Chiusi gli Opg, resta l’emergenza psichiatrica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2017 La patologia interessa un recluso su sette, l’abuso di sostanze interessa il 10-15% dei detenuti, il suicidio resta una delle prime cause di morte in cella. Alcuni istituti dotati di articolazioni psichiatriche risultano ancora inidonei a supportare i detenuti. Suicidi, autolesionismi e azioni violente che possono sfociare, come è già accaduto nel carcere senese di San Gimignano, in omicidio. Parliamo dei reclusi psichiatrici in carcere, nodo ancora irrisolto. Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e la realizzazione delle residenze per le misure di sicurezza (Rems) sono state una svolta epocale, ma rimane il problema dei detenuti psichiatrici al quale il personale della polizia penitenziaria, da sola, non può far fronte. Il carcere è, infatti, un amplificatore dei disturbi mentali e può alimentare una sorta di circolo vizioso della sofferenza psichica: l’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico che può essere già diagnosticato o ancora latente. La patologia psichiatrica riguarda 1 detenuto su 7, l’abuso di sostanze interessa il 10-15% dei detenuti, il suicidio resta una delle prime cause di morte in carcere. I numeri, diffusi l’anno scorso dalla Società Italiana di Psichiatria, dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze e dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, si riferiscono ad un contesto internazionale. Purtroppo l’Italia manca di dati epidemiologici propri, ma come specificano gli esperti si ritengono validi anche per il nostro Paese. Alcuni istituti penitenziari dotati di articolazioni psichiatriche risultano ancora inidonei a supportare i detenuti psichiatrici. L’esempio eclatante è il carcere di Reggio Emilia dove la situazione - già denunciata da Il Dubbio riportando la visita effettuata dalla delegazione del Partito Radicale composta da Maura Benvenuti, Vito Laruccia, Monica Mischiatti, Silvia De Pasquale e Ivan Innocenti - risulta allarmante. Cinquanta detenuti psichiatrici risultano sotto osservazione al nuovo reparto e a operare c’è un solo psichiatra che effettua un monitoraggio una volta a settimana. Il resto del lavoro compete agli agenti penitenziari mentre, in realtà, nell’articolazione per la tutela della salute mentale dovrebbe operare il personale sanitario specializzato per la cura. Una situazione che ogni giorno diventa sempre più insostenibili - sia per il personale che per i detenuti stessi. Tant’è vero che il 7 giugno scorso, uno dei detenuti ospiti nel reparto, si è impiccato. Si chiamava Andres Tangerini, aveva 47 anni, soffriva di una patologia psichiatrica ed era recluso da 2 anni e mezzo: a fine luglio sarebbe uscito dal carcere per andare in una comunità per potersi curare. Le articolazioni psichiatriche penitenziarie - Sono sezioni psichiatriche dove vengono collocati i soggetti con disagio mentale, condannati o in custodia cautelare. I soggetti destinati a tali sezioni sono gli imputati, i condannati o gli autori di reato la cui condizione psichica è da determinare (osservandi) oppure i condannati a cui è sopravvenuta un’infermità psichica nel corso dell’esecuzione di una condanna, o ancora che si trovano in condizione di minorazione psichica. Si tratta cioè delle categorie di soggetti che, pur avendo problematiche di natura psichiatrica, non sono, o non sono ancora, sottoposti a misura di sicurezza. La gestione, secondo legge, dovrebbe avvenire secondo criteri prettamente sanitari. Infatti sono a carico dei dipartimenti di salute mentale. Qui però nasce il problema: le Asl competenti, in molti casi, non predispongono i necessari presidi psichiatrici per garantire un numero adeguato di operatori sanitari per i detenuti sottoposti ad osservazione psichiatrica. Una gestione precaria che diventa sempre più esplosiva. Due sono state le scuole di pensiero che a colpi di emendamento erano andati a scontrarsi. Da una parte c’è la senatrice Maria Mussini che proprio per evitare questo disagio, tramite due emendamenti, ha chiesto e ottenuto di destinare alle Rems, in via prioritaria, le persone a cui è stata accertata l’infermità al momento della commissione del fatto e già prosciolte, e di estendere l’accesso ad altre “categorie giuridiche psichiatriche”, laddove le sezioni degli istituti penitenziari non siano in grado di garantire loro i trattamenti terapeutici necessari. Sempre la senatrice Mussini ha presentato un ulteriore emendamento in cui si chiede “un impegno al potenziamento della cura della salute mentale in tutti gli istituti penitenziari”. Dall’altra parte c’era la senatrice del Pd Emilia De Biasi che, con un emendamento, aveva chiesto espressamente di “destinare alle Rems le sole persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale e il conseguente bisogno di cure psichiatriche” e quindi l’esclusione dell’accesso alle Rems “dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisoria e di tutti coloro per i quali ancora occorra accertare le relative condizioni psichiche”. La senatrice De Biasi, sempre nell’emendamento, aveva chiesto comunque “garanzia dell’effettiva idoneità delle sezioni degli istituti penitenziari ad assicurare i trattamenti terapeutici e riabilitativi”. Nel frattempo, la senatrice Mussini prosegue l’impegno per i reclusi con problemi psichiatrici. L’affare assegnato alla Commissione Giustizia dal titolo: “La cura dell’infermo di mente autore di reato e la tutela della salute mentale negli istituti penitenziari. La revisione della disciplina delle misure di sicurezza personali: questioni interpretative e profili applicativi dopo la legge Marino”, su sollecitazione della Senatrice Mussini si concretizzerà in una serie di audizioni ai principali attori del sistema penitenziario e sanitario e produrrà una relazione. Suicidi in carcere - Sempre secondo uno studio della Società italiana di medicina e salute penitenziaria, la stragrande maggioranza dei detenuti convivono con un disagio mentale: dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Problemi gravi che possono portare a conseguenze estreme, come le migliaia di episodi di autolesionismo registrati ogni anno nelle carceri italiane, o i suicidi e tentati suicidi. Il suicidio, secondo i dati dell’Oms, è un fenomeno che riguarda ogni anno un milione di persone nel mondo e ha una marcata incidenza tra i detenuti. Tra di essi, infatti, circa il 50 per cento ha un disturbo della personalità, il 10 un disturbo psichiatrico importante, il 30 soffre di disturbo da abuso di sostanze. Quanto sia delicato questo terreno, lo certificano le cifre dell’Istituto Superiore di Studi penitenziari, da cui emerge che il tasso dei tentativi di suicidio, rispetto alla popolazione generale, è più alto di 6 volte nei detenuti condannati e di 7,5 in quelli in attesa di giudizio. Quello che manca nella maggior parte degli istituti penitenziari è una rete assistenziale specialistica psichiatrica e il compito aspetta alle Asl, quindi del ministero della Salute in primis. I libri di Pavarini e il destino del carcere di Stefano Anastasia Il Manifesto, 27 settembre 2017 Venerdì prossimo, 29 settembre, in occasione del secondo anniversario della sua scomparsa, la Casa circondariale e l’Università di Bologna, apriranno al pubblico la biblioteca di Massimo Pavarini nel carcere della sua città. Per volere dei familiari e con il concorso di molti (non ultima la Società della Ragione, che ha devoluto i fondi raccolti con il 5×1000 all’acquisto delle scaffalature lavorate dai detenuti della Dozza per ospitarne i libri), si compie così un desiderio di Massimo. Paradossale lascito, questo, per un abolizionista, salvo che si tenga nel debito conto il doppio movimento che una biblioteca come quella può suscitare in carcere, invogliando gli studiosi della pena a entrarvi (seguendo l’ammonimento di Calamandrei: “bisogna aver visto” per discutere del carcere e delle possibilità di una sua riforma) e stimolando i detenuti a evadere dalla propria condizione attraverso lo studio e la conoscenza. Nel pomeriggio, sempre a Bologna, Studi sulla questione criminale, la rivista che fu di Pavarini e che prosegue la tradizione della criminologia critica italiana, presenterà al pubblico il fascicolo doppio dedicato alla sua sociologia della pena. Sarà l’occasione (e altre ne verranno, speriamo, in molte altre città) per ripercorrere i temi e gli argomenti del pensiero e della ricerca di Pavarini, e di misurarne la rilevanza di fronte ai quesiti e alle sfide di oggi. Il sistema penitenziario italiano, si sa, sta lentamente scivolando in un nuovo sovraffollamento: in poco più di un anno e mezzo, le persone detenute sono cresciute di più di cinquemila unità, superando la soglia delle 57mila. Il respiro che la sentenza Torreggiani aveva dato al sistema penitenziario italiano, incentivando norme e pratiche per la decarcerizzazione, si è fatto corto e già si sente, in qualche istituto, la reazione di chiusura di un corpo in affanno. Nel frattempo, però, sono al lavoro le commissioni ministeriali che dovrebbero disegnare il nuovo volto all’ordinamento penitenziario, dando traduzione normativa non solo alla delega conferita dal Parlamento al Governo con l’approvazione della legge Orlando, ma anche alle centinaia di proposte e allo spirito riformatore che hanno animato gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro della giustizia all’inizio del suo mandato. Immediato pensare che l’una cosa possa rispondere all’altra, che la riforma dell’ordinamento penitenziario possa ridurre il sovraffollamento e riprendere la strada maestra della decarcerizzazione. E chiunque conosca la realtà del carcere non può che sperare che sia così, e invocare l’argine del diritto e della ragione contro l’abuso della privazione della libertà e della sofferenza inflitta legalmente. Ma il realista Pavarini ci metterebbe in guardia dal coltivare eccessive speranze: il diritto penale è uno strumento determinato politicamente e affidato al consapevole esercizio dei suoi operatori, la cui principale qualità sta nel saper interpretare lo spirito del tempo e la domanda sociale di controllo e di sofferenza penale. Se nella società italiana covano sentimenti di paura e di esclusione, non sarà una norma illuminata a cambiare la sorte del sistema penitenziario e dei suoi ospiti abituali. Che fare, allora? Rinunciare alle possibilità di una riforma e limitarsi a curare le ferite dei detenuti? No, non credo che neanche questo avrebbe condiviso il pragmatico Pavarini: comunque il diritto è - appunto - uno strumento, e la sua configurazione può agevolare o resistere al suo uso populistico. Facciamola, quindi, questa riforma, sfidando gli imprenditori politici della paura su un’altra idea della giustizia e della convivenza civile. Al via in aula alla Camera i lavori sul Codice antimafia. Mattiello (Pd): basta oligopoli di Francesco Cerisano Italia Oggi, 27 settembre 2017 Beni confiscati trasparenti. Rotazione degli incarichi di gestione e divieto di cumulo. Più trasparenza nell’affidamento degli incarichi di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Non potranno essere nominati sempre gli stessi professionisti e vi dovrà essere un collegamento tra i profili professionali individuati e la tipologia e l’entità dei beni appresi in via cautelare. Gli incarichi detenuti dallo stesso professionista non potranno essere superiori a tre, ma in particolari casi, quando si tratta di gestioni particolarmente complesse o di valore patrimoniale eccezionale, il cumulo degli incarichi sarà vietato. Lo prevede la proposta di legge di modifica al Codice antimafia (dlgs 159/2011) che dovrebbe tagliare questa settimana alla camera il traguardo dell’approvazione definitiva in terza lettura. Il testo punta ad aprire alla trasparenza un settore fortemente accentrato e oligopolista, dove la concentrazione degli incarichi nelle mani di pochissimi professionisti ha generato abusi come quelli di cui la procura di Caltanissetta ha accusato l’ex presidente della sezione misure e prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, a capo, secondo i pm, di una cordata di magistrati, avvocati, amministratori giudiziari e investigatori che avrebbe gestito in maniera privatistica e con una serie di favoritismi i beni sequestrati nel capoluogo siciliano. Anche per evitare il ripetersi di casi simili, la riforma del Codice antimafia punta a rendere maggiormente contendibile il settore. “E questo dovrebbe essere considerato già un grande risultato”, osserva il relatore Davide Mattiello (Pd). “Siamo consapevoli che il provvedimento non è perfetto e che potrà essere migliorato in futuro anche attraverso i regolamenti attuativi. E sarà in quella sede che si parlerà di un ritocco delle tariffe, tema che giustamente sta a cuore ai professionisti, e in primis ai commercialisti, ma che non poteva essere affrontato all’interno della normativa primaria”. Il provvedimento è stato licenziato dalla commissione giustizia di Montecitorio senza modifiche rispetto al testo approvato dal senato in seconda lettura lo scorso 6 luglio. La camera lo approverà senza modifiche, per evitare un nuovo passaggio al senato. Lo aveva annunciato il sottosegretario alla giustizia Federica Chiavaroli, proprio davanti alla platea dei commercialisti riunita a Montesilvano e lo ha confermato anche il relatore. “Il testo è blindato perché vogliamo chiudere quanto prima per dare un segnale importante, in un momento in cui le recenti indagini sugli incarichi universitari e sulla ‘ndrangheta in Lombardia (che hanno portato all’arresto del sindaco di Seregno, ndr) rilanciano l’allarme su quanto la corruzione sia sintomatica di un modo mafioso di esercitare il potere”. Anche Mattiello non è del tutto soddisfatto del testo finale del provvedimento (“personalmente avrei preferito che la vigilanza sull’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati passasse alla presidenza del consiglio, ma il senato ha rigettato la novità introdotta nel primo passaggio alla camera e la vigilanza è rimasta in capo al ministero dell’interno”, osserva) ma l’importante ora è portare a casa il voto finale. Oggi inizieranno i lavori in aula, con l’esame delle pregiudiziali di costituzionalità presentate da Forza Italia che lamenta un indebito allargamento delle misure di carattere penale contenute nel testo. Critiche infondate secondo il relatore che fa notare come “la proposta di legge verta in materia di misure di prevenzione patrimoniale che nulla hanno a che fare con il penale”. Il M5S dal canto suo non ha presentato pregiudiziali di costituzionalità ma ha annunciato che voterà contro. “Mi auguro che ci ripensino e che almeno si astengano in modo da marcare una distanza da Forza Italia”, auspica Mattiello. “Se ci sarà la volontà politica di chiudere, si potrà arrivare al voto finale già giovedì, altrimenti tutto slitterà alla prossima settimana”. Da oggi la giustizia tratta tutti da mafiosi di Alessandro Barbano Il Mattino, 27 settembre 2017 Cari lettori, mentre leggete questo articolo il Parlamento sta votando perché la giustizia del sospetto diventi in Italia non una patologia del sistema, non un’eccezione, ma la regola. Il codice antimafia, varato nel 2011 dal governo Berlusconi su iniziativa dei ministri Maroni e Alfano, esteso poi da successive disposizioni di legge e dalla giurisprudenza anche ai non mafiosi, purché delinquenti abituali, da oggi sarà applicabile contro tutti i sospettati di reati contro la pubblica amministrazione, compreso il peculato semplice, consentendo il sequestro e la confisca dei beni che si ritengano, presuntivamente, frutto di un’attività criminosa. Da oggi una gran parte della risposta penale della giustizia italiana sarà affidata al cosiddetto giudizio di prevenzione, un procedimento che non prova la colpevolezza, ma la mera pericolosità sociale, che non acquisisce prove, ma valuta indizi e congetture, che non prevede un pieno contraddittorio tra accusa e difesa, e che rende inutile il processo, poiché anticipa la punizione rispetto alla condanna. Le misure di prevenzione sono il sistema normativo più illiberale dell’Occidente. Ed infatti rappresentano un triste unicum in Europa. Sono figlie di un diritto cosiddetto del doppio binario, un diritto autoritario adottato dopo l’Unità d’Italia dalla destra storica per debellare i briganti, usato dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, fatto proprio dal Fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l’intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. È il diritto dei cattivi, delle regole spicce, del fine che giustifica i mezzi. Lo abbiamo eternato per combattere la mafia. E lo abbiamo difeso contro evidenza e ogni censura, come quella della Corte di Giustizia Europea, che solo pochi mesi fa ha esortato l’Italia a circoscriverne le fattispecie di pericolosità sociale, perché ritenute troppo generiche. Da oggi il diritto del doppio binario diventa la regola della giustizia italiana. Una giustizia dove si può entrare inconsapevolmente ben vestiti ed uscirne dopo anni nudi, senza sapere perché. Il nuovo codice antimafia ottiene il risultato perseguito dalla maggioranza parlamentare: costruire un sistema penale securitario, in cui non è più necessario acquisire le prove, ma è sufficiente alimentare sospetti che non siano immediatamente fugabili, e annientare con la clava di un pm onnipotente la maestà di un giudice terzo inerme. Da ultimo, per rendere la pillola digeribile, il Parlamento inserisce tra i reati per i quali sono possibili sequestri e confische anche lo stalking, un crimine odioso, contro il quale la pubblica opinione auspica misure più severe. Ma la Corte costituzionale non potrà mai assecondare la confisca dei beni di uno stalker, poiché non c’è nessun rapporto tra la natura della violenza e l’arricchimento indebito che la legge pone come presupposto. Tant’è. Una censura di costituzionalità val bene l’approvazione di un pacchetto che consente a una parte della magistratura di mettere sotto tutela, dopo la politica, anche l’economia italiana. Allo stesso modo l’impegno, ventilato nei giorni scorsi, di approvare il nuovo codice antimafia e poi di stralciare con un successivo provvedimento i sequestri e le confische, abrogandoli, è evaporato nel dibattito parlamentare come una delle tante tattiche bugie che una certa politica dice, sapendo di mentire. La legislatura è al capolinea. E una parte di coloro che oggi approveranno il codice, domani farebbero mancare il loro voto per la sua modifica. Il pacchetto, o il paccotto, come dir si voglia, è servito per mano di un ministro guardasigilli che ha stipulato un patto di reciproco interesse con una parte della magistratura militante e con un sistema dell’antimafia che alimenta un sottobosco consociativo e clientelare innervato nella politica, nella giustizia, nella burocrazia ministeriale e nelle professioni. Una gigantesca manomorta giudiziaria, che grazie ai sequestri e alle confische conta oggi qualcosa come 18mila aziende e un patrimonio stimato di 21 miliardi di euro, destinato in nove casi su dieci al fallimento. Questo sistema fuori controllo della democrazia italiana, in grado di tenere in scacco tutti i poteri che dovrebbero limitarlo, impone al Paese una legge fascista. C’è da chiedersi come possa un governo di centrosinistra assecondare un simile esito della democrazia. E come possa farlo una maggioranza non ancora uscita dalla minaccia della più grave forma di inquinamento della storia repubblicana, il caso Consip. Lo smarrimento civile della politica, e della sinistra di governo che ne è protagonista in questa stagione, spiega in parte ciò che sta accadendo. C’è tra la maggioranza una grande quota di parlamentari, alcuni di cultura e di discreta esperienza, che sembrano subire il corso degli eventi, intontiti e schiacciati all’angolo del ring dall’assedio del populismo giustizialista, tentati di venire a patti con i potenti tutori della politica per sottrarsi al rischio di finire alla gogna. Così il livido tramonto della legislatura somiglia a una trincea rassegnata e mal protetta, in cui la democrazia italiana se ne sta rannicchiata, nel tentativo di limitare i danni. Spaventata dalla furia di coloro che si annunciano alle porte come i nuovi liberatori, rinuncia a guardarsi in faccia e ad accorgersi che somiglia a un Paese sempre più brutto Le garanzie tradite. Il codice antimafia mostruosità giuridica di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 settembre 2017 Malgrado le diffuse critiche e le generali perplessità, la Camera si avvia ad approvare il cosiddetto codice antimafia nella sua dimensione più larga. Ovverossia introducendo il sequestro preventivo dei beni del presunto corrotto indipendentemente da una sua condanna definitiva. Come abbiamo scritto a suo tempo, si tratterebbe dell’ennesima improvvisazione che, sotto la parvenza di una decretazione solenne, nasconde l’incapacità del legislatore di affrontare strategicamente il problema della corruzione, affidandosi a espedienti di assai incerta efficacia. In realtà sembrava che il governo ci volesse ripensare. Ora invece, o per ragioni tecniche e tempistiche, o - più probabilmente - per strizzar l’occhio alle sinistre in vista delle alleanze elettorali, ritorna sui suoi passi e dà il via libera al provvedimento. Il quale, ricordiamolo, non è solo un mostro di inciviltà giuridica, ma anche un arma spuntata che, tra l’altro, attenuerà la lotta alla mafia. Primo. La sua mostruosità giuridica deriva dal fatto che il sequestro di beni sulla base di un sospetto è un tale oltraggio alla presunzione di innocenza - e alla logica del nostro codice di procedura penale - che potrebbe essere giustificato soltanto da situazioni eccezionali: come, per l’appunto, l’aggressività economica dell’intimidazione mafiosa violenta e assassina. Estenderlo ad altre ipotesi, per quanto gravi, significa violare la Costituzione e renderne difficile la definizione applicativa. Secondo. Il fatto che sia un’arma spuntata deriva dalla sua assoluta inidoneità a combattere il dannato maleficio della corruzione. Contro la quale, come ripetiamo da sempre, è già stato scatenato l’intero arsenale sanzionatorio del nostro traballante ordinamento, con l’introduzione di leggi sempre nuove e di pene sempre più alte. Con l’unico risultato che nel frattempo la corruzione è aumentata in quantità e gravità, mentre i pubblici amministratori onesti sono paralizzati dal terrore di incorrere in qualche disgrazia giudiziaria, e firmano sempre meno. Da domani, con la prospettiva di vedersi sequestrare la casa, non firmeranno più niente. Terzo. Questa bella pensata attenuerà la lotta proprio a quella mafia che viene considerata, giustamente, il nemico più agguerrito. Perché? Per la stessa ragione che, annacquando il vino, questo perde di grado. L’eccezionalità di questa norma, infatti, può esser ammessa solo dalla sua applicazione a un fenomeno di mortale pericolo per lo Stato qual è, appunto, ogni organizzazione che operi con il terrore o con l’intimidazione. La sua estensione alla corruzione significa - di fatto - l’equiparazione di quest’ultima all’Isis e a Cosa Nostra. E poiché non c’è reato grave che non ne evochi uno di peggiore, un domani qualcuno proporrà di allargarla alla pedofilia, alla violenza sulle donne e, perché no, all’omicidio stradale. Concludo. Non sappiamo che sorte avrà questa legge. Pare, e questo sarebbe il paradosso più stravagante, che il governo intenda accompagnarla, o farla seguire, da una sorta di ordine del giorno interpretativo, che ne definirebbe, limitandola, l’estensione. Sarebbe l’ennesimo esempio di un’attitudine ondivaga e scombinata, che ha aumentato la confusione e ridotto la garanzie, sfasciando definitivamente quanto resta del codice del professor Vassalli. Il quale, dall’alto dei cieli, sarà tentato di restituire la sua medaglia di partigiano, visto che questo Stato, che continua a mantenere il codice penale di Mussolini, sta invece violentando la sua creatura in modo autoritario e vergognoso. “Il giudice come un arbitro, non può appartenere a nessuna delle due squadre” La Repubblica, 27 settembre 2017 L’appello del Partito Radicale e dell’Unione delle Camere Penali. “La separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri è una riforma indispensabile per avere un processo accusatorio moderno ed efficiente. La riforma serve a realizzare infatti la necessaria terzietà del giudice, prevista dall’art. 111 della Costituzione, adeguando il nostro ordinamento giudiziario al resto dell’Europa, dove una simile confusione fra giudici e procuratori, tra controllori e controllati, risulta del tutto sconosciuta. È proprio la terzietà del giudice, scritta nella nostra Costituzione, ma mai realizzata, la caratteristica intrinseca ed irrinunciabile di un moderno processo accusatorio, nel quale l’azione del pubblico ministero è controllata da un giudice che disegna i confini invalicabili della legalità della prova, delle garanzie e dei diritti di tutti i cittadini. Il processo accusatorio ha bisogno di un giudice che sia e che appaia non solo imparziale, ma anche “terzo”, privo - come affermava Giovanni Falcone - di ogni “parentela” con il pubblico ministero. Un arbitro, infatti, per essere tale non può appartenere a nessuna delle due squadre. La riforma elaborata dai penalisti italiani, se da un lato restituisce legittimazione e autorevolezza alla figura del giudice, dall’altro scongiura ogni pericolo di assoggettamento della figura del pubblico ministero all’esecutivo, preservandone e potenziandone l’autonomia attraverso la creazione di due distinti Consigli Superiori. L’attuale sistema nel quale i giudici e i pubblici ministeri sono rappresentati da un medesimo organo di governo, all’interno del quale si giudicano l’un l’altro a fini disciplinari e di carriera, non ne garantisce invece né l’autonomia né l’indipendenza. La separazione delle carriere conferisce dunque trasparenza e democraticità all’intero sistema processuale. L’idea dell’unitarietà della giurisdizione è infatti il residuo di una cultura antidemocratica ed autoritaria che rispondeva ad una idea di processo inquisitorio repressivo. Un’impostazione divenuta del tutto inattuale ed incompatibile con il nostro modello di ispirazione liberale e democratica, deve essere un equilibrato strumento di accertamento delle responsabilità del singolo cittadino, e non uno strumento di repressione. Inoltre, questa riforma affronta un’altra questione essenziale per garantire la separazione dei poteri e l’efficienza del processo in quanto, pur preservando l’obbligatorietà dell’azione penale, ne modula opportunamente l’esercizio restituendo al Parlamento l’esclusiva competenza ad operare scelte in materia di politica criminale. Quella della separazione delle carriere non è dunque una scelta contro la magistratura ma una iniziativa a favore di una giustizia più giusta e di un processo che risponda alle esigenze e alle aspettative di tutti i cittadini. È per questa ragione, per evitare strumentalizzazioni ideologiche, che i penalisti italiani hanno deciso di proporre al Parlamento una propria legge di riforma, costituendo un autonomo Comitato promotore, chiedendo poi a tutte le forze politiche ed a tutti coloro che condividessero quella proposta di aderire e di sostenere il progetto. Il Partito Radicale Transazionale, il partito Liberale, la Fondazione Einaudi ed altri hanno da subito appoggiato la campagna di raccolta delle firme. Molti altri si sono in seguito espressi pubblicamente in favore della iniziativa sottoscrivendo la proposta: giuristi, giornalisti, magistrati, esponenti politici di ogni estrazione e schieramento, dimostrando con ciò la assoluta trasversalità del nostro progetto. La proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare, come previsto dalla nostra Costituzione, deve essere sottoscritta da almeno 50.000 cittadini aventi diritto di volto. In pochi mesi sono già state raccolte oltre 67.000 firme, ma è necessario dare forza a questa iniziativa perché il Parlamento la esamini al più presto. La giustizia non riguarda infatti avvocati e magistrati ma tutti i cittadini. Il 6, 7 e 8 ottobre, in occasione del Congresso Straordinario dell’Ucpi vieni a firmare anche tu”. Albamonte (Anm): “di giustizia si può morire, ma va in tv solo se è show” di Errico Novi Il Dubbio, 27 settembre 2017 “Di giustizia si rischia di morire. Eppure non è una notizia. Nonostante i media, la tv, siano invasi dai processi, un fatto assolutamente drammatico come l’aggressione subita nel tribunale di Perugia da due magistrati e da un cancelliere è trattata come un episodio marginale”. Eugenio Albamonte è presidente dell’Anm da circa 6 mesi. Sono bastati a farne conoscere l’equilibrio e la misura nei toni. Stavolta, pur senza mettere una parola fuori posto, risponde al telefono senza riuscire a nascondere l’enorme preoccupazione. Lunedì mattina, nel capoluogo umbro, il 53enne Roberto Ferracci si è inoltrato con un paio di coltelli in tasca all’interno del tribunale. Ha individuato la stanza della giudice fallimentare Francesca Altrui, titolare di un procedimento su un immobile appartenuto alla famiglia dell’aggressore. Ferracci ha tentato di uccidere la dottoressa Altrui con fendenti alla schiena. L’hanno salvata un altro magistrato, Umberto Rana, e un impiegato intervenuti e feriti a loro volta. Il primo in particolare è stato colpito al petto e in modo abbastanza grave da imporre il ricovero. Tragedia davvero evitata di un niente, presidente Albamonte…. I colleghi e il cancelliere sono vivi per miracolo. Il Paese che si vanta di prevenire il terrorismo non impedisce di accoltellare chi lavora nei palazzi di giustizia: com’è possibile? Ci troviamo a fronteggiare un rischio assai diverso da quelli del passato. Sicuramente i nostri sistemi di sicurezza si sono specializzati nella tutela del singolo magistrato particolarmente esposto. Ma oggi ci si trova di fronte a un tipo di pericolo completamente diverso. Che riguarda chi esercita la quotidiana amministrazione della giustizia in settori quasi sempre di ambito civilistico, finora non considerati a rischio. È chiaro che si debba cambiare sistema. In che modo? Vanno predisposti in tutte le sedi giudiziarie sistemi di vigilanza, di controllo, strutture come i metal detector, che siano in grado di proteggere chiunque lavori all’interno di un ufficio giudiziario. Parliamoci chiaro: verifichiamo ancora gli effetti di una crisi economica che innesca sfoghi violenti imprevedibili, episodi che possono costare la vita a qualsiasi magistrato, cancelliere o avvocato. Magistrati, avvocati e cancellieri di Perugia sono in assemblea: l’Anm umbra potrebbe proclamare un’astensione? Intanto ribadisco: l’aggressione è arrivata a un millimetro dal costare la vita ai due colleghi e all’impiegato: parliamo di coltellate all’altezza della colonna vertebrale e al petto. E proprio perché si tratta di una tragedia sfiorata, sono sconcertato e davvero allarmato per come i media se ne occupano. I fatti non sono stati riportati nella loro gravità? C’è stata un’attenzione davvero scarsa. Come se ci si fosse assuefatti a questo genere di tragedie, come se l’aggressione in cui nel 2015 sono rimasti uccisi un avvocato, un magistrato e un consulente del Tribunale di Milano fosse il paradigma di una sequenza divenuta ormai banale. Assurdo. Come se lo spiega? Con il fatto che il sistema mediatico riporta le vicende giudiziarie solo se si prestano alla spettacolarizzazione. Se un processo è adatto a costruirci sopra una trasmissione televisiva se ne parla, altrimenti non esiste. Non esiste, per i media, la quotidiana amministrazione della giustizia. Che è fatta di procedimenti forse poco adatti allo show ma portatori di un significato per la vita delle persone. E visto che non c’è attenzione per il servizio in sé, finisce per diventare irrilevante anche un fatto drammatico legato a quel servizio. Siamo in costante contatto con i magistrati di Perugia e con la sezione dell’Anm, pronti a sostenerli in ogni iniziativa che decideranno di assumere. In una nota il gruppo associativo di cui anche lei da parte, Magistratura democratica, chiama un causa la delegittimazione diffusa, l’odio nei confronti di qualsiasi istituzione. Un virus moltiplicato innanzitutto dai social media, come ricordato nell’incontro che le avvocature dei G7 hanno tenuto a Roma su questo tema. Ho partecipato personalmente all’incontro delle avvocature e condivido l’allarme per il generale diffondersi dell’odio in rete. Ma nello specifico questo linguaggio si innesta su una campagna anti- magistrati condotta nel tempo anche, anzi soprattutto attraverso i media tradizionali, da alcuni quotidiani per esempio. Non a caso proprio sulla bacheca facebook di un giornale si leggono in queste ore appelli deliranti a fare ‘ santo subitò l’accoltellatore di Perugia. La campagna d’odio contro i magistrati non è un fatto recente, dunque. Direi proprio di no. Si è propagata in modo anche sottile per anni. Mi riferisco ad attacchi mediatici spesso mirati su singole vicende ma che hanno contribuito ad alimentare un’ostilità profonda e diffusa nei confronti dell’intera magistratura. Dopo la tragedia di Milano la sicurezza nei Tribunali è stata centralizzata. Sarebbe meglio riportare i carabinieri al posto della vigilanza privata? Si può discutere se le forze di polizia tradizionali siano da preferire al privato, io intanto constato che a Perugia mancava qualsiasi servizio di sicurezza. Solo dopo l’aggressione è intervenuto un presidio che si è spostato dal palazzo di fronte. Mi pare inspiegabile che mancasse una vigilanza permanente e un banale sistema di metal detector. Tanto più che i collegi in assemblea segnalano come nel recente passato si fossero già verificati episodi allarmanti. Non spetta a noi magistrati analizzare le cause, ma è evidente che gli effetti sono inaccettabili. Tra magistrati e avvocati si rafforza il dialogo ma purtroppo anche la comune preoccupazione per la sicurezza nei tribunali. Mi fa piacere constatare come i rappresentanti dell’avvocatura si siano stretti ai colleghi di Perugia, pronti a condividere ogni possibile iniziativa di sensibilizzazione. In un quadro di distacco sconcertante dalla giustizia quotidiana e dai suoi possibili drammi, almeno questo è un segnale di speranza. Il pg di Roma Salvi critica i pm: “i capi d’imputazione sbagliati rallentano i processi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 settembre 2017 Pubblici ministeri contro pubblici ministeri. Un fatto insolito per il sistema giudiziario italiano normalmente abituato a ben altri tipi di “conflittualità”. Ad esempio, fra politici e magistrati. Oggetto dello “scontro” fra toghe è, da un lato, l’avocazione obbligatoria dei procedimenti penali da parte del procuratore generale. Dall’altro, le perplessità espresse soprattutto dai vertici delle Corti d’appello su una gestione a volte irrazionale dei fascicoli nella fase delle indagini. A sollevarle, per esempio, sono stati due importanti magistrati intervenuti due giorni fa al seminario organizzato dal Cnf sull’esame preliminare dei ricorsi in appello: si tratta di Valeria Fazio, procuratore generale di Genova, e del pg della Capitale Giovanni Salvi. Entrambi parlano di “capi d’imputazione mal formulati che ingolfano, alla fine, anche le Corti d’appello”. Ma lo scontro più acuto rischia di verificarsi sull’avocazione obbligatoria prevista nella riforma penale appena approvata. Un meccanismo che scatta in tutti i casi in cui il pm non eserciti l’azione penale o non richieda l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza dei termini delle indagini preliminari, l’avocazione del procedimento da parte del pg presso la Corte d’Appello. Nell’intento del Governo - che ha fortemente insistito per questa riforma - la norma dovrebbe garantire una maggiore rapidità del processo, evitando che i fascicoli rimangano “in sonno” negli uffici dei pubblici ministeri. Circa il 70% delle prescrizioni i dati sono del Ministero della Giustizia - maturano infatti nella fase delle indagini preliminari, dove il pm è dominus assoluto. La norma sull’avocazione obbligatoria già durante il dibattito parlamentare venne definita “inutile e pericolosa per il funzionamento dell’intero sistema penale” da parte dell’Associazione nazionale magistrati. Il gruppo dell’allora presidente dell’Anm Piercamillo Davigo valutò anche l’ipotesi, come forma estrema di protesta contro la sua approvazione, dell’astensione dalle udienze. Dopo un acceso confronto, il sindacato delle toghe decise di non scioperare, limitandosi ad un comunicato stampa diramato alla vigilia dell’approvazione definitiva in Parlamento: “Invece di raggiungere l’obiettivo di velocizzare il processo, l’avocazione mette a rischio l’efficacia e la completezza delle indagini e, in generale, l’efficienza e l’equilibrio dell’azione giudiziaria, mortificando al tempo stesso le aspettative di giustizia delle persone offese e le stesse garanzie per gli indagati”. L’altro giorno, però, alcuni magistrati hanno deciso di passare al contrattacco lanciando un appello indirizzato al governo e al parlamento affinché rivedano l’istituto dell’avocazione obbligatoria. Le criticità partono da una constatazione essenzialmente ‘ numericà e cioè riguardo il numero dei sostituti procuratori generali che dovrebbero sopperire alle “inerzie” dei colleghi dell’ufficio del pubblico ministero presso il Tribunale. “È impensabile - si legge nell’appello che sta girando sui forum associativi - che le Procure generali presso le Corti d’appello possano farsi carico dell’ingestibile numero di procedimenti pendenti presso gli uffici di primo grado, disponendo l’avocazione di tutti i procedimenti per i quali non vengano rispettati i termini fissati dalla legge”. Per le toghe firmatarie dell’appello, la conseguenza sarà che “i cittadini non vedranno, per effetto di tali disposizioni, alcuna accelerazione dei procedimenti, ma semmai un rallentamento, quale inevitabile conseguenza del giro di carte e di adempimenti burocratici previsti dalla legge”. Oltre a questo “giro di carte” fra uffici, viene evidenziato un altro aspetto che sembrerebbe, di fatto, aprire la strada alla discrezionalità dell’azione penale. La disposizione è pericolosa in quanto “proprio l’impossibilità per le procure generali di avocare tutti i procedimenti nei quali non siano rispettati i termini, consentirà di disporre la avocazione solo di alcuni procedimenti, evidentemente scelti fra quelli più sensibili”. La domanda è d’obbligo: quali fascicoli verranno avocati? Quello relativo al furto di un’autoradio o quello relativo ad un abuso d’ufficio commesso da parte di un sindaco? Una violenza sessuale o un abuso edilizio? La decisione spetterà al procuratore generale. Sarà lui, dunque, in maniera del tutto insindacabile, che deciderà quali procedimenti andranno avanti e quali saranno destinati, invece, alla prescrizione. Tale modifica, continuano i magistrati, si inserisce “nel solco di altre riforme che da tempo mirano a rafforzare il ruolo di controllo e di gerarchia degli uffici di procura generale e a disegnare un modello verticistico e gerarchizzato degli uffici del pubblico ministero. Si tratta di un trend politico e culturale, che purtroppo trova sponde anche all’interno della magistratura, molto pericoloso, in quanto determina una concentrazione di potere su pochi uffici di “vertice” con un evidente rischio di riduzione della autonomia e della indipendenza degli uffici e dei magistrati del pubblico ministero”, concludono i firmatari dell’appello. La soluzione, per le toghe, è già prevista nel codice: “Va ribadito che il controllo di legalità sull’azione (o l’inazione) del pubblico ministero deve essere affidato esclusivamente al giudice e non ad uffici “superiori” del pubblico ministero”. Oltre che al parlamento ed al governo, l’appello è rivolto anche al Csm e “a tutti i magistrati, in particolare a coloro che svolgono funzioni negli uffici di procura generale, di impegnarsi per una interpretazione restrittiva, e conforme a Costituzione, della nuova disciplina, in particolare fissando criteri obiettivi e predeterminati per le ipotesi di avocazione e tali da escludere la possibilità di una scelta selettiva dei procedimenti da avocare”. Va ricordato, infine, che non è allo stato prevista alcuna sanzione endoprocessuale per il pubblico ministero al quale venga avocato il fascicolo per decorso dei termini. A differenza del giudice, duramente sanzionato dal Csm se ritarda il deposito di una sentenza, per il pubblico ministero che fa prescrivere un procedimento vige il “salvacondotto” disciplinare. La giustificazioni per i ritardi del pubblico ministero sono diverse. Ad esempio la mole di intercettazioni telefoniche da esaminare prima di formulare il rinvio a giudizio. In questo dibattito tutto interno alle toghe, comunque, si rischia di perdere di vista il tema centrale che è quello della giusta durata del processo. I segnali che giungono vanno tutti nel senso contrario: aumento delle pene e allungamento della prescrizione rischiano, infatti, di rendere i processi eterni. Cassazione: l’immigrato con documenti falsi va arrestato in ogni caso Il Messaggero, 27 settembre 2017 L’arresto in flagranza per chi venga trovato in possesso di documenti falsi validi per l’espatrio è obbligatorio e non facoltativo. Non solo per chi sia sospettato di terrorismo, ma anche a carico dei migranti economici. L’ha stabilito la Cassazione, che ha accolto il ricorso presentato dalla procura di Milano contro un gip che riteneva che, in alcuni casi, l’arresto potesse essere discrezionale. La misura, invece, era stata introdotta come tassativa dalle norme contro il terrorismo islamico del 2015, varate dopo la strage Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher. Al termine di un processo condotto con rito direttissimo, il giudice del capoluogo lombardo non aveva convalidato l’arresto di T. K., un ventiquattrenne cingalese che era stato fermato il primo gennaio del 2017 all’aeroporto di Linate in possesso di un passaporto falso. Lo straniero si era giustificato dicendo di essere appena rientrato in Italia dopo un periodo di ferie trascorso nel suo paese di origine. Il ricorso - Per il magistrato milanese, la misura “non appariva giustificata dalla gravità del fatto e dalla personalità dell’arrestato, non essendovi alcuna motivazione a tal proposito nel verbale di arresto e dovendosi inoltre tenere conto del fatto che l’indagato era incensurato”, si legge nell’ordinanza. Nel ricorso presentato alla Cassazione, la procura ha invece fatto presente che l’indagato “era passibile di arresto obbligatorio e non facoltativo, come erroneamente ritenuto” dal gip, e che inoltre “era una persona già conosciuta alle forze dell’ordine a causa di un suo precedente arresto e, quindi, ne sarebbe stato giustificato anche l’arresto facoltativo”. Le norme - Per la Suprema Corte, il ricorso dei pubblici ministeri “è fondato”, visto che con le norme contro il terrorismo, varate nel 2015 subito dopo gli attentati di Parigi, è stato introdotto l’arresto obbligatorio per chi fabbrichi documenti falsi o ne venga trovato in possesso. Il reato di produzione e porto di documenti falsi è stato infatti aggiunto alla lista dell’articolo 380 del codice di procedura penale, che prevede appunto i casi di misura cautelare tassativa. “La violazione dell’articolo 497 bis del codice penale - stabilisce la Cassazione - è prevista come ipotesi di arresto obbligatorio”. I giudici della quinta sezione penale, quindi, hanno annullato l’ordinanza con la quale il gip non convalidava la misura a carico dello straniero. L’ordinanza nei confronti del ventiquattrenne cingalese, per gli ermellini, era stata “correttamente eseguita”. Datore denunciato, recesso solo per calunnia di Giuseppe Bulgarini d’Elci Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2017 Corte di cassazione, sentenza 26 settembre 2017, n. 22375. La denuncia formulata da una lavoratrice, nei confronti del legale rappresentante della società, di maltrattamenti e lesioni personali ricollegati ad una condotta vessatoria asseritamente subita in costanza del rapporto di lavoro, non è idonea a giustificare il licenziamento in tronco intimato dal datore di lavoro, quand’anche le accuse formulate in sede penale non fossero risultate veritiere. Rileva la Cassazione (sentenza 22375, depositata ieri) che la denuncia di condotte penalmente sanzionabili riconducibili al contesto aziendale è idonea ad integrare giusta causa di licenziamento solo se ne emerga il carattere calunnioso, nel senso che il lavoratore che ha sporto la querela deve essersi mosso nella consapevolezza della non veridicità dei fatti ascritti al legale rappresentante. Aggiunge la Corte che l’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 del Codice civile, cui è tenuto il lavoratore nell’esecuzione del rapporto di lavoro, non può essere spinto al punto di imporre al dipendente di astenersi dal denunciare fatti penalmente sanzionabili che egli ritenga essere stati consumati in ambito aziendale. Una tale lettura della norma codicistica finirebbe per avvalorare una sorta di “dovere di omertà”, dando spazio ad una ricostruzione sulle dinamiche del rapporto di lavoro che non può trovare ingresso nell’ordinamento. Il caso sottoposto alla Cassazione era relativo al licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che, sulla scorta di iniziative vessatorie asseritamente subite dal legale rappresentante dell’impresa, aveva sporto una denuncia-querela, poi conclusasi in sede penale con l’archiviazione. A fondamento del licenziamento il datore di lavoro aveva affermato l’irreparabile lesione del dovere di fedeltà a presidio del corretto svolgimento del rapporto di lavoro. La Corte d’appello territoriale, riformando la sentenza del Tribunale di Bologna, aveva confermato la legittimità del licenziamento, osservando, tra l’altro, che il diritto di denuncia va esercitato nel rispetto dei principi di continenza formale e sostanziale, nel caso di specie travalicati dalla lavoratrice per aver denunciato fatti privi di effettivo rilievo in sede penale. La Cassazione ribalta questa prospettiva e osserva che alla denuncia non possono essere applicati i principi di continenza previsti per l’esercizio del diritto di critica, ulteriormente rilevando che la circostanza per cui il procedimento penale era stato definito con l’archiviazione della notitia criminis non è sufficiente a connotare la denuncia in termini di calunnia. Nell’ambito del rapporto di lavoro, conclude la Corte, la denuncia di fatti penalmente rilevanti non può essere fonte di responsabilità disciplinare, a meno che l’iniziativa sia stata assunta strumentalmente, nella consapevole convinzione dell’insussistenza dei fatti o della loro non riconducibilità ad una responsabilità datoriale. Tutto ciò, salvo che il lavoratore abbia intrapreso iniziative volte a dare pubblicità ai fatti oggetto di denuncia. Campania: Garante dei detenuti, un candidato escluso fa ricorso “si voti nuovamente” Il Roma, 27 settembre 2017 Raffaele D’Ambrosio, tra i candidati alla carica di Garante regionale dei detenuti, ha chiesto l’annullamento della votazione avvenuta il 12 settembre scorso, al termine della quale è risultato eletto Samuele Ciambriello. “Annullare la nomina e gli atti”. Così in una nota inviata alla presidente del Consiglio regionale della Campania, parla della questione relativa al raggiungimento del quorum. Ciambriello risulta eletto con 22 voti, la maggioranza semplice rispetto ai 47 presenti in aula. “Desidero rappresentare il mio rammarico per le modalità con cui ha dichiarato eletto alla carica di Samuele Ciambriello alla prima votazione con soli 22 voti su 47 votanti”. Da qui la richiesta “stante la scorrettezza avvenuta a discapito dei candidati non eletti a voler subito annullare la nomina e gli atti conseguenti alla stessa”. D’Ambrosio sottolinea che “era obbligatorio, come prevede la procedura da lei citata prima di procedere a effettuare la votazione da parte dei soggetti aventi titolo, raggiungere alle prime due votazioni la maggioranza dei 2/3 dei votanti per poter proclamare eletto un qualsiasi candidato”. Ma nella specifica votazione odierna “il quorum dei 2/3 era pari a 31,333 voti condizione essenziale per ritenersi valida. Nel caso di specie tale risultato non è stato raggiunto. In quanto, matematicamente parlando, ha portato a un numero inferiore ovvero il 22 che non risulta essere quello previsto per ritenersi legittima sotto un profilo giuridico la votazione raggiunta ovvero i 2/3”. Un atto che il candidato alla carica di Garante regionale dei detenuti giudica “palesemente viziato ed illegittimo poiché è chiaro che non si è trattato di un mero errore materiale, ma del grave mancato raggiungimento del numero che rende legale la votazione”. Parole chiare, quelle di D’Ambrosio: “Non vi sono ragioni né scuse che possano impedire detto annullamento dell’atto in quanto atto amministrativo a garanzia dei diritti dei cittadini e di tutta la Pubblica Amministrazione”. D’Ambrosio evidenzia che anche ripetendo le votazioni “è possibile raggiungere lo stesso risultato” che andrebbe a confermare l’elezione di Ciambriello come Garante dei detenuti, “Ma consapevolmente - precisa - ritengo doveroso da parte del presidente della Regione Campania e della minoranza o la maggioranza politica attenersi rigorosamente alla legalità”. Bologna: due poliziotti indagati per omicidio colposo dopo il suicidio in cella di Alessandro Cori La Repubblica, 27 settembre 2017 Dopo la morte di un senegalese in questura. Gli avvocati penalisti denunciano: “Non si sacrifica la dignità dei detenuti per le esigenze di bilancio”. La procura di Bologna ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo sul suicidio del 39enne senegalese che si è impiccato in una cella della questura venerdì scorso, dopo essere stato arrestato per maltrattamenti in famiglia. L’inchiesta è stata aperta sulla base delle richieste fatte dai familiari della vittima e per consentire l’autopsia. Due poliziotti sono indagati. L’iscrizione, un atto appunto a garanzia degli indagati che potranno così nominare un proprio consulente di parte, riguarderebbe i due agenti addetti, venerdì sera, alle camere di sicurezza. Anche la famiglia della vittima potrà nominare un consulente La vicenda - L’uomo, Oumar Ly Cheikou, che risultava irregolare in Italia e con diversi precedenti specifici per violenza domestica, si è ucciso con una maglietta nella cella di sicurezza della questura mentre la moglie formalizzava la denuncia contro di lui. Era rimasto solo mentre il piantone si occupava di un altro arrestato. Il senegalese è stato fermato per maltrattamenti ai danni della compagna, cittadina italiana, e per resistenza a pubblico ufficiale, per aver reagito all’intervento degli agenti. La polizia era stata chiamata dalla donna, verso le 21 ed è andata in una casa in zona San Vitale. Il senegalese non era nuovo a comportamenti violenti verso di lei e c’era già stato almeno un altro intervento delle forze dell’ordine durante l’estate. La coppia ha un bambino di circa tre anni. La difesa del Siulp - “Premesso che abbiamo piena fiducia nel lavoro che svolgerà la Procura, staremo a fianco dei colleghi e non li lasceremo soli”, dice il segretario del Siulp di Bologna, Amedeo Landino. “Siamo convinti che i colleghi abbiano agito secondo le procedure, ai limiti della possibilità oggettiva di gestire la situazione, alla presenza di più persone arrestate o fermate”. L’appello degli avvocati penalisti - “Non ci stancheremo mai di denunciare qualsiasi inaccettabile sacrificio della dignità, della sicurezza e dei diritti delle persone ristrette, sull’altare di vere o presunte esigenze di bilancio: è l’economia che deve adeguarsi agli standard di tutela dei diritti fondamentali come riconosciuti in Costituzione, e mai il contrario. Vorremmo davvero che fosse l’ultima morte cui spendere parole di indignazione, e su cui aggiungere stancamente la ormai consunta frase: “si sarebbe potuto evitare”. Il consiglio direttivo della camera penale di Bologna interviene così sul suicidio. “Si apprende da fonti sindacali - scrivono infatti il presidente Roberto D’Errico e il segretario Ettore Grenci - che nella questura di Bologna i locali da vigilare sono quattro, con organico che molto spesso prevede il servizio di soli due agenti, e che il sistema di sorveglianza a mezzo telecamere, installato per controllare in tempo reale le celle di sicurezza, “si blocca spesso rendendolo di fatto inutilizzabile”. Il consiglio “è sempre stato convinto che non si possa intervenire su vicende così delicate con facili semplificazioni o, peggio, sommari processi, tanto più che sono in corso accertamenti per stabilire esattamente modalità e cause di tale tragico gesto. Non si può tuttavia nascondere profonda inquietudine nell’aggiungere un’altra persona alla lista dei tanti, troppi, che ogni anno si tolgono la vita in condizione di restrizione della propria libertà personale (siamo già a 40 detenuti suicidi dall’inizio dell’anno)”. Bologna: il Garante regionale dei detenuti “subito un’ispezione in quelle celle” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 27 settembre 2017 Marcello Marighelli: “già otto suicidi nelle carceri della Regione, il doppio dell’anno passato”. “Un caso drammatico, visiterò presto quelle camere di sicurezza per capire in che condizioni sono”. Marcello Marighelli, 67 anni, funzionario dell’Ispettorato del lavoro in pensione, già assessore a Ferrara, è il Garante regionale dei detenuti dopo aver ricoperto lo stesso ruolo a Ferrara. Il caso del senegalese morto a Bologna non lo stupisce: “I suicidi in cella sono raddoppiati”. Cosa pensa del suicidio di venerdì scorso? “È un caso che fa capire quante carenze abbiamo. L’aspetto drammatico è che magari quell’uomo poteva essere curato, la situazione si poteva risolvere, non si era di fronte a un reato gravissimo”. Però non era sorvegliato e si è impiccato. La colpisce questo aspetto? “Colpisce per i tempi rapidi, per l’uso di indumenti, che è comune. Sicuramente il problema del personale è uno dei più importanti ma non riguarda solo gli agenti. Nelle carceri si sente moltissimo la mancanza degli educatori, per esempio. Ma bisogna affrontare anche altri problemi di quelle celle”. Di che genere? “È importante la manutenzione, l’ammodernamento dei locali, la dotazione tecnologica. Ripeto, non è solo una questione di agenti”. Nelle celle della questura di Bologna ci sono le telecamere. “Bisogna vedere se funzionavano o no”. Quanti sono stati fino a oggi i suicidi in carcere in regione? “Nel 2017 siamo a otto. Un caso simile a quello di Bologna è avvenuto a Ferrara di recente. Lì il detenuto si è impiccato coi pantaloni. In tutto il 2016 erano stati quattro”. Quali altri problemi riscontra in qualità di Garante? “Nelle carceri ci sono situazioni disperate. Non solo in cella. Ricevo richieste d’aiuto di persone che hanno difficoltà a reinserirsi, che sono povere e non sanno cosa fare una volta fuori”. Lecce: carcere di Borgo San Nicola, oltre 300 detenuti in più e carenza di organico Quotidiano di Puglia, 27 settembre 2017 Parola chiave: sovraffollamento. È intorno a questo nodo che ruotano tutte le battaglie, sindacali e non solo. Una patata bollente che a Lecce è sotto i riflettori da molti anni: Borgo San Nicola, una struttura relativamente nuova se confrontata con altri carceri, che non basta più ad accogliere i detenuti ed è il motivo per cui le proteste si susseguono in modo incessante. Quasi una manifestazione al mese, una media molto più alta rispetto al resto d’Italia. Le presenze al carcere di Lecce parlano chiaro e sono pubblicate sul sito del ministero della Giustizia con i dati aggiornati al 31 gennaio di quest’anno. Che attestano anche in modo evidente una carenza di organico. A Borgo San Nicola la polizia penitenziaria dovrebbe essere pari a 719 unità, ma in servizio ce ne sono 606: dunque, un gap di circa 90 agenti. Gli educatori sono 8, ma ne sono previsti 10. E la carenza di unità si riflette anche sugli amministrativi: 39 unità contro le 50 previste. Poi, appunto, le cifre dei detenuti: dovrebbero essere 617 ma quelli effettivamente ospitati sono 928. E, cioè, quasi il 30 per cento in più. Non è difficile immaginare che le condizioni di vita siano più che difficili. Una condizione che al ministero conoscono bene tanto più che il polo carcerario di Lecce è cruciale nello scenario del Mezzogiorno. È il motivo per il quale l’amministrazione penitenziaria, negli ultimi mesi, ha completato l’iter per la realizzazione di un altro padiglione che potrebbe rappresentare per tutti una boccata d’ossigeno: almeno 200 posti - ma non è escluso che si possa arrivare anche a 300 nell’ambito di una risistemazione interna - che sarebbero vitali rispetto al surplus di detenuti. Livorno: il Garante regionale “tensione in carcere per le celle sovraffollate” gonews.it, 27 settembre 2017 Sovraffollamento nel padiglione di Alta Sicurezza nel carcere di Livorno. Questa la motivazione che ha spinto il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone, a visitare ieri mattina Le Sughere, sollecitato dai molti reclami ricevuti sulle critiche condizioni di vita nel penitenziario. “Il clima è peggiorato - ha detto Corleone - molti detenuti fanno resistenza passiva e la situazione può diventare pericolosa”. La fotografia descritta dal Garante presenta nel padiglione di alta sicurezza “117 carcerati, dei quali 30 ergastolani di lunga durata, invece di 99. Un terzo delle celle da due detenuti, ne ospita tre”. Il reparto di media sicurezza, ha spiegato il Garante, ospita 112 carcerati. Tra le criticità evidenziate il mancato funzionamento della cucina, “ancora da collaudare”, l’assenza di spazi fuori dalle celle come “locali per lo studio e la socialità” e la “mancanza di educatori nel padiglione”, con la conseguente “assenza di permessi”. “I lavori per la ristrutturazione dei due padiglioni - ha aggiunto Corleone - non sono ancora partiti e, inoltre, il carcere alla Gorgona dipende da Livorno, la direzione è la stessa”. In seguito agli eventi alluvionali verificatisi a Livorno, il 9 e 10 settembre, anche il carcere ha subito danni che hanno causato disagi alla popolazione carceraria. “C’è stato - ha detto il Garante - un problema di allagamento nei sotterranei che ha mandato in tilt i quadri elettrici e bagnato tutti gli indumenti invernali dei detenuti”. Al termine della visita, Corleone si è impegnato a investire delle problematiche il nuovo provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone e il presidente del Tribunale di sorveglianza Marcello Bortolato. Reggio Calabria: “Noi giovani detenuti tornati in classe” Avvenire di Calabria, 27 settembre 2017 Primo giorno di scuola per i ragazzi della Comunità Ministeriale del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria. I ragazzi della Comunità ministeriale del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ci aspettano, come di consueto, per il laboratorio di giornalismo. Dopo diversi numeri, in cui hanno prima raccontato la loro storia e poi proposto ai lettori il loro punto di vista su altre esperienze, è giunto il momento di parlare di loro. Il tema può sembrare banale, ma non lo è: il loro primo giorno di scuola. Si tratta di un’ordinarietà che si inserisce nella loro condizione straordinaria. Per questo parlare di scuola vuol dire progettare il loro futuro, ma anche guardare in modo introspettivo al loro recente passato e condividere la loro situazione attuale che li vede ristretti per degli errori che stanno pagando in prima persona. Tre di loro hanno accettato di scrivere e di raccontare cosa è per loro la scuola. B.: “Ho potuto discutere con i miei prof” - “Il mio primo giorno di scuola è stato un pò strano perché ero l’unico ragazzo presente. L’impressione che mi hanno dato i professori è stata abbastanza buona poiché ho avuto il piacere di poter discutere con loro e conoscerli meglio. Le materie che vengono insegnate sono italiano che comprende antologia, grammatica, storia ed epica; matematica che comprende scienze e tecnologia, e infine religione”. R: “Voglio la licenza media per lavorare” - “Una volta arrivato in classe ho visto che la maggior parte dei miei compagni erano persone molto più grandi di me. Questa cosa mi ha stupito molto; tra l’altro a scuola ho incontrato un ragazzo che era con noi a Cucullaro e con lui ho visitato tutti i locali della scuola. Perché voglio andare a scuola? Per prendere la licenza media e poter andare a lavorare”. D: “Se mi diplomo, vuol dire che so fare qualcosa di buono” - “Ho 17 anni e sono al quarto. È il secondo anno che sono in questa scuola, mi trovo molto bene, i professori sono in gamba, e se abbiamo bisogno di qualcosa ci aiutano molto. Il mio obiettivo è prendere il diploma con un bel punteggio e sarei davvero contento se ce la facessi perché almeno, in questa brutta situazione in cui mi trovo, ho potuto fare qualcosa di buono”. Cremona: carcere e volontariato, al via un ciclo di incontri di formazione mondopadano.it, 27 settembre 2017 Al via dal 7 ottobre un ciclo di incontri di formazione pensati per approfondire la conoscenza della Casa Circondariale di Cremona, le tematiche legate alla detenzione, la funzione rieducativa del carcere e come il volontariato possa esserne parte attiva. Gli incontri gratuiti forniranno così un valido aiuto a volesse avvicinarsi a questa esperienza e a chi invece da tempo ne è coinvolto. Il volontariato penitenziario è quel filo che accompagna il reinserimento della persona dalla reclusione alla libertà, un ponte che la solidarietà getta tra le due città, quella libera e quella imprigionata. La presenza di volontari in carcere riveste un ruolo molto importante per la qualificazione del tempo detentivo e favorisce la ricostruzione di relazioni propedeutiche al reinserimento sociale. Il ciclo è destinato a quei volontari che già operano all’interno della Casa Circondariale e persone interessate ad avvicinarsi al volontariato penitenziario. Calendario - Sabato 7 ottobre 2017 dalle 9.00 alle 13.00 - Casa circondariale di Cremona: caratteristiche dell’utenza, regole, ruoli e funzioni degli operatori. Il progetto d’istituto, dott.ssa Maria Gabriella Lusi - direttrice Casa Circondariale di Cremona. I confini del volontariato penitenziario: motivazioni, attività e prospettive. Tavola rotonda con esperienze locali Sabato 14 Ottobre 2017 dalle 9.00 alle 13.00 - Dentro e fuori: regole e misure per muoversi all’interno del carcere e per aiutare il reinserimento dei detenuti, dott. Giuseppe Novelli - coordinatore educatori casa circondariale di Cremona. La relazione d’aiuto: elementi di base legati alla relazione e comunicazione con i detenuti al fine di aiutarli nella risocializzazione, dott.ssa Raffaella Galli - Psicologa con esperienza in ambito penitenziario. Sede degli incontri: CSV Cremona - Cisvol, via San Bernardo 2 a Cremona. Modalità di partecipazione: il corso è gratuito e per le iscrizioni è necessario compilare ed inviare al Cisvol la scheda di iscrizione entro il 1 ottobre 2017. Il corso verrà attivato con un numero minimo di 10 iscritti. Le iscrizioni saranno chiuse al raggiungimento di 40 partecipanti. L’attestato di frequenza verrà rilasciato a seguito della partecipazione ad entrambi gli incontri. Per iscrizioni e informazioni: Cisvol - Csv Cremona. tel 0372.26585 fax 0372.26867. cremona@cisvol.it. www.cisvol.it. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del Progetto Re-Start. Percorsi di reinserimento socio-lavorativo oltre la pena. L’intervento è realizzato nell’ambito delle iniziative promosse dal Programma operativo regionale co-finanaziato dal Fondo Sociale Europeo. Il percorso formativo è stato progettato in collaborazione con Zona Franca, Uisp, Arci, Caritas Diocesana Cremonese. Brescia: dal carcere minorile al cammino di Santiago, il pellegrinaggio come riscatto di Lilina Golia Corriere della Sera, 27 settembre 2017 Otto ospiti della comunità Cattafame di Ospitaletto tra i 17 e i 19 anni saranno accompagnati dalla coop Fraternità Impronta in un cammino spirituale. “L’uomo non può pensare alla propria vita se non come a un pellegrinaggio”. Era una delle convinzioni più ferme di Giovanni Paolo II, parlando dell’uomo come pellegrino dell’assoluto. A Ospitaletto il pellegrinaggio diventa anche via di riscatto rispetto a scelte di vita sbagliate. Sono otto i ragazzi, ospiti della Cooperativa sociale Fraternità Impronta, protagonisti di un progetto esistenziale più che di semplice recupero. Il 13 ottobre per loro si aprirà la via del cammino di Santiago. L’iniziativa - Nello zaino lo stretto indispensabile per i dieci giorni di sfida con se stessi e con i fantasmi del passato. Una sfida che potrebbe aprire una porta su un mondo e un futuro diverso, grazie ad un impegno che, secondo i racconti di chi lo ha già vissuto, rigenera, guarisce e libera. “Sono ragazzi tra i 17 e i 19 anni che hanno già conosciuto il carcere e sono sottoposti a provvedimento penale in misura di messa alla prova. Hanno commesso reati anche gravi, ma pensiamo che abbiano diritto ad un’altra possibilità”. Pierangelo Ferraresi, presidente della cooperativa di cascina Cattafame e responsabile dell’area minori, li accompagnerà nel viaggio insieme a un altro operatore, Michele Zubani. “Cerchiamo di impostare la nostra attività su esperienze valoriali, per evitare che i ragazzi si trovino di nuovo nei guai, ma questa è una scommessa anche per noi”. Forse è la prima esperienza di cammino condotta in Italia con minorenni sottoposti a provvedimento penale. In altri paesi europei è prassi consolidata nei programmi penitenziari e giudiziari. I ragazzi della comunità di Ospitaletto (25 ospiti in tutto) che non hanno avuto bisogno di farsi proporre due volte il progetto. “Per qualcuno è la prima volta all’estero e poi c’è la prospettiva di incontrare e confrontarsi con altra gente durante il tragitto. Sono agitati anche perché non sanno fino in fondo che cosa li aspetta. Sanno solo che sarà tosta”. Condivisione e fatica sono le parole d’ordine della trasferta all’insegna della conquista di un obiettivo personale. E la conquista è cominciata ancora prima di partire. “Abbiamo chiesto ai ragazzi un contributo per il biglietto di viaggio (alloggio e altre necessità sono a carico della cooperativa, sulla scorta delle iniziative promosse sul territorio, l’ultima è stata la Sagra della lumaca)e chi non aveva i soldi, per poterselo pagare, ha lavorato nel ristorante della cooperativa”. 210 chilometri da Ponferrada - All’orizzonte ci sono in tutto 210 chilometri, 20,30 chilometri al giorno, cioè a dire, 6, 7 ore di cammino alla volta, preparate negli ultimi mesi con uscite settimanali di trekking in montagna. C’è stata anche la preparazione spirituale, culturale e storica attraverso testimonianze dirette e la visione di filmati sul pellegrinaggio che tra il XIV e XV secolo, in alcune zone d’Europa, era adottato dai tribunali come forma di pena per chi si macchiava di reati. e più il reato era grave e più il cammino era lungo. I ragazzi di Ospitaletto arriveranno a Santiago, dove ritireranno la compostela (l’attestato di raggiungimento della meta), partendo da Ponferrada, annotando ogni singola sensazione di ogni singolo passo, su un diario che, una volta riempito di emozioni e fatica, diventerà strumento di rielaborazione del passato per gettare le basi del futuro. “Non pensiamo di fare miracoli - precisa Ferraresi - ma, lavorando sui singoli e sul gruppo, con una proposta incisiva, speriamo di riuscire a offrire ai ragazzi una tappa importante per il loro percorso di rieducazione e reinserimento sociale”. Pieno appoggio anche da parte del tribunale dei Minorenni, nell’ottica di una riabilitazione e non di una punizione perché “camminare può essere una medicina, il carcere no”. Saluzzo (Cn): Progetto Parol, i cittadini liberi prestano la loro voce ai detenuti targatocn.it, 27 settembre 2017 Oggi, mercoledì 27 settembre alle 11, nell’aula magna del Soleri Bertoni (via Traversa del quartiere) “cittadini liberi prestano la loro voce ai detenuti” con la presentazione a 100 studenti delle classi II dell’istituto del libro “La stretta di mano e il cioccolatino” di Pietro Tarantella (edizione Giovane Holden). L’iniziativa è del liceo saluzzese e dell’associazione di promozione sociale Cascina Macondo, centro nazionale per la promozione della lettura creativa ad alta voce. Il libro è il racconto dell’esperienza di due anni di lavoro in carcere con il progetto europeo “Parol - Scrittura e Arti nelle Carceri - oltre i confini, oltre le mura”, in cui sono stati coinvolti 14 penitenziari di cinque paesi (Italia, Belgio, Polonia, Grecia, Serbia) tra i quali i carceri di Torino e Saluzzo. Un libro-diario che mostra come è andato avanti Parol, cosa è successo, quali progressi, quali sconfitte, quali entusiasmi, quali delusioni, quali alleanze. Un diario che diventa anche una fotografia. “Una fotografia della nostra Italia. Si propone di far entrare il lettore nell’universo carcere piano piano, come è accaduto a noi, e fargli vivere pagina dopo pagina quello che noi abbiamo vissuto. Riteniamo così che il resoconto possa avere davvero un qualche valore di testimonianza e una qualche utilità per tutti coloro che lavorano in carcere: dai direttori, agli agenti, alle amministrazioni penitenziarie, ai detenuti, ai cittadini liberi, e a coloro che si accingono a progettare percorsi europei nelle carceri. Ma anche un valore letterario nel mostrare, attraverso gli scritti, i racconti, le poesie, gli haiku, i cut-up dei detenuti, quel mondo sconosciuto ai più che vive e palpita dietro le sbarre”. Il progetto Parol è stato occasione di riflessione in molte scuole elementari e superiori della città di di Torino e provincia. Bambini e adolescenti, attraverso gli scritti dei detenuti, hanno affrontato tematiche di legalità, convivenza, libertà, giustizia e diritti umani. Letture a cura di “Narratori di Macondo”, “Volcaedi” (Annette Seimer, Bruna Parodi, Luana Varagnolo, Pietro Tartamella) e studenti del Soleri Bertoni (Maria Ludovica Aprile, Maria Virginia Aprile). Info: Telefono: 0175 46662. Roma: il docu-film dei detenuti di Rebibbia è finalista al Festival Napoli cronachedellacampania.it, 27 settembre 2017 La consapevolezza degli errori compiuti, l’impegno per crescere e maturare, la volontà di non perdere la speranza di una vita ‘normalè e al fianco delle proprie famiglie sono i sentimenti dei detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia raccontati nel docu-film “Rebibbia, liberi di ricominciare”. Il docu-film, per la regia di Amedeo Staiano e Guglielmo Mantineo, è tra i finalisti, nella sezione documentari, della rassegna del Napoli Teatro Festival che si concluderà il prossimo 1 ottobre. Il prodotto cinematografico, realizzato in soli quattro giorni, ha come protagonisti i detenuti che partecipano al laboratorio di Arte terapia e porta sullo schermo alcuni estratti dello spettacolo teatrale, scritto e realizzato dai detenuti che portano in scena le loro storie autobiografiche, in cui si innestano singole ‘intervistè in cui i detenuti-attori raccontano l’importanza dell’esperienza teatrale e i benefici che ne traggono in termini di consapevolezza, analisi su sè stessi, desiderio di un futuro diverso fuori dal carcere ma anche il valore del lavoro di squadra per la realizzazione di un obiettivo comune quale la costruzione dello spettacolo. “Il docu-film - ha spiegato il direttore di Rebibbia, Stefano Ricca - porta sullo schermo quello che per noi è il quotidiano e mostra il senso di speranza e la volontà di ricominciare dei nostri detenuti che, sebbene privati della possibilità di muoversi liberamente, hanno la piena libertà di esprimersi”. Lo spettacolo teatrale, sostenuto dalla Diocesi di Roma, è il frutto del lavoro realizzato dalle psicologhe dell’Istituto, Sandra Vitolo e Irene Cantarella. “Il nostro obiettivo - ha detto Irene - è trasformare il tempo del carcere in tempo di crescita e rinascita dell’individuo, in tempo utile senza tralasciare l’importanza del coinvolgimento delle famiglie”. E infatti particolarità dello spettacolo teatrale realizzato nel 2017 dal laboratorio di Arte terapia è la presenza attiva dei figli dei detenuti che recitano al fianco dei loro padri. “Non bisogna mai dimenticare - ha concluso Vitolo - che i bambini non hanno colpe e che la lontananza toglie ai padri la responsabilità di crescerli”. Parma: cinema in carcere, sei ore al mese di “evasione” in via Burla di Titti Duimio ilcaffequotidiano.com, 27 settembre 2017 “L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo”. Questa la definizione di cultura dell’enciclopedia Treccani. Cultura non è solo nozioni e sapere didascalico ma anche civiltà e rispetto degli individui. Tutti gli individui, anche quelli che questo rispetto non l’hanno dimostrato e che hanno violato leggi e commesso reati e per questo privati della loro libertà’ personale. Il carcere come luogo educativo e non solo punitivo, come momento di confronto e di riconoscimento della dignità dell’essere umano al di là delle azioni commesse, un atto di coraggio da parte di una società solida che tenta di migliorarsi senza ignorare gli errori e gli orrori che la circondano, un momento di critica che mette al centro il rispetto di sé e del diverso da sé senza pregiudizi, questo è il merito, forse, dell’iniziativa dell’associazione Solares. Presentato martedì pomeriggio 26 settembre nella Sala Stampa del Comune il progetto “Cinema in Carcere” che prevede 6 ore al mese di proiezioni all’interno della casa protetta di via Burla in orari pomeridiani fuori dalle normali attività ricreative e formative programmate. Un progetto sostenuto dall’assessorato al Welfare del Comune di Parma, gli Istituti Penitenziari e dall’associazione Solares Fondazione delle Arti-Cinema Edison in un’ottica di miglioramento delle condizioni dei detenuti nel carcere di Parma. “Un atto di civiltà - l’ha definito l’assessore Rossi nel corso della conferenza stampa-in un momento delicato per la nostra casa circondariale senza un direttore in carica e poche risorse da utilizzare abbiamo voluto dare un segnale di presenza e di attenzione alle condizioni dei nostri carcerati. Fino a pochi anni fa era impensabile dialogare con l’interno della prigione ma grazie a iniziative come questa ora ci sono segnali di grande apertura e di collaborazione”. “Spazi di libertà personale in cui, a luci spente, i carcerati si trasformano in normali spettatori senza giudizi e senza il peso delle colpe ritagliato addosso. Semplici persone che liberamente diventano individui che si confrontano con il cinema attraverso le proprie esperienze e le proprie emozioni, un riconoscimento di evasione momentanea dalla realtà’ quotidiana che non può’ permettersi di lasciare spazi all’ascolto del singolo” dice Michele Zanlari responsabile del progetto per Solaris Fondazione delle Arti-Cinema Edison. “Cinema d’autore concordato con i detenuti, nessun intento didattico ma un vero confronto costruito insieme, per questo credo che questa seconda edizione sia una grande opportunità’ per coltivare interessi in una comunità’ costretta alla reclusione e isolata dal mondo reale. E i segnali positivi ci arrivano anche dai normali cittadini che chiedono di poter assistere alle proiezioni insieme ai detenuti provando a comprendere e non a giudicare chi vive dentro un carcere. Una grande operazione non solo educativa ma anche di grande umanità”. Anche Roberto Cavalieri, garante per i detenuti del Comune di Parma ha espresso la sua gratitudine per l’iniziativa dell’assessore Rossi in un momento drammatico del carcere. “Ci vuole coraggio ad esporsi in questo periodo in cui via Burla è al centro di episodi particolarmente negativi, ma la volontà’ di dare dignità ai carcerati rimane un dovere civile per una città come Parma” dice il garante. La prossima programmazione prevede, il 27 e 28 settembre, la visione di “La La Land”, proiettato a sei mesi dall’uscita italiana, seguito, l’11 e 12 ottobre, da un film da Oscar come “Manchester by the Sea”, ai quali si aggiungeranno, l’8 e il 9 novembre, un’opera indipendente come “Paterson”, e infine, il 6 e 7 dicembre, “Il Grande Dittatore”, un classico restaurato dalla Cineteca di Bologna con la presentazione di Andrea Peraro. Rieti: “Lo sport entra nelle carceri”, oggi a Vazia grazie al Coni Il Messaggero, 27 settembre 2017 Portare sul territorio del Lazio una serie di iniziative con al centro la promozione sportiva per tutti e l’inclusione sociale. È quanto si propone il protocollo “Coni e Regione, compagni di sport”, cui si lega il progetto “Lo sport entra nelle carceri”, coordinato dal Coni Lazio e condiviso dalla Regione attraverso l’Assessorato allo sport e alle politiche sociali. Oggi, mercoledì 27 settembre, a partire dalle 9, nella Casa Circondariale di Rieti si svolgerà la festa a consuntivo delle discipline attivate nei mesi scorsi in collaborazione con le Federazioni di pallacanestro, pallavolo e scacchi, che hanno coinvolto circa 100 detenuti. È prevista anche una partita di calcio. Rieti è il secondo step, dopo la Casa di reclusione di Rebibbia, di un elenco che comprende anche gli istituti penitenziari di Latina, Viterbo e infine ancora Rebibbia, con la sezione femminile. L’intento è di creare un rapporto con le amministrazioni carcerarie favorendo il crescere delle iniziative e degli scambi, che si potranno tradurre di volta in volta nella fornitura di materiale sportivo, consulenze e supporto nell’organizzazione di ulteriori momenti di sport. L’attività fisica è infatti riconosciuta quale mezzo riabilitativo e può essere finalizzata al benessere psico-fisico di chi vive in condizioni di restrizione personale. La speranza è di ampliare così l’offerta sportiva e formativa, in maniera che aumentando le occasioni di socializzazione, possa crescere anche l’autostima e il rispetto delle regole comuni. La Nato boccia la rinuncia alle armi nucleari di Manlio Dinucci Il Manifesto, 27 settembre 2017 Il Consiglio nord-atlantico esautora i parlamenti nazionali dei paesi membri, privandoli della sovranità di decidere se aderire o no al Trattato Onu sull’abolizione delle armi nucleari. Il giorno dopo che il presidente Trump prospettava alle Nazioni Unite uno scenario di guerra nucleare, minacciando di “distruggere totalmente la Corea del Nord”, si è aperta alle Nazioni Unite, il 20 settembre, la firma del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Votato da una maggioranza di 122 stati, esso impegna a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione. Il primo giorno il Trattato è stato firmato da 50 stati, tra cui Venezuela, Cuba, Brasile, Messico, Indonesia, Tailandia, Bangladesh, Filippine, Stato di Palestina, Sudafrica, Nigeria, Congo, Algeria, Austria, Irlanda e Santa Sede (che l’ha ratificato il giorno stesso). Il Trattato entrerà in vigore se verrà ratificato da 50 stati. Ma il giorno stesso in cui è stato aperto alla firma, la Nato lo ha sonoramente bocciato. Il Consiglio nord-atlantico (formato dai rappresentanti dei 29 stati membri), nella dichiarazione del 20 settembre, sostiene che “un trattato che non impegna nessuno degli stati in possesso di armi nucleari non sarà effettivo, non accrescerà la sicurezza né la pace internazionali, ma rischia di fare l’opposto creando divisioni e divergenze”. Chiarisce quindi senza mezzi termini che “non accetteremo nessun argomento contenuto nel trattato”. Il Consiglio nord-atlantico esautora così i parlamenti nazionali dei paesi membri, privandoli della sovranità di decidere autonomamente se aderire o no al Trattato Onu sull’abolizione delle armi nucleari. Annuncia inoltre che “chiameremo i nostri partner e tutti i paesi intenzionati ad appoggiare il trattato a riflettere seriamente sulle sue implicazioni” (leggi: li ricatteremo perché non lo firmino né lo ratifichino). Il Consiglio nord-atlantico ribadisce che “scopo fondamentale della capacità nucleare della Nato è preservare la pace e scoraggiare l’aggressione” e che “finché esisteranno armi nucleari, la Nato resterà una alleanza nucleare”. Assicura però “il forte impegno della Nato per la piena applicazione del Trattato di non-proliferazione nucleare”. Esso è invece violato, tra l’altro, dalle bombe nucleari statunitensi B61 schierate in cinque paesi non-nucleari - Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. Le nuove bombe nucleari B61-12, che rimpiazzeranno dal 2020 le B61, sono in fase avanzata di realizzazione e, una volta schierate, potranno essere “trasportate da bombardieri pesanti e da aerei a duplice capacità” (non-nucleare e nucleare). La spesa Usa per le armi nucleari sale nel 2018 del 15% rispetto al 2017. Il Senato ha stanziato, il 18 settembre, per il budget 2018 del Pentagono circa 700 miliardi di dollari, 57 miliardi in più di quanto richiesto dall’amministrazione Trump. Ciò grazie al voto bipartisan. I democratici, che criticano i toni bellicosi del presidente Trump, lo hanno scavalcato quando si è trattato di decidere la spesa per la guerra: al Senato il 90% dei rappresentanti democratici ha votato con i repubblicani per aumentare il budget del Pentagono più di quanto avesse richiesto Trump. Dei 700 miliardi stanziati, 640 servono all’acquisto di nuove armi - soprattutto quelle strategiche per l’attacco nucleare - e alle aumentate paghe dei militari; 60 alle operazioni belliche in Afghanistan, Siria, Iraq e altrove. L’escalation della spesa militare statunitense traina quella degli altri membri della Nato sotto comando Usa. Compresa l’Italia, la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100. Democraticamente decisa, come negli Usa, con voto bipartisan. Stereotipi e pregiudizi degli italiani: dagli immigrati agli ebrei di Ariela Piattelli La Stampa, 27 settembre 2017 In Italia cresce l’intolleranza verso gli immigrati. Questi, per il 35% degli italiani, sono al terzo posto nella classifica dei problemi del Paese, dopo l’economia e la politica; per il 42% ce ne sono troppi in Italia, e solo per il 5% rappresentano una risorsa per l’economia. Lo rivela una ricerca titolata “Stereotipi e pregiudizi degli italiani: dagli immigrati agli ebrei”, condotta dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) assieme all’istituto Ipsos, nell’ambito di un progetto sulla Storia dell’antisemitismo in Italia coordinato dall’Università Statale di Milano - con la partecipazione di Università La Sapienza di Roma, Università di Genova e di Pisa. “Abbiamo fatto 38.000 interviste - spiega il presidente Ipsos Nando Pagnoncelli - e ne emerge una fotografia in formato ridotto del nostro paese. Oggi c’è un sentimento di minore tolleranza, di antimmigrazione in una parte considerevole della popolazione. La fiducia degli italiani nell’Unione Europea è scesa dall’80% al 30%. La maggior parte crede che possano essere accolti soltanto i rifugiati e non gli immigrati che arrivano per ragioni economiche”. La ricerca, messa a confronto con quella precedente del 2007, analizza la reazione del Paese all’immigrazione e al multiculturalismo, ma soprattutto misura il pregiudizio antiebraico in Italia nelle sue caratteristiche demografiche, politiche e religiose, e rivela che negli ultimi 10 anni il dato dell’antisemitismo è rimasto invariato. “È aumentata l’intolleranza verso gli immigrati, la xenofobia e avremmo potuto aspettarci un balzo in avanti dell’antisemitismo” - spiega Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio Antisemitismo del Cdec. “In 10 anni il mondo è cambiato molto. Alle stesse domande che facemmo allora mi aspettavo oggi risposte catastrofiche. Invece il risultato è all’incirca identico e questo mi sembra un dato positivo. Come dire, su questo fronte “no news, good news”. Non c’è quindi un aumento di ostilità nei confronti del mondo ebraico: rispetto ad esso il gruppo più numeroso degli italiani è composto dai “neutrali” (41%), cattolici non praticanti, che non hanno aderito a nessuna affermazione antisemita. Gli antisemiti sono invece il 10%, e sono poco istruiti, soprattutto residenti nel Sud Italia e molto intolleranti verso gli immigrati. Alfano straccia lo ius soli: “Non è il momento giusto” di Carlo Lania Il Manifesto, 27 settembre 2017 Il leader di Ap mette fine alla legge: “Ora sarebbe un regalo alla Lega”. Che però brinda. Sarà stato l’effetto del voto tedesco o magari, come è più probabile, le frizioni interne al partito e la paura di perdere voti. Fatto sta che ieri Angelino Alfano ha lanciato l’ennesimo altolà sullo ius soli. “Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata e un regalo alla Lega” ha mandato a dire il ministro degli Esteri al premier Paolo Gentiloni, dimenticando che in un anno e nove mesi in cui il testo è rimasto fermo al Senato forse il momento giusto per approvarlo si sarebbe potuto anche trovare. Le parole del titolare della Farnesina suonano invece ancora una volta come una pietra tombale sulla legge e, guarda caso, arrivano appena ventiquattro ore dopo l’appello che il cardinale Gualtiero Bassetti, neo presidente della Cei, ha lanciato al parlamento e allo stesso Gentiloni perché invece si affrettino a dare il via libera al ddl sulla cittadinanza, indicato come un passaggio fondamentale per l’integrazione di decine di migliaia di giovani nati nel nostro Paese da genitori immigrati. Probabilmente la paura che la richiesta dei vescovi potesse fare breccia a palazzo Chigi e smuovere il premier, magari convincendolo a porre finalmente la fiducia sul provvedimento come promesso, deve aver convinto Alfano a intervenire per rassicurare i suoi elettori in vista del voto siciliano, scongiurando allo stesso tempo possibili (ma per la verità ormai alquanto improbabili) sorprese da parte del capo del governo. Le sue dichiarazioni hanno comunque l’effetto di provocare il consueto fiume di reazioni da parte di chi, sempre a parole, fosse dipeso da lui la legge l’avrebbe già approvata da tempo. “Non è vero che non è questo il momento propizio”, dice quindi Matteo Richetti, portavoce della segreteria Pd, che annuncia l’intenzione del partito di cercare in aula i voti necessari, uno per uno. “La maggioranza parlamentare è la maggioranza parlamentare, e chi ci sta lo approvi con noi”. Già, peccato che solo qualche sera fa, parlando a “Cartabianca” su Rai3 della possibilità di approvare lo ius soli, era stato lo stesso segretario Matteo Renzi ad ammettere: “In questo momento non ci sono i numeri perché c’è paura, e se non ci sono i numeri non è che si possono stampare”. La verità è proprio questa: senza la fiducia per lo ius soli non c’è nessuna possibilità di vedere la luce in questa legislatura. Tra discussione del Def e legge di stabilità i tempi sono ormai strettissimi e senza un intervento di palazzo Chigi cercare i voti in aula è un’impresa pressoché disperata. Sulla legge pendono inoltre 48 mila emendamenti, presentati quasi tutti dalla Lega, e anche a volerli “cangurare” ne resterebbero sempre almeno 6-700. Troppi per discuterli in così poco tempo. Non a caso il coordinatore di Mdp - che insieme a Sinistra italiana e a qualche senatore ex 5 stelle è l’unico partito a non mostrare incertezze sulla legge - si appella al premier chiedendogli di dimostrare “forza e autonomia”. “Basta paure e incertezze, il governo non insegua la destra. Lo ius soli riguarda 800 mila ragazzi e questo conta molto di più di Alfano”, dice Roberto Speranza. E non manca chi, nel movimento di Bersani, è pronto a scommettere che un intervento del premier sbloccherebbe davvero la situazione “Se il governo mettesse la fiducia - spiega infatti una senatrice - gli alfaniani uscirebbero dall’aula e la legge passerebbe. Nessuno ha davvero voglia di far cadere il governo”. A destra intanto, com’era prevedibile, si brinda. Anzi, le parole di Alfano scatenano una gara per aggiudicarsi il merito di aver affossato la legge. “Amici, grazie a voi siamo riusciti a fermare lo ius soli e perfino l’inutile Alfano! Grazie”, esulta su Facebook Matteo Salvini. Al leader del Carroccio replica però la portavoce del partito di Alfano, Valentina Castaldini: “Mentre Salvini sbraita e invoca le ruspe noi facciamo i fatti”, dice. “Se sullo ius soli non viene posta la fiducia e non viene approvato è solo grazie ad Alternativa Popolare che si è opposta in maniera energica negando la propria disponibilità a votarlo. Salvini se ne faccia una ragione”. Lingua, casa e sanità: il piano del Viminale per integrare i migranti di Grazia Longo La Stampa, 27 settembre 2017 Parte il progetto a più livelli con Regioni, Comuni e terzo settore. Coinvolte più di 200 mila persone. Altri 100 milioni dall’Europa. “L’integrazione dei migranti, al di là degli aspetti socio-umanitari, è alla base di una società più sicura. Anche sul fronte del terrorismo islamico”. Il ministro Marco Minniti sottolinea così l’importanza del primo Piano nazionale di integrazione dei migranti appena approvato. Un progetto che prevede diritti e doveri per chi beneficia della protezione internazionale (sono ad oggi 74.853), in base alle norme della Costituzione italiana. Dalla conoscenza dell’italiano e il rispetto della carta costituzionale, dal riconoscimento della laicità dello Stato al rispetto della donna. Per i migranti è inoltre previsto il diritto al ricongiungimento familiare. Mentre l’Italia dovrà assicurare ai rifugiati uguaglianza e pari dignità, libertà di religione, accesso a istruzione e formazione, alloggio e sistema sanitario. Da qui un approccio che “prevede un’azione sistematica multi-livello alla quale contribuiscono Regioni, enti locali e terzo settore, tutti chiamati a sviluppare un’azione coordinata che consenta, attraverso politiche orientate a valorizzare le specificità, il pieno inserimento degli stranieri nelle comunità di accoglienza”. Perché questo avvenga la “strategia di integrazione” deve essere “sostenibile” e “questo è possibile solo se la presenza degli stranieri è equamente distribuita sul territorio nazionale”. Il piano riguarda, oltre ai titolari dei permessi di soggiorno, anche le 196.285 persone del sistema di accoglienza nazionale, la maggior parte richiedenti asilo e 18.486 minori stranieri non accompagnati. Quanto ai finanziamenti, spiega il Viminale, “derivano prevalentemente dai Fondi europei” 2014-2020 (“Fondo asilo migrazione e integrazione - Fami, Fondo sociale europeo - Fse, Fondo per lo sviluppo regionale - Fesr), “cui vanno ad aggiungersi le risorse nazionali che finanziano le attività degli enti territoriali”. Finora è stato stanziato complessivamente oltre mezzo miliardo. E altri 100 milioni sono stati promessi dall’Unione europea. Corsi gratuiti di italiano - Chi è accolto si impegna ad imparare l’italiano. Prioritari la formazione linguistica e l’accesso al sistema di istruzione. “La lingua è il primo imprescindibile strumento per uno scambio effettivo con le comunità di accoglienza: senza l’apprendimento della lingua non può esserci nessuna integrazione e nessuna partecipazione alla vita civile, lavorativa e sociale della comunità. Il sistema di istruzione, inoltre, nel suo essere universalistico e gratuito, rappresenta per i giovani rifugiati il percorso naturale per il pieno inserimento nella società italiana e per l’eventuale conseguimento della cittadinanza”. Incontri e dialogo anti-razzismo - Uno degli assi principali è innanzitutto “il dialogo interreligioso e interculturale”. L’implementazione del dialogo interculturale e interreligioso prevede quindi la realizzazione di occasioni di “incontro, confronto e scambio reciproco nelle comunità, nonché tra le comunità e l’ambiente esterno, anche al fine di prevenire e contrastare il diffondersi di fenomeni di razzismo e, in particolare, di islamofobia”. Molto importante anche l’atteggiamento di chi accoglie, che si impegna ad assicurare “l’uguaglianza e la pari dignità e la libertà di religione”. Il rispetto delle leggi - Chi viene accolto nel nostro Paese ha l’obbligo di “condividere i valori fondamentali della Costituzione italiana e rispettare le leggi”. Un principio considerato importante perché “vanno riconosciuti diritti essenziali che discendono dal loro status, cui devono corrispondere, così come per ogni cittadino italiano, altrettanti doveri e responsabilità per garantire una ordinata convivenza civile”. L’osservanza delle leggi italiane da parte dei migranti rientra nell’impegno al rispetto dei medesimi doveri e all’assunzione delle medesime responsabilità degli italiani, come previsto dalla nostra Costituzione. Nuovi incentivi per creare lavoro - Integrazione reale e inclusione nel tessuto sociale passano anche attraverso l’inserimento nel mondo del lavoro. Per tale ragione “la strategia di integrazione definita dal Piano considera prioritario l’inserimento socio-lavorativo del titolare di protezione internazionale, nella misura in cui è il lavoro a rendere la persona parte attiva del sistema economico e sociale della comunità”. Inevitabile dunque la sensibilità alla questione da parte di chi accoglie. Agli italiani si chiede infatti la disponibilità a favorire “interventi diretti a facilitare l’inclusione nella società e l’adesione ai suoi valori non negoziabili”. Cure mediche rivolte a tutti - Il Piano si sofferma anche sulla necessità di rendere effettivamente accessibile l’assistenza sanitaria a tutti i rifugiati, con particolare riferimento alle esigenze di accudimento delle categorie vulnerabili. Per il Viminale l’accesso al sistema sanitario “è un diritto sancito dalla Costituzione italiana”. È garantita a tutti i cittadini di Stati non appartenenti all’Ue, regolarmente soggiornanti, iscritti al Servizio sanitario nazionale, parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all’assistenza sanitaria erogata in Italia. Più risorse per gli alloggi - Per le persone in uscita dai Centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) è previsto il diritto alla casa. Si punta all’autonomia abitativa, anche tramite la selezione di annunci immobiliari, la locazione di stanze in appartamenti con connazionali o un supporto economico per l’affitto. “Nella consapevolezza della situazione di emergenza abitativa che coinvolge le fasce deboli di tutto il Paese - rileva il Piano - l’obiettivo per il prossimo biennio è che le persone titolari di protezione possano accedere alle risorse che il welfare territoriale mette a disposizione”. Lavoro e alloggio per 75mila profughi: il piano del governo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 27 settembre 2017 Il progetto per integrare chi ha diritto di restare in Italia. Protezione speciale per le donne. Dall’Ue arriveranno 100 milioni di euro. “Ma devono rispettare leggi e valori”. Garantire diritti e doveri dei profughi, ma soprattutto “bilanciare i diritti di chi è accolto con quelli di chi accoglie”. È questo il punto centrale del Piano per l’Integrazione varato ieri dal Viminale. Corsi di italiano, obbligo scolastico, alloggi, lavoro e assistenza sanitaria sono i cardini del progetto che al momento coinvolge 74.853 stranieri, obbligati a sottoscrivere una serie di impegni e in cambio, dopo il riconoscimento dello status di rifugiato, potranno accedere alle graduatorie per ottenere la casa e il lavoro. Dall’Ue arriveranno 100 milioni di euro, gli altri soldi saranno presi da quei finanziamenti europei destinati esclusivamente all’assistenza e all’accoglienza degli stranieri. Il rispetto dei valori. La premessa fondamentale riguarda i valori. E infatti nel Piano voluto dal ministro Marco Minniti viene evidenziato come “l’integrazione non può prescindere dalla piena e sincera adesione al principio di uguaglianza di genere, al rispetto della laicità dello Stato - concepita come libertà di coscienza e separazione tra autorità religiosa e autorità politica - nonché al rispetto della libertà personale, che demanda esclusivamente al singolo la libera scelta se identificarsi nella comunità culturale di origine o affrancarsi da essa”. Tutto questo può accadere con una “strategia di integrazione sostenibile, quindi con una presenza degli stranieri equamente distribuita sul territorio nazionale”. Per quanto riguarda l’Islam, si ribadisce che “le moschee siano aperte alla partecipazione di tutti i cittadini, oltre a prevedere che, in caso di nuove edificazioni, le fonti di finanziamento, sia interne che internazionali, siano rese note”. Si cercherà di favorire ulteriormente i ricongiungimenti familiari nella convinzione che “la separazione dei membri di una famiglia può avere conseguenze devastanti per il benessere psicofisico delle persone”. La scuola e i titoli. “L’apprendimento della lingua italiana rappresenta un diritto ma anche un dovere” e dunque è previsto “un test iniziale che aiuti a definire il livello e la metodica d’insegnamento più adatta” e “iniziative di supporto specifico per gli analfabeti”. I minori avranno naturalmente l’obbligo scolastico e per gli adulti è previsto “il riconoscimento dei titoli e delle qualifiche acquisiti nel Paese di origine” e dunque si è deciso di “uniformare le procedure per il riconoscimento e la valorizzazione dei titoli e delle qualificazioni pregresse, standardizzando metodi di valutazione alternativi in caso d’irreperibilità dei documenti ufficiali”. Case e lavoro. Gli obiettivi in materia di impiego sono due: “Creare un’offerta formativa per accedere alle politiche attive del lavoro sin dalla minore età”, ma anche “promuovere strumenti quali il tirocinio di formazione e orientamento e l’apprendistato, con una particolare attenzione alle categorie vulnerabili e alle donne”. È pianificato il sostegno alla creazione d’impresa, all’autoimpiego (poiché i titolari di protezione riscontrano difficoltà di accesso al credito per l’impossibilità di fornire adeguate garanzie) e al concreto inserimento nel settore lavorativo”. Per quanto riguarda gli alloggi sarà esteso “l’accesso alle possibili soluzioni abitative, rendendo territorialmente omogenea l’erogazione di servizi” e si “creeranno le condizioni perché i piani per l’emergenza abitativa regionali o locali prevedano percorsi di accompagnamento per i titolari di protezione in uscita dall’accoglienza, verificando anche la possibilità di includerli negli interventi di edilizia popolare e di sostegno alla locazione”. Nelle ultime fasi dell’accoglienza si devono “favorire iniziative di coabitazione: affitti condivisi e i condomini solidali”. L’assistenza sanitaria. L’assistenza sanitaria è già garantita a chi richiede asilo e queste persone dovranno essere inserite nella “fascia di popolazione più vulnerabile con particolare riferimento a salute mentale e disabilità, minori, donne, mutilazioni genitali femminili, violenza di genere”. Massima attenzione dovrà esserci per il “potenziamento delle attività di prevenzione con particolare riferimento a vaccinazioni, screening e tutela della salute materno-infantile”. Droghe. Cannabis, la legge va in Aula monca. Farina (Si) si dimette da relatore di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 settembre 2017 Si è dimesso per protesta, il relatore della legge sulla cannabis legale dopo che ieri la commissione Affari sociali ha licenziato il testo relativo al solo uso terapeutico bocciando tutti gli emendamenti presentati da Sinistra Italiana, Movimento 5 Stelle e Mdp. L’onorevole Daniele Farina ha tentato fino all’ultimo di dare un senso al lungo tempo speso alla Camera - quattro anni - a discutere sulla legalizzazione della sostanza, considerata ormai necessaria anche dalla maggior parte dei magistrati che indagano sul traffico degli stupefacenti, a cominciare dalla Direzione nazionale antimafia. E invece il testo che dovrebbe andare in Aula domani (ma che potrebbe slittare più verosimilmente alla settimana prossima) dopo aver ricevuto il parere delle altre commissioni, “non risponde alle richieste e alle aspettative ed è molto distante dalla discussione pubblica di questi anni nel nostro Paese e dalle esperienze concrete ormai diffuse in diversi Stati del mondo. Per fare una legge così - denuncia il deputato di Si - non servivano 4 anni di lavoro, due commissioni congiunte, tante energie e tante risorse: bastano sei mesi”. “Per queste ragioni - continua Farina che è stato subito sostituito nel suo ruolo di relatore dal dem Alfredo Bazoli - ho ritenuto di presentare le dimissioni da relatore, in modo da lasciare più liberi sia me che il gruppo di Si-Possibile, nel confronto in Aula, e far sì che ciascuno possa prendersi la responsabilità delle proprie posizioni davanti al Paese”. A cominciare dal Pd, che sulla legalizzazione della cannabis aveva inserito la retromarcia già a luglio, quando aveva deciso di accantonare la proposta di legge sottoscritta dall’intergruppo parlamentare promosso dal radicale Benedetto della Vedova (a cui aderiscono un centinaio di democratici) e di schierarsi con Lega, Ncd e Forza Italia in favore del testo messo a punto dalla co-relatrice Margherita Miotto e che norma soltanto l’uso medico della marijuana. Il renziano Roberto Giachetti, primo firmatario del testo originario, con un post su Facebook prende atto di non essere riuscito a far prevalere nel suo partito la linea antiproibizionista. “Mi adeguerò alle decisioni prese”, dice promettendo però “una battaglia ancora più vigorosa e convinta dentro al partito per consentire che nella prossima legislatura la nostra posizione cambi”. Il testo licenziato ieri dalla commissione è peraltro “debole” anche nell’ambito dell’uso terapeutico, come denunciano Si e M5S che si sono visti bocciare tutte le loro proposte di normare l’autocoltivazione, di eliminare le sanzioni amministrative, di introdurre i social club sul modello spagnolo e il monopolio di Stato. Unica correzione accolta è quella che allarga ad “altri enti e imprese” la coltivazione di marijuana e la sua trasformazione in farmaco fin qui riservate solo allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che comunque manterrà il monopolio della distribuzione. Qualora lo si ritenesse necessario, il ministero della Salute potrà autorizzare con un decreto le case farmaceutiche private, come avviene per tutti gli altri medicinali della terapia del dolore. Esclusa invece l’autocoltivazione, neppure se attuata da quei malati che hanno diritto alla copertura totale da parte del Sistema sanitario nazionale. “È definitivamente morto in Parlamento il tentativo di legalizzare la cannabis”, esulta il senatore Maurizio Gasparri commentando una legge che secondo il M5S “favorisce la criminalità”, e secondo i Radicali italiani è “un sollievo per le mafie” perché insiste nella “criminalizzazione della cannabis e dei milioni di cittadini che la consumano”. Scandalo concorsi universitari, quel sistema che resta impunito di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 27 settembre 2017 La vicenda che a Firenze ha condotto all’arresto di sette professori universitari è solo l’ultima di una lunga lista. Finirà con la solita prescrizione, dopo anni di processi? Riusciranno i giudici a portare fino in fondo il processo ai baroni arrestati per l’ennesima “concorsopoli”? O finirà con la solita prescrizione dopo i soliti undici o dodici anni di lungaggini e rinvii? Ecco il dubbio. Perché, certo, di arresti ne abbiamo visti. Tanti. Ma le condanne per le troppe selezioni “pilotate” sono state più rare degli ippopotami nel Garda. Prendiamo solo uno degli ultimi casi. Ansa, giugno 2016: “Il Tribunale di Bari ha archiviato per prescrizione di tutti i reati una delle indagini sui presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina dell’Università”. L’inchiesta era “sui concorsi per ordinari in Medicina interna risalenti agli anni 2005-2007. Gli indagati, tutti docenti universitari, rispondevano di associazione per delinquere, falso, interesse privato in atti pubblici e abuso d’ufficio...”. Titoloni sparati in prima pagina all’inizio, titolini se non il silenzio assoluto col passare delle settimane, dei mesi, degli anni... Con la rimozione totale, spesso, di documenti, testimonianze, intercettazioni che da soli, al di là del profilo penale e processuale, sarebbero stati sufficienti, in una università seria, a espellere persone chiamate a “educare” generazioni di ragazzi avvelenati dall’elogio della furbizia. Intimidazioni - Basti ad esempio la sfuriata del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, vicepresidente della Conferenza dei rettori (sic...), contro Giuliano Grüner, uno dei due ricercatori (con Pierpaolo Sileri) che avevano ricorso al Tar per la “chiamata” di colleghi che, scrisse Il Fatto, erano “senz’altro titolati ma incidentalmente figli di professori di Tor Vergata”. Ecco stralci della registrazione, purgata delle parole più “esuberanti” del Magnifico: “Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo (censura)!”. “O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore!”. Omertà diffusa - Un caso isolato? Per niente. Lo dicono le storie di ordinari passati dopo quattro giudizi negativi su cinque e altri bocciati da commissari con molte meno pubblicazioni. O quella di Maria Luisa Catoni, che dopo esser stata fellow a Berlino e senior fellow alla Columbia e aver presieduto (unica donna italiana) una commissione dell’European Research Council è stata scartata per “poche esperienze internazionali”. Un’Ansa del dicembre 1991 racconta “le vicende di due concorsi di ematologia e di pediatria invalidati per volontà del ministro della università Antonio Ruberti, dopo che su una rivista scientifica erano state pubblicate le prove dei “brogli”“. Indimenticabili i commenti. “È vero, in Italia per diventare professore d’università bisogna aver un padrino”, si sfogò la docente di pediatria Luisa Busingo confidando il senso di umiliazione, “io stessa, se sono associato lo devo a un padrino. Se morisse lui avrei la certezza di non diventare mai di ruolo”. “Il problema è l’omertà”, accusarono Antonio Fantoni e Ferdinando Aiuti, famosi per le ricerche sull’Aids, “tutti i docenti sanno che le cose funzionano così ma la maggior parte dei nostri colleghi non protesta perché è d’accordo con questo sistema”. Fenomenale l’intervento di Luigi Frati: “È un problema di moralità che non riguarda solo i concorsi universitari, ma la società intera”. Pochi anni dopo, eletto rettore, si sarebbe circondato di tutta la famiglia: moglie, figlio, figlia... Cervelli fuggiti - “Nonostante la retorica dei “pochi episodi di malcostume”“, ha scritto Roberto Perotti nel libro L’Università truccata, “tutti i professori dell’università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio”. Una scusa per tacitare la coscienza. “Come nelle società mafiose, l’omertà e la connivenza di fatto imposte alla maggioranza degli onesti non sono percepite come atto di complicità, ma come sacrificio personale per evitare guai peggiori ad altre persone”. Ma perché tante università, con luminose eccezioni, ovvio, si sono riempite negli anni di figuri di statura modesta o modestissima invece che di fuoriclasse, costretti a emigrare all’estero? Possibile che un giovane cervello come Clemente Marconi, come ha raccontato il nostro Marco Imarisio, riceva lo stesso giorno un rifiuto (“Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti...”) dall’ateneo di Palermo e la lettera di assunzione della Columbia di New York? Perché per anni troppe università, per fare un paragone calcistico, hanno rinunciato a prendere Ronaldinho preferendogli un brocco tirato su nel cortile di casa? Villautarchia - La risposta, spiegano ne “Lo splendido isolamento dell’università italiana”, Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e ancora Perotti, è questa: “La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore. Perché crearsi tutti questi problemi, quando prendendo un giocatore di serie C si fa piacere a un dirigente locale, che è amico del sindaco in scadenza e che farà vincere il presidente del Villautarchia alle prossime elezioni comunali?”. Impuniti - Fatto è che il nuovo scandalo è sale sulle ferite di tantissimi ordinari, associati, ricercatori perbene che fanno il loro mestiere davvero con dedizione, disciplina, onore e vivono malissimo questi scandali. Tanto più che anche chi viene condannato se la cava con un buffetto. Il caso simbolo è quello di un concorso per Otorinolaringoiatria. Bandito nel 1988, vinto da sedici parenti o raccomandati, sanzionato da condanne in Assise, in Appello e in Cassazione (tredici anni dopo i fatti) non fu mai seguito da provvedimenti seri. Non solo restarono tutti impuniti sulle loro cattedre (nonostante le “plurime e prolungate condotte criminose” denunciate nelle sentenze) ma qualche anno dopo il direttore generale del Miur, Antonello Masia, mise per iscritto che “l’annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico”. Tutti salvi. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto, scurdammoce ‘o passato. Libia. “Seimila stranieri nelle prigioni di Tripoli” di Daniela Fassini Avvenire, 27 settembre 2017 Sono almeno seimila le persone che vivono nei centri di detenzione in Libia. Ci sono 1 milione 300mila persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria, ha spiegato Roberto Mignone, rappresentante dell’Acnur in Libia. Ho perso tutto, non si può vivere in Libia, è diventato troppo pericoloso”, ha detto ai soccorritori della nave “Aquarius” un giovane libico di 26 anni. Anche i libici scappano dalla Libia. Non sono solo i migranti subsahariani a tentare di abbandonare il Paese nordafricano. Le condizioni di instabilità e di violenza spingono gli stessi cittadini libici a cercare Paesi più sicuri. La nave della Ong Sos Mediterranée lunedì ha infatti tratto in salvo 20 naufraghi-tutti libici, fra loro anche quattro donne e due bambini da una piccola imbarcazione a 25 miglia dalla costa libica, a nord di Sabrata. “L’imbarcazione è stata individuata via radar e binocolo - fanno sapere dalla organizzazione umanitaria italo-franco-tedesca. Dopo aver telefonato ripetutamente senza ottenere risposta alla sala operativa della Guardia Costiera Libica, la coordinatrice dei soccorsi ha chiesto ed ottenuto dal Mrcc di Roma l’autorizzazione di trasportare nella clinica a bordo della nave Aquarius un bambino con difficoltà respiratorie e alcune persone che presentavano segni di disidratazione. Poi tutti i passeggeri a bordo della imbarcazione in difficoltà sono stati trasferiti a bordo della nave”. Sono tutti libici in fuga. “In Libia non c’è più lavoro e si rischia di continuo di essere aggrediti”, ha detto ai soccorritori un giovane libico di 26 anni. Una giovane coppia di studenti ha raccontato di essere stata costretta a fuggire dalla Libia a causa del generalizzato clima di violenza. “Il mondo deve sapere cosa sta succedendo in Libia, la situazione è drammatica. Le persone rischiano di essere uccise per niente e, se non succederà qualcosa, moriranno tutti”. Anche i medici dell’associazione Medu (Medici per i diritti umani) denunciano le terribili violenze sui migranti di passaggio in Libia. E lo fanno attraverso un video-racconto nel quale vengono pubblicate le testimonianze raccolte negli ultimi quattro anni. Storie terribili, fatte con le parole ma anche con gli occhi di chi le ha vissute sulla propria pelle. “Il 90% delle persone curate negli ultimi tre anni risultavano vittime di torture” spiegano i medici dell’associazione umanitaria impegnata negli sbarchi e nei centri di identificazione in Sicilia e nell’assistenza dei migranti in transito a Roma. Sono almeno 6mila le persone che vivono nei centri di detenzione in Libia. Ci sono un milione e 300mila persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. “Questo numero include gli sfollati interni, che sono quasi mezzo milione”, ha spiegato Roberto Mignone, rappresentante dell’Acnur in Libia, in audizione dalla Commissione diritti umani del Senato. Per quanto riguarda i centri di detenzione, l’Agenzia ha accesso a 27 di questi. “Quest’anno abbiamo svolto 700 visite: nel migliore dei casi ci sono problemi di sovraffollamento, in altri, gravi violazioni di diritti umani”. Per quanto riguarda i centri “non ufficiali”, invece, Mignone parla di situazioni “preoccupanti”. E proprio per superare il “modello” dei centri, Roma sta mettendo a punto un bando per l’assistenza umanitaria in Libia. Lunedì serali ministro degli Esteri Angelino Alfano ha presieduto un primo incontro con le Ong potenzialmente interessate ad operare. In totale sono 231e organizzazioni che hanno confermato la loro disponibilità. Medici senza frontiere non parteciperà invece al bando. “Questi ragionamenti si dovevano fare prima di “intrappolare” le persone in Libia - commenta Marco Bertotto, responsabile Msf Italia - operiamo in Libia e continueremo a farlo con risorse nostre. In questi centri stiamo operando da più di un anno, con accesso limitato e con personale locale. La realtà oggettiva è ben diversa rispetto all’ottimismo dell’operazione”. Studente americano morto in un carcere nordcoreano. Trump: lo hanno torturato globalist.it, 27 settembre 2017 Otto Warmbier, lo studente americano deceduto in giugno poche ore dopo essere liberato ormai in stato di coma dalle autorità di Pyongyang, è stato “gravemente torturato” dai nordcoreani. È la nuova bordata lanciata da Donald Trump, in un twitter in cui ha lodato l’intervista rilasciata alla Fox dai genitori del giovane, che aveva 22 anni. È la prima volta che l’Amministrazione Trump accusa la Corea del Nord di avere torturato lo studente, che nel marzo 2016 era stato condannato a 15 anni di lavori forzati per “atti contro lo Stato”. Lo studente della Virginia university era stato arrestato appena qualche settimana prima del processo e della sentenza per avere “rubato un manifesto di propaganda” nel corso di un viaggio organizzato. Come hanno detto più volte i genitori, sino al momento dell’arresto, Otto godeva di buona salute. L’agenzia ufficiale nordcoreana Kcna aveva motivato la liberazione di Warmbier ed il suo ritorno negli Stati Uniti per “ragioni umanitarie” riconosciute dalla Corte suprema del Paese. Giunto già in coma profondo negli Stati Uniti il 13 giugno, lo studente era deceduto sei giorni più tardi. Otto Warmbier aveva gravi lesioni al cervello, ma è stato possibile chiarire le cause del decesso perché la famiglia ha rifiutato di autorizzare l’autopsia. Dopo la morte del giovane, le autorità nordcoreane hanno negato di averlo torturato o maltrattato durante la detenzione.