicurano di non voler abbandonare le speranze di vedere approvata la legge entro la fine della legislatura, perché adesso "bisogna cercare i voti con la politica, con il compromesso", come spiega Finocchiaro. Ma per intanto quello del ddl sulla cittadinanza è un capitolo chiuso, una partita finita. Game over. Un tentativo di riportare in vita la legge era stato fatto durante la riunione dei capigruppo da Sinistra italiana e Mdp. Entrambi i partiti hanno chiesto di poter calendarizzare lo ius soli dopo il 4 ottobre, una volta superato in aula lo scoglio del Def. Non si tratta di un giorno preso a caso. Il periodo scelto rappresenta infatti la famosa "finestra" che lo stesso Zanda solo qualche settimana fa aveva indicato come il momento migliore per discutere e finalmente varare il provvedimento. Ma il capogruppo del Pd nel frattempo deve averci ripensato. "Portare oggi in aula lo ius soli significherebbe condannarlo a morte certa e definitiva, e purtroppo i sette senatori di Sinistra italiana e i pochi di altre componenti che oggi voterebbero a favore non sono sufficienti a formare una maggioranza", sentenzia quindi bocciando la proposta. Si ripete così quanto accaduto all’inizio di settembre, quando l’ufficio di presidenza decise di non inserire lo ius soli nel calendario dei lavori del mese. Qusta volta lo ius soli non appare fino al 20 ottobre, quando a chiudere definitivamente i giochi sarà l’arrivo al Senato della legge di stabilità. Un déjà-vu poi confermato anche dal voto dell’aula. Un ragionamento - quello del presidente dei senatori dem - che però non convince le senatrici Loredana De Petris e Cecilia Guerra, rispettivamente capogruppo di Si e Mdp. "Secondo i nostri calcoli solo nel gruppo Misto ci sono una quindicina di voti e anche in Ap ce ne sono altri disponibili" ragiona la prima, convinta che lo ius soli non crei problemi solo al partito del ministro Alfano, ma anche all’interno dello stesso Pd. Ma il vero segnale che ormai non ci sia più niente da fare arriva da Palazzo Chigi, dove Paolo Gentiloni continua a non spendere una parola in difesa della legge. Vero è che ieri il premier si trovava in Francia, a Lione, per un importante vertice con il presidente Emmanuel Macron, ma è anche vero che le distanze non rappresentano un problema e che volendo un segnale avrebbe potuto anche darlo. Il suo silenzio invece legittima e rafforza quanti si oppongono al provvedimento per una pura questione di voti, contribuendo perdipiù a dare l’idea di un governo "fai-da-te" nel quale ognuno si muove ormai come vuole. Così dopo il "No" espresso martedì dal ministro degli Esteri Alfano, ieri è arrivato anche quello della ministra della Salute Beatrice Lorenzin per la quale è meglio rimandare tutto alla prossima legislatura. Viceversa il titolare dei Trasporti Graziano Delrio continua a chiedere un gesto di coraggio che salvi la legge. Magari accettando il rischio di un voto di fiducia, come ha chiesto ieri anche il presidente del Pd Matteo Orfini. A chiedere al premier di porre la fiducia sulla legge è anche il presidente della commissione Diritti umani, Luigi Manconi. "Nel corso di questa legislatura è stata chiesta per ben 61 volte, sulle più diverse questioni", ha spiegato ieri il senatore. "Ora a sei mesi dalla fine della legislatura mi chiedo perché mai non venga messa su un provvedimento ripetutamente definito "irrinunciabile" dal governo, dal Pd e considerato "giusto" - bontà sua - persino dal nostro erratico e ondivago ministro degli Esteri". Ius soli, l’assurdo derby ideologico su una legge equilibrata e ragionevole di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 28 settembre 2017 Ci eravamo cullati nell’illusione che con la fine della Guerra fredda si sarebbero definitivamente spenti i fuochi del fanatismo ideologico. Ma i veleni che stanno intossicando il conflitto scatenato dai due fronti contrapposti sullo ius soli dimostrano invece che i detriti di quella mentalità ostruiscono ancora una sana, appassionata discussione tanto importante. Più che una discussione, sembra un derby furioso che non ammette una leale competizione, una guerra santa che non sa riconoscere nell’altro se non la personificazione del nemico assoluto, la riduzione dell’avversario a mostro morale. Non c’è legittimazione reciproca, che invece dovrebbe obbligatoriamente esserci come base di una battaglia politica anche aspra, ma onesta negli argomenti e nel rispetto dei fatti. E addirittura non c’è considerazione per ciò che effettivamente dispone la stessa legge proposta e ora purtroppo impaludata in Parlamento sullo ius soli, che è una legge equilibrata, ragionevole, prudente, che promuove diritti oramai imprescindibili rispettando tempi e procedure. Da una parte c’è la smania della bandierina da piantare nel campo nemico, la voglia risarcitoria di fare di una legge il simbolo dell’umiliazione di chi vi si oppone. Dall’altra l’allarmismo spregiudicato di chi in questa norma scorge il cavallo di Troia di chissà quale apocalittica invasione. La supremazia ideologica, a sinistra come a destra, ha questo di peculiare: di voler esaltare i simboli a scapito dei fatti, di demonizzare gli avversari ridotti a caricature. Tanto che del ministro Minniti, la cui azione di governo sembra smentire questa deriva iper-ideologica e che naturalmente in democrazia deve essere soggetta alle critiche anche più spietate, a sinistra si è arrivati a dire che sia solo la copia malriuscita nientemeno che di uno "sbirro". È la demolizione di una persona, appunto. È il trionfo dell’irresponsabilità. Il fenomeno dell’immigrazione, invece, bisognerebbe cercare di governarlo, combinando con intelligenza fermezza e umanità, legalità e accoglienza, repressione e cittadinanza, sicurezza e solidarietà. Nell’isteria ideologica, invece, si afferra solo un corno del dilemma e si dileggia, si demolisce, si delegittima chiunque abbia deciso di non arruolarsi in questa nuova guerra santa, e vuole insistere a leggere la complessità di un problema, che poi sarà il problema dei prossimi decenni in tutta Europa e già condiziona pesantemente stati d’animo, movimenti d’opinione, gli stessi esiti elettorali. Basta scorrere l’aggressività bipartisan nelle arene dei social, o sfogliare la collezione di questi ultimi anni dei giornali di destra e di sinistra per cogliere i sintomi di questa aggressività ideologica che prende abusivamente le forme di un tribunale morale delegato alla condanna senza appello di chi sta sul fronte opposto. A destra si accusa chi sostiene lo ius soli di voler scaricare in Italia masse ingenti di clandestini per distruggere l’identità nazionale, di essere addirittura complici del terrorismo islamista, di perseguitare gli italiani, di permettere lo stravolgimento del nostro patrimonio antropologico, di spalancare le porte a chi diffonde malattie che sembravano dimenticate, a chi sarebbe dedito senza distinzione alle attività criminali, allo stupro generalizzato, alla devastazione delle città. Ma che c’entra con la proposta della cittadinanza? Niente, solo ideologia da smerciare all’ingrosso. Nella stampa di sinistra, invece, si dà impunemente del "razzista" a chi osa sollevare un problema, a chi ritiene che molte paure dei cittadini, soprattutto tra le zone più deboli e disagiate della società, abbiano un fondamento nello stress culturale prodotto da una penosa guerra tra poveri. Si nega ogni credibilità morale a chi pensa che non tutto sia così semplice cavandosela con l’appello all’"accoglienza". Si manipola ogni obiezione come se fosse il frutto malato di qualche aspirante adepto del Ku Klux Klan. Senza rispetto per le opinioni diverse. Solo con la voglia di colpire duro, di alzare un muro (proprio da parte di chi vorrebbe abbattere tutti i muri) per rinchiudere in un recinto infetto chi è portatore di un pensiero diverso. Con un fanatismo tra l’altro controproducente, incapace di convincere, anzi con il vizio di compattare il campo avversario, come avveniva appunto nelle guerre ideologiche. Un tuffo nel passato, nell’incapacità di capire cosa ci porta il futuro. La legge sullo Ius soli e una resa senza nobiltà di Mario Calabresi La Repubblica, 28 settembre 2017 Hanno vinto la propaganda della Lega, la furbizia di Grillo e Di Maio, le paure e le mistificazioni. Hanno perso ottocentomila ragazzi, la politica che ha il coraggio di scegliere e uno scampolo di idea che si poteva ritenere di sinistra, ma perfino di centro. Chiamiamo le cose con il loro nome, senza giri di parole o finzioni: hanno vinto la propaganda della Lega, la furbizia di Grillo e Di Maio, le paure e le mistificazioni. Hanno perso ottocentomila ragazzi, la politica che ha il coraggio di scegliere e uno scampolo di idea che si poteva ritenere di sinistra, ma perfino di centro. Certo la legge è stata affondata da Angelino Alfano e dal suo piccolo partito, in cerca di una casa che garantisca di poter sedere ancora al tavolo del potere nella prossima legislatura. Ma questo è successo anche perché il Partito democratico non è stato capace di indicare le proprie priorità a un alleato che ha incassato enormemente più di quanto valga (basti pensare alle poltrone ministeriali collezionate da Alfano, al cui confronto impallidiscono persino i big della Prima Repubblica). La legge che dava la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri che avessero un regolare permesso di soggiorno (da almeno 5 anni) non verrà approvata in questa legislatura ed è rinviata a un futuro indefinito. Un futuro però che possa garantire ai politici la sicurezza di non indisporre nessuno e di non rischiare nulla. Sfruttando l’occasione del voto tedesco, Alfano ha coniato una frase di cui pareva molto orgoglioso: "Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata". E allora meglio fare direttamente una cosa sbagliata: arrendersi alla Lega, nella convinzione di poter conquistare qualche voto. Un gigantesco abbaglio. Alfano, che pretenderebbe di rivolgersi a un elettorato cattolico, e il partito di Matteo Renzi non portano a casa un solo voto in più da questa vicenda, anzi perderanno quelli di chi si chiede dove sia finito il coraggio delle proprie idee e convinzioni. A luglio, quando la legge venne rinviata, si disse che non la si poteva approvare in un momento in cui i migranti sbarcavano in massa sulle nostre coste (stabilendo un legame tra le due cose che non ha fondamento), così venne messa in campo la strategia di Marco Minniti per fermare i flussi dall’Africa e insieme paure e ansie. Gli sbarchi sono crollati, il ministro dell’Interno ha varato un piano di diritti e doveri per i rifugiati, ma ora crolla il patto politico che voleva tenere insieme sicurezza e integrazione. Integrazione, in questo caso, non di chi è arrivato con i gommoni degli scafisti ma di chi è nato e cresciuto in Italia. Quello che è successo è il perfetto segno dei tempi, quello in cui le grida degli ultrà vincono sulla razionalità e il buon senso, quello in cui si mescolano i piani e ci si piega alle generalizzazioni. Come ha ben spiegato su questo giornale Ilvo Diamanti, il tema immigrazione sale in cima alle preoccupazioni degli italiani ogni volta che ci sono le elezioni, sarà un caso o il frutto di una propaganda elettorale avvelenata? Ed è un segno dei tempi pensare anche di cancellare i problemi rimuovendoli. Domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia ha messo in evidenza sul Corriere della Sera perplessità e dubbi sullo Ius soli, mettendo al centro le difficoltà culturali dell’integrazione dei musulmani - che sarebbero comunque solo un terzo dei beneficiati dalla legge - oltre che la possibilità di mantenere una doppia cittadinanza (non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese). È chiaro che i problemi esistono, come sottolinea Galli della Loggia, di fronte a culture e comunità che non riconoscono alle donne gli stessi diritti degli uomini, ma allora la soluzione è negare la cittadinanza alle bambine che a 12 anni vengono rispedite nei loro Paesi per i matrimoni combinati o che non possono andare all’università anche se sono molto più brave dei loro fratelli? La soluzione è arrendersi di fronte a mentalità arretrate o difendere quelle bambine con una cittadinanza che permetta di integrarle e far progredire le loro comunità? Arrendersi alla chiusura di quelle comunità, che vivono e continueranno a vivere nelle nostre città, è l’errore più grande che possiamo fare e che complicherà il nostro futuro. Abbiamo sprecato un’occasione gigantesca, reso inutile un finale di legislatura che poteva provare ad essere nobile e accettato di perdere la partita rinunciando a giocarla. Lingua, lavoro, albo degli imam: c’è il piano per integrare i rifugiati di Vladimiro Polchi La Repubblica, 28 settembre 2017 Nel documento del Viminale diritti e doveri per 75mila migranti in fuga dai loro Paesi. Servizio civile e borse di studio. Sì a nuove moschee, ma con risorse trasparenti. Imparare l’italiano, rispettare la legge, a partire dalla Costituzione, impegnarsi nella vita economica e sociale del Paese. "Diritti in cambio di doveri". I tecnici del Viminale sintetizzano così il nuovo "Piano nazionale per l’integrazione": "Per la prima volta l’Italia prova a dotarsi di un vero progetto d’inclusione a lungo termine, per garantire un’ordinata convivenza civile". I destinatari? Non i cinque milioni di ‘nuovi italianì che vivono e lavorano oggi nel nostro Paese, ma solo i profughi. Per l’esattezza: 74.853 beneficiari di protezione internazionale, di cui 27.039 rifugiati e 47.814 titolari di protezione sussidiaria. Ossia, non i migranti economici, ma solo chi non può far ritorno nel proprio Paese d’origine senza correre gravi rischi. Il Piano, presentato ieri al Viminale, prevede un impegno reciproco tra chi è accolto e chi accoglie. Da un lato si chiede infatti a chi ha ottenuto la protezione di imparare la lingua, condividere i valori della Costituzione, rispettare le leggi, partecipare alla vita economica, sociale e culturale del territorio. Dall’altra, chi accoglie si impegna ad assicurare ai rifugiati uguaglianza e pari dignità, libertà di religione, accesso a istruzione e formazione e una serie di interventi volti a facilitare la loro inclusione nella società e l’adesione ai suoi "valori non negoziabili". Tra i quali il ministro dell’Interno, Marco Minniti, sottolinea la laicità dello Stato e il rispetto della donna. Il Piano non prevede sanzioni. Nel testo si legge infatti che "il tentativo di imporre l’integrazione per via legislativa non sembra funzionale. Obbligare all’assimilazione rischia di causare processi di deculturazione degli stranieri, suscitando, soprattutto nelle seconde e nelle terze generazioni, la percezione di essere esclusi dal discorso pubblico". Insomma: sì al "confronto aperto con le minoranze", ma senza ordini calati dall’alto, né tantomeno sanzioni. Il Piano, finanziato "prevalentemente dai fondi europei", individua alcune priorità: sostegno al dialogo interreligioso, partecipazione obbligatoria ai corsi di lingua svolti nei centri di accoglienza, diritto all’istruzione (si prevedono 240 borse di studio universitarie) e alla cultura, formazione professionale, accesso al servizio sanitario e all’alloggio "includendo i titolari di protezione nei piani di emergenza abitativa regionali", ricongiungimenti familiari, cittadinanza attiva (incentivando la partecipazione al servizio civile nazionale e al "volontariato sul territorio"), maggiori percorsi di socializzazione riservati ai minori, rafforzamento della rete dei centri per la tutela delle vittime di tratta. Non solo. Per combattere "il rischio di islamofobia", il Piano raccomanda di "attuare il Patto nazionale per l’Islam", attraverso la formazione degli imam e l’apertura di nuovi luoghi di culto "in condizioni di totale trasparenza dei flussi finanziari". E ancora: il Viminale continua a legare il tema dell’integrazione a quello della sicurezza. "Il buon esito di questo modello di integrazione - si legge infatti nella premessa al Piano - non può prescindere dalla capacità concreta di accoglienza dei territori, che non può essere illimitata. L’ingresso e la permanenza sul territorio italiano necessitano di essere inquadrati rigorosamente in una cornice di legalità, poiché è chiaro che l’afflusso massiccio irregolare di persone, e la gestione emergenziale non razionalizzata che ne deriva, si ripercuotono negativamente sulla possibilità di integrare". Il Piano piace all’Unhcr, che lo considera "uno strumento fondamentale per adottare azioni concrete che facilitino percorsi di inclusione sociale dei rifugiati" e il frutto "di un lavoro collettivo cui hanno preso parte rappresentanti dei diversi ministeri interessati, degli enti locali, della società civile e delle organizzazioni internazionali. Il Piano ha inoltre raccolto la voce dei rifugiati stessi, attraverso dei focus group condotti dall’Unhcr in varie regioni d’Italia". L’accanimento del Bahrein contro Nabil Rajab, difensore dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 settembre 2017 Nabil Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, si è visto rinviare ancora una volta, e sono ormai quasi 20, il processo. Da mesi ricoverato in un ospedale gestito dal ministero dell’Interno, Rajab sta già scontando una condanna a due anni, emessa il 10 luglio per "pubblicazione e diffusione di voci e notizie false relative alla situazione interna del paese", a causa di due interviste rilasciate nel 2015 e nel 2016. Non si conosce ancora la data dell’appello. Il processo rinviato oggi riguarda invece due tweet con cui Rajab aveva criticato l’intervento militare in Yemen e aveva denunciato, le torture compiute nel 2015 nella prigione di Jaw a seguito di una rivolta. Rischia 15 anni di carcere per "diffusione di notizie false in tempo di guerra", "offesa a un pubblico ufficiale" (il ministro dell’Interno) e "offesa a un paese straniero". La prossima udienza per Rajab è prevista il 19 novembre. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani continuano a chiedere il suo rilascio immediato e incondizionato.