Aumenta la “mercede” per i detenuti lavoratori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2017 Dal primo ottobre le buste paga saranno adeguate agli standard retributivi del mercato del lavoro. Secondo le disposizioni del Dap dal prossimo mese il salario medio sarà di 7 euro l’ora. un primo passo verso il recupero sociale dei reclusi. Dal primo ottobre, le buste paga dei detenuti lavoratori saranno finalmente adeguate agli standard del cosiddetto “mondo libero”. “Il recupero sociale dei reclusi è il primo passo”, aveva detto proprio sulle pagine de Il Dubbio il capo del Dap Santi Consolo. E il recupero passa anche attraverso il lavoro, possibilmente, retribuito equamente. Detto, fatto. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato delle disposizioni che stabiliscono come dal primo di ottobre, i parametri delle “mercedi” saranno aggiornati con un aumento di quello precedentemente percepito. Vale a dire che un detenuto che lavora in carcere percepirà un salario medio di circa 7 euro all’ora, a cui si aggiunge, a seconda dei casi, tredicesima e quattordicesima. La “mercede” è una terminologia dell’ordinamento penitenziario che riguarda la retribuzione. Infatti, l’articolo 22, prevede che “le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”. Un articolo dell’ordinamento penitenziario, in realtà, mai rispettato. Fino ad oggi, ogni ora, al lordo, un addetto ai servizi vari di istituto guadagna da 3,38 a 3,71 euro; il muratore, imbianchino, idraulico, elettricista tra i 3,62 e i 4,03 euro; i lavoratori agricoli tra i 3,98 euro e 3,48; i metalmeccanici tra i 3,44 e i 3,77 euro; chi opera nel settore tessile tra i 3,30 e i 3,78 euro; i calzolai guadagnano tra i 3,05 e i 3,95 euro; i falegnami tra i 3,69 e i 4,13 euro. Per capire ancora meglio la questione salariale dei detenuti, prendiamo ad esempio un dossier del periodico del carcere milanese Carte bollate risalente al 2015. In un passaggio scrive che “la retribuzione dei lavoratori carcerati con mansioni amministrative, dall’estate 2015, mediamente, il salario di un addetto alle pulizie, è passato da 220 euro netti mensili a circa 150 euro. I carcerati che fanno pulizie e distribuzione cibo guadagnano 167,91 euro; gli addetti agli uffici spese 152,78 euro; gli addetti alle tabelle spese 205, 59 euro. Questo, per 25 giorni lavorativi e 75 ore complessive al mese”. Il Dap ha voluto metterci mano e riportare le buste paga a livelli accettabili. Si tratta di un primo passo verso il discorso lavorativo che offre un percorso di riabilitazione. Un percorso molto valorizzato durante gli stati generali per l’esecuzione penale e che presto, si spera, potrà concretizzarsi attraverso i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. “Io, Garante dei detenuti del Fvg, vi spiego perché oggi il carcere è un’istituzione illegale” di Anna Dazzan grognards2011.it, 26 settembre 2017 Lo scrittore e operatore sociale, con un passato di alcolismo e disagio, ora vigila sui diritti delle persone private della libertà personale nella regione. “Avevo chiesto cose che sono ben lontane dal concretizzarsi e infatti ho minacciato le dimissioni due volte. Insegnare a chi è dentro un mestiere utile è l’unico modo per ridurre la recidiva, ma i politici sono indifferenti” Si dice “garante per le persone private della libertà personale”. S’intende chi entra nelle carceri per capire, parlando con i detenuti, cosa si può fare per migliorarne le condizioni. E no, non è uno di quei compiti da svolgersi al riparo di una scrivania e dietro lo schermo di un pc. E nemmeno un ruolo per cui è sufficiente il pelo sullo stomaco. Ecco perché, quando si pensa alla scelta del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia di affidare questo incarico a Pino Roveredo, operatore sociale e scrittore che ha vinto del Premio Campiello con Mandami a dire, accanto all’aggettivo “coraggiosa” bisogna necessariamente anche mettere l’aggettivo “giusta”. Una decisione azzeccata perché Roveredo è l’unico garante italiano ad essere anche un ex detenuto. Ma il coraggio non è abbastanza. “Io devo sicuramente bussare qualche volta in meno, per farmi aprire le porte della confidenza dei reclusi… ma non vuol dire che per me sia facile”. Non sono trascorsi nemmeno due dei cinque anni di incarico e il primo bilancio del garante per i diritti dei detenuti del Fvg non è positivo. “Nel mio programma avevo chiesto cose che sono ben lontane dal concretizzarsi e infatti ho minacciato le dimissioni già due volte, anche se più per provocazione”. Se gli si chiede di fare un elenco il più breve possibile sulle cose che non funzionano, Roveredo costruisce un podio dove il sovraffollamento da una parte e il sottodimensionamento di personale dall’altra (che causano un gran numero di suicidi sia tra reclusi che tra agenti penitenziari), seguono a ruota il limbo dell’attesa. “Il 40% delle persone che sono in prigione sono in attesa di giudizio, il che significa che possono anche passare 6, 7 o 8 anni prima di sapere se si sarà giudicati colpevoli o innocenti ed eventualmente conoscere la propria pena”. Anni in cui cresce l’inedia a pari passo del rancore. “Riempire quel vuoto significa prima di tutto dare un senso alle giornate dei detenuti”. E fa l’esempio delle attività di formazione nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, dove la maggior parte dei reclusi sconta una pena di ergastolo. Lui che “dall’altra parte” ci è stato e ha vissuto sulla sua pelle tutte le falle del sistema italiano, ha ben chiaro da dove bisognerebbe partire. E non solo per rendere più dignitoso il periodo di detenzione, ma anche e soprattutto per limitare il rischio di recidiva e per livellare il disagio sociale (leggasi alcolismo, tossicodipendenza e depressione) in cui cade chi esce dal carcere. Il punto di partenza, ammette con cognizione di causa Roveredo, finito in carcere la prima volta per tentato furto d’auto, è riempire il niente da fare, “il nemico numero uno di tutti i detenuti”. Bisogna quindi “dare la chance a quelli che escono di essere reinseriti nella società, anche se il carcere non ti si cancella mai di dosso”. Li chiama “mestieri utili”, Roveredo. Quelli che ti permettono, una volta fuori, di avere un biglietto da visita che la società accetta senza storcere il naso. Come il laboratorio di pasticceria attivo dal 2005 nella casa di reclusione di Padova, che offre formazione e lavoro retribuito a più di 100 detenuti, e abbatte in modo clamoroso le percentuali di recidiva: dalle punte del 90% dei casi fino a un miracoloso 0,01%. La domanda più ovvia, perché non istituzionalizzare questo tipo di attività in ogni istituto italiano, ha una risposta altrettanto scontata. “Siamo in Italia, qui è tutto difficile”. Roveredo, che è nato nel 1954 a Trieste, ha cominciato proprio dalla sua città a cambiare le cose, insistendo per la riapertura della macchina per la panificazione che era stata chiusa per le proteste di alcuni commercianti. “E pensare che in molti vendevano pane che veniva dall’estero… eppure quello del carcere gli dava fastidio”. E se questo episodio dà la misura del pregiudizio dei cittadini, per Roveredo l’ostacolo più grande è l’indifferenza dei politici. “Una riforma c’è, ma non ci sono né i mezzi né l’interesse di attuarla: il carcere è un’istituzione illegale, il luogo più impopolare per i politici, che si limitano a fare un indulto ogni tanto che ha il solo scopo di svuotare celle che tornano a riempirsi subito dopo”. E se il disinteresse delle istituzioni viene in parte colmato dall’intervento delle associazioni, la considerazione finale di Roveredo non lascia scampo all’irresponsabilità dello Stato nei confronti dei detenuti. “Abbiamo dato loro attimi di riflessione. Ma non li abbiamo salvati”. Blitz della maggioranza per votare il nuovo Codice antimafia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 settembre 2017 Oggi alla camera la votazione finale sugli articoli e sugli emendamenti. Nessun passo indietro da parte della maggioranza che ieri ha deciso di accelerare i tempi per l’approvazione del nuovo codice Antimafia. Questa mattina è prevista alla Camera la votazione finale sugli articoli e sugli emendamenti presentati al testo. La discussione generale sul provvedimento, che contiene modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, al codice penale e a quello procedura, nonché la delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate, è terminata fra le polemiche. La parte più contestata del testo è quella che estende il sequestro e la confisca dell’intero patrimonio anche agli indiziati di associazione a delinquere finalizzata al compimento di reati contro la pubblica amministrazione. Per il capogruppo di Forza Italia in commissione Affari costituzionali, Francesco Paolo Sisto, si tratta di una norma “palesemente liberticida” sulla quale oggi, prima della votazione, sarà presentata la “pregiudiziale di costituzionalità”. “Questo codice è quanto di peggio ci possa essere, un’accozzaglia di norme che non piacciono a nessuno”, aggiunge Renato Brunetta, capogruppo degli azzurri alla Camera. Di diverso avviso Rosy Bindi (Pd), presidente della commissione Antimafia: il ddl “non rappresenta un lavoro improvvisato, anzi contiene innovazioni normative di sistema”. L’augurio è che “sia approvato questa settimana senza un nuovo ritorno al Senato che ne comprometterebbe l’approvazione definitiva”. Con le modifiche in via di approvazione si estendono, dunque, anche agli indiziati per reati contro la Pa le norme previste per i mafiosi, cioè il c.d. “doppio binario” introdotto con la legge La Torre del 1982 che permette di aprire un parallelo ed autonomo procedimento di prevenzione nel quale, a prescindere dai tempi e dall’esito del processo penale, si valuta la provenienza lecita dei beni dell’indiziato mafioso, con l’introduzione dell’inversione dell’onere della prova. Se si evidenzia una sproporzione fra il reddito dichiarato ed i beni di cui l’indiziato risulta disporre, direttamente o indirettamente, sarà possibile disporre il sequestro dei beni. Toccherà all’indiziato dimostrare la legittima provenienza dei beni, in mancanza della cui prova, il bene verrà definitivamente confiscato dallo Stato. Dubbi su questo specifico aspetto erano stati avanzati nelle scorse settimane dal presidente dell’Anac Raffale Cantone. Il relatore Davide Mattiello (Pd), storico dirigente di Libera, nel difendere la scelta fatta di equiparare i corrotti ai mafiosi, mette però le mani avanti: “sarà doveroso monitorare la norma ed intervenire tempestivamente per perfezionarla”. Anche l’ex aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, fra i promotori di una riforma della legge Rognoni/ La Torre, era stato molto critico su questa scelta da parte della maggioranza, parlando di “eccesso di giustizialismo che rende meno efficace lo strumento, inflazionando e con il rischio di sparare nel mucchio”. Il senatore Vincenzo D’Anna (Ap), al termine della votazione in Senato lo scorso luglio, aveva fatto un esempio: “Se un sindaco usa impropriamente l’auto di servizio o commette un reato c’è il rischio che gli confischino la casa. Con l’allungamento della prescrizione, unito all’aumento delle pene per i reati contro la Pa, c’è il rischio di rimanere decenni sotto processo. La conseguenza è che nessuno vorrà più fare l’amministratore pubblico”. Sul fronte intercettazioni telefoniche, infine, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato che entro la fine del mese sarà pronto un decreto legge ad hoc, dove non ci sarà la contestata parte relativa ai cosiddetti “riassunti” nelle informative di reato che lasciava grande discrezionalità alla polizia giudiziaria. All’indomani delle polemiche sull’informativa Consip, con gli ‘ errorì commessi dal capitano del Noe Giampaolo Scafarto nella trascrizione delle telefonate fra Tiziano Renzi e Alfredo Romeo, il tema degli ascolti si è fatto quanto mai incandescente. La necessità di riportare ordine in questo mezzo di ricerca della prova è diventata una priorità per l’esecutivo. Solo il Papa capisce che non basta la repressione a battere la mafia di Aldo Varano Il Dubbio, 26 settembre 2017 “Le mafie hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo dove mancano i diritti e le opportunità: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria”. È un vero peccato che l’intervento pronunciato da Papa Francesco ricevendo la Commissione parlamentare antimafia, sia passato sotto silenzio. Nessun giornale o telegiornale gli ha dato lo spazio che meritava. Eppure mai il Papa (quindi la Chiesa e il Vaticano), né chi lo ha preceduto, aveva affrontato la questione con tanta lucidità capovolgendo luoghi comuni e stereotipi che negli ultimi anni, con sempre più evidenza, hanno indebolito la lotta contro il fenomeno. Francesco ha risposto a una domanda che da anni quasi mai viene posta in modo esplicito: a chi tocca combattere e vincere le mafie? Chi ha questo compito e questa responsabilità in modo diretto fino a doverne dar conto al paese? Interrogativi apparentemente ovvi, in realtà sempre più oscurati da un dibattito emotivo e, talvolta, interessato. Francesco, invece, ha le idee chiare: l’incarico deve assumerselo la politica. Naturalmente non quella “deviata, piegata a interessi di parte e ad accordi non limpidi” che “soffoca” e “banalizza” il male. Ma “la politica autentica, quella che riconosciamo come una forma eminente di carità”, ha scandito. Molti, con dentro l’intero movimento antimafia, sostengono formalmente la stessa tesi ma per dire una cosa radicalmente diversa. Nel comune sentire, sui media, per le élite politiche e gran parte della pubblicistica, per chi scrive sui giornali e vende libri sulla mafia (un mercato annuo da 70 mln valuta il Corsera) la politica deve combattere la mafia limitandosi ad approvare leggi migliori (cioè più repressive) e fornendo più strumenti, strutture e finanziamenti a magistratura e forze dell’ordine che, secondo un convincimento solidificato, sono e devono essere i veri protagonisti, con l’appoggio dell’opinione pubblica, dello scontro per liberare il paese dal fenomeno. Papa Francesco dà l’impressione di pensarla in modo diverso. Nelle sue parole non appare mai il concetto della delega della politica (magari più ampia, energica, repressiva) alle forze del contrasto (magistratura e polizie). La politica invece - ripetiamolo: quella autentica - per il Papa deve sentire questa “lotta come una sua priorità” ed ha quindi l’obbligo di affrontarla in modo diretto e frontale, con una propria strategia che non può essere delegata. Scende nello specifico Francesco, e con sapienza e pazienza pedagogiche spiega alla politica che “ lottare contro le mafie significa non solo reprimere. Significa anche bonificare, trasformare, costruire, e questo comporta un impegno a due livelli”. Il concetto, piaccia o no, è strategicamente alternativo al modo in cui Stato e governi hanno affrontato il problema negli ultimi decenni. Il Papa sembra dare per scontato (correttamente) che senza il contrasto di magistrati e polizia la vita dei cittadini diventerebbe insopportabile, libertà e diritti verrebbero ridimensionati. Guai, quindi, a sottovalutare il valore prezioso e la funzione di queste forze che talvolta hanno dovuto spingere il proprio impegno fino al sacrifico supremo (nelle sue prime parole Francesco ha ricordato Livatino, Falcone, Borsellino e “tutti quelli che hanno pagato con la vita”). Dall’impianto papale si ricava una distinzione sottile che sempre più negli ultimi tempi è stata annullata. Com’è noto magistratura e polizia puniscono i reati che vengono consumati e bloccano quelli, ogni volta che è possibile, che sono in preparazione, prevenendoli. Ma c’è una questione più di fondo ormai cancellata dalla pratica dei governi italiani e perfino dall’orizzonte teorico e culturale delle punte più significative dell’antimafia: magistrati e forze dell’ordine contrastano la concretezza del fenomeno mafioso ma a chi tocca modificare e distruggere le condizioni che consentono incessantemente il processo della sua produzione e riproduzione? È questo il nodo vero di una lotta definitiva contro le mafie. Francesco si misura direttamente con la strategia di “un impegno a due livelli” contro le mafie: “ Il primo è quello politico, attraverso una maggiore giustizia sociale, perché le mafie hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo sul territorio proprio dove mancano i diritti e le opportunità: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria. Il secondo livello di impegno è quello economico, attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà”. Sono parole ormai scomparse nelle zone di mafia. Da un lato, per paura di venire confusi con fiancheggiatori; dall’altro, perché l’illusione di una soluzione unicamente repressiva sembra avere inghiottito tutto il resto. Così la mancata sconfitta delle mafie viene giustificata e spiegata non col disimpegno di chi dovrebbe tagliarle l’erba sotto i piedi modificando la condizioni che ne consentono lo sviluppo, ma con sempre nuove varianti il più delle volte antropologiche o attraversate da sottintesi razzisti. Osso, Mastrosso e Carcagnosso, l’ambiente, il richiamo del sangue, la concezione dell’onore, l’omertà e tutto il resto della paccottiglia spariscono nell’analisi laica di Francesco. Chiarisce: “ Oggi non possiamo più parlare di lotta alle mafie senza sollevare l’enorme problema di una finanza ormai sovrana sulle regole democratiche, grazie alla quale le realtà criminali investono e moltiplicano i già ingenti profitti ricavati dai loro traffici: droga, armi, tratta delle persone, smaltimento di rifiuti tossici, condizionamenti degli appalti per le grandi opere, gioco d’azzardo, racket”. Una visione in cui spariscono le spinte repressive che talvolta deprimono vaste comunità. Non una posizione cedevole ma il rigore di chi avverte che ridurre lo scontro alla repressione può attenuare per un momento la presa mafiosa ma non può sconfiggere il fenomeno. Un messaggio in cui, attutito dal riconoscimento di ciò che è stato fatto in Italia, è evidente la polemica con la furbizia di chi ha volentieri assecondato le spinte a delegare la lotta per non assumersi la responsabilità di uno scontro che a tratti può diventare doloroso e chiedere sacrifici importanti. Violenze contro le donne. Quel sasso nello stagno lanciato da Pietro Grasso di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 26 settembre 2017 Dopo Noemi, 16 anni uccisa dal fidanzato, Elena, 48 uccisa dal marito, e poi ancora le violenze sessuali di Rimini, Firenze, Catania, Roma, l’omicidio di Nicolina, la quindicenne di Ischitella uccisa dall’ex compagno della madre per vendicarsi del fatto che lo aveva lasciato, a un uomo che è anche la seconda carica dello Stato è sembrato impossibile tacere. E così Pietro Grasso, presidente del Senato, venerdì scorso ha detto le seguenti parole. “A nome di tutti gli uomini ti chiedo scusa. Finché tutto questo verrà considerato un problema delle donne, non c’è speranza. Scusateci tutte, è colpa nostra, è colpa degli uomini, non abbiamo ancora imparato che siamo noi uomini a dover evitare questo problema, a dover sempre rispettarvi, a dover sradicare quel diffuso sentire che vi costringe a stare attente a come vestite, a non poter tornare a casa da sole la sera. È un problema che parte dagli uomini e solo noi uomini possiamo porvi rimedio. Tutto ciò che limita una donna nella sua identità e libertà è una violenza di genere. Non esistono giustificazioni, non esistono attenuanti, soprattutto non esistono eccezioni. Finché tutto questo verrà considerato un problema delle donne non c’è speranza”. Viene da dire: “Finalmente. Bravo”. E adesso? Adesso che un’autorevole voce istituzionale ha detto che il problema è degli uomini e non delle donne non ci sono più scuse per evitare il nocciolo della questione. Sono gli uomini a dover cominciare un lungo percorso di riflessione, discussione da soli e fra loro e ricostruzione del sé. Ovvio che la maggioranza non è così, ma finché non saranno gli uomini a prendere per gli stracci altri uomini, a dire che una relazione non è un esercizio di potere, che i corpi vanno amati e non usati o soppressi, finché ci saranno padri che danno esempi malsani, finché la cultura virilista striscerà nelle case, nelle famiglie, sui social, nelle amicizie, nel linguaggio, nella pubblicità, nei mezzi di informazione, nella politica, e finché di fronte a ciò si continuerà a far finta di niente, come dice Grasso: “Non c’è speranza”. Pochi giorni fa ho incontrato in un bar di Milano un gentile signore. Non ci conoscevamo, eppure abbiamo cominciato a chiacchierare proprio della violenza contro le donne. Quando gli ho espresso il mio pensiero, lui mi ha risposto: “Va bene. Ma come si fa? Come facciamo?”. Gli ho risposto: “Come hanno fatto le donne con il femminismo. Si sono riunite, parlate, sono scese in strada, hanno riflettuto, scritto, protestato, lottato, preteso. Hanno messo in discussione rapporti personali e pubblici, hanno smontato un sistema di relazioni incancrenito e opprimente, insomma hanno fatto una rivoluzione. Se davvero non vi va bene questo andazzo, fatela anche voi una rivoluzione”. Mi ha guardato con sconcerto, poi ha aggiunto: “Però è vero che molte donne sono diventate dure e pretenziose, cercano solo quelli ricchi e vincenti, ci usano come bancomat e ci umiliano”. Ha espresso frustrazione, probabilmente per situazioni personali, e proprio qui sta la chiave del problema. Quel che ha detto sarà anche vero per lui ma, invece di entrare nel merito, ha svicolato cambiando il punto di vista, ha spostato la visuale. Ci vuole molta voglia e determinazione per mettersi in discussione perché cambiare costa fatica. Quanti davvero lo vogliono? Quanti sono davvero disposti a osservare il proprio orticello? Quanti, dopo essersi indignati per le efferatezze altrui, sorvolano su peccati e abitudini personali? Pietro Grasso ha gettato un sasso nello stagno. Smuovere quell’acqua non sarà facile, ma non c’è alternativa. Ma quale “allarme criminalità”? Siamo il Paese più buono del mondo di Renato Farina Libero, 26 settembre 2017 In Francia si ammazza il doppio, in Svezia è record di stupri, ma lo sport nazionale è parlare male di noi stessi. È ufficiale. Siamo un popolo di piagnoni, siamo i campioni mondiali di autocalunnia, spargiamo nel mondo l’immagine dell’Italia come se fosse il Paese dove invece di latte e miele scorrono sangue e stupri. Invece siamo al 170esimo posto nel mondo per omicidi (trentesimi in Europa). Quanto a femminicidi se ne commettono, senza doverci sollazzare per questo, molti meno che in Svizzera, Norvegia nonché Finlandia. Sugli stupri e gli abusi sessuali, siamo, nelle mappe colorate in rapporto alle percentuali per 100mila abitanti tra quelli che tendono al candore, anche se lo sappiamo bene che per le vittime la statistica non è una consolazione. Non sono opinioni, ma dati, fatti, statistiche. Le abbiamo tratte dall’agenzia specializzata in numeri dell’Onu (Unodc). L’Italia è, secondo dati aggiornati al marzo 2016, al 74° posto in fatto di violenze sessuali. Non solo: stiamo persino migliorando con gli anni. Filippo Facci ne ha scritto su Libero. Adesso lo sostiene anche il Corriere della Sera, che pubblica una serie di tabelle che lo dimostrano, anche se pare vergognarsene un po’. Mostrando con le cifre che la percezione di insicurezza è un fenomeno di umori indotti, più che di sostanza delle cose, non crediamo affatto favorisca la sinistra. E perché mai? Non è che i valori cambiano obbedendo alle sensazioni. Non crediamo affatto che sia di destra esasperare la percezione delle violenze per invocare la legge: questa sarebbe propaganda idiota, controproducente. Legge e ordine valgono come imperativi politici e morali a prescindere dall’ampiezza del fenomeno criminale. Non è che se esistesse un solo criminale, allora usi la mano morbida. La tolleranza zero è a prescindere. Nessun cedimento. Semmai ci pare tipico della sinistra salottiera e dell’intellighenzia dominante martellare i calli del popolo italiano convincendolo di essere un poco di buono, per di più arresosi alla criminalità organizzata. Non bastasse, convincono della medesima cosa i corrispondenti del New York Times nonché dello Spiegel, di Le Monde e della Cnn. Passiamo per il Paese europeo dove se esci di casa come minimo ti rapinano, e tua moglie subisce uno stupro. Siamo oppressi dalle mafie? Certo. Guai a noi limare i dogmi proclamati da Roberto Saviano. Siamo consapevoli che ‘ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra, Sacra Corona Unita, Stidda sono bande di orche assassine che non si accontentano di uccidere ma infestano con ogni tipo di crimine l’Italia. Ma allora perché le statistiche dicono il contrario? E l’Italia, rispetto non solo al Messico e alla Colombia, ma persino paragonata a Finlandia e Gran Bretagna, un territorio tra i meno violenti del mondo? Complotto anti-italiano? Più probabilmente: non siamo molto criminali, ma siamo assai stupidi. Vediamo i dati sugli omicidi. Nel mondo il primo posto tocca all’Honduras: 84,30 ammazzati ogni 100mila residenti. Lo Stato meno violento del mondo? San Marino, con 0 omicidi. In Europa? Lasciamo perdere Lettonia, Bielorussia e Moldavia dove i coltelli volano e i kalashnikov mitragliano. Veniamo ai nostri Grandi Maestri di civiltà, che ci fanno la lezioncina ogni dì. In Francia si uccide il 50% più che da noi: il tasso è di 1,20 ogni 100mila contro il nostro 0.80 (dati Onu). Il Regno Unito, con tutta quella prosopopea, ci batte come scannatoio con una produzione omicidiaria superiore del 25%. Così ci danno cappotto in versamenti di sangue pro capite Svezia, Norvegia e Irlanda. Questi sono dati Onu, riferiti a indagini di un paio d’anni fa. Il Corriere pubblica quelli del Viminale, recentissimi. Ebbene, recita la tabella, “gli omicidi volontari consumati in Italia” sono stati, nel 2014, 487, di cui 153 hanno avuto vittime femminili (femminicidi); nel 2015, calano del 3,29%, di cui 143 hanno per vittime le donne (6,54%); nel 2016 gli omicidi italiani crollano sul mercato mondiale del killeraggio: -15,07%, e calano a 400, di cui 149 femminicidi. Questi ultimi si riducono “vistosamente” tra il 1° gennaio e il 15 settembre del 2017: sono 59 con un calo del 17, 29%. Sui femminicidi va così. Oggi l’enfasi è posta sugli stupri e gli abusi sessuali. Nel 2014 sono stati 4257 e sono scesi a 4046 nel 2017. Quelli denunciati (è bene scrivere così) nei primi otto mesi e mezzo di quest’anno sono 2.855 contro un dato del 2016 di 2.936 casi. È il tipo di delitto che, pur essendo in calando, rallenta meno degli altri. Se però paragoniamo le statistiche internazionali, appaiamo essere tra i Paesi europeo con il minor rischio di violenza sessuale. In Europa, la Svezia ha un tasso di stupri annui di 64.10 ogni 100mila abitanti. Sarebbe come se in Italia invece di circa 4000 l’anno si perpetrassero 38.500 violenze sessuali. Al secondo posto ecco il Belgio, quindi l’Islanda, la Norvegia e la Finlandia. E allora perché da noi si parla di emergenza stupri, se questo dato è contraddetto dalle statistiche? Chiariamo: l’emergenza stupro dovrebbe esserci anche in presenza di una sola violenza. Ma adesso siamo al panico sparso a piene mani. Ovvio: la paura è giusta, tiene desta la vigilanza, e l’allarme mette paura agli infami. Ma applichiamo la ragione invece dell’emozione terrorizzante. Conosciamo l’osservazione. In Italia gli stupri risultano assai di meno della realtà perché in Italia c’è una cultura portata a colpevolizzare le vittime, che ricaverebbero dalla denuncia l’accusa di essersela cercata e la vergogna di processi umilianti. Tutto vero. Si scontra però con un altro numero che depotenzia la pericolosità italiana. Si riferisce al dato sugli omicidi in generale e sui femminicidi in particolare: se uno stupro o una molestia possono sparire sotto il manto osceno dell’omertà, i cadaveri sono assai meno occultabili, per cui, anche quanto a femmicidi, le statistiche non possono risentire del clima. Apprendiamo così che in Europa la percentuale di donne tra le vittime di omicidio vede al primo posto la Svizzera (51 %), al terzo posto la Norvegia (49), al quarto la Germania (48). Noi siamo considerati uno strano Paese. Con pessima fama, ma anche negli omicidi femminili siamo più forti a chiacchiere, per fortuna. Qui, pur essendoci un tasso di omicidi molto basso, è ancora più bassa quella delle donne ammazzate (25 per cento del totale). Conclusione. Questa classifica internazionale che vede l’Italia tra i Paesi meno criminali del mondo non ci consola. Per tre motivi. Primo: anche un omicidio e uno stupro sono troppi. Secondo: ma che cosa cavolo scriviamo tutti i giorni sul giornali e sostengono politici e sapientoni nei talk show? Scriviamo e diciamo balle. Terzo: il nostro popolo è costituito, specie tra le classi intellettuali, da gente pronta a tutto pur di sparlare del proprio Paese. E in questo campo siamo i primi al mondo. Governo, carabinieri e Servizi segreti, il grande intrigo dell’affare Consip di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 26 settembre 2017 Nessun complotto, tante partite incrociate all’ombra dell’esecutivo. Dall’intercettazione tra Renzi e il generale Adinolfi al ruolo di Ultimo: ecco le trame di potere dietro le indagini giudiziarie. Che storia racconta la sequenza di manipolazioni, infedeltà, segreti violati nell’inchiesta Consip? Davvero si è trattato di un complotto? Un’inchiesta di Repubblica, di cui oggi viene pubblicata sul quotidiano la prima di due puntate, consente di dare una prima risposta. L’affaire Consip non è stata una macchinazione. Piuttosto, è stato la gallina dalle uova d’oro intorno alla quale hanno danzato Politica, Intelligence, Arma dei Carabinieri, magistratura, stampa, giocando ciascuno una propria partita. Governati da un proprio interesse. Quasi sempre di corto respiro: carriere, ricadute politiche, visibilità. Tutti consapevoli della straordinaria opportunità che gli era stata data. Giocare di sponda con il destino politico dell’uomo che nella Primavera del 2016, anno del “giudizio universale” referendario, aveva in pugno il Paese, o almeno così riteneva: il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. La storia ha un incipit. Cruciale per comprendere tutto quello che accadrà di lì ai successivi 18 mesi. L’estate del 2015. In luglio, il Fatto Quotidiano pubblica le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra l’allora generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi (ufficiale cresciuto all’ombra del ventennio berlusconiano e poi riconvertito al renzismo nell’ultimo tratto della sua carriera in Toscana), e il presidente del Consiglio Matteo Renzi. I colloqui si riferiscono all’anno precedente, alle settimane in cui Renzi si prepara a sostituire a Palazzo Chigi Enrico Letta. Non è un bel leggere. Per toni e contenuti. Renzi, infatti, è furioso. Perché nulla sa di quella intercettazione. E perché ha dovuto scoprirlo leggendo un giornale. Chiede conto di quanto è accaduto. E lo fa con il nuovo comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Tullio Del Sette, già capo di gabinetto del ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Le intercettazioni, infatti, spuntano da un’indagine disposta dal pm napoletano John Henry Woodcock e condotta dal Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri, di cui è vicecomandante l’unica superstite leggenda dell’Arma, il colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”, l’ufficiale che ha arrestato nel 1993 il Capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. Cosa c’entrano infatti quelle conversazioni intercettate con un’indagine che ha a oggetto la presunta corruzione di un sindaco di provincia per una storia di metanizzazione e illuminazione pubblica dell’isola di Ischia? È ormai noto che quell’inchiesta, che con grande rumore punta in quel momento alle cooperative rosse (l’appalto è stato vinto dall’emiliana Cpl Concordia), lambisce Massimo D’Alema, e dunque la componente ex Ds del Partito Democratico, una volta trasferita a Modena per competenza, non andrà da nessuna parte. Almeno per quanto riguarda il coinvolgimento della politica. Meno noto, ma assai più interessante ai fini di questa storia, il modo con cui quelle intercettazioni del presidente del Consiglio sono finite su un giornale. Si accerterà, infatti, che per un curiosissimo errore materiale, quattro marescialli del Noe hanno depositato il dossier che contiene quelle intercettazioni (e che il pm Woodcock aveva chiesto di omissare, trasmettendolo per competenza alla procura di Modena) in un procedimento parallelo di criminalità organizzata cui è stato dato accesso agli avvocati. I quattro marescialli saranno prosciolti dall’accusa di violazione del segreto. Ma il conto per quella “fuga di notizie per errore” lo pagherà il colonnello Sergio De Caprio, che del Noe è il vicecomandante e dell’indagine Cpl Concordia ha coordinato ogni mossa. Il Comandante generale dell’Arma Del Sette e il suo allora sottocapo di Stato Maggiore, Gaetano Maruccia (diventerà Capo di stato maggiore nel luglio dell’anno successivo, il 2016), della storia di Cpl Concordia nulla sanno. La scoprono leggendo sul Fatto le intercettazioni tra il premier e il generale Adinolfi. È l’occasione per mettere mano all’anomalia che tutti conoscono, di cui tutti parlano da anni e che nessuno si è azzardato per convenienza ad affrontare. Né la magistratura, né l’Arma, né la stampa. Per smontare o comunque esercitare una qualche forma di controllo sulla cinghia di trasmissione che vede un pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli (Woodcock) occuparsi di reati della pubblica amministrazione utilizzando come polizia giudiziaria gli uomini di Ultimo che dovrebbero occuparsi di reati ambientali. Inchieste di formidabile impatto mediatico, di altrettanto formidabile effetto politico istantaneo ed esito processuale mai coincidente con le premesse, per competenze territoriali e risultati dibattimentali. È successo con Finmeccanica. È successo con lo Ior. È successo con il tesoretto della Lega. È successo con la loggia P4. Del Sette rianima dunque un piano di riordino dei reparti speciali dell’Arma (il Noe è uno di questi) che il suo predecessore, Leonardo Gallitelli, ha sepolto in un cassetto. E che sottrae il controllo delle indagini di polizia giudiziaria al vice comandante del Noe (Ultimo) per consegnarle al comandante che Del Sette sceglie tra gli ufficiali di sua fiducia, il generale Sergio Pascali. Il colonnello De Caprio è fritto. Dopo lustri è di nuovo un guerriero senza spada. Ed è orfana la creatura che ha costruito a sua immagine e somiglianza, il Noe. Un reparto custode, nelle sue intenzioni, di un’ortodossia che ha origine nel generale Carlo Alberto dalla Chiesa e nel Ros di Mario Mori e di un metodo che immagina un reparto di eccellenza muoversi sul sottile e scivolosissimo crinale che divide un corpo di polizia da un servizio segreto. Reagisce dunque nell’unico modo che conosce. Ribellandosi. Minaccia di lasciare l’Arma. Rifiuta un primo tentativo di appeasement che lo vedrebbe alla guida di qualche importante comando provinciale. Piovono interrogazioni parlamentari, viene pubblicato qualche informato articolo. È una grana la cui soluzione Del Sette delega al suo allora sottocapo di Stato maggiore, Maruccia. De Caprio è convinto che la sua destituzione sia, né più e né meno, che la vendetta della Politica su quei carabinieri e sul pm che l’hanno messa da anni in scacco. Con la complice arrendevolezza di un nuovo comandante generale. Ma Di Caprio si fida di Maruccia. A tal punto da ammetterlo, unico tra i papaveri di viale Romania, alle celebrazioni in memoria del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che, ogni anno il 3 settembre, celebra nella Onlus Mystica, casa famiglia per ragazzi che ha fondato. Maruccia prova a ricondurlo a più miti consigli. Gli raccomanda prudenza. Lo prega di tenersi lontano dalle luci della ribalta mediatica. In cambio, gli chiede cosa voglia per chiudere quella storia con reciproca soddisfazione. È un tira e molla che va avanti qualche mese. Finché De Caprio non concorda il prezzo per un divorzio consensuale: il suo trasferimento ai Servizi segreti. La cosa appare a Del Sette la quadratura del cerchio. Può cancellare l’anomalia del Noe riconducendolo nella fisiologia del controllo della catena gerarchica, senza umiliarne il simbolo. Di più. Può farlo promettendo a De Caprio non solo che si spenderà per fargli ottenere quel nuovo impiego. Ma che è disposto a fare in modo che lo seguano anche i suoi “orfani” del Noe. Il comandante generale dell’Arma, tuttavia, deve convincere il Governo. Incontra, tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016, l’allora sottosegretario con delega all’Intelligence (ora ministro dell’Interno) Marco Minniti. De Caprio ai Servizi risolve un problema a tutti - argomenta Del Sette - consente di non disperdere le sue straordinarie capacità investigative ma di imbracarle in una struttura che non sia tentata da fughe in avanti. Consente di “ripulire” il Noe da quel vincolo eccentrico di fratellanza, “ribellismo”, mistica Apache (i nickname del gruppo sono Parsifal, Ombra, Arciere, Aspide, Veleno) consegnato all’epica da libri e serie televisive sulla stagione della caccia a Totò Riina, che rende quella struttura ingestibile. Minniti dà il suo nulla osta. Ma la collocazione di De Caprio è meno semplice di quello che appare. Perché si fa presto a dire Servizi. Quali Servizi? Non certo il Dis, il Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza, organo di coordinamento dell’intelligence, dove Ultimo andrebbe a morire come impiegato o peggio analista. Ma neppure Aisi, il Servizio segreto interno, perché c’è un problema. Nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, ma la procura di Napoli ha considerato in passato l’arresto di De Caprio accusandolo di concussione. Un imprenditore, ex ad di Selex (gruppo Finmeccanica) ha sostenuto infatti di essere stato costretto a garantire a Ultimo alcune richieste di utilità per ragioni private, per assicurarsi il nulla osta del Noe necessario al suo business. De Caprio non sarà mai arrestato e il gip di Napoli si dichiara incompetente e trasferisce l’incarto a Roma. Dove, dopo un interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e l’allora pm (oggi aggiunto) Paolo Ielo, l’inchiesta viene archiviata per inconsistenza dell’accusa. Dunque, per De Caprio non resta che l’Aise, la nostra Agenzia di spionaggio, prevalentemente rivolta all’estero. Il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, coglie in De Caprio un’opportunità. Dal giorno in cui ha messo piede nella stanza di direttore dell’Aise a Forte Braschi, quartier generale dell’Agenzia, luogo tra i più protetti e impermeabili del Paese, è, infatti, assediato dai veleni della stagione del Sismi di Niccolò Pollari. E dal suo epigono, Marco Mancini. Ex carabiniere, benvoluto nei circoli di certa sinistra, è stato potentissimo capo divisione all’acme delle fortune pollariane, travolto con infamia dall’extraordinary rendition di Abu Omar e dalle vicende della centrale di spionaggio parallelo cresciuta all’ombra della Telecom di Tronchetti Provera. Marco Mancini è un sopravvissuto. Ha attraversato le tempeste giudiziarie protetto dal segreto di Stato, ma ne è uscito menomato nelle sue ambiziosissime aspettative di carriera. È stato parcheggiato per un po’ a Vienna. Poi è rientrato a Roma dove è stato messo dietro a una scrivania al Dis. Anche se non ha un incarico da niente. Perché controlla la contabilità, coperta da segreto. Dunque, le spese delle agenzie operative. Mancini e i suoi (perché ne ha ancora qualcuno in Aise) sono per Manenti una minaccia in sé. Anche perché - Dio solo sa se a torto o a ragione - l’uomo sarebbe ancora depositario di inconfessabili segreti che riguardano la stagione dei pagamenti dei riscatti per gli italiani sequestrati in Iraq durante il conflitto e persino della morte di Nicola Calipari. Insomma, Manenti ha bisogno di stringere i bulloni dell’Aise e l’”orfano” arrabbiato Sergio De Caprio sembra un dono del cielo. Non fosse altro per come si presenta il primo giorno a Forte Braschi. Lo fanno accomodare in un’anticamera e quindi, prima di portarlo a colloquio con il direttore, lo invitano a passare attraverso il metal detector. Ultimo è la prima cosa che farà notare. “Mi sarei potuto far saltare in aria mentre aspettavo”. Dunque, è a bordo. Viene nominato capo della Divisione sicurezza interna. È un reparto che ha come compito la sorveglianza degli asset del Servizio. Dalle banche dati, alle infrastrutture, dalla fedeltà degli operativi, alle operazioni sotto copertura, al rapporto con gli informatori. E, non ultimo, la congruità nella rendicontazione delle spese di gestione. Parliamo del denaro riconosciuto alle fonti confidenziali ma anche delle singolari spese di rappresentanza (decine di migliaia di euro) dei centri esteri per acqua minerale e succhi di frutta. Il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, ha insomma un nuovo pretoriano. Presto altri lo raggiungeranno. Dal Noe. Ricomponendo la “Squadra”. Perché questo è negli accordi. Ultimo scrive la sua lettera di commiato agli uomini del Noe. Con il senno di poi, più che un addio appare il manifesto di quello che li aspetta e che lui ha in mente. Siamo tra la primavera e l’estate del 2016. Nessuno immagina quale gioco di specchi stia per cominciare. De Caprio lascia il Noe con un’eredità: il “la” all’inchiesta sugli appalti Consip, la centrale unica degli acquisti di Stato. La prosecuzione naturale del lavoro cominciato con Cpl Concordia, un’altra puntata dell’inchiesta sul potere secondo il metodo Woodcock. De Caprio non è più nell’Arma. Ma nell’Arma pesca. De Caprio non è più il vice comandante del Noe ma nel Noe si prepara a scegliere nei successivi dieci mesi 34 uomini che vuole lo seguano in Aise. Tra loro c’è anche un ambiziosissimo capitano napoletano. Gianpaolo Scafarto. Conflitto di interessi: sequestro dell’azienda solo se c’è un danno di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 44053/2017. Sequestro preventivo dell’azienda da annullare se l’impedito controllo dei soci e un ipotetico conflitto di interessi da parte dell’amministratore non hanno danneggiato né i soci né la società. La Corte di cassazione, con la sentenza 44053, respinge il ricorso del pubblico ministero contro l’ordinanza del tribunale che annullava il vincolo reale. Il sequestro preventivo era stato disposto dal giudice per le indagini preliminari secondo il quale in occasione della stipula di un contratto di affitto di un ramo di azienda era stato impedito ai soci di svolgere un’attività di controllo e il passaggio di “mano” era avvenuto in conflitto di interessi. Nel mirino del Gip erano finite le condotte della ricorrente che, in concorso con il padre, amministratore della Srl proprietaria dell’azienda messa sotto sequestro, avrebbe sottoscritto il contratto d’affitto con un’altra Srl che di fatto faceva capo alla ricorrente, visto che il 95% delle quote erano appannaggio del suo compagno possibile prestanome. A completare il quadro c’era un canone di locazione tanto vantaggioso da far scattare il lucro cessante. Il ragionamento del Gip é in linea con quanto affermato dal Pm nel ricorso, ma non con le conclusioni raggiunte dal Tribunale che aveva annullato il sequestro. Per il Tribunale del riesame, manca l’elemento essenziale, ovvero il danno emergente, per ipotizzare sia l’impedito controllo sia il conflitto di interessi (articoli 2625 e 2634 del Codice civile), per affermare la responsabilità non basta infatti né il lucro cessante né l’esistenza di un ipotetico pregiudizio se manca un’effettiva diminuzione del patrimonio. Per la Cassazione è coerente la conclusione del Tribunale, secondo il quale l’affitto aveva comunque consentito all’azienda di ripianare i costi. Non c’è così margine per contestare la violazione dell’articolo 2625 comma 2, che prevede la rilevanza penale della condotta degli amministratori che ostacolano l’attività di controllo dei soci e degli organi sociali quando cagiona un danno, non meglio precisato, ai soci stessi. Lo stesso vale per l’articolo 2634 secondo il quale gli atti di disposizione patrimoniale compiuti dall’amministratore in conflitto di interesse rientrano nel diritto penale solo se hanno provocato un danno alla società. Per i giudici non si poteva dedurre un conflitto di interessi dal semplice rapporto di parentela o affettivo. La Cassazione precisa che la differenza tra le due ipotesi è limitata ai soggetti danneggiati, i soci in un caso la società nell’altro e alla natura del danno, anche non patrimoniale nel solo delitto previsto dall’articolo 2625. In entrambi i casi però l’elemento chiave va identificato e provato. Nessuna sospensione per l’avvocato che testimonia contro la ex cliente Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2017 Corte di Cassazione - Sentenza 25 settembre 2017, n. 22253. Nessuna sospensione per l’avvocato che intervenga a processo per deporre contro una sua ex cliente, se questi è in grado di dimostrare che al rapporto professionale sia subentrata una frequentazione amicale. È il caso di un professionista di Milano (sentenza 22253 del 25 settembre 2017), sospeso due mesi dal Consiglio dell’Ordine per esser venuto meno ai doveri di lealtà nei confronti di una donna difesa, anni addietro, in un processo per stupefacenti. Essendo diventati amici, la ex cliente aveva preso l’abitudine di frequentare lo studio del professionista, entrando in conflitto con una collaboratrice dell’uomo. Gelosa della collega, la ex cliente avrebbe infatti cominciato a ossessionare la professionista, ossessionandola con continue telefonate, minacciandola e ingiuriandola. Pesanti le accuse rivolte dall’avvocato alla ex cliente, accusata di soffrire di manie di persecuzione e compulsività maniacale. Sulla questione fa scuola il Codice deontologico, secondo cui l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti il mandato ricevuto. Nel caso in cui egli intenda presentarsi come testimone, dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo. Questo principio confligge con un principio radicato invece nel processo penale, secondo cui la testimonianza costituisce un dovere per il cittadino. L’ufficio di testimone comporta, per chi ne è onerato, l’obbligo di presentarsi davanti al giudice e di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte. L’articolo 200 del Codice di procedura penale prevede, tuttavia, che particolari professioni, come quella dell’avvocato, non scontino l’obbligo di deporre su quanto “conosciuto”, in ragione del loro ufficio o della loro professione. Nel caso esaminato - conferma la Cassazione - nulla esclude che gli apprezzamenti possano essere maturati in un successivo rapporto di amicizia maturato con la ex cliente. Giudizio abbreviato “condizionato” ed esigenze di economia processuale Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2017 Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato c.d. condizionato - Novità della richiesta probatoria - Compatibilità con l’esigenza di economia processuale - Infondatezza - Rigetto. Il giudizio abbreviato cd. condizionato, cioè subordinato ad una integrazione probatoria richiesta dall’imputato ex articolo 438 c.p.p., è ammissibile quando la nuova prova richiesta risulti assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti di causa e, allo stesso tempo, compatibile con le esigenze di economia processuale cui è finalizzato il rito speciale in esame: solo in tale contesto, infatti, si può ritenere comunque rispettato il perimetro già in precedenza delineato del thema decidendum, sul quale il giudice dell’abbreviato è chiamato a pronunciarsi. Dunque, va rigettata l’istanza di giudizio abbreviato condizionato per incompatibilità con le esigenze di economia processuale, a fronte dell’assoluta genericità dell’integrazione probatoria richiesta che risulti priva di indicazione dei temi da approfondire e/o del tutto irrilevante in relazione alla natura dell’imputazione. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 1 agosto 2017 n. 38180. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Procedimento - Parte civile - Parere contrario alla ammissione dell’imputato al rito abbreviato condizionato - Effetto dell’articolo 441, comma quarto, cod. proc. pen. - Esclusione. Il comportamento della parte civile che esprime parere contrario alla ammissione dell’imputato al rito abbreviato condizionato non è equiparabile alla manifestazione di volontà di non accettare tale rito, cosicché lo stesso non produce l’effetto di cui all’articolo 441, comma quarto, c.p.p. - consistente nel rendere inapplicabile la sospensione del processo civile fino alla definizione di quello penale, ai sensi dell’articolo 75, comma terzo, dello stesso codice- non essendo tale comportamento indicativo di una scelta della parte civile di trasferire la domanda civilistica nella sua sede naturale, rinunciando all’azione proposta nel processo penale. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 21 aprile 2017 n. 19243. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Richiesta - In genere - Giudizio abbreviato condizionato - Necessità dell’integrazione probatoria - Criteri di valutazione - Condizioni. Ai fini dell’ammissione al giudizio abbreviato condizionato, la necessità” dell’integrazione probatoria non deve essere valutata facendo riferimento ai criteri indicati nell’articolo 190 cod. proc. pen., ovvero alla complessità o alla lunghezza dei tempi dell’accertamento probatorio, nè si identifica con l’assoluta impossibilità di decidere o con l’incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, l’incompletezza di un’informazione probatoria in atti, e, dall’altro, una prognosi di oggettiva e sicura utilità, o idoneità, del probabile risultato dell’attività istruttoria richiesta ad assicurare il completo accertamento dei fatti del giudizio. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 9 gennaio 2014, n. 600. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - In genere - Richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’assunzione di prove - Ordinanza di accoglimento parziale della richiesta di integrazione probatoria - Abnormità - Sussistenza - Conseguenze. È abnorme, ed è quindi ricorribile per cassazione, l’ordinanza con la quale il GUP accoglie solo in parte la richiesta di integrazione probatoria posta quale condizione dell’istanza di rito abbreviato, potendo il giudice solo accogliere o respingere l’istanza negli esatti termini nei quali è formulata, sulla scorta delle valutazioni indicate nell’articolo 438, quinto comma, c.p.p., mentre una diversa decisione rispetto a tale alternativa incide in maniera impropria ed irreversibile sulle strategie difensive. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 27 aprile 2015 n. 17661. Campania: “nomina di Ciambriello, una garanzia per i diritti dei detenuti” Il Mattino, 26 settembre 2017 Lidu: “Nomina Ciambriello, garanzia per i diritti dei detenuti” II Comitato di Benevento della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo (L.I.D.U.) esprime soddisfazione per la nomina del sannita Samuele Ciambriello a “Garante dei detenuti della regione Campania”. Il Consiglio regionale lo ha eletto quale successore di Adriana Tocco, recentemente scomparsa. Sannita di nascita, laureato in Teologia, Ciambriello è presidente della associazione “La Mansarda”, che da anni si occupa di detenuti e persone in difficoltà. “L’auspicio della LIDU è che il nuovo Garante possa contribuire a migliorare la realtà carceraria della Campania e le condizioni di vita dei detenuti con particolare riguardo al rispetto del dettato costituzionale in materia di funzione rieducativa della pena e possa facilitare il dialogo con l’amministrazione carceraria per prevenire o sanzionare casi di violazione di diritti umani fondamentali e di trattamenti inumani peri detenuti”. In Campania sono 6.887 i detenuti nelle 15 carceri regionali, a fronte di una capienza regolamentare che ne prevede al massimo 6114 (relazione del Garante dei detenuti perla Campania), sicché la nostra è la seconda regione in Italia per popolazione carceraria dietro la Lombardia, che ha 7814 detenuti. Nel segnalare la buona condizione carceraria delle strutture di Benevento e di Sant’Angelo dei Lombardi, anch’esse comunque sovraffollate, resta la situazione più difficile nel carcere di Poggioreale, a Napoli, che ospita attualmente 2023 persone, a fronte di una capienza prevista di 1611 detenuti. Oltre 500 persone in più, quindi, che pesano in maniera determinante sul dato campano. Sovraffollamento si registra anche nell’altro istituto di pena partenopeo, il carcere di Secondigliano, che ospita attualmente 1309 persone a fronte della capienza di 1029 prevista. Più basso, invece, il dato della Campania per quanto riguarda il numero di stranieri: nelle carceri della regione sono 904 i detenuti di altra nazionalità, un numero decisamente inferiore rispetto a regioni come l’Emilia Romagna, in cui gli stranieri sono la meta del totale, o la Lombardia che ha 3593 stranieri. I dati suesposti sono la spia di una situazione difficile da gestire, rispetto alla quale Samuele Ciambriello sarà chiamato a dare un contributo costante e qualificato, potendo sin d’ora contare anche sulla collaborazione della Lidu di Benevento che, fina dalla sua costituzione, ha sempre riservato un’attenzione prioritaria al terna della condizione carceraria. Toscana: il Co.S.P. lancia l’allarme “carceri fatiscenti e mancano 500 agenti” gonews.it, 26 settembre 2017 Sono 12 le strutture penitenziarie visitate nei giorni scorsi in Toscana dalla delegazione nazionale e regionale del CO.S.P., il Coordinamento sindacale penitenziario, allo scopo di verificare le condizioni e i luoghi di lavoro in cui operano gli agenti penitenziari e i lavoratori del comparto ministeriale. Il quadro che ne emerge, secondo un rapporto dettagliato del Co.s.p. pone in risalto la scarsa dotazione di personale. Oltre al segretario generale nazionale Domenico Mastrulli, a far parte della delegazione sindacale il responsabile interregionale Toscana-Umbria Santo Di Pasquale, i segretari provinciali Salvatore Scanio e Francesco Ardovini, Marco Casciello e Vitantonio Morani. Il Co.s.p. conferma il grave stato di sovraffollamento dei penitenziari toscani che supera del 32 per cento la capacità ricettiva delle strutture regionali. “Pessime - sottolinea Mastrulli - le condizioni dei luoghi di lavoro dove vengono violate le più comuni norme in materia di sicurezza, ambienti poco salubri si riscontrano nelle caserme, nelle mense e nelle aree riservate al personale, alcune completamente abbandonate e fatiscenti”. In Italia il numero di detenuti ha superato il limite massimo di contenimento delle strutture carcerarie con 52mila posti letto a fronte di 58mila detenuti. “Non sono esenti da questa situazione di estrema precarietà i funzionari e i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria ma il settore degli agenti carcerari è quello maggiormente compromesso: all’appello in Toscana - osserva Mastrulli - mancano circa 800 unità e quelle in servizio non sono sufficienti a garantire vigilanza e sicurezza”. Particolari criticità si riscontrano nel carcere Don Bosco di Pisa, dove la notte del 30 agosto scorso è scoppiata la rivolta a seguito del suicidio di un immigrato tunisino di 21 anni. Una realtà nella quale risiedono 250 detenuti con un numero esiguo di operatori carcerari. All’appello in tutta Italia mancano 11mila nuovi agenti. “Inadeguato e inopportuno - aggiunge Mastrulli - il mantenimento di circa 500 Funzionari del Corpo che potrebbero transitare in altre amministrazioni dello Stato. Al loro posto chiediamo 500 nuovi agenti”. Il segretario generale del sindacato autonomo pone ancora una volta l’accento sulla sicurezza nelle carceri. Tra le soluzioni ipotizzate il recupero di personale utilizzato nel settore contabile e amministrativo. “In questo modo si potrebbero recuperare 7mila unità da distribuire nei 240 penitenziari italiani”. A ottobre il Co.s.p. incontrerà i segretari regionali del sindacato di Valle d’Aosta e Piemonte, Giovanni Bellomo ed Enrico Falconi, per celebrare il primo congresso regionale del Co.s.p. piemontese in cui è prevista la nomina dei rispettivi rappresentanti sindacali. Torino: il direttore “sorveglianza dinamica, vera rivoluzione per i penitenziari italiani” di Sandra Lucchini aosta.cq24.it, 26 settembre 2017 “La vigilanza dinamica non è stata concretizzata in tutti i 110 penitenziari italiani - dice Domenico Minervini, direttore delle carceri di Torino. L’apertura delle celle richiede un potenziamento di programmi trattamentali allineato alla tipologia di popolazione carceraria accolta nelle singole strutture carcerarie. È entrata in vigore nel 2012. Casa Circondariale Lorusso Cutugno, di Torino. Ore 9.00 di questa mattina. La protesta degli Agenti di Polizia Penitenziaria iscritti a sigle sindacali confederali e autonome è in pieno svolgimento nell’area antistante, in via Maria Adelaide Aglietta, 35. Una lotta democratica per rivendicare molti diritti, tra cui il potenziamento dell’organico, considerato una priorità assoluta per garantire l’incolumità personale e una gestione più articolata dei detenuti. “Abbiamo constatato con grande delusione l’assenza del direttore Domenico Minervini - dicono i rappresentanti sindacali. Almeno una stretta di mano. Un gesto di solidarietà. Ringraziamo il Questore di Torino Angelo Sanna che ha dimostrato grande comprensione per le nostre rimostranze”. Il direttore Minervini non vede alcuna mancanza. “Ho parlato con i manifestanti alcuni giorni prima e, oggi, pochi minuti antecedenti alla protesta - dice. Ho ottimi rapporti, tra l’altro, con le Organizzazioni sindacali di categoria. Per cui, non ho ritenuto opportuno riprendere un dialogo interrotto pochi minuti prima. Ho ringraziato i sindacati per aver condiviso le modernizzazioni apportate all’interno del carcere”, sottolinea il direttore del penitenziario Lorusso Cutugno. La carenza di organico è avvertita in termini pesanti nei penitenziari piemontesi e anche in quello valdostano. “Da parte nostra - risponde Domenico Minervini - sopperiamo a questa mancanza con iniziative mirate in accordo con i sindacati”. Nella Casa Circondariale di Brissogne, in cui è stato direttore per alcuni anni, stanno accadendo fatti allarmanti. Aggressioni, violente liti tra detenuti di diversa etnia, un tentativo di suicidio, atteggiamenti di intolleranza al regolamento e insulti agli agenti. Non ritiene utile una revisione della vigilanza dinamica? “No - risponde senza esitazione. È chiaro che l’apertura delle celle, attivata, a Brissogne, nel 2010 con due anni di anticipo rispetto ad altri istituti di pena nazionali, deve essere supportata e potenziata da attività di trattamento comportamentale. Questa tipologia di sorveglianza - afferma il direttore Minervini - è prevista da normative europee”. Ricorda il “vecchio sistema. Non è da rimpiangere - sottolinea. L’attuale consente un notevole risparmio di personale. Con la videosorveglianza, poi, si è rivelato idoneo a condurre al meglio la quotidianità all’interno delle carceri”. Il direttore della struttura carceraria torinese parla di “rivoluzione copernicanà e aggiunge: “Il penitenziario valdostano fa storia a sé. L’assenza prolungata di direttore e comandante titolari sta penalizzando l’attività degli Agenti che, come è successo, possono trovarsi a dover fronteggiare situazioni molto complicate”. Auspica una soluzione tempestiva e, soprattutto, la permanenza dei vertici per “almeno un triennio”. Enuncia alcune percentuali utili a comprendere una discrasia delle carceri italiane. “In molti penitenziari europei, e non solo, - spiega - la percentuale degli Agenti di Polizia oscilla tra il 65 e il 70 per cento. In Italia, supera il 90 per cento a fronte di un numero esiguo di figure professionali quali educatori, psicologi, psichiatri. Un rapporto sbilanciato che preclude l’opportunità di seguire con maggiori competenze i detenuti”, conclude il direttore Domenico Minervini. Trieste: il Garante “situazione critica, carenza di personale e sovraffollamento” triesteprima.it, 26 settembre 2017 “Auspicabile sarebbe il ricorso a misure alternative. Auspicabile sarebbe l’incremento dell’organico del personale che a vario titolo opera all’interno dell’Istituto”. Il 19 settembre ricorreva il bicentenario del Corpo di Polizia Penitenziaria e anche a Trieste si è tenuta la celebrazione della ricorrenza nel corso della quale sono stati evidenziati i dati relativi alla locale realtà detentiva. “La Casa Circondariale di Trieste ha una capienza regolamentare di 139 detenuti ma le persone ivi ristrette - alla data del 21 settembre - erano 220; il 61% circa delle persone private della libertà sono stranieri e appartengono a 30 diverse nazionalità. A fronte del numero sempre più elevato di persone ristrette sempre minore è il numero di appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria che vede 30 unità in meno rispetto alle 147 previste. Polizia Penitenziaria che, oltre agli intuitivi compiti di sicurezza, effettua le traduzioni di detenuti - negli ultimi 12 mesi ce ne sono state 1.113 - che comprendono anche l’accompagnamento delle persone private della libertà presso i luoghi di cura esterni, cura le notifiche domiciliari di atti giudiziari - 491 sempre negli ultimi 12 mesi -, procede alle immatricolazioni di nuovi giunti - 587 - e alle scarcerazioni e ai trasferimenti ad altri istituti - complessivamente 574. Al Corpo è demandato anche il compito di campionatura del Dna di tutte le persone sottoposte a regime detentivo e partecipa alle attività trattamentali” ha dichiarato la Garante dei Detenuti. “Attività trattamentali finalizzate ad assolvere importanti aspetti della pena: la rieducazione del condannato e “agevolare” il suo reinserimento sociale. Evidente è la situazione di criticità che si vive nella Casa Circondariale dovuta ad una serie di elementi: carenza di personale - sia nel settore della Polizia Penitenziaria, sia nel settore amministrativo: pensiamo al numero degli educatori, 3, a fronte di una popolazione ristretta di 220 persone; numero elevatissimo di persone ristrette, ben 81 in più rispetto al numero regolamentare; presenza di un’altissima percentuale di persone straniere con tutte le difficoltà che ciò comporta: di comunicazione - per carenze linguistiche -, di culto religioso, di regole sociali e di convivenza differenti, per fare alcuni esempi; considerevole presenza di persone tossicodipendenti e di persone con problemi psichiatrici anche importanti che rendono esasperante la convivenza con le altre persone private della libertà ma anche il lavoro della Polizia Penitenziaria. Nel contesto così descritto non si può che sottolineare come la situazione, nella Casa Circondariale di Trieste, sia critica e, di difficile attuazione, sia la possibilità di dare corretta esecuzione alle attività trattamentali compromettendo la rieducazione del condannato oltre che il quotidiano vivere all’interno dell’Istituto”. “Auspicabile sarebbe il ricorso a misure alternative alla custodia cautelare in carcere e l’accesso a misure alternative all’esecuzione della pena una volta definitiva la sentenza, confidando che la riforma dell’Ordinamento Penitenziario possa trovare celere ed efficace attuazione. Auspicabile sarebbe l’incremento dell’organico del personale che a vario titolo opera all’interno dell’Istituto”. Agrigento: incendio nel reparto detenuti dell’ospedale, sospettato il carcerato ricoverato agrigentonotizie.it, 26 settembre 2017 Un incendio si è sviluppato, durante la notte fra domenica e ieri, in una delle celle del reparto detenuti dell’ospedale “San Giovanni di Dio” di Agrigento. All’interno c’era un carcerato ricoverato. Un uomo che, adesso, è, inevitabilmente, sospettato d’aver appiccato il rogo. È stata, naturalmente, avviata un’indagine della quale si sta occupando la polizia penitenziaria. C’erano infatti alcuni agenti che, come da routine, presidiavano il reparto che ha, inoltre, anche un sofisticato sistema di video sorveglianza. Erano le tre circa quando l’allarme incendi risuonava alla sala operativa dei vigili del fuoco del comando provinciale. I pompieri accorrevano immediatamente. E per circa due ore rimanevano al lavoro nella struttura di contrada Consolida, alla periferia di Agrigento. Naturalmente, sia l’uomo che era ricoverato nella cella dove è divampato l’incendio che gli altri detenuti degenti, sono stati messi al sicuro e, quindi, i pompieri hanno potuto, idranti alla mano, circoscrivere e spegnere il rogo. Pochissimi, praticamente inesistenti, i dubbi sul fatto che l’incendio sia stato appiccato e che, quindi, sia di natura dolosa. Ieri, non risultava essere, però, chiaro come. Ed anche su questo “fronte” venivano sviluppate - nel più fitto e categorico riserbo - le indagini della polizia penitenziaria. Quando i vigili del fuoco hanno avuto la meglio sulle fiamme, sono stati effettuati i controlli di rito: la stanza-cella non è risultata essere inagibile. Ha riportato dei danni: pareti annerite dal fuoco e dal fumo, ma il rogo non ha compromesso la struttura. Non verrà, chiaramente, utilizzata nei prossimi giorni e non appena sarà possibile, cioè quando i responsabili dell’ospedale “San Giovanni di Dio” potranno accedervi, verranno avviati i lavori per ripulire le pareti e sistemare quella che è una stanza da reparto ospedaliero. Caltanissetta: black out in carcere, l’Osapp chiede un’ispezione nuovosud.it, 26 settembre 2017 La Segreteria Regionale dell?’ Osapp ha inviato una nota di protesta al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia di Palermo Giafranco De Gesu rappresentando quanto accaduto presso la Casa Circondariale di Caltanissetta la sera di sabato 23 settembre 2017. “L’Istituto Penitenziario di Caltanissetta, nel quale la Polizia Penitenziaria ha in custodia detenuti di diversi circuiti, media sicurezza, alta sicurezza e persino collaboratori di Giustizia, è un vero colabrodo. E? assolutamente assurdo che per burocratismi inutili o, peggio ancora, per disinteresse nella gestione della sicurezza possono accadere fatti che mettono in serio pericolo la sicurezza del personale e dell’intera collettività. Alle 20 la cittadinanza che gravita attorno alla Casa Circondariale di Caltanissetta e i passanti sono stati attratti dai rumori assordanti provenienti dal carcere che, peraltro, si presentava totalmente al buio. Sistemi di sicurezza obsoleti, sistemi di autogestione inefficienti e totale disinteresse nel mantenere efficiente ogni qualsiasi strumento per l’eventuale criticità, hanno permesso che l’istituto penitenziario di Caltanissetta restasse al buio per più di due ore mettendo in ginocchio la sicurezza. Grazie all’intervento del personale di Polizia Penitenziaria in servizio è stato possibile procedere al richiamo delle altre forze di Polizia per un immediato controllo esterno e, ancora, all’apporto di Poliziotti Penitenziari liberi dal servizio che hanno dato man forte all’esigua forza in servizio, tutto si è risolto nel modo migliore, riportato alla calma i detenuti e scongiurando pericoli.” “Siamo fortemente amareggiati - scrive Di Prima Segretario Regionale dell’O.S.A.P.P. - del disinteresse che da un periodo a questa parte vige nella Casa Circondariale di Caltanissetta, il totale abbandono del personale di Polizia Penitenziaria e la mancata attenzione nella gestione degli strumenti necessari per garantire la sicurezza dell’istituto, del personale e della collettività. Ribadiamo con forza, aggiunge Di Prima che riteniamo responsabili del completo abbandono della Casa circondariale sia i Dirigenti che i Funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria che hanno dimostrato di tenere più all’apparenza che alla sostanza, i quali non potevano non sapere che i sistemi di autocontrollo, di sicurezza e di collegamento con le altre forze di polizia non erano funzionanti”. L’Osapp chiede un intervento ispettivo e di verifica delle questioni sino ad oggi segnalate. Carenza di personale, carenze strutturali, assenza di Funzionari in modo continuativo e organizzazione del lavoro, dando le giuste risposte alla scrivente segreteria regionale, caso contrario saremo indirizzati a proclamare azioni di protesta pubblica. Milano: “I Frutti del Carcere”, quinta edizione al Chiostro del Museo Diocesano partecipami.it, 26 settembre 2017 L’associazione di promozione sociale “Per i diritti” organizza sabato 30 settembre 2017 a Milano, nel chiostro del Museo Diocesano, “I Frutti del Carcere”, l’iniziativa dedicata all’economia carceraria giunta oramai alla 5° edizione. L’esposizione ha l’obiettivo di dare visibilità ai progetti lavorativi esistenti all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari, con un’attenzione particolare a quelli della Lombardia, ma coinvolgendo anche altre regioni italiane. L’importanza del lavoro dentro e fuori le mura del carcere è dunque il tema di fondo del progetto. Strumento di reinserimento e di riscatto per chi vive una condizione di detenzione, il lavoro è il canale che permette di stabilire un ponte con “chi sta fuori”. Portarne all’esterno i frutti significa far conoscere all’opinione pubblica il valore positivo e la potenzialità dell’economia carceraria, creare un contatto diretto tra i cittadini e la realtà delle persone ristrette, troppo spesso ignorata o schermata da pregiudizi. Parallelamente all’esposizione dei prodotti, tutte le edizioni hanno ospitato momenti di incontro e di approfondimento su tematiche legate al lavoro e alla realtà delle persone ristrette: - lavoro all’interno del carcere e reinserimento all’esterno, una volta scontata la pena;; - lavoro offerto da aziende disponibili a investire in attività negli istituti di reclusione; - riflessioni sulle possibili alternative alla detenzione. Tutti i relatori - detenuti, operatori del settore, figure istituzionali, volontari - hanno portato la propria testimonianza sui vari temi affrontati. L’iniziativa “I Frutti del Carcere” è nata nel 2013 dalla collaborazione tra due comitati cittadini che, forti di un’esperienza ormai consolidata, si sono costituiti nel 2015 nell’Associazione PER I DIRITTI e hanno realizzato le edizioni 2015 e 2016 in un luogo pubblico di grande visibilità, la Loggia Dei Mercanti, così da raggiungere e sensibilizzare il più possibile la cittadinanza su un tema di così grande valenza sociale. Entrambe le edizioni hanno ottenuto il patrocinio del Comune di Milano. L’Associazione opera in un’ottica di puro volontariato e organizza la manifestazione a titolo gratuito, senza chiedere alcun contributo agli espositori. Il ricavato della giornata va così a totalesostegno dell’economia carceraria, e per molte cooperative la partecipazione ai Frutti costituisce un importante momento di raccolta fondi e un riconoscimento del valore dell’opera che quotidianamente svolgono. Per quanto riguarda l’esposizione, l’edizione 2017 manterrà sostanzialmente la fisionomia degli anni precedenti. Parteciperanno una trentina di espositori: laboratori di prodotti alimentari e artigianali realizzati con particolare attenzione alla qualità, e cooperative di servizi che, quanto a professionalità, sono in grado di competere alla pari con i concorrenti presenti sul mercato. Individuare un ampio numero di realtà produttive ha implicato un intenso lavoro di presa di contatti, spesso facilitati dalle stesse direzioni carcerarie e dalla collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. La parte dedicata agli incontri si impernierà quest’anno su confronti, dibattiti e testimonianze che hanno come filo conduttore il legame tra carcere e territorio. In sintesi, un percorso a doppio senso che vede nel carcere non più un corpo estraneo, “altro” rispetto alla città, ma un quartiere della città stessa, un luogo che per legittimarsi ha bisogno di attingere risorse dall’esterno e che a sua volta deve trasformarsi in una risorsa per il territorio che gli sta attorno. La nostra iniziativa parte dal presupposto che il carcere non riguardi solo chi vi è ristretto, chi vi opera, chi ne stabilisce le regole, ma tutti noi, mettendo in luce come tra due mondi solo in apparenza separati si possa stabilire una dialettica di reciproco arricchimento. L’Associazione PER I DIRITTI collabora fattivamente con il Comune di Milano, la Camera Penale, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Consorzio Vialedeimille, la Caritas Ambrosiana. La manifestazione ha ottenuto anche quest’anno il patrocinio del Comune di Milano, del Municipio 1, dell’Ordine degli Avvocati e della Fondazione Cariplo. L’iniziativa si svolgerà per l’intera giornata di sabato 30 settembre 2017 nel chiostro del Museo Diocesano, in corso di Porta Ticinese 95. Associazione PER I DIRITTI - via E. Vaina 3 - 20122 Milano - c.f. 97722460157 - peridiritti@outlook.it. Alessandria: “Visti da dentro”, a teatro le vicende dei detenuti di San Michele alessandrianews.it, 26 settembre 2017 Mercoledì 27 settembre alle 21 al Teatro Alessandrino di via Verdi, andrà in scena Visti da dentro, il nuovo spettacolo, tratto dal libro omonimo di Paolo Bellotti, della Compagnia Teatro Insieme. In Visti da dentro si intrecciano vicende vere di detenuti nel carcere alessandrino di S. Michele, viste con gli occhi degli operatori che operano “dentro”, con e per i detenuti, o narrate direttamente da chi presta voce ai detenuti stessi. La prima volta che la Compagnia Teatro Insieme ha avuto occasione di esibirsi all’interno di una casa di reclusione ha chiesto, timorosa, a chi li aveva preceduti in questa esperienza, che tipo di persone fossero i carcerati... e la risposta è stata: “Umanità”. Visti da dentro vuole essere uno spaccato di umanità; per dirla con l’autore, una riflessione su come il carcere “possa essere un luogo che sappia regalare, nonostante le brutture, momenti di profonda umanità”. La regia è di Silvestro Castellana. L’ingresso è a offerta. Migranti. Rimpatriati senza rispettare la dignità delle persone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2017 Una delegazione dell’ufficio del Garante Mauro Palma ha monitorato le procedure. Gli hanno fatto togliere la protesi, poi denudare e invitato a eseguire le flessioni sulle ginocchia. Questo è accaduto a un tunisino disabile prima di essere imbarcato per rispedirlo in Tunisia. Parliamo di una delle tante criticità segnalate dai due rapporti redatti dall’ufficio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. Una delegazione dell’Ufficio del Garante Mauro Palma ha proceduto a monitorare, il 13 aprile 2017, un volo charter destinato al rimpatrio di cittadini tunisini provenienti dal Cie di Caltanissetta e dall’hotspot di Trapani. La delegazione ha potuto assistere, passo dopo passo, tutti i vari passaggi che hanno visto come protagonisti 23 tunisini da rimpatriare. L’altro monitoraggio, invece, ha riguardato il rimpatrio forzato di 15 cittadini nigeriani avvenuto il 17 maggio del 2017. Per quanto riguarda il rimpatrio dei tunisini, ancora una volta, come viene segnalato anche dai precedenti rapporti, viene riscontrato il problema della comunicazione improvvisa del rimpatrio ai diretti interessati. Mauro Palma, infatti, ripropone la raccomandazione di “comunicare preventivamente agli interessati (almeno 24h prima lo svolgimento dell’operazione) la data della partenza in modo da consentire loro di organizzarsi per il viaggio, raggruppare per tempo gli effetti personali, avvisare i familiari o comunque le persone di fiducia e/ o l’avvocato per venire a conoscenza di eventuali aggiornamenti riguardanti la rispettiva posizione giuridica”. Stesso identico problema è stato riscontrato durante il rimpatrio dei cittadini nigeriani: essendo venuti a conoscenza in pochi istanti del provvedimento di allontanamento e dell’immediata messa in esecuzione, lo stress era particolarmente visibile in alcuni di loro che apparivano sotto shock o in preda alla disperazione. Prassi che purtroppo ancora persiste e va contro la garanzia fondamentale connessa al diritto alla libertà delle persone. Altro problema riscontrato è il prolungato e ingiustificato utilizzo dei mezzi di coercizione: una prassi che risulta ingiustificata, soprattutto quando gli stranieri si dimostrano collaborativi e non si oppongono all’allontanamento. Per quanto riguarda i nigeriani, nel rapporto del Garante si evince che vi è stato un uso intensivo delle fascette in velcro per il blocco dei polsi: a molti rimpatriandi non sono state mai tolte durante la lunghissima attesa nemmeno nel momento della consumazione del pranzo. Ma, ancora una volta, il ministero dell’Interno non ha risposto alle sollecitazioni espresse da Mauro Palma, il quale è interessato “a conoscere quali valutazioni siano state svolte nel caso specifico in relazione ai criteri di utilizzo dei mezzi di contenzione nell’operazione monitorata”. Tanti sono i casi specifici che inquadrano diverse inottemperanze dal punto di vista sanitario e/ o lesivo della dignità personale. Un caso riguarda il cittadino tunisino Y. A. che, durante le verifiche preliminari per l’imbarco, si è rivolto alla delegazione del Garante dichiarando di aver ingerito delle lamette. “Considerato che il personale di scorta che operava il controllo non ha ritenuto di dare seguito a quanto riferito dallo straniero - si legge nel rapporto, il monitor ha proceduto a segnalare la questione ad altro operatore di scorta che ha quindi informato il personale sanitario impiegato nell’operazione”. In seguito alla segnalazione era emerso che, effetti-vamente, durante la permanenza nel Cpr (ex Cie) aveva ingerito alcune lamette con tanto di conferma tramite le radiografie. Ciononostante, il personale medico del centro aveva ritenuto di non rilevare l’inidoneità della procedura di rimpatrio rispetto alle attuali condizioni di vulnerabilità sanitaria dell’interessato. L’altro caso - che desta non poche perplessità - riguarda il cittadino tunisino A. K. (disabile privo dell’arto superiore destro) che durante il controllo di sicurezza è stato fatto denudare e invitato a eseguire le flessioni sulle ginocchia. Al cittadino tunisino è stato, inoltre, chiesto di togliersi la protesi dell’arto per una specifica ispezione dell’ausilio. La delegazione del Garante nella considerazione della legittimità dell’azione di sicurezza, al contempo “ha mostrato agli operatori di scorta impegnati nel controllo la propria perplessità sulla correttezza dell’azione che di certo non ha tenuto conto del rispetto della dignità umana della persona disabile”. Tante sono le problematiche riscontrate durante i rimpatri, non da ultimo l’utilizzo dei locali degli aeroporti che risultano fatiscenti, in alcuni casi senza posto a sedere e tali da costringere gli stranieri a rimanere in piedi per diverse ore. In un caso, per quanto riguarda i nigeriani, la consumazione del pasto è avvenuto in un locale spoglio e sporco, collocato nell’area semi interrata, con l’uscita bloccata da una transenna, tanto da sembrare una “stalla”. Migranti. Ricollocamenti, il flop dell’Ue che rafforza i populisti di Carlo Lania Il Manifesto, 26 settembre 2017 Meno di 28mila i profughi accolti. E il voto tedesco rischia di frenare la riforma di Dublino. La coincidenza dei tempi non avrebbe potuto essere peggiore. Oggi scadono infatti i termini fissati due anni fa dalla Commissione europea per il programma di ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia e la data ha finito col sovrapporsi ai risultati delle elezioni in Germania che hanno visto una forte affermazione dell’estrema destra. Risultati che adesso non fanno sperare in niente di buono per quanto riguarda le politiche sull’immigrazione che Bruxelles potrebbe adottare a partire da domani. Ma andiamo con ordine. Se non proprio annunciato, quello delle relocation era un fallimento abbastanza prevedibile visto l’atteggiamento riluttante, quando non proprio ostile, con cui gli Stati europei hanno dato seguito alla proposta fatta nel 2015 dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker di dividersi 160 mila profughi (soprattutto eritrei e iracheni) provenienti dai due Paesi che sopportano da sempre il peso della crisi dei migranti. In 24 mesi i rifugiati effettivamente trasferiti sono stati però appena 27.695, contro i 6.000 al mese ottimisticamente preventivati da Juncker. Di coloro che hanno trovato accoglienza, appena 8.451 provengono dall’Italia, contro i 34.953 posti disponibili. Altri 3.443 potrebbero aggiungersi nei prossimi giorni. Stando ai dati del Viminale sono infatti 1.256 le richieste di trasferimento già approvate, 992 quelle in attesa del via libera da parte dello Stato di accoglienza e 1.195 le domande istruite e per le quali deve essere ancora individuato un Paese destinatario. Per correre ai ripari questa mattina a Bruxelles il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos chiederà agli Stati membri una proroga del programma, proponendo di proseguire con i ricollocamenti fino a quando non sarà varata la riforma di Dublino. E qui l’amarezza per l’insuccesso del programma rischia di trasformarsi in beffa. Insieme all’Italia a spingere di più per cambiare il regolamento che assegna al Paese di primo ingresso la presa in carico del migrante sono stati finora Francia e Germania. La cancelliera Angela Merkel ha però sempre rinviato ogni discussione a dopo le elezioni tedesche. Ora che le urne hanno parlato, le sue prime dichiarazioni sembrano frenare ogni voglia di mettere mano a Dublino. “Dobbiamo capire le paure degli elettori dell’AfD e riconquistarli”, ha spiegato dopo il voto. Il successo del partito di estrema destra tedesco rafforza la posizione di quanti sono contrari all’accoglienza e frenano anche per riformare Dublino. A partire da Ungheria, Repubblica ceca, Polonia e Slovacchia, con i primi tre paesi già nel mirino della commissione Ue, ma anche l’Austria, chiamata anch’essa al voto tra meno di un mese. I sondaggi danno in testa Sebastian Kurz, 31enne ministro degli Esteri e leader dei popolari, uno che vorrebbe confinare i migranti a Lampedusa e non perde mai occasione per minacciare la chiusura del Brennero. A questo punto la cosa più probabile è che prima di Dublino Bruxelles decida di ritoccare il Trattato di Schengen. A spingere in questa direzione sono Francia e Germania ma anche Austria, Norvegia e Danimarca, tutti Paesi che in un documento comune presentato all’ultimo vertice dei ministri degli Interni Ue hanno già chiesto di semplificare le norme che autorizzano il ripristino dei controlli alle frontiere interne prolungandone la durata massina fino a due anni (e non più sei mesi rinnovabili per un massimo di tre volte come accade oggi). Una richiesta giustificata per motivi di sicurezza legati l pericolo di possibili attacchi terroristici, ma dietro i quali si intuisce anche la volontà di un ulteriore giro di vite nei confronti dei migranti. Lo stesso Avramopoulos non esclude che si possa andare in questa direzione, al punto di aver già annunciato di voler presentare le modifiche entro la fine di settembre. Avramopoulos andrà però incontro anche a un’altra richiesta avanzata da Berlino e Parigi, quella di accelerare sui rimpatri degli irregolari. “Dal momento che solo il 36% dei migranti che non ha diritto a restare in Ue viene rimpatriato - ha spiegato il commissario - è chiaro che tutti gli attori devono aumentare il proprio lavoro in modo significativo”. Ricollocazione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia: come l’Unione europea ha fallito di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 settembre 2017 Domani termineranno i due anni di vigenza dello schema di ricollocazione dei richiedenti asilo approdati in Italia e Grecia che, adottato nel settembre 2015, avrebbe dovuto offrire ai richiedenti asilo la possibilità di ricostruirsi una vita in condizioni di sicurezza in paesi diversi da quelli di approdo. I risultati sono deprimenti: complessivamente, gli stati dell’Unione europea hanno ricollocato solo il 28,7 per cento dei richiedenti asilo assegnati; due stati, Polonia e Ungheria, non hanno ricollocato neanche un richiedente asilo; solo uno stato, Malta, ha accolto la quota di richiedenti asilo assegnata. La Slovacchia, che ha invano cercato di contestare lo schema ricorrendo alla Corte europea, ha accettato solo 16 dei 902 richiedenti asilo che le erano stati assegnati; la Repubblica Ceca solo 12 su 2691. La Spagna ha rispettato solo il 13,7 per cento della quota assegnata, il Belgio il 25,6, l’Olanda il 39,6 e il Portogallo il 49,1. Tra gli stati che si sono comportati meglio figurano la Finlandia (1951 richiedenti asilo accolti, il 94,5 per cento della quota assegnata) e l’Irlanda (459 richiedenti asilo accolti, il 76,5 della sua quota). Due stati non-Ue, Norvegia e Liechtenstein, che avevano aderito volontariamente allo schema, hanno rispettato la quota assegnata accogliendo 1500 e 10 richiedenti asilo. Non si trattava unicamente di fare qualcosa di buono, bensì di un vero e proprio obbligo legale nei confronti di rifugiati e richiedenti asilo, sottolinea Amnesty International. Gli stati dell’Unione europea che non hanno rispettato i loro impegni ora rischiano di essere portati di fronte alla Corte europea e di essere sanzionati duramente. Dallo schema, peraltro, sono stati esclusi in tanti. Come i richiedenti asilo arrivati sulle isole greche dopo l’accordo Ue-Turchia del 20 marzo 2016, molti dei quali si trovano ancora bloccati nel luogo dove sono approdati. Una decisione insensata e illegale, che ha impedito ai richiedenti asilo di vivere in sicurezza e dignità e ha peggiorato la situazione sulle isole greche, dove nei mesi estivi gli arrivi sono aumentati. Amnesty International continua a chiedere ai governi europei di raddoppiare gli sforzi per raggiungere le quote loro assegnate dallo schema di ricollocazione, anche dopo la sua scadenza, e di accogliere singole persone necessitanti di protezione e che attualmente si trovano in Italia e Grecia attraverso altri strumenti, quali i permessi di lavoro e procedure rapide di ricongiungimento familiare. La Cei: “integrare i migranti riconoscendo loro una nuova cittadinanza” di Andrea Tornielli La Stampa, 26 settembre 2017 La prima prolusione del cardinale Bassetti presidente della Cei: un appoggio allo ius soli. Sulla xenofobia: enfatizzare queste paure può causare una fratricida guerra tra poveri. Parlando dei migranti afferma che il processo di integrazione può passare “anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza, che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e donne che sono nati in Italia”. Un indiretto ma nemmeno tanto velato sostegno allo ius soli. E sulla xenofobia mette in guardia dall’enfatizzare certe paure che potrebbero causare “una fratricida guerra tra i poveri nelle nostre periferie”. Il cardinale Gualtiero Bassetti, neo-presidente della Cei, ha inaugurato con la sua prima prolusione (che potrebbe essere anche l’ultima se andrà in porto il progetto di abolirla) al Consiglio permanente della Cei. C’era attesa per questo primo intervento del successore di Bagnasco che ha esordito testimoniando “la più sincera vicinanza a tutte quelle donne che in Italia, pressoché quotidianamente, sono vittime di una violenza cieca e brutale”, oltre che un ricordo alle popolazioni ferite dal terremoto e dalle alluvioni. Bassetti ha osservato, con Papa Francesco, che siamo di fronte a un cambiamento d’epoca e che l’uomo di oggi “è troppo spesso un uomo spaesato, confuso e smarrito”, un uomo “ferito” che ha perso il senso del peccato e “cerca salvezza dove si può” aggrappandosi a tutto. Il presidente della Cei, riallacciandosi al discorso pronunciato da Papa Bergoglio al convegno di Firenze nel novembre 2015, insiste sull’esortazione Evangelii gaudium, e sulla “conversione pastorale” richiesta a tutta la Chiesa, che, afferma Bassetti, si deve liberare “dal clericalismo, perché ogni persona possa avere pienamente il suo spazio in una Chiesa autenticamente sinodale”. Il cardinale indica quindi tre contenuti fondanti che stanno a cuore alla Chiesa italiana: lo spirito missionario, la spiritualità dell’unità e la cultura della carità. Il primo è relativo all’”annuncio gioioso” del Vangelo, che “punti all’essenziale”. “Molto si fa nelle nostre Chiese - osserva Bassetti - ma questo cammino va accelerato. Crescono nuove generazioni, diverse dalle precedenti”. Per questo “è assolutamente necessario un deciso impegno per rivitalizzare le realtà che già esistono al nostro interno, ma che forse hanno smarrito la tensione e la capacità di animazione sul territorio”. Il cardinale si interroga: “Abbiamo percorso questa strada con decisione e libertà da noi stessi e dal passato?”. Il “primato dell’annuncio del Vangelo fa tornare semplici. Talvolta fa archiviare progetti, non sbagliati, ma secondari rispetto a tale primato”. La spiritualità dell’unità serve a superare il rischio ricorrente “di andare ciascuno per la propria strada”. Bassetti spiega che “la ricca complessità della Chiesa, però, non può essere ordinata con una geometria pastorale calata dall’alto” e parla di “collegialità” e di “dialogo”. “Chi dialoga non è un debole ma è, all’opposto, una persona che non ha paura di confrontarsi con l’altro”. Per quanto riguarda la cultura della carità, il presidente della Cei ricorda che “i poveri, anche se non fanno notizia, ci lasciano intravedere il volto di Cristo” e “andare verso i poveri è inequivocabilmente una questione che investe la fede e che si riflette nel modo di vivere la Chiesa”. La cultura della carità “è anche sinonimo della cultura di una vita, che va difesa sempre: sia che si tratti di salvare l’esistenza di un bambino nel grembo materno o di un malato grave; e sia che si tratti di uomo o una donna venduti da un trafficante di carne umana”. Bassetti ha quindi indicati alcuni “ambiti da non disertare”. Si parte con il tema molto sentito del lavoro al quale la Chiesa guarda “non certo per esprimere una rivendicazione sociale, ma per ribadire un principio evangelico: il lavoro è sempre al servizio dell’uomo e non il contrario”. E oggi il lavoro “è senza dubbio la priorità più importante per il Paese e la disoccupazione giovanile è la grande emergenza. Nonostante in Italia ci siano piccoli segnali di ripresa per l’economia, non posso non essere preoccupato - afferma il cardinale di fronte agli 8 milioni di poveri descritti dall’Istat, la metà dei quali non ha di cosa vivere”. Servono vie percorribili per rispondere alla piaga della disoccupazione, tenendo conto dei problemi del Mezzogiorno, della famiglia e dei giovani. Sui giovani, Bassetti invita a usare “parole di verità. Senza ripetere ad oltranza una serie di frasi mielose e senza sostanza. Sui giovani, infatti, c’è una drammatica e stucchevole retorica, che purtroppo non viene sempre supportata dai fatti. Dovremmo impegnarci su questo. C’è molto lavoro da fare”. Per quanto riguarda la famiglia, il presidente dei vescovi ricorda che “il contesto attuale - caratterizzato da un crescente aumento di convivenze, separazioni e divorzi, nonché da un tasso di natalità che continua a diminuire drammaticamente - ci impone di guardare alla famiglia in modo concreto, senza cercare alcuna scorciatoia, scorgendo nelle fragilità della famiglia non solo i limiti dell’uomo, ma soprattutto il luogo della grazia”. Ci sono problemi di tipo “esistenziale”, legati alla difficoltà di impegnarsi per sempre. Problemi e sfide di tipo sociale, e infine quelli legati “alla questione antropologica e alla difesa e alla valorizzazione della famiglia tra uomo e donna, aperta ai figli. Una sfida culturale e spirituale di grandissima portata”. Bassetti chiede di “elaborare politiche innovative e concrete, che riconoscano, soprattutto, il “fattore famiglia? nel sistema fiscale italiano. Una misura giusta e urgente, non più rinviabile, per tutte le famiglie, in particolare quelle numerose”, che avrebbe effetti positivi anche “su un tema cruciale per il futuro della nazione: quello della natalità”. Sui migranti il presidente della Cei vuole sgomberare il campo dagli equivoci: “la Chiesa cattolica si è sempre occupata dell’ospitalità del forestiero e del migrante”. Spiega che promuovere “una pastorale per i migranti significa, prima di tutto, difendere la cultura della vita in almeno tre modi: denunciando la “tratta? degli esseri umani e ogni tipo di traffico sulla pelle dei migranti; salvando le vite umane nel deserto, nei campi e nel mare; deplorando i luoghi indecenti dove troppo spesso vengono ammassate queste persone”. I corridoi umanitari “sono, quindi, necessari per dare vita ad una carità concreta che rimane nella legalità”. Accogliere è un primo gesto, ma “c’è una responsabilità ulteriore, prolungata nel tempo, con cui misurarsi con prudenza, intelligenza e realismo”, salvaguardando “i diritti di chi arriva e i diritti di chi accoglie”. C’è da fronteggiare, continua il presidente della Cei, “la diffusione di una “cultura della paura? e il riemergere drammatico della xenofobia”. I vescovi non possono “non essere vicini alle paure delle famiglie e del popolo. Tuttavia, enfatizzare e alimentare queste paure, non solo non è in alcun modo un comportamento cristiano, ma potrebbe essere la causa di una fratricida guerra tra i poveri nelle nostre periferie. Un’eventualità che va scongiurata in ogni modo”. Bassetti afferma: “Penso che la costruzione di questo processo di integrazione possa passare anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza, che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e donne che sono nati in Italia, che parlano la nostra lingua e assumono la nostra memoria storica, con i valori che porta con sé”. Un riferimento piuttosto chiaro in favore dello ius soli. Infine, il cardinale parla della politica in Italia e del ruolo dei cattolici. “Il vero problema è come portare in politica, in modo autentico, la cultura del bene comune. Non basta fare proclami. La proclamazione di un valore non ci mette con la coscienza a posto. Bisogna promuovere processi concreti nella realtà”. Superando quella divisione tra “cattolici della morale” e “cattolici del sociale”. “Non si può prendersi cura dei migranti e dei poveri per poi dimenticarsi del valore della vita; oppure, al contrario, farsi paladini della cultura della vita e dimenticarsi dei migranti e dei poveri, sviluppando in alcuni casi addirittura un sentimento ostile verso gli stranieri. La dignità della persona umana non è mai calpestabile e deve essere il faro dell’azione sociale e politica dei cattolici”. “I cattolici - conclude - hanno una responsabilità altissima verso il Paese. Dobbiamo, perciò, essere capaci di unire l’Italia e non certo di dividerla. Occorre difendere e valorizzare il sistema-Paese con carità e responsabilità”. Migranti. La Cei: “Sì allo ius soli, serve all’integrazione” di Marina Della Croce Il Manifesto, 26 settembre 2017 Arriva dai vescovi l’ultimo appello al parlamento perché approvi lo ius soli riconoscendo così la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia. “Penso che la costruzione di questo processo di integrazione possa passare anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e quelle donne che sono nati in Italia”. A parlare è il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella sua prima Prolusione al Consiglio episcopale permanente che sarà riunito fino a domani a Roma. Nominato direttamente da Bergoglio, che l’ha fortemente voluto a capo dei vescovi, nel suo discorso Bassetti non ha mai fatto riferimento al dibattito politico che da mesi divide la politica italiana tra sostenitori e oppositori alle legge che garantirebbe a 800 mila giovani figli di immigrati di diventare cittadini di questo Paese. Ma le sue parole sono un esplicito sostegno al testo fermo al Senato ormai da quasi due anni. E destinato probabilmente a non vedere la uce in questa legislatura nonostante le promesse del premier Paolo Gentiloni, che ha più volte assicurato di attendere l’autunno per porre la fiducia al provvedimento. Al di là delle parole, però, non si è ancora andati e con l’avvio della discussione sulla nota di aggiornamento al Def (alla quale farà seguito quella sulla legge di stabilità), difficilmente Palazzo Chigi vorrà mettere a rischio la tenuta della maggioranza. Tanti più che lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi, che pure ha sempre definito lo ius soli un “fiore all’occhiello” del suo partito, ha più volte ammesso che mancano i voti per poterlo approvare. Le uniche speranze di veder passare la legge a questo punto sarebbero quindi affidate al Mdp, che minaccia di non votare il Def se dal governo non arriveranno segnali di apertura verso la riforma della cittadinanza. Le parole del presidente della Cei non hanno prodotto reazioni tra i politici, in modo particolare di centrodestra. Che evidentemente preferiscono evitare polemiche con la Santa sede che potrebbero non piacere al proprio elettorato. Restano, però, l’avvertimento lanciato solo pochi giorni al governo dal capogruppo di Alternativa popolare, il partito del ministro degli Esteri Angelino Alfano. “La nostra posizione è chiara da sempre”, ha ricordato Maurizio Lupi. “Il governo non può essere messo sotto scacco dalle discussioni interne al Pd. Se non ci sono le condizioni per fare una buona legge, non si fa. E di questo dovrà prender atto anche il Pd, a meno che non voglia, a pochi mesi dalla fine della legislatura, trasformare il Senato in un’arena”. Nel suo intervento Bassetti ha poi lanciato l’allarme sui pericoli generati di chi soffia sulle paure dell persone. Pur riconoscendo che sulla questioni relative ai migranti occorra rispettare i diritti di chi arriva ma anche di chi accoglie, il cardinale ha stigmatizzato chi “enfatizza e alimenta paure” perché “non è in alcun modo un comportamento cristiano”. Infine il presidente delle Cei ha parlato della necessità di aiutare le famiglie, chiedendo al governo di andare su concreto. “Non è più rinviabile una misura giusta e urgente”, ha detto parlando del “fattore famiglia” che agevolerebbe fiscalmente il reddito dei nuclei ma soprattutto “potrebbe avere effetti positivi” sulla natalità. Poi il lavoro, che resta “la priorità più importante per il Paese” con “la disoccupazione giovanile che è la grande emergenza”. Mario Giro: “Ong in Libia per chiudere i centri dove sono detenuti i migranti” di Carlo Lania Il Manifesto, 26 settembre 2017 Intervista al viceministro degli Esteri: “Accordo con Tripoli per far rientrare l’Unhcr nel paese. Le Ong si occuperanno di assistenza sanitaria ai migranti, ma anche ai libici”. Dopo tre anni di assenza l’Unhcr, l’Agenzia delle nazioni unite per i rifugiati, si prepara a tornare in Libia, paese che era stata costretta a lasciare nel 2014 per motivi di sicurezza. E con lei opererà nel paese nordafricano anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). “La decisione è stata presa la scorsa settimana all’Onu, nell’incontro che il premier Paolo Gentiloni ha avuto con il capo del governo di accordo nazionale Fayez al Serraj, e quello tra i due ministri degli Esteri”, spiega il viceministro degli Esteri Mario Giro. Non si tratta dell’unica novità. Ieri alla Farnesina si è svolto infatti un incontro tra il ministro degli Esteri Angelino Alfano e alcune organizzazioni umanitarie - molte delle quali già attive in Libia - alle quali il governo italiano vorrebbe affidare, in accordo coi libici, l’assistenza umanitaria nei centri nei quali vengono detenuti i migranti. 23 Ong, alle quali si sono aggiunti i rappresentanti delle tre reti dell’associazionismo e della Croce rossa “L’obiettivo comune a tutti è arrivare al più presto al superamento degli attuali centri nei quali sono richiusi i migranti”, spiega Giro, presente anche lui alla riunione. Che decisioni avete preso con le Ong? Il ministro Alfano ha illustrato le condizioni di partenza che riguardano la sicurezza e i centri dei quali si potrà cominciare ad operare e ha chiesto alle Ong la loro disponibilità a svolgere questo impegno. Disponibilità ce c’è stata, per cui adesso siamo operativi. Di quanti e quali centri stiamo parlando? Non lo sappiamo ancora, è da vedere. Noi speriamo il numero più ampio possibile, però è un processo in divenire. Cominceremo con pochi, e poi piano piano si spera di allargare. Stiamo parlando di centri che oggi sono sotto la gestione del governo di Tripoli. Sì, partiamo ovviamente da quelli ma speriamo di allargarci. Le Ong dovranno subentrare al governo libico nella gestione dei centri? Più che delle gestione dei centri abbiamo discusso del loro superamento su cui ci siano trovati d’accordo. Ma dobbiamo essere realisti e accordarci coi libici. Quando è cominciato il lavoro della Guardia costiera libica si disse che i migranti fermati in mare sarebbero stati portati in centri di accoglienza Così però non è stato. Non si rischia adesso di ripetere lo stesso errore? Direi che proprio per questo c’è bisogno dell’intervento dell’Unhcr, dell’Oim e delle Ong, per iniziare a lavorare in questi centri rendendoli, dove è possibile, dignitosi e rispettosi dei diritti umani. Per questo intervento il governo ha già stanziato sei milioni di euro. Cosa prevede il bando? Il bando, gestito dall’ufficio dell’agenzia della cooperazione italiana a Tunisi, prevede l’intervento sanitario e assistenziale all’interno dei centri, ma anche a supporto della popolazione libica più povera e in difficoltà con cui già le Ong operano. Inoltre chi già lo fa potrà occuparsi dei rimpatri assistiti. I tempi? Il bando è già pronto e si sta procedendo alla scrittura e selezione di progetti. Speriamo di cominciare nel corso del mese di ottobre. Droghe. Cannabis, la legge arriva in aula ma riguarda solo l’uso terapeutico di Monica Rubino La Repubblica, 26 settembre 2017 Sarà discusso alla Camera il testo unico stralciato in commissione lo scorso luglio, archiviando la liberalizzazione completa delle droghe leggere. I Radicali italiani: “Occasione persa”. Della Vedova (Forza Europa): “Non lasciamo l’antiproibizionismo al M5S e alla sinistra”. Giovedì sbarca alla Camera il testo base sulla cannabis ma riguarda esclusivamente l’uso terapeutico, archiviando la parte sulla legalizzazione totale della pianta dopo lo stralcio nelle commissioni Affari sociali e Giustizia di luglio scorso. Una delle leggi da non tradire, frutto di un lavoro trasversale dell’intergruppo parlamentare sulla cannabis legale, arriva sì in aula, ma dimezzata. E priva della parte più importante, quella appunto sulla legalizzazione. Di fatto l’uso terapeutico è già regolamentato da un decreto del ministero della Salute del 2007 (quando la ministra era Livia Turco), riconfermato nel 2015 da Beatrice Lorenzin. Ma approvare una legge dello stato in materia darà più peso a questa possibilità terapeutica, togliendo dall’imbarazzo gli operatori sanitari e il mondo scientifico. Va anche detto che, già sulla base del primo decreto, le Regioni hanno introdotto leggi regionali, in cui l’unico elemento di autonomia sul quale possono decidere è se mettere o meno il farmaco a base di cannabis a carico del servizio sanitario regionale. Per i Radicali italiani, che con l’Associazione Coscioni sono riusciti a portare in Parlamento una legge di iniziativa popolare sulla completa liberalizzazione della cannabis, si tratta di un’occasione persa: “Sebbene la decisione di stralciare solo la parte che riguarda l’uso terapeutico sia un passo in avanti - afferma la presidente dei Radicali italiani Antonella Soldo - tuttavia rimane una scelta ipocrita. Per far capire ai medici che la cannabis può essere una cura ci vuole più formazione nelle Università. Il danno del proibizionismo si avverte innanzitutto sul campo della ricerca medica e scientifica”. Anche il senatore di Forza Europa Benedetto Della Vedova, principale promotore del ddl dell’intergruppo parlamentare, non nasconde la sua delusione per lo stralcio del provvedimento, voluto peraltro dai Democratici: “Anche rifiutarsi di affrontare il tema della legalizzazione della cannabis, come di fatto ha scelto il Pd, significa assumere una posizione, a favore dello status quo proibizionista. La discussione comunque ci sarà. In aula si dovrà votare sugli emendamenti che, accanto alle norme sulla cannabis terapeutica, riproducono integralmente il testo stralciato dalla relatrice. Quindi ci sarà un elemento di chiarezza sulle scelte di tutti i partiti e dei singoli parlamentari. Noi non lasciamo l’antiproibizionismo ai Cinquestelle e alla sinistra”. Eppure la battaglia sulla marijuana legale ha incassato il parere favorevole anche di magistrati di spicco, dal sì del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e del sostituto procuratore di Napoli Henry John Woodcock, all’endorsement, ribadito di recente, del presidente Anac Raffaele Cantone. La legge di iniziativa popolare sottoscritta da 67mila cittadini per ora rimane nel cassetto, nella speranza che possa essere riproposta nella prossima legislatura (questo tipo di leggi infatti vale per due legislature). Intanto, dopo la pausa estiva, i Radicali hanno ripreso da qualche settimana i loro corsi di “auto-coltivazione” della cannabis nelle piazze italiane. Non senza qualche “incidente” con le forze dell’ordine. “Al termine del nostro corso pubblico di auto-coltivazione a Milano la Digos ci ha identificate, ha sequestrato i nostri semini e ci ha consegnato un avviso di garanzia in relazione al reato di istigazione per delinquere. Tutto ciò sotto gli occhi degli spacciatori indisturbati alle Colonne di S. Lorenzo, una delle principali piazze di spaccio di Italia”, affermano Soldo e Barbara Bonvicini, segretaria dell’Associazione Radicale Enzo Tortora. “Nel nostro Paese - aggiungono Soldo e Bonvicini - la cannabis si può consumare solo se comprata dagli spacciatori, foraggiando il mercato illegale in mano alle mafie. La coltivazione anche per uso personale è punita con la reclusione fino a sei anni. Proprio per denunciare e porre fine a questo folle paradosso proibizionista, come Radicali Italiani da alcuni mesi regaliamo un semino di cannabis a chiunque si iscriva con un contributo di 10 euro al Radical Cannabis Club e stiamo girando l’Italia con i nostri corsi per “insegnare” ai cittadini a coltivarla. L’obiettivo è che presto piantare quel seme non sia più reato. Finora abbiamo consegnato circa 700 tessere”. Brasile: estradizione Battisti, governo favorevole a richiesta italiana di Omero Ciai La Repubblica, 26 settembre 2017 Secondo Globo, diffuso consenso nell’esecutivo brasiliano a ribaltare la decisione con cui l’ex presidente Lula concesse asilo all’ex terrorista, condannato dalla giustizia italiana all’ergastolo per quattro omicidi. Il ministro degli Esteri Aloysio Nunes avrebbe convinto il presidente Temer che restituire Battisti all’Italia “sarebbe un gesto auspicabile e diplomaticamente molto importante”. La lunga latitanza di Cesare Battisti, l’ex terrorista dei “Proletari armati per il comunismo”, rifugiatosi in Brasile nel 2004, dove l’ex presidente Lula gli concesse il rifugio politico, potrebbe essere agli sgoccioli. Il quotidiano brasiliano Globo, scrive nell’edizione odierna che nel governo di Michel Temer c’è un diffuso consenso alla richiesta italiana di riesaminare la concessione della cittadinanza e procedere all’estradizione dell’ex terrorista condannato all’ergastolo per quattro omicidi, due commessi materialmente e due in concorso, dalla giustizia italiana. La richiesta del governo italiano è già stata esaminata dal ministero della Giustizia brasiliano che ha dato parere favorevole all’estradizione e lo stesso ha fatto anche il ministero degli Esteri. Il ministro degli esteri brasiliano Aloysio Nunes Ferreira ha, secondo il giornale, detto al presidente Temer che restituire Battisti all’Italia “sarebbe un gesto auspicabile e diplomaticamente molto importante”. Secondo la legge, il presidente Temer può rivedere e annullare la decisione che prese Lula, nonostante il parere contrario del Tribunale supremo, alla fine del suo secondo mandato presidenziale nel 2010. Le nuove trattative tra il governo italiano e quello brasiliano iniziarono durante il governo Renzi e sono proseguite fino a oggi. Secondo il Globo però il via libera di Temer all’estradizione non è imminente anche se ormai la decisione è presa. Nonostante le pressioni, sia del governo italiano, sia di ministri del suo governo, per una scelta in tempi brevi, Temer preferisce la cautela. Secondo il portavoce presidenziale una decisione su Battisti “Non è per ora all’ordine del giorno”. Ma ormai tutto lo scenario che portò Lula a concedere la residenza brasiliana all’ex terrorista italiano è completamente cambiato ed è abbastanza difficile che una sua eventuale estradizione possa provocare proteste. Battisti potrebbe presentare ricorso presso il Tribunale supremo ma con poche speranze. L’ex terrorista oggi vive nella cittadina di Rio Preto, Stato di San Paolo. Nel 2015 ha sposato una brasiliana, Joice Passos Dos Santos e ha avuto un figlio con un’altra donna in una relazione precedente. Battisti fuggì dall’Italia nel 1981, prima che la condanna all’ergastolo diventasse definitiva, e si rifugiò prima in Francia, poi in Messico fino al 1990 e poi di nuovo in Francia. Visse a Parigi fino al 2004 quando un tribunale francese accettò la richiesta di estradizione dell’italia. Tre anni dopo, nel 2007, venne arrestato a Rio de Janeiro dall’Interpol. Grazie alla sua attività di scrittore di libri gialli, Battisti ha avuto amici importanti: in Messico Paco Ignacio Taibo II e in Francia Fred Vargas che dopo l’arresto in Brasile intervenne in suo favore e pagò le spese del processo. Vargas coinvolse anche la sua amica Carla Bruni affinché suo marito, Nicolas Sarkozy, allora presidente francese, intervenisse presso Lula. Ma il vero protettore di Battisti all’epoca fu il ministro della Giustizia Tarso Genro che gli concesse subito l’asilo politico, poi revocato dal Tribunale Supremo. Fino al 31 dicembre del 2010, quando nell’ultimo giorno del mandato Lula firmò il “no” all’estradizione (facendo infuriare il presidente Napolitano) che ora Temer potrebbe revocare mettendo fine a una latitanza che dura da 36 anni. Germania. Una legione di xenofobi e negazionisti, così l’AfD sconvolge il Bundestag di Francesca Sforza La Stampa, 26 settembre 2017 Dietro il volto e le idee rassicuranti di Weidel la pattuglia dei duri e puri dall’Est. Il leader Gauland accende la polemica: Israele non è un nostro interesse nazionale. Se la fatica di Angela Merkel nel gestire la sua fragile vittoria sarà segnata nei prossimi giorni da trattative e negoziati all’insegna del più raffinato tatticismo politico, quella che aspetta la dirigenza del partito di estrema destra Afd - gli altri vincitori di questa tornata elettorale tedesca - sarà gestire la coabitazione fra due anime, di cui una smaccatamente xenofoba e negazionista. Il fatto di aver rastrellato consensi un po’ ovunque - tra i razzisti e i semplici scontenti, tra i violenti e gli impauriti, tra i transfughi e i traditi - rischia infatti di tramutarsi in un boomerang. I primi segni del caos ci sono stati ieri mattina, quando a sorpresa, con una mossa a effetto da tempo meditata, la capogruppo al Bundestag Frauke Petry ha annunciato le sue dimissioni, pur restando all’interno del partito: “Credo che non stiamo rispondendo, nei contenuti, al mandato dei nostri elettori, che ci chiedono di guardare al futuro in modo costruttivo, non al passato”. Il volto più borghese e rassicurante dell’Afd - un passato come funzionaria nella Stasi di Lipsia, madre di cinque figli, fautrice di una destra più conservatrice che estremista - ha dunque deciso di prendere le distanze dalla coppia Gauland-Weidel, non senza averli accusati di accarezzare la parte peggiore del loro elettorato. E non sbaglia, in certo modo, quando dice che “se i toni non fossero stati così esasperati in campagna elettorale, avremmo preso il 20 per cento, mentre così abbiamo spaventato molte persone”. A spaventarli, soprattutto, i toni negazionisti e xenofobi che hanno nutrito, per tutta questa campagna elettorale, il sottobosco dell’elettorato Afd. Lo scontro di ieri è solo l’inizio, perché le dimissioni di Petry non erano ancora state digerite, che già Alexander Gauland - 76 anni, un passato nella Cdu, oggi candidato di punta Afd insieme a Alice Weide - interveniva su Israele con un discorso tanto contorto quanto inquietante: “Certo che siamo al fianco di Israele - ha detto - ma è discutibile il fatto che il diritto di Israele a esistere sia un principio della ragion di Stato tedesca. Se così fosse dovremmo essere pronti a usare il nostro esercito per difendere Israele, e siccome in Israele c’è una guerra continua, ecco mi sembra privo di senso”. Immediate le proteste del Consiglio centrale degli ebrei in Germania: “Purtroppo le nostre paure sono diventate realtà”, ha detto il presidente Joseph Schuster. Lo ripetiamo, lo scontro fra l’anima presentabile e quella impresentabile dell’Afd è solo all’inizio. E una conferma viene dalla lista degli oltre 90 eletti che dalla prossima seduta fino al 2021 siederanno in Parlamento. Se tra i “presentabili” c’è Beatrix von Storch, candidata a Berlino, che ammira i Tea Party e vorrebbe una squadra di calcio senza stranieri, al suo fianco c’è Wilhelm von Gottberg, ex poliziotto, ex Cdu, che oggi ha 77 anni, vive in Bassa Sassonia e ritiene un “mito” lo sterminio di massa degli ebrei da parte dei nazisti: “L’Olocausto - disse una volta - è un dogma che dovrebbe essere lasciato fuori da qualsiasi ricerca storica”. Un altro che vorrebbe iscrivere la Shoah nel capitolo “acqua passata” è Jens Meier, giurista, candidato a Dresda, che tra le sue affermazioni più note registra quella secondo cui “i tedeschi dovrebbe finirla con questo culto della colpa”. Vicino a personaggi rozzi come questi, ci sono anche figure più stilizzate, tra cui spicca Armin-Paul Hampel, 60 anni, alta borghesia della Sassonia: ama presentarsi come viaggiatore e conoscitore delle cose del mondo - è stato corrispondente per il canale televisivo Ard dal Sudest asiatico fino al 2008 - e si è ritagliato negli anni il ruolo di mediatore e consulente per varie imprese commerciali tra India e Germania. Grazie a un passato nella marina, Hampel ha molti buoni amici tra gli alti gradi delle gerarchie militari, altro bacino elettorale dalle tonalità nostalgiche che guarda con interesse alle politiche dell’Afd. E che dire dello storico Stefan Scheil, teorico delle ambizioni militari della Polonia, che avrebbe per questo iniziato la guerra contro la Germania, e che oggi si erge a “eterna vittima”? Tra i più anziani c’è poi Detlev Spangenberg, 73 anni, nato nella Ddr, arrestato durante un tentativo di fuga verso l’Ovest, riesce infine a trasferirsi in Nordreno Westfalia, dove si iscrive alla Cdu. Dopo la caduta del Muro decide di ritornare all’Est, dove partecipa al gruppo estremista “Lavoro, Famiglia, Patria”, che ha tra i suoi principi ispiratori l’odio per i musulmani e il ripristino dei confini tedeschi al 1937. Una lunga lista di curriculum pasticciati e sgangherati, quella dei parlamentari Afd, che risponde alla confusione presente nel loro elettorato: in parte violento, in parte inconsapevole, in altra parte ancora spregiudicato e avventuriero. E che adesso, a dispetto di tutto, entrerà a pieno titolo nel patrimonio politico tedesco. Belgio: politico negazionista condannato a visitare lager nazisti per cinque anni di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 26 settembre 2017 La condanna inflitta a Laurent Louis, 37 anni, che aveva messo in dubbio lo sterminio degli ebrei e le camere a gas. Dovrà visitare una volta all’anno un campo di concentramento e raccontarne in Rete. Condannato a far visita, una volta all’anno e per cinque anni, a un lager nazista. È la pena inflitta a un deputato federale belga che aveva espresso posizioni negazioniste e antisioniste. La condanna - Si tratta di Laurent Louis, 37 anni, ex deputato del Partito Popolare belga: era stato condannato nel 2015 in primo grado a sei mesi di prigione e 18mila euro di ammenda perché sul suo blog aveva messo in dubbio lo sterminio degli ebrei e l’esistenza delle camere a gas. Una condanna che la Corte d’Appello di Bruxelles ha convertito, sospendendo il carcere a patto che Louis una volta all’anno, per cinque anni, si rechi in uno dei campi di concentramento nazisti tra Auschwitz, Dachau, Treeblinka e Majdanek. E che utilizzi blog e social media per raccontare le sue visite, in particolare il suo profilo Facebook (ha 50mila follower). “Una vittoria” - Lui, il 37enne ex deputato, ha festeggiato la decisione come una vittoria personale: “Finalmente qualcuno riconosce il mio talento di scrittore - ha detto, per poi aggiungere - A parte gli scherzi, oltre ad essere molto istruttivo sul piano umano, sarà un’occasione per denunciare i genocidi attuali”.