La risposta giusta ai reati violenti non è tanta galera cattiva Il Mattino di Padova, 25 settembre 2017 I reati, spesso anche violenti, che riguardano i giovani suscitano sempre più reazioni "di pancia": basta "buonismi", serve più carcere, e il carcere deve essere "cattivo" perché i ragazzi ne devono avere paura. In realtà, quando detenuti che hanno sperimentato fin da giovanissimi il carcere cattivo raccontano la loro esperienza, quello che emerge con chiarezza è che quel tipo di carcerazione serve solo a far sentire le persone vittime delle Istituzioni che le puniscono così crudelmente, e a farle uscire dalla galera cariche di rancore e più "attrezzate" a commettere reati. Perché questo è spesso il carcere, un luogo dove imparare a essere delinquenti migliori. Le testimonianze che seguono, di un detenuto e di uno che la pena l’ha scontata tutta, ci aiutano a capire che il primo lavoro da fare è aiutare i ragazzi ad avere delle passioni più sane di quelle tristi dei soldi e del successo ad ogni costo, il secondo è smetterla di credere che la risposta giusta alla violenza sia tanta galera cattiva. L’aggressione feroce Non mi è facile trovare le parole giuste per quello che proverò a scrivere. Ho assistito al filmato che hanno trasmesso tante volte sui telegiornali per l’aggressione feroce in una discoteca in Spegna che ha portato alla morte del giovane Niccolò Ciatti. Questa tragica vicenda mi è in qualche modo familiare. Con quelle immagini rivivo la mia storia, quello per cui sono in carcere anch’io. Per un brutale pestaggio ad un mio coetaneo, poi deceduto per un fendente al cuore, in una storia simile per una banale discussione, nello stesso mese di agosto, con lo stesso numero di persone coinvolte, stessa età e il solito luogo di divertimento, che invece si trasforma in un palcoscenico della morte, dove "il pubblico" assiste inerme senza battere ciglio, addirittura riprendendo la scena con i cellulari, mentre una giovane vita spezzata varca le porte del paradiso. Non posso sottrarmi al fatto di essere stato anch’io una belva come quei tre coinvolti nella morte barbara di Niccolò. Anche se le mie responsabilità non furono materiali, come invece mi ha sentenziato un tribunale con una condanna ad anni 27, non mi sono mai sentito estraneo o meno colpevole per quei fatti. Le responsabilità che ho avuto le sento tutte sulla mia pelle. Sentire la disperazione, il dolore, la rabbia dei familiari di Niccolò ti fa capire che nessuno al mondo merita di morire in quel modo. Eppure sono trascorsi dieci anni esatti dal fatto che mi ha portato in carcere, e quei ricordi sono ancora vivi nella mia testa e sicuramente il dolore dei familiari è ancora lancinante. In qualche modo ho cercato un avvicinamento con loro, ma non si è mai realizzato, e lo capisco, lo accetto. Non so perché ma comunque confido in loro, cercando ancora il loro perdono, anche se mi considerano un carnefice senza alcuna attenuante, ma ho anch’io dei sentimenti. Certo la mia condizione giovanile era descritta come quella di un criminale pericoloso, ma anche da questa immagine non potrò sottrarmi o svicolare, per il percorso di vita che seguivo da irresponsabile. Oggi mi sento una persona diversa da ieri, anche se non completamente migliore. Devo dire in tutta onestà che i miei miglioramenti non li devo al carcere, che rimane spesso solo un luogo di pena dove si può facilmente uscire peggiori, ma esclusivamente all’attività di volontariato che mi ha permesso di confrontarmi con la società civile, un’attività che si svolge nei pochi istituti italiani come Padova. Ammetto che non è facile che i genitori di una vittima perdonino gli aggressori, questo è uno stato d’animo comprensibile, come ha già manifestato la famiglia Ciatti, invocando giustizia ed il carcere a vita. Anch’io probabilmente vorrei la sofferenza più atroce per chi facesse del male ad un mio caro, ma alla fine non cambierebbe le cose né riporterebbe in vita la vittima, e non colmerebbe quel vuoto d’odio che rischia di accompagnarci per sempre, l’odio è un sentimento da cui dovremmo stare lontani, che dovremmo abbandonare per non essere divorati dalla sete di vendetta. Penso al dolore della famiglia Ciatti, e spero, anche se è impossibile superare il dolore, che non si lascino comandare dal rancore per chi ha tolto disgraziatamente la vita al loro figlio. Non chiedo certo che possano perdonarli, non l’hanno fatto neanche con me, ma per lo meno che possano guardarli in faccia e chiedergli delle risposte ai loro "perché?". Raffaele D. Mi sono mancate proprio delle passioni sane e vitali Forse la mia è stata una di quelle adolescenze "segnate", ma devo riconoscere che molti ragazzi hanno avuto una vita simile alla mia eppure le loro scelte sono state diverse dalle mie. Io sono nato a Milano, sono cresciuto in un quartiere di periferia e soprattutto ho conosciuto mio padre in carcere, a San Vittore. La sua detenzione è durata fino a quando avevo dieci anni e una volta uscito già riconoscevo nelle istituzioni un nemico, le consideravo quella parte di società che mi aveva fatto vivere per i primi dieci anni di vita un padre dietro a un bancone divisorio e con l’impossibilità di avere un contatto fisico, una qualsiasi cosa che potesse trasmettermi quell’intimità di cui qualsiasi figlio ha bisogno. Una volta terminata la sua detenzione mio padre decise di trasferire tutta la sua famiglia nella nostra terra di origine, la Sicilia. Un altro quartiere in periferia della città, ma questa volta una città e un quartiere del sud, Catania, una realtà diversa da quella vissuta fino a quel momento. Da quell’istante la strada mi ha fatto da insegnante di vita: io decisi che ormai ero grande abbastanza per non andare più a scuola e così all’insaputa dei miei genitori iniziai ad allontanarmi da un ambiente che invece avrebbe potuto salvarmi la vita. Iniziai con piccoli furti a 12 anni fino ad arrivare a 14 anni a compiere un reato molto grave, una rapina in banca. Ero un ragazzino che fingeva di non aver paura di niente e di nessuno e fu proprio questo che portò alcuni ragazzi più grandi di me a invitarmi per compiere una rapina con loro. Non esitai, accettai subito senza un minimo di riflessione e così scappai con questi ragazzi e salimmo a Milano per compiere una rapina in banca. Ci arrestarono poco dopo e quell’arresto mi costò due anni di carcere minorile. Ed ecco che la scuola del crimine ha iniziato a fare il suo percorso e da buon "studente" assorbivo tutto ciò che potesse fortificare e strutturare il delinquente che avevo deciso di diventare. Da questi due anni di carcere minorile sono uscito che mi sentivo grande, avevo il desiderio di affermarmi nel mondo delinquenziale e soprattutto avevo imparato a odiare le istituzioni, fui proprio in grado di inventarmi una guerra tra me e loro, fare i reati era diventata anche una sorta di sfida che lanciavo alle istituzioni, ero convinto che la riuscita di un reato, in questo caso di una rapina, era una sfida vinta nei loro confronti. Mi sentivo uomo a soli 17 anni, ma ero solo un moccioso presuntuoso. Mi sentivo al di sopra di tutti e di tutto. Mi sentivo talmente uomo che decisi di crearmi una famiglia e questo feci. Andai a vivere con una ragazza e dopo poco più di due anni arrivò nostro figlio, ma la storia si ripeteva nuovamente… mio figlio lo conobbi come io avevo conosciuto mio padre, dietro a un bancone e il caso volle anche nello stesso carcere, San Vittore. Ero stato arrestato poco prima che nascesse, per una rapina. Oggi ho passato più di 20 anni in giro per le carceri e sempre per il solito reato, ogni detenzione la usavo per alzare l’asticella. Mi avvicinavo a persone più grandi di me ma sempre con il mio stesso reato, ascoltavo con molta attenzione, assorbivo tutte quelle che vengono chiamate le "dritte" e le modalità per cercare di guadagnare di più e facendo questo la mia pericolosità sociale aumentava. Non ero un ragazzo che aveva la capacità di guardare l’altro e di capire quello che causavano i miei reati. Ero egoista e neanche l’essermi voluto creare una famiglia mi ha fermato. Non avevo passioni ed è stata questa la chiave di svolta nella mia vita, la scoperta di vere passioni, le stesse passioni che mi sono mancate durante l’età in cui un ragazzo si deve strutturare con ideali e principi sani. Ero legato alle cose materiali a tal punto da essere incapace di fermarmi e guardare la devastazione che si stava creando attorno a me. Da anni ho riscoperto la passione per lo studio, per il confronto, per l’ascolto, il valore della comunicazione, e proprio queste passioni sono quelle che oggi mi stanno salvando la vita e stanno creando una vera sicurezza sociale. Io non so neanche se sarei stato capace da giovane di individuarle, queste passioni, e magari cogliere l’opportunità, se qualcuno me l’avesse offerta, di cambiare, però so che mi sono mancate proprio delle passioni sane e vitali, o meglio, le poche che la vita mi ha in qualche modo concesso non le ho volute raccogliere perché nessuno mi aveva insegnato ad ascoltare, questa è la base di tutto, sapere e volere ascoltare. Lorenzo S. Ai detenuti 1.000 euro al mese. Ma lo Stato non ha i soldi per la Polizia penitenziaria di Marco Galvani Il Giorno, 25 settembre 2017 Loro, gli agenti del carcere, hanno il contratto fermo da 10 anni. Gli straordinari tagliati. E l’obbligo di pagarsi pure il posto letto in caserma. Mentre i detenuti, dal mese prossimo, si ritroveranno un aumento in busta paga di circa l’83%. Per legge. Vale a dire che un detenuto che lavora in carcere arriverà a guadagnare un salario medio di circa 7 euro all’ora. Il che significa mille euro al mese a cui si aggiungono, a seconda dei casi, tredicesima e quattordicesima. "Praticamente quanto prende al mese un agente di polizia penitenziaria - sbotta Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). Solo che loro hanno vitto e alloggio pagato, gli agenti hanno sulle spalle mutui pesanti. È una vergogna di cui nessuno ha il coraggio di parlare". Ci ha provato il consigliere regionale del gruppo Maroni Presidente, Fabio Fanetti, a denunciare "una situazione assurda" pur rimanendo "d’accordo che bisogna tutelare i detenuti e favorire il loro recupero sociale anche attraverso il lavoro". Ma secondo il sindacato degli agenti "questo è troppo". Oggi nelle 18 carceri lombarde ci sono 8.309 detenuti. Fra loro, 1.964 (di cui 1.035 stranieri e 157 donne) lavorano come dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria. Dentro agli istituti di pena si occupano della cucina, delle pulizie delle sezioni ma anche di tenere in ordine le aree esterne e della manutenzione ordinaria degli edifici. Mentre sono solo 701 detenuti (229 stranieri) che in Lombardia lavorano per imprese o cooperative esterne che hanno deciso di portare parte della loro produzione oltre le sbarre. Chi lavora per lo Stato lo fa per cinque giorni alla settimana, 6 ore al giorno. Sei ore come gli agenti, "costretti, però, a fare anche straordinari per tappare i buchi causati dalla carenza di organico. Straordinari che non sempre vengono pagati", puntualizza Capece. E l’aspetto ancor più paradossale è che "per garantire una alternanza e la possibilità a tutti i detenuti di lavorare, ogni sei mesi di lavoro chi è impiegato viene "lasciato a casa" e messo in cassa integrazione. Tanto, qui in Italia paga sempre Pantalone". Non come in Germania: "Lì il detenuto che lavora prende 87 centesimi all’ora e si paga anche la corrente elettrica che usa - sottolinea il sindacalista. Noi, invece, non soltanto li ospitiamo gratis in carcere, ma gli garantiamo uno stipendio. Mentre allo Stato, ovvero a ogni italiano che paga le tasse, ogni detenuto costa al giorno circa 160 euro. Quello stesso Stato che dice di non avere soldi per noi agenti e che dà pensioni da fame a chi ha lavorato una vita. Non ha alcun senso". A proposito della rivalutazione delle retribuzioni dei detenuti... di Patrizio Gonnella* Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2017 A chi, politico o sindacalista, si indigna della rivalutazione della misera retribuzione, che per pudicizia il legislatore chiama mercede, concessa ai detenuti per le loro altrettanto poche e misere ore di lavoro dequalificato che svolgono all'interno di un carcere, mi sentirei di rispondere così: a) era più o meno dai tempi della lira che non c'era un adeguamento della mercede ai costi della vita. Nel frattempo è successo di tutto; l'adeguamento è il frutto di un lungo contenzioso con le Corti italiane ed europee; b) il lavoro se non è retribuito allora è forzato e i lavori forzati sono un retaggio di un passato autoritario. Negli Stati Uniti, dove ancora in alcune galere private si lavora con le palle al piede, le guardie sono dipendenti di società private. Per cui starei attento a evocare modelli che poi toglierebbero posti di lavoro pubblici. Che ne pensano gli iscritti ai sindacati autonomi di Polizia penitenziaria? Coerenza fino in fondo ci vuole; c) l'attuale media oraria lavorativa di un detenuto è di un paio di ore al giorno. Per cui tolti i soldi del mantenimento per il vitto e l'alloggio (anche in Italia sono dovuti e di recente sono pure aumentati) e dei risarcimenti vari al detenuto resta poco. Ora resterà poco più di poco. Altro che mille euro al mese. L'argomento che però più sorprende è quello di chi, rappresentando i poliziotti, continua a fare paragoni assurdi tra lavoratori e carcerati. In questo modo viene lesa la dignità dei primi. Il lavoro di un poliziotto è faticoso e socialmente rilevante. merita prestigio comunitario. Non è così però che si conquista. Chi mai baratterebbe un giorno di libertà con un giorno di prigionia? Chi mai scambierebbe un giorno con la divisa blu con un giorno con la divisa a righe? Le battaglie per dare più qualificazione e più soldi ai poliziotti non passano dalla riduzione in schiavitù dei detenuti ma dalla costruzione di un modello penitenziario autenticamente legale e ispirato a principi di ragionevolezza, normalità e umanità. *Presidente dell’associazione Antigone "Socially Made in Italy", un’opportunità per le detenute La Stampa, 25 settembre 2017 Un progetto innovativo sostenuto da Engineering, Socially Made in Italy, è finalizzato alla formazione professionale e al reinserimento delle detenute del carcere di Venezia attraverso il recupero e la trasformazione di materiali in PVC. Che diventano shopper, borse e articoli eco-friendly. 11 laboratori artigianali d’eccellenza in 11 diversi istituti penitenziari d’Italia; 60 detenute e 10 detenuti impiegati; una cooperativa sociale, Alice, che ha festeggiato 25 anni di attività a sostegno del reintegro dei detenuti; la recidiva che si abbassa al 10% quando le persone in carcere sono avviate a una attività lavorativa. Questi sono i dati che descrivono una realtà e un progetto sociale. "Ogni anno - racconta Concetta Lattanzio, Direttore Comunicazione di Engineering - partecipiamo a decine e decine di eventi, seminari, stand, fiere e ogni volta, insieme ai nostri interventi, presentiamo materiali di comunicazione che parlano di noi: roll-up, banner, pannelli, quasi sempre in PVC, che riportano la nostra immagine, i nostri slogan, il numero dei dipendenti, delle sedi, le società del Gruppo, i Paesi in cui lavoriamo. Sono materiali che spesso finiscono nei magazzini, oppure, come abbiamo dimostrato con la collaborazione con Socially Made in Italy, possono avere una seconda possibilità". E così, grazie al lavoro delle detenute del carcere di Venezia, i PVC prodotti da Engineering si sono trasformati in bellissime borse e articoli eco-friendly presentati durante l’ultimo Kick-Off aziendale. "Abbiamo recuperato, misurato, pulito, inscatolato e spedito tutto al carcere di Venezia - continua Lattanzio - E tutto ha un significato che va ben al di là della semplice volontà di conservare per riusare materiali. Soprattutto perché il ricavato della vendita degli oggetti rivitalizzati sarà investito per finanziare dei corsi di formazione per le giovani detenute che potranno così costruirsi una professionalità e un futuro". La detenzione femminile in Italia rappresenta meno del 5% del totale della popolazione detenuta (2.140 circa le carcerate) ed è presente in cinque Istituti esclusivamente femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca) e 52 sezioni femminili. L’esigua percentuale delle donne in carcere rende "meno visibile" il contesto detentivo delle donne, che vivono in una realtà fatta e pensata nella struttura, nelle regole, nelle relazioni, nel vissuto da e per gli uomini. Le donne non solo vivono in condizioni peggiori - spiega Caterina Micolano, Project Manager della Cooperativa Alice - ma hanno anche molte meno opportunità formative e ricreative dei colleghi uomini. Ed è per questo che i nostri primi laboratori sono stati pensati per dare loro una opportunità". Sartoria, laboratori che creano accessori in PVC, pelle e cuoio a marchio "malefatte", un laboratorio di cosmetici, un orto biologico, una serigrafia per t-shirt del commercio equo e solidale, collaborazioni con artigiani esperti e grandi brand, un sistema produttivo (Sigillo) certificato dal Ministero di Giustizia che attesta il rispetto dei contratti sindacali di categoria. Tanto hanno messo in piedi nella cooperativa sociale investendo nelle persone, nel loro potenziale. "Grazie al sostegno di esponenti del made in Italy e dell’alta moda, che hanno creduto nel nostro progetto - continua Micolano - abbiamo potuto fare un upgrade di competenze importante che ci ha portato a vedere trasformati gli oggetti ricostruiti in veri e proprio prodotti di design". Lavorazioni eccellenti fatte con materiali di scarto prodotti dall’industria della moda e che andrebbero semplicemente a inquinare in caso di smaltimento. "Le loro produzioni - conclude Lattanzio - raccontano di impegno, etica e cura per l’ambiente: ogni loro produzione è speciale poiché porta con sé la storia delle mani che l’hanno lavorata, fatta di passati tortuosi, presenti di impegno e attese di futuri migliori". Seconde possibilità. Seconde vite. Spesso migliori delle prime. Mafie. I "signori" dell’acqua e del cemento di Anna Scalfati La Repubblica, 25 settembre 2017 Nella silenziosa "piattaforma del Lazio" per oltre vent’anni, il sistema economico criminale si è imposto occupando i vari settori: commercio, agricoltura, edilizia e radicandosi nella pubblica amministrazione attraverso una fitta rete di clientele. Fatti di sangue anche gravi, negli anni, sono passati alle cronache come vendette passionali o suicidi. Così fu archiviata, come suicidio, anche la morte in caserma del comandante della Guardia di Finanza della città di Fondi, il capitano Fedele Conti, 44 anni, rinvenuto cadavere nell’alloggio di servizio il 27 settembre del 2006. Nel 2006 il capitano Fedele Conti si era concentrato su varie indagini e tra queste quella sul villaggio turistico della coppia Maio-Esposito, l’Holiday Village, una imponente struttura di cui i due avevano acquistato la quota maggioritaria con la loro società, la Holiday Soledad srl. Solo due anni dopo la morte del capitano Fedele Conti il pubblico ministero, Giuseppe Miliano, rilevò nei suoi uffici a Latina la totale illegalità della struttura turistica del litorale di Fondi e fu chiaro che l’Holiday Village era stato costruito in totale spregio delle norme di salvaguardia della costa. Fu in quel contesto che l’indagine venne avocata dal procuratore capo Giuseppe Mancini, originario di Latina, città nella quale i suoi figli svolgevano attività forense e che, per tale ragione, fu oggetto di una interrogazione al Consiglio Superiore della Magistratura per incompatibilità ambientale. L’evento piu’ significativo di quegli anni fu l’ingresso del senatore di Forza Italia Claudio Fazzone negli uffici del giudice per le indagini preliminari, Giuseppe Cario, per chiedere conto di quanto stava avvenendo nella vicenda dell’Holiday Village. Sembra che tutto parta da Fondi, sede del più importante mercato ortofrutticolo d’Europa, una ricchezza in camion e trasporti da e per la Sicilia verso Milano e le capitali europee. Città ricca e paese natale del senatore Claudio Fazzone, colui che porta nel Lazio a Berlusconi il più consistente pacchetto di voti. Ma tutto si muove e non solo a Fondi, nel silenzio complice della provincia di Latina dove il delfino del senatore Fazzone, Armando Cusani, progetta con i fondi europei imponenti opere pubbliche a Sperlonga, due chilometri da Fondi, città di cui è sindaco. In quegli anni Cusani, detto affettuosamente Armandino, "riqualifica" la rocca dell’anno mille che diventa una sorta di set cinematografico berlusconiano, una specie di dependance televisiva, trasformando aranceti in parcheggi e sponsorizzando premi estivi alla carriera per alti funzionari dello Stato. È l’occasione d’oro per strutturare meglio anche le sue proprietà, tra queste un albergo hollywoodiano sorto in area vincolata che gli è costato una condanna in via definitiva, la sospensione grazie alla legge Severino dall’incarico elettivo e in ultimo, ha contribuito, insieme all’accusa di corruzione e turbativa d’asta a tenerlo quasi cinque mesi in carcere fino all’inizio del processo, avvenuto due mesi fa. Quando è uscito dal carcere Cusani ha trovato la piazza del paese addobbata a festa per il suo rientro e molti cittadini lo hanno accompagnato fino alla soglia della casa. Nel decennio 2007 -2017 quella della coppia Cusani-Fazzone è stata una scalata ai vertici del potere. Presidente della Provincia di Latina il primo e senatore il secondo con il coordinamento di Forza Italia ma anche entrambi coinvolti nella gestione delle risorse idriche attraverso la società Acqualatina. Sono stati però anche gli anni in cui, grazie al gesto isolato e mai più ripetuto del prefetto Bruno Frattasi, è stato chiarito il profilo sociale ed economico del sud pontino. Un territorio - questo - scelto dalle ‘ndrine e dai Casalesi, luogo in cui sono stati seppelliti rifiuti, area in cui l’avvocato della camorra, Cipriano Chianese, in carcere per strage e disastro ambientale, ha acquistato due ville lussuose. D’altro canto se i soldi girano devono girare nel lusso. E le barche che nel 2007 erano state progettate all’interno dell’area protetta del lago di Paola, a Sabaudia, avrebbero certamente attirato persone molto ricche. Ogni barca, lunga quaranta metri e alta nove (come una palazzina) veniva vendute a otto milioni di euro. Nei cantieri Rizzardi ne avevano progettate otto. Una era già in acqua nel lago, le altre erano nei capannoni. Era stato rilevato il cantiere fallito della Posillipo (fallito proprio perché chiuso all’interno del Parco Nazionale) e l’allora Presidente della Regione Francesco Storace, insieme al sindaco di Sabaudia Salvatore Schintu e al ministro dell’Ambiente Altero Matteoli avevano deciso che il porto nel lago di Paola sarebbe stato il fiore all’occhiello dello sviluppo nautico in quel tratto di costa. Un progetto che era costato - per abbattimento fraudolento di manufatti archeologici - già una trentina di notizie di reato a chi si era reso disponibile a realizzarlo. Per contro Il presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani, aveva progettato la riqualificazione dei luoghi manomessi che prevedeva al posto di un ponte in un canale di epoca Augustea, una struttura mobile come quelle californiane, del costo di tre milioni di euro, per consentire ai mega-yacht di raggiungere il mare varcando il canale di collegamento con il lago. L’economia tirava in quegli anni e fu necessario smantellare il sistema economico perfetto per ristabilire l’ovvietà della norma che in zona protetta a livello internazionale tutela la duna millenaria, l’opus reticolatum dell’imperatore romano, gli alberi del parco Nazionale che con lo sventramento del lago e la distruzione dell’ecosistema sarebbero morti. Purtroppo l’economia legale stenta a farsi strada, con il caporalato, l’agricoltura intensiva e inquinante, i corsi d’acqua abbandonati dal Consorzio di bonifica e la vendita massiccia di cocaina ma la cosa che più preoccupa è una specie di assuefazione, di mancanza di memoria, di appiattimento etico che porta a rimuovere i fatti gravi che ancora si verificano come le scritte infamanti sulla casa di un consigliere comunale di Sperlonga, morto in un incidente e la storia ancora irrisolta di quel parroco di Borgo Montello, don Cesare Boschin, che denunciava miasmi nei pressi della canonica e che venne trovato alle soglie dell’anno 2000 imbavagliato e ucciso. La difficile giustizia delle vittime di Vittorio Coletti La Repubblica, 25 settembre 2017 Spero in questo articolo di riuscire a spiegarmi senza urtare troppo qualcuno la cui sensibilità merita in questo momento il massimo di rispetto. Intendo infatti riflettere sul nuovo proscioglimento da parte della procura spagnola dell’autista del pullman che, rovesciandosi, ha causato la morte di 13 studentesse universitarie del programma Erasmus, tra cui una genovese, e sulla richiesta dell’esasperato padre di questa povera ragazza di boicottare università e universitari spagnoli in Italia e a Genova in segno di protesta per la decisione, secondo lui inconcepibile, della magistratura iberica. Il rettore Comanducci ha già risposto che questo non solo non è possibile, ma non sarebbe neppure giusto ed io vorrei riprendere l’argomento per riflettere su due cose tra di loro collegate: 1) la difficoltà ad accettare che non tutti i responsabili di qualcosa sono anche e necessariamente colpevoli di un reato e che, più in generale, esistono ancora le disgrazie, proprio nel senso etimologico di mancanza di grazia, di buona sorte, di fortuna; 2) la tendenza sempre più diffusa a identificare la richiesta di giustizia col punto di vista delle vittime o dei parenti delle vittime di un incidente o di un reato. Punto primo: oggi ci deve sempre essere un responsabile umano di qualsiasi cosa, persino di un terremoto, e questo responsabile deve essere processato perché colpevole di un reato. Ora, purtroppo, accadono fatti che non sono imputabili a persona precisa oppure che, come l’incidente del pullman, sono imputabili ad essa, ma questa, causandoli, non ha commesso un reato, come ha ribadito la procura spagnola (un colpo di sonno non è una colpa!). Nel resto d’Europa questa triste ma inconfutabile realtà è ancora nota e la magistratura ne tiene conto. In Italia è meno scontata ed è costume popolare, spesso purtroppo incentivato dalla nostra giurisprudenza, cercare un colpevole e possibilmente condannarlo, anche se si tratta di un maremoto o di un’alluvione. Non vorrei essere frainteso. Ci sono molti casi calamitosi che avvengono o provocano danni a causa del comportamento colpevole di qualcuno, che va quindi perseguito e condannato. Ma a volte no; non è individuabile un responsabile o, se questo è individuabile, non è necessariamente colpevole. C’è però riluttanza a riconoscere questa banale verità. Un tempo si attribuiva tutto, il male come il bene, a Dio; oggi si attribuirebbe all’uomo anche uno tsunami. Il meccanismo culturale e psicologico è lo stesso, solo che prima era di tipo religioso e ora è di tipo laico. Da sempre l’uomo ha difficoltà ad ammettere l’ineluttabile e anticamente aveva dato le fattezze di un dio anche al Fato, perché è duro accettare di essere in balia dell’imponderabile e dell’inconoscibile, non potersela prendere con nessuno, una divinità o un essere umano. Purtroppo però è anche così e l’uomo deve imparare a dire l’indicibile, a guardare in faccia anche la gratuità del male: si può ammalare persino uno che è sempre andato da un medico bravissimo, ha fatto tutti i controlli e seguito le diete giuste. Non si saprà mai perché. Punto secondo: le vittime o, meglio, i parenti delle vittime credono che la giustizia debba essere resa a loro, al loro dolore, alla loro enorme perdita. Mentre non è così. A loro va l’eventuale risarcimento, ma la giustizia penale, che condanna o assolve un colpevole, non può tenere conto del loro punto di vista, neppure quando li ammette a titolo di parte civile nei processi, dove non a caso non siedono tra i giudici ma tra gli accusatori. Se si rendesse giustizia ai parenti delle vittime di un omicidio, non basterebbe la condanna a morte del colpevole. Invece la giustizia si rende alla collettività ed è quindi commisurata alle sue esigenze e sensibilità e non a quelle delle vittime o dei loro parenti. Questo, bisogna avere l’onestà di dirlo, vale anche nel caso terribile del giovane Regeni: non si può dichiarare guerra all’Egitto né rompere con esso i rapporti diplomatici, anche se apparati di quello stato sono visibilmente implicati nell’uccisione del giovane. Una volta scoppiavano le guerre per casi del genere, specie se le vittime di un delitto all’estero avevano un ruolo pubblico nel loro Paese (ambasciatori, capi di Stato ecc.). Oggi, per fortuna, si tende a non farlo più. Un’idea di giustizia come reazione proporzionata al lutto subìto è simile a quella che ne hanno i favorevoli alla legittimazione delle armi per uso privato e autodifesa. Alzi la mano chi non strozzerebbe chi gli ha scippato il portafoglio o non sparerebbe a chi gli sta svaligiando l’appartamento. Ma la società matura e saggia nega al cittadino una giustizia commisurata alla sua rabbia o al suo dolore; al massimo la rapporta al suo danno materiale. La gente fatica ad accettarlo e certa magistratura la conforta in questa immaturità giuridica e civica cercando a tutti i costi un colpevole anche quando questo non c’è o è solo una (con)causa di un evento luttuoso, senza specifica colpa personale. Negli Stati Uniti, dove vige ancora la pena di morte con diritto dei parenti delle vittime ad assistere all’esecuzione del condannato, c’è ancora l’idea di una giustizia penale a misura della vittima e credo che pochi si sentirebbero di approvarla, perché è l’erede dell’antica vendetta. La giustizia civile deve tenere conto delle esigenze e dei danni delle vittime nel definire i risarcimenti, perché è una giustizia riparatrice degli effetti pratici di un evento negativo. La giustizia penale invece cura una ferita pubblica e sociale, parla a nome e per conto della collettività, che è la principale parte offesa di un reato. Per questo è ostacolata, non favorita dalla crescente trasformazione dei parenti delle vittime in protagonisti non solo dei processi ma anche della vita pubblica, quasi il lutto conferisse loro un’autorità speciale. Quando il padre della povera giovane genovese morta nell’incidente in Spagna chiede il boicottaggio dei rapporti universitari con quel Paese, pretende che la collettività si adegui alla sua particolare postazione privata. Mentre non solo non può, ma neppure deve essere così, perché la reazione pubblica (nei tribunali e fuori) a un fatto che ha coinvolto dei privati cittadini non può che essere commisurata, nelle sentenze dei giudici e nell’opinione pubblica, al fatto specifico e non al dolore di chi ne è stato vittima. I parenti delle vittime possono pretendere la verità ma non la punizione, e debbono comunque rassegnarsi al fatto che l’una, se si trova, e l’altra, se si commina, sono demandate all’autorità preposta, che risponde dei suoi atti alla collettività e non a loro. Incompatibilità dell’infermità fisica con la detenzione in carcere. La sentenza nel caso Riina di Emanuele Sylos Labini giurisprudenzapenale.com, 25 settembre 2017 Cassazione Penale, Sez. I., 5 giugno 2017, n. 27766. Con la sentenza in commento, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rigettato le richieste presentate dal difensore di Salvatore Riina, riguardo l’ipotesi di differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare. In considerazione della risonanza mediatica della vicenda, la pronuncia de qua si mostra particolarmente interessante, posto che la questione nodale affrontata dalla Suprema Corte riguarda il principio dell’esistenza di un "diritto di morire dignitosamente" che deve essere assicurato a tutti i detenuti, dunque, Riina compreso. Nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, rigettando il ricorso avanzato dal difensore del Capo dell’organizzazione criminale denominata "Cosa Nostra", escludeva in primis la sussistenza dell’ipotesi di differimento obbligatorio della esecuzione della pena detentiva, prevista dall’art. 146, comma 1, c.p.[1], sul presupposto che dalle relazioni sanitarie acquisite, non emergeva che le pur gravi condizioni di salute del detenuto fossero tali da rendere inefficace qualunque tipo di cure, dandosi, al contrario, atto nelle stesse, di numerosi trattamenti terapeutici praticati nei confronti di Riina, uniti a svariati ricoveri ex art. 11 l. 26 luglio 1975 n. 354, ivi compreso quello, in corso alla data dell’istanza, presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma. In secondo luogo, riguardo la valutazione della sussistenza dei presupposti per un rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, ai sensi dell’art. 147, comma 1, n. 2), c.p., il Tribunale bolognese evidenziava la trattabilità delle patologie del detenuto anche in regime carcerario, rammentando alcuni episodi riguardanti la patologia cardiaca, la quale era stata adeguatamente fronteggiata con tempestivi interventi di ricovero. A fortiori, il Tribunale escludeva, altresì, il superamento dei limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e del diritto alla salute; in particolare, nell’ordinanza in oggetto, i giudici di merito affermavano che proprio in relazione all’idoneità della struttura penitenziaria ad apprestare interventi urgenti, lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, posto che il rischio dell’esito infausto è pari e comune a quello di ogni cittadino, anche in stato di libertà. Da ultimo, il provvedimento effettuava anche un giudizio di bilanciamento della complessa situazione sanitaria del richiedente la misura alternativa con le esigenze di sicurezza ed incolumità pubblica, in considerazione della notevole ed acclarata pericolosità di Riina che ricopriva "la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa Nostra", ancora operante e rispetto alla quale il suddetto non aveva mai manifestato piena volontà di dissociazione. Tali circostanze, secondo il Tribunale, rendevano impossibile una prognosi di assenza di pericolo di recidiva del predetto, nonostante le precarie attuali condizioni di salute. Avverso tale pronuncia aveva proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, denunciando, con un unico motivo, violazione di legge con riferimento agli artt. 147 e 47-ter, comma 1, ter, l. n. 354/1975, nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. In particolare, a parere del ricorrente, l’ordinanza impugnata operava una valutazione solo parziale dei profili riguardanti il grave stato di infermità fisica del detenuto, omettendo un’adeguata motivazione riguardante l’ulteriore profilo del mantenimento dello stato detentivo che poteva risolversi in un trattamento contrario al senso di umanità e, pertanto, contrastante i principi costituzionali e della Cedu. La Suprema Corte ha accolto il suddetto ricorso, sostenendo che la motivazione adottata dal provvedimento adottato dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna sia carente, e in alcuni tratti, contraddittoria. Invero, a parere degli ermellini, la valutazione operata dai giudici di merito riguardo l’assenza di un’incompatibilità dell’infermità fisica del soggetto rispetto alla detenzione carceraria non si mostra pienamente esaustiva, poiché basata esclusivamente sull’esame del trattamento delle patologie dello stesso anche in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio e dell’adeguatezza degli interventi, anche d’urgenza, operati nei suoi confronti. Sul punto, il Supremo Collegio rammenta l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel pieno rispetto dei principi di cui agli artt. 27, comma 3, Cost. e 3 Convenzione EDU, la valutazione riguardante l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitata alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendo estendersi piuttosto ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure in carcere[2]. Di conseguenza, proseguono gli ermellini, il Tribunale avrebbe dovuto effettuare una valutazione complessiva dello stato di salute del detenuto, dunque, del suo logoramento fisico, con particolare riferimento anche all’età avanzata del soggetto, riguardo la quale, com’è noto, la giurisprudenza di legittimità si è già ampiamente espressa, sancendo l’obbligo di motivazione specifica sul punto[3]. Per tali motivi, ritengono i Supremi Giudici, il provvedimento in esame non si è attenuto ai principi suesposti. In buona sostanza, dalla motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna non emerge l’iter in base al quale i suddetti giudici siano giunti a ritenere compatibile lo stato di detenzione del ricorrente ultraottantenne e affetto da gravi patologie con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità che la Carta Costituzionale e la Convenzione EDU impongono nell’esecuzione della stessa. In ordine a quest’ultimo aspetto, è peraltro appena il caso di sottolineare come la Suprema Corte affermi l’esistenza di un "diritto di morire dignitosamente" che in ragione a quanto appena evidenziato, deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, doveva espressamente motivare. Ora, secondo la Cassazione l’ordinanza impugnata incorre in una intrinseca contraddittorietà della motivazione, anche laddove da un lato afferma la compatibilità dello stato di detenzione dell’istante con le sue condizioni di salute e dall’altro evidenzia espressamente le carenze strutturali della Casa di reclusione di Parma ove il medesimo è ristretto, pur ritenendo le stesse irrilevanti ai fini della decisione sulle istanze oggetto di valutazione. Gli ermellini contestano il ragionamento operato dai giudici di merito, sostenendo come a tale conclusione il Tribunale sarebbe dovuto giungere soltanto all’esito di un accertamento volto a verificare nel concreto, se e quanto la struttura carceraria sia compatibile con le condizioni di salute del ricorrente. Nella specie, se la mancanza di un letto che permetta ad un soggetto ultraottantenne gravemente malato, dunque non autonomo, di assumere una diversa posizione, incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell’esistenza che deve essere assicurato a tutti i detenuti. Pertanto, la Corte opportunamente conclude che fermo restando l’altissima pericolosità del soggetto e del suo indiscusso spessore criminale, il provvedimento non chiarisce, con motivazione adeguata, come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale; in merito i giudici di legittimità ritengono che tale pericolosità debba basarsi su precisi argomenti di fatto, rapportati all’attuale capacità del suddetto di compiere, nonostante il generale stato di decadimento fisico e la precarietà delle condizioni di salute in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza. Alla luce di quanto finora esposto, qualche considerazione finale si rende doverosa. Non appare disutile richiamare che la Carta Costituzionale offra una serie di principi in tema di funzione della pena, i quali risultano di basilare importanza, ai fini di un corretto esame della pronuncia del caso di specie. Trattasi, a tacer d’altro, di quei principi sostanzialmente richiamati agli artt. 3, 25 e 27 - i quali trovano espressione anche all’interno dell’ordinamento penitenziario, che riguardano l’uguaglianza formale di tutti i cittadini dinanzi alla legge, la legalità e la proporzionalità della pena, la personalità e l’umanizzazione della stessa, nonché quello della rieducazione del condannato, che si mostra principio cardine di una giustizia la cui ratio deve ricercarsi non soltanto nella repressione ma, altresì, nel "tentativo" di recupero sociale del reo. A ciò va aggiunto quanto esplicitato all’art. 32 Cost., che impone alla Repubblica di tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Considerando, quindi, che l’art. 3 della Convenzione EDU garantisce il diritto alla salute delle persone detenute, sembra facile intuire quanto il percorso motivazionale operato della Suprema Corte appaia ineccepibile. Invero, al di là della gravità del male commesso, uno Stato di diritto ha l’obbligo di assicurare a tutti gli individui le garanzie fondamentali enunciate nella Carta Costituzionale, garantendo, dunque, una morte dignitosa anche all’autore dei crimini più efferati. [1] Ai sensi del quale, l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria è differita: 1) se deve aver luogo nei confronti di donna incinta; 2) se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno; 3) se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286-bis, comma 2, c.p.p., ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative. [2] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 16681, in CED, Rv. 249966; Cass. pen., Sez. I, 8 maggio 2009, in CED, Rv. 244132. [3] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 13 luglio 2016, n. 52979, in CED, Rv. 268653; Cass. pen., Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 3262, in CED, Rv. 265722. "Vivere onestamente" e "rispettare le leggi" camerepenali.it, 25 settembre 2017 L’analisi dell’Osservatorio Misure Patrimoniali Ucpi. Il 5 settembre sono state depositate le motivazioni della Sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il precedente 27 aprile, che ha enunciato il principio di diritto inerente all’impossibilità dell’inosservanza delle prescrizioni generiche di "vivere onestamente" e "rispettare le leggi" a integrare la fattispecie di cui al 75 codice antimafia. Il 5 settembre sono state depositate le motivazioni della Sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il precedente 27 aprile, che ha enunciato il principio di diritto inerente all’impossibilità dell’inosservanza delle prescrizioni generiche di "vivere onestamente" e "rispettare le leggi" a integrare la fattispecie di cui al 75 codice antimafia. Come noto, la questione è stata assegnata alle Sezioni Unite in seguito alla Pronuncia della Grande Camera di Strasburgo nella vicenda De Tommaso c. Italia, che ha statuito, in particolare, la violazione del principio della libertà di circolazione, tutelato dalla Convenzione EDU, per la mancanza di precisione e prevedibilità delle cosiddette prescrizioni generiche, al tempo previste dall’art. 5 della legge fondamentale sulle misure di prevenzione 1423/56, poi trasfuse nell’articolo 8 del decreto legislativo 159/2011. L’attesa non ha tradito le aspettative. Ci troviamo di fronte a un Provvedimento che esprime a nostro avviso due dati essenziali: la consapevolezza della Corte di Cassazione del proprio ruolo nel sistema multilivello, che non può ridursi all’innalzamento di argini, tantomeno allo sventolio di fazzoletti bianchi; l’autorevolezza della decisione, derivante dalla presa di coscienza della Corte di entrare in un territorio minato, di doverlo fare senza alcun timore e, soprattutto, senza l’ansia di rileggere con atteggiamento necessariamente compromissorio un passato - quello appunto delle misure di prevenzione - estremamente condizionante dal punto di vista storico, giuridico, politico-criminale. Il primo aspetto si coglie in modo distinto laddove la Corte scrive: "Nel caso ora sottoposto al loro esame le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono chiamate ad una rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU e subordinata al <> (Corte cost., sentenze n. 349 e n. 348 del 2007). Ne consegue che solo una lettura "tassativizzante" e tipizzante della fattispecie può rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il che inevitabilmente comporta il superamento di una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali problematiche" (pag. 15). Il secondo dato innerva tutta la motivazione della Sentenza, che si inserisce nel solco già dissodato dalla De Tommaso con la maturità dettata dalla consapevolezza di una lunga vicenda - quella della prevenzione - giunta oramai al fine corsa. Questo lo si comprende chiaramente laddove le Sezioni Unite colgono in modo distinto - riportandolo in tre parti separati - il fatto che la censura proveniente dal massimo consesso di Strasburgo non riguarda i singoli punti in esame quanto - e proprio - la "cultura" prevenzionale che ha connotato la storia giuridica del nostro Paese, espressa nella legge: "Con questa decisione i giudici di Strasburgo … hanno espresso un giudizio fortemente critico sulla "qualità" della legge n. 1423 del 1956, giudizio che, necessariamente si estende al d.lgs. N. 159 del 2011, nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali della disciplina originaria" (pag. 13); "Nell’offrire un giudizio complessivamente negativo sulla legge n. 1423 del 1956 …" (pag. 14); "9. Nel giudizio complessivamente critico che la Sentenza De Tommaso ha dato alla disciplina delle misure di prevenzione personali" (pag. 14-15). Se è comprensibile un’esplicita, mancata adesione delle Sezioni Unite allo stigma conferito da Strasburgo al congegno prevenzionale, è percepibile comunque, nella filigrana della motivazione, un accostamento alle ragioni critiche che il tempo ha sedimentato attorno al sistema. Riteniamo di coglierlo - ad esempio - nella parte in cui la Sentenza sembra prendere le distanze dalla storia della norma, dalla sua originaria vocazione di stampo squisitamente repressivo, vieppiù inasprita da un legislatore sempre ben disposto ad enfatizzarne gli esiti penalizzanti. E crediamo di intravederlo laddove le Sezioni Unite trattano con freddezza l’atteggiamento complessivo tenuto negli anni dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale: la prima, quando ha dato il via libera alla possibilità del concorso formale tra i reati comuni commessi dal sorvegliato speciale e quello proprio, attraverso una rilettura penalizzante dei beni giuridici ritenuti compromessi, ovvero nelle ipotesi in cui la violazione riguardava un obbligo sanzionato solo in via amministrativa, o improcedibile per difetto di querela, o inoffensivo; la seconda in tutti i casi in cui ha "salvato" la norma dalle numerose censure di indeterminatezza promosse. Con l’eccezione dell’ordinanza della Consulta 354/2003, che precisò come le prescrizioni di genere non potessero essere qualificate quali obblighi penalmente sanzionati, e delle Sezioni Unite Sinigaglia del 2014, che attraverso il recupero del principio di offensività ha tentato di temperare gli assurdi e ingiustificati esiti applicativi della norma. Sul volano di una ricostruzione impeccabile per completezza e nitore, la chiusura si eleva al piano dei principi fondativi del sistema penale, collegandoli tra loro in modo dialogico: "Le norme penali sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di "vivere onestamente e rispettare le leggi’" perché il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. L’indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi dal giudice. Autorevole dottrina, proprio con riferimento al rapporto determinatezza-conoscibilità, ha osservato che qualora una sanzione penale venisse applicata in mancanza della possibilità di conoscere la norma precettiva, a causa della sua indeterminatezza, si avrebbe una situazione in cui. In sostanza, il rapporto che lega la determinatezza della norma penale alla sua prevedibilità e conoscibilità finisce per influire sulla sussistenza stessa della colpevolezza, intesa come possibilità del destinatario. Il difetto di precettività insito nel generico obbligo di rispettare le leggi, che vale per ogni consociato, impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite. In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali. D’altra parte, in presenza di un precetto indefinito l’ordinamento penale non può neppure pretenderne l’osservanza. Ne consegue che il delitto in esame è integrato solo ed esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche, che hanno autonomo contenuto precettivo." (pagg. 16-17). Sarebbe davvero un peccato che questa congiuntura tanto felice quanto inaspettata non venisse colta dal Legislatore, dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza per chiudere i conti con una delle stagioni più cupe della nostra storia politica, giuridica e giudiziaria. La difficoltà economica del datore di lavoro non giustifica l’omesso versamento dei contributi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 10 agosto 2017 n. 39072. Il reato di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l’omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, è reato punito a titolo di dolo generico, integrato dalla coscienza e volontà dell’omissione o della tardività del versamento delle ritenute, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evasione contributiva: sicché non rileva, sotto il profilo soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini le risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 39072 del 10 agosto 2017. Del resto, sostengono i giudici della terza sezione penale, le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono in alcun modo riconducibili al concetto di forza maggiore che postulando la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto e imprevedibile, esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo a un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente. Sul reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali - La Cassazione ribadisce l’impostazione di rigore secondo cui il reato di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non è escluso dalla condizione di difficoltà economica in cui versi il datore di lavoro, tale da averlo indotto a privilegiare altre destinazioni delle somme che avrebbero dovuto essere accantonate per i versamenti. Secondo questa impostazione, l’impossibilità di adempiere non è, in concreto, deducibile dal sostituto d’imposta che abbia effettuato i pagamenti in relazione ai quali sono state operate le ritenute perché, ogni qualvolta il datore di lavoro, sostituto d’imposta, effettua i pagamenti, gli incombe l’obbligo di accantonare le somme dovute al fisco. In tal senso, la punibilità della condotta va individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute all’Erario (qui, all’Inps) (cfr., tra le tante, Sezione III, 19 dicembre 2013, PG in proc. Casella; nonché, Sezione III, 12 febbraio 2015, PG in proc. Barucca). È una tesi interpretativa che può accettarsi in ossequio al principio in forza del quale il sostituto d’imposta, quando effettua l’erogazione degli emolumenti ai dipendenti, ha l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario (qui, in favore dell’Inps), organizzando le risorse disponibili in modo da adempiere all’obbligazione, così che non può, di regola, essere invocata, quale causa di forza maggiore (articolo 45 del Cp), per escludere la colpevolezza in sede penale, la crisi di liquidità che abbia impedito il versamento del dovuto. È però anche vero che tale principio non può essere applicato automaticamente. Dovrebbe infatti escludersi il dolo, e correttamente applicarsi il disposto dell’articolo 45 del codice penale,allorquando risulti dimostrata l’imprevedibilità della crisi finanziaria, per fatti non dovuti al debitore, tale da avere impedito a questi di fronteggiarla adeguatamente. In questa prospettiva, la scelta di pagare i dipendenti ma non l’Inps sembra difficilmente censurabile in sede penale, essendo piuttosto dimostrativa non tanto di un comportamento violativo dell’obbligo di provvedere per tempo agli accantonamenti, ma dalla scelta necessitata di privilegiare la soddisfazione di almeno uno dei propri obblighi debitori, corrispondendo almeno le somme per le retribuzioni dei dipendenti. In questa situazione potrebbe infatti sostenersi l’inesigibilità della condotta alternativa lecita, determinata dalla crisi economica, ma non direttamente riconducibile a un comportamento inerte e trascurato del datore di lavoro. Nuovo Presidente di Antigone-Campania di Mario Barone Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2017 Per cinque anni sono stato il responsabile di Antigone in Campania: sono stati gli anni della Sentenza Torreggiani, gli anni della chiusura dell’orrore medioevale degli Opg (di cui due campani: Aversa e Napoli). A Poggioreale, nel 2012, si praticava la sistematica violenza della "cella zero" e ancora non vi era stata la visita in istituto della Commissione libertà civili del Parlamento europeo, che ritenne di ascoltare Antigone prima di entrare nel carcere - in quel momento - definito il "peggiore d’Europa". Il passaggio del testimone va a Luigi Romano, studioso dei controlli di polizia nell’antica Roma, praticante avvocato, ma - soprattutto - da sempre impegnato nei movimenti sociali napoletani. Il mio ringraziamento va al Presidente nazionale, Patrizio Gonnella, rispettoso dell’autonomia di Antigone-Campania, anche nei momenti più duri di scontro con la locale amministrazione penitenziaria: una dote rara perfino nelle organizzazioni che si occupano di democrazia e diritti umani. Lo stesso stile ha contraddistinto Alessio Scandurra nel coordinare l’osservatorio sulle condizioni di detenzione. La liste delle persone a cui sono tributario sono tante: vorrei solo menzionare Mauro Palma e Stefano Anastasia, con cui ho avuto relazioni meno frequenti, ma non meno significative. Sardegna: denuncia del Pds alla Giunta regionale "le carceri come bombe a orologeria" La Nuova Sardegna, 25 settembre 2017 Una mozione sottoscritta da tutta la maggioranza evidenzia sovraffollamento e carenza di agenti. Bombe a orologeria: così sono considerate le carceri sarde dal gruppo del Partito dei sardi in consiglio regionale che, con Roberto Desini primo firmatario, ha presentato sull’argomento una mozione sottoscritta da tutte le forze di maggioranza. Nel documento il Pds chiede al presidente Pigliaru e alla giunta regionale "a farsi parte attiva presso il Governo e il Parlamento nazionali affinché si facciano seriamente carico dei problemi del sistema penitenziario sardo". I numeri. Le carceri sarde a oggi ospitano complessivamente circa 2.308 detenuti; la mozione spiega che nell’ultimo anno le persone recluse sono aumentate almeno di 221 unità mentre i posti letto risultano, per vari motivi, diminuiti. Nel dettaglio: a Uta ci sono 620 ristretti per 561 posti letto, a Sassari-Bancali 504 per 454 posti letto, a Lanusei 42 per 33, a Oristano-Massama 273 per 260 e a Tempio 171 detenuti per 167 posti letto. Alta sicurezza. Il Pds sottolinea oltre al sovraffollamento il fatto che negli istituti di Sassari e Nuoro sono presenti numerosi detenuti in regime di 41 bis e di alta sicurezza; in particolare, nel carcere di Bancali sono presenti ben novanta detenuti sottoposti al 41 bis e venticinque detenuti sottoposti al regime particolare di sorveglianza per i presunti legami con le organizzazioni terroristiche di matrice jihadista, "ciò significa che a Bancali si trova oltre la metà dei detenuti nelle carceri italiane per delitti connessi al terrorismo internazionale, tra i più pericolosi". Pochi poliziotti. "La pianta organica della polizia penitenziaria in Sardegna prevede circa 1.800 unità, mentre oggi la polizia penitenziaria conta soltanto 1.100 unità. Solo all’istituto di Bancali occorrerebbero almeno altri 150 agenti oltre a quelli attualmente in servizio". Il Pds va avanti: "A Bancali almeno una cinquantina di agenti penitenziari nell’ultimo anno hanno dovuto assentarsi per malattia per motivi variamente imputabili a stress lavoro correlato. Tutto ciò contribuisce a rendere le carceri sarde invivibili, pericolose e inutili dal punto di vista della riabilitazione sociale dei detenuti". Allarme suicidi. La mozione analizza anche le conseguenze di questa situazione per i detenuti: "In presenza di simili carenze di organico risulta quasi impossibile poter garantire le attività ai detenuti, e perciò la maggior parte dei detenuti trascorre quasi tutto il giorno in cella, con negative e pericolose conseguenze soprattutto in presenza di disturbi psichici e dipendenza da stupefacenti". L’inattività provoca disagio mentale che in molti casi sfocia in tentativi di suicidio. Piemonte: sanità penitenziaria, incontro tra Regione e Provveditore alle carceri cuneodice.it, 25 settembre 2017 Intensificare la collaborazione fra la Regione e l’Amministrazione penitenziaria, per rafforzare la qualità dell’assistenza sanitaria nelle carceri piemontesi. Con questo obiettivo si sono incontrati questa mattina l’assessore regionale alla Sanità Antonio Saitta, il nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta Liberato Guerriero, il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, il Coordinatore regionale della Rete dei servizi sanitari in ambito penitenziario Antonio Pellegrino e i tecnici dell’assessorato. "Il Piemonte è una delle regioni che maggiormente si è occupata della sanità penitenziaria, da quando sono state trasferite le competenze al servizio sanitario nazionale - spiega l’assessore Saitta, dotandosi lo scorso anno di una rete di coordinamento e garantendo in tutte le carceri non solo i servizi di base ma anche alcune cure specialistiche. Ho colto con piacere l’occasione di incontrare il nuovo provveditore Guerriero per concordare un’interlocuzione costante con l’Amministrazione penitenziaria in grado di affrontare in modo sempre più appropriato le problematiche di questo settore". In particolare, una delle criticità emerse è l’esigenza di rivedere le norme nazionali che regolano l’attività dei medici coinvolti. "La cosa più importante - aggiunge l’assessore Saitta - è prevedere che i detenuti abbiano un proprio medico di famiglia in carcere. Porrò questo problema come coordinatore della Commissione Salute della Conferenza della Regioni e chiedo che anche il Governo si occupi di questo tema". "Sono molto soddisfatto che l’assessore Saitta e i funzionari dell’assessorato abbiano potuto dedicare un congruo tempo all’incontro con il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria - sottolinea il Garante dei detenuti Mellano. La Regione ha istituito un gruppo per il monitoraggio dell’attuazione della delibera che ha definito la rete dei servizi e sono stato chiamato a coordinare questo lavoro. In questi giorni stanno giungendo le schede di rilevazione e a breve saranno convocati gli esperti che partecipano alla valutazione per giungere entro fine anno ad un’analisi della situazione. Si tratta di un’attività complessa ma decisiva per conquistare, almeno dal punto di vista della salute, una carcerazione diversa". Napoli: morto in carcere il giovane killer della guardia giurata di Ottaviano di Pasquale Carotenuto ilfattovesuviano.it, 25 settembre 2017 È deceduto in carcere, in circostanze tutta da chiarire, il 27enne Vincenzo De Feo, pentito del clan Contini e killer insieme ad un complice di Gaetano Montanino, la guardia giurata di Ottaviano ammazzata nell’agosto del 2009 in piazza Mercato a Napoli durante un tentativo di rapina della pistola in dotazione. Montanino difese l’arma e soprattutto il collega più giovane di lui, finendo ucciso. Per quel delitto fu arrestato proprio l’allora 19enne De Feo insieme ad una seconda persona. A dare la notizia del decesso del giovane pentito di camorra è il quotidiano Roma in edicola questa mattina. Bastarono pochi mesi in cella, e il "muschillo" della camorra cominciò a collaborare con la giustizia, fornendo particolari sul sistema del clan Contini, fino alla morte avvenuta nei giorni scorsi. Milano: la piccola oasi nascosta di San Vittore sarà recuperata da detenuti e cittadini di Luca De Vito e Federica Venni La Repubblica, 25 settembre 2017 Un giardino nascosto tra i raggi di San Vittore, un piccolo tesoro di verde tra il cemento e le lunghe ore senza libertà dei carcerati. Rimasto sostanzialmente inutilizzato finora (solo a volte come sfogo per l’ora d’aria) presto diventerà un giardino condiviso, dove detenuti e persone libere si incontreranno per far vivere fiori, ortaggi e piante. L’idea è nata dal lavoro di Ilaria Scauri, curatrice del progetto "Parole in circolo (in città)" finanziato con un bando europeo che punta a creare una connessione tra carcere e città. Dopo corsi e incontri con i detenuti e considerato il successo dell’iniziativa, è così nato il progetto per quell’angolo di verde che si trova nel centro clinico psichiatrico del Carcere: portare piante laddove c’è sofferenza. Con la benedizione della direttrice di San Vittore, Gloria Manzelli, che ieri ha aperto le porte del carcere e del piccolo chiostro a un gruppo di visitatori nell’ambito della manifestazione Green City. "Noi siamo favorevoli all’idea - ha spiegato Manzelli, ci saranno dei piccoli lavori da fare ma è un’idea che ci piace molto". Dal Municipio 1 fanno sapere che sono pronti a finanziare i lavori con i fondi per le manutenzioni straordinarie. "L’idea che all’interno di un luogo dove la libertà è limitata si possa pensare di creare un luogo di aggregazione - spiega Elena Grandi, assessora al verde del Municipio 1 - che comporta la cura del verde e il mettere le mani nella terra per noi ha un valore enorme". Anche Lambrate e l’Ortica, ieri, hanno scoperto il loro nuovo volto di quartieri "condivisi". Viale Rimembranze di Lambrate, il cuore di quello che fino al 1923 è stato un Comune a parte, ora è una piazza con tavoli da ping pong, un campo di petanque (variante francese delle bocce), tavoli in pietra e granito e grossi vasi di legno pieni di ciclamini colorati. Un intervento che rientra nel piano periferie e che ha una particolarità perché qui nascerà la prima piazza "condivisa" della città. Una delibera del Municipio 3 appena approvata stabilisce le linee di indirizzo per un avviso pubblico rivolto a chiunque voglia prendersi cura degli spazi: cittadini, associazioni e scuole potranno presentare le loro proposte per far vivere questo pezzo di quartiere. Si tratta di un primo esperimento che dovrebbe dare il là, sulla scia di quanto alcune social street stanno facendo per le proprie zone, ad altre iniziative analoghe, dal centro alla periferia. A due passi da qui si arriva all’Ortica, dove in via San Faustino, sempre ieri, è stato tagliato il nastro del più grande giardino condiviso della città: 18mila metri quadrati per il momento gestiti da cinque associazioni che organizzeranno incontri di lettura, corsi di apicoltura urbana e di giardinaggio in uno spazio verde sottratto al degrado. Sono questi i mattoni di una città che, la promessa è del sindaco Sala, "rafforzerà la sua impronta ecologica" grazie anche "alla collaborazione dei milanesi". Belluno: Fedon, Cafiero e Unifarco danno lavoro ai detenuti di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 25 settembre 2017 A Baldenich la festa per il bicentenario del Corpo di Polizia penitenziaria La direttrice Paolini elogia i suoi uomini: "Pochi, ma sempre professionali". Anima e Corpo di Polizia penitenziaria. Duecento anni di storia, nel segno del lavoro e della sicurezza. Una professione difficile, tanto più se svolta con numeri inferiori all’organico previsto e senza concorsi alle viste. Nel carcere di Baldenich lavorano i 90 agenti in servizio (otto in meno) e si preparano a farlo i circa 100 detenuti affidati alla loro custodia. In attesa di riabbracciare la libertà, i reclusi si formano in aziende molto importanti come Fedon, Cafiero e Unifarco, grazie a un paio di coop sociali. Il compleanno di quelli che una volta si chiamavano agenti di custodia è stato festeggiato nella sala convegni, con il comandante del reparto Domenico Panatta e la direttrice Tiziana Paolini a soffiare sulle simboliche candeline, alla presenza delle autorità civili e militari. L’impegno era già notevole in via Baldenich e lo è diventato ancora di più con l’apertura dell’Articolazione salute mentale, al posto della sezione femminile, che funziona a Venezia e in altri istituti del Veneto: "È senz’altro il settore che ci impegna maggiormente", sottolinea Paolini, "perché qui bisogna coniugare la gestione ordinaria con le patologie di cui soffrono queste persone. Ecco perché operiamo in sinergia con la Usl e i rapporti con la struttura sanitaria sono ottimi. Nell’intero carcere, i medici coprono 18 ore sulle 24 complessive. Il medico di base è presente per tre ore al giorno e le altre 15 sono affidate alla guardia medica. Nell’Articolazione, invece, funziona l’assistenza integrativa, con la presenza di infermiere, psicologo e psichiatra. Cerchiamo di gestire la situazione al meglio delle nostre possibilità, con le forze che abbiamo". Gli altri detenuti sono in grado di lavorare e prepararsi al dopo pena: "Siamo al 60 per cento di lavoranti, su un totale di 101. La capienza ufficiale sarebbe di 90, tra maschile, transessuali (11), articolazione salute mentale (quattro), transito e nuovi giunti e semiliberi - dimittendi, cioè coloro che sono ormai quasi liberi. Possono svolgere attività per l’amministrazione, dalle pulizie alle cucine, fino alla manutenzione del fabbricato. In più, ci sono le cooperative sociali Sviluppo e lavoro e Lavoro associato, che occupano dei detenuti per commesse da parte di Fedon, Cafiero e Unifarco. Infine ci sono le aule scolastiche, dove si organizzano dei corsi formativi, che sono sempre frequentati e hanno una grande utilità. Per tutte queste attività, è molto importante il contributo fornito di Cariverona". Il numero degli agenti non aiuta: "Dei novanta previsti, nove sono assenti, perché distaccati in altre sedi oppure in maternità. Le donne sono una decina e devo dire che tutti fanno del loro meglio. Mi corre l’obbligo di ringraziare tutti per la grande professionalità che ci mettono ogni giorno, in un contesto di per sé molto difficile. Il 2016 è stato un anno molto impegnativo e i numeri di questa parte di 2017 sono appena inferiori, ma bisogna aggiungere che abbiamo davanti dei mesi in cui non potremo certo abbassare la guardia". Cuneo: entro dicembre riapre la sezione 41-bis nel carcere "Cerialdo" La Stampa, 25 settembre 2017 Entro dicembre la Casa circondariale "Cerialdo" di Cuneo tornerà a ospitare detenuti in regime di 41/bis, il regime di "carcere duro" varato nel 1992 dopo le stragi di mafia di Capaci e via d’Amelio. Le celle sono pronte per 46 detenuti, manca ancora un’apparecchiatura tecnica che consente l’ascolto (e la registrazione) dei colloqui tra carcerati e parenti. I vecchi detenuti del 41 bis, gli ultimi venti, a inizio 2016 erano stati trasferiti in Sardegna. In passato quello di Cuneo era stato il reparto di 41/bis più grande d’Italia: oltre 90 "ospiti". Ha fatto riferimento a questa novità il direttore del carcere di Cuneo Claudio Mazzeo a margine della cerimonia al Cerialdo per i 200 anni della fondazione della Polizia Penitenziaria. La cerimonia si è svolta questa mattina (venerdì 22 settembre) nella caserma degli agenti di custodia della casa circondariale. "Ringrazio che siamo vivi. Giovani stranieri in carcere", di Doriano Saracino notizieitalianews.com, 25 settembre 2017 "Ringrazio che siamo vivi", a dispetto del sottotitolo "Giovani stranieri in carcere", non è un libro che parla (soltanto) di storie di integrazione fallita, ma ci porta ad attraversare la nostra società vista con gli occhi di chi, straniero, l’ha raggiunta ancora giovane o addirittura vi è nato. Seppure l’autore non operi una simile suddivisione, potremmo dire che è un libro con quattro diversi focus. Il primo è quello dell’immigrazione, con tutte le sue diverse problematiche: dal rapporto con il paese di origine alla scuola, dal tema dell’identità a quello del viaggio, dal problema dei minori non accompagnati giunti da soli in Italia alle dinamiche delle famiglie transnazionali, che vivono cioè "al di qua ed al di là del mare". In questi capitoli Saracino ci accompagna a scoprire una abbondante seppure non esaustiva letteratura nel campo degli immigration studies, a partire dalle storie dei giovani intervistati in dieci carceri italiane. Il secondo focus è potremmo dire quello che non vorrei descrivere con la parola "devianza", ma piuttosto l’attrazione di un gorgo da cui diviene difficile uscire: la vita di strada, la droga, il denaro facile, i circuiti della malavita e della marginalità. Sono temi non semplici, che l’autore affronta senza cedere né ad un giustificazionismo di maniera né allo spirito dei tempi che porta a guardare a questi fenomeni in termini securitari. Anche questa parte è attraversata da numerosi excursus che aiutano il lettore a spostare lo sguardo dalla società di provenienza a quella di arrivo dei giovani stranieri, perché secondo l’autore è questa, con elementi quali disoccupazione, mancata scolarizzazione e basso reddito che aiuta a comprendere le cause della criminalità piuttosto che l’origine geografica, il background culturale e le caratteristiche sociali del paese di origine. Un terzo punto di attenzione è quello della vita in carcere. Partendo da alcuni autori classici degli studi carcerari, quali Goffman e Foucault, il libro giunge a descrivere nella sua concretezza le sue dinamiche della vita carceraria, radicalmente mutata in questi ultimi decenni a causa della progressiva apertura all’esterno ma paradossalmente sempre uguale a se stessa. Il carcere può essere luogo da cui ripartire per una ricostruzione del proprio sé, cogliendo occasioni quali la scuola, lo sport o il sostegno offerto da psicologi e volontari. Oppure può essere un luogo di adattamento, in cui "si fa la propria galera", aspettando che passi il tempo. Il tempo, questa dimensione ineludibile ancora troppo poco studiata, è infatti l’unica risorsa di cui dispongono in modo significativo i detenuti, sottoposti invece ad una profonda limitazione dello spazio. Fondamentale in questo terzo snodo è il capitolo dedicato alla religione in carcere, aspetto ancora poco studiato in Italia rispetto ad altre esperienze europee, e va detto che la recente maggior attenzione a questi temi sembra essere motivata dalla preoccupazione legata ai fenomeni di radicalizzazione islamica in carcere: ma come è possibile indagare ciò, se manca l’attenzione ad una sfera così significativa, come quella della fede religiosa vissuta tra le sbarre? Ultimo aspetto su cui si sofferma l’attenzione di Saracino è quello del rapporto tra immigrazione e criminalità, che pur essendo un tema sotteso a tutta la trattazione, riceve particolare attenzione nel capitolo introduttivo e nella conclusione, dove viene passato rapidamente in rassegna il dibattito di questi ultimi anni e si tenta una analisi statistica sulle correlazioni esistenti tra presenza di stranieri sul territorio e numero di reati commessi. Al 30.04.2017 i detenuti stranieri presenti erano 19.268 a fronte di 56.436 presenti (34,14%). Il numero di stranieri ristretti e la loro percentuale maggiore rispetto alla presenza di stranieri nel nostro paese non significa una maggiore propensione al crimine, come qualcuno ha sostenuto. Come sostengono alcuni studiosi l’analisi non può prescindere da una fondamentale distinzione: quella tra stranieri "regolari" e stranieri "irregolari". Infatti, distinguendo detenuti stranieri regolari ed irregolari si rileva che la condizione di irregolarità è uno dei fattori che incide sulla sovra rappresentazione. Inoltre, come denunciato dall’associazione Antigone altri fattori incidono significativamente sulla sovra rappresentazione dei migranti in carcere rispetto alla popolazione italiana: la presenza di crimini specifici dei migranti (connessi alla legge sull’immigrazione), possibili discriminazioni o pregiudizi (in sede processuale o difensiva); l’accesso ad una difesa adeguata, la comprensione corretta del momento processuale, la difficoltà di applicazione dei benefici pre-processuali (come la custodia domiciliare, o l’accesso a misure alternative dalla libertà) che influiscono ad ingrossare il numero. Abbiamo detto quattro focus tematici. Ma il vero filo conduttore del libro sono le voci dei giovani intervistati. Circa cento stranieri al di sotto dei trent’anni, incontrati in dieci carceri tra Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, scelte tra quelle con la maggior presenza di detenuti non italiani. L’autore sceglie di riportare per intero o quasi molte storie. Ciò risponde ad una duplice esigenza: da una parte non considerare i detenuti intervistati solo come oggetto di ricerca ma come soggetti da rispettare e a cui restituire voce, dall’altra costruire una sociologia aperta, che consenta al lettore e allo studioso di trarre conclusioni diverse a partire dalla lettura dei testi e dall’incontro, ancorché mediato, con la realtà dei detenuti stranieri. Saracino riesce così, attraverso queste voci, a farci leggere nelle pieghe della nostra società, vista attraverso la "realtà rovesciata" del carcere, così come la definisce Andrea Riccardi nella sua prefazione. Allontanandosi un poco, ma in realtà avvicinandosi a questi giovani, è possibile capire qualcosa di più di noi stessi e della città in cui viviamo. "Sulla linea. La mia vita dietro le sbarre", di Francesco Carannante cn24tv.it, 25 settembre 2017 È di recente uscita (per la casa editrice calabrese Ferrari Editore) "Sulla linea. La mia vita dietro le sbarre", un romanzo-memoir di Francesco Carannante che sta facendo parlare, discutere e commuovere per la sua forza dolceamara. L’autore è, infatti, narratore e protagonista di una storia vera e forte, scritta all’interno di un carcere. Francesco Carannante, originario della Campania, arrestato giovanissimo, agli inizi di una possibile carriera criminale, ha avuto una pesante condanna. Oggi è detenuto con "fine pena mai" in Calabria, nella Casa di reclusione di Rossano, dove ha conseguito la laurea in Sociologia e collabora attivamente e con costanza alle attività teatrali in carcere, come attore e voce recitante. "Sulla linea... La mia vita dietro le sbarre" è il suo primo libro, scritto in collaborazione con Letizia Guagliardi, docente, appassionata di libri e letteratura. Giuseppe Carrà, direttore della Casa circondariale di Rossano, a riguardo dichiara: "La storia che leggiamo é spietata come lo era il giovanissimo protagonista all’epoca dei fatti. Spietata perché fa toccare con mano il baratro distruttivo in cui precipita un ragazzo, appena maggiorenne, che si lascia sedurre dalla criminalità. Spietata, infine, perché descrive lo sforzo di un adolescente che diventa uomo e scopre un percorso di rinascita in carcere, dove dovrà passare il resto della sua vita. Un romanzo-memoir che si pone come strumento di riflessione sul fascino perverso dell’illegalità o del potere. Argomenti su cui bisognerebbe far leva, innescando sempre e ovunque, nelle scuole e nella società, un processo di legalità e di cambiamento, per fare capire, senza filtri e ipocrisie, che la criminalità non paga ma distrugge". Migranti. Nel Cosentino pagati in base al colore della pelle, 10 euro in più ai "bianchi" La Stampa, 25 settembre 2017 Arrestati due fratelli. Sono accusati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravati dalla discriminazione razziale. Due fratelli sono stati arrestati e posti ai domiciliari dai carabinieri della Compagnia di Paola nell’ambito di un’operazione contro il caporalato. Sono accusati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravati dalla discriminazione razziale. Da quanto accertato i 2 facevano lavorare in nero nella loro azienda agricola migranti africani oltre a romeni e indiani e la paga variava in base al colore della pelle. I "bianchi", infatti, prendevano 10 euro in più degli altri, 35 euro contro 25 al giorno. I provvedimenti restrittivi sono stati disposti dal gip del Tribunale di Paola Maria Grazia Elia su richiesta della Procura della Repubblica nell’ambito di un’inchiesta sullo sfruttamento dei rifugiati ospitati nei centri di accoglienza. Ai due fratelli, di 48 e 41 anni, è stata anche sequestrata l’azienda ed altri beni per un valore di due milioni circa. I due fratelli arrestati, già noti alle forze dell’ordine (dei quali non sono state rese le generalità su disposizione della Procura), impiegavano dai 5 agli 8 immigrati al giorno nella loro azienda di Amantea. I caporali li arruolavano nei pressi del centro d’accoglienza per migranti della cittadina tirrenica, i cui gestori, comunque, secondo quanto precisato dagli inquirenti, risultano estranei ai fatti. I due fratelli, uno dei quali titolare dell’azienda di località Chiaia della cittadina balneare, e l’altro dipendente, andavano personalmente a prelevare la manodopera ad una certa distanza dal centro d’accoglienza, al fine di non destare sospetti. Ma le precauzioni non sono bastate, perché i Carabinieri di Amantea hanno comunque avviato le indagini proprio perché insospettiti dai movimenti dei richiedenti asilo verso le aree rurali della cittadina. I migranti erano sottoposti a minacce ed angherie. In particolare, millantando conoscenze istituzionali, i due fratelli minacciavano le persone sfruttate di rimpatriarli. Migranti. Tra i giovani tunisini in fuga verso l’Italia: "qui per noi non c’è futuro" di Niccolò Zancan La Stampa, 25 settembre 2017 A Sfax aumentano le partenze dei migranti diretti in Sicilia: "Siamo disperati, la Primavera Araba non ci ha cambiato la vita". Azzurro. Miseria. Sacchetti di plastica impigliati sui campi arsi dall’autostrada al mare. Ancora qui, allora. Come vent’anni fa. Fra Sfax e Zarzis, nel golfo di Gabes, a 120 chilometri da Lampedusa. Le barche dei pescatori tunisini hanno ricominciato a caricare migranti su queste spiagge. Gli ultimi 136 sono stati intercettati mercoledì sera dalla Guardia costiera italiana mentre aspettavano, a motori spenti, davanti alle coste siciliane. Erano già in vista di Porto Empedocle, ma attendevano il buio per poter sbarcare e provare a dileguarsi. Quando sono stati portati nell’hotspot di Pozzallo per l’identificazione, si è capito il motivo: erano tutti tunisini residenti nella zona di Sfax, partiti dall’isola di Karkennah. Erano tutti consapevoli, anche, dell’accordo fra il governo italiano e quello tunisino, che prevede il rimpatrio immediato. Ma non sempre, poi, viene materialmente eseguito. E infatti, trenta di loro sono già altrove con in tasca un decreto di espulsione e l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro sei giorni. Chi gli ha parlato a lungo, ha però qualche dubbio al riguardo: "Cercheranno in ogni modo di andare a Nord, proseguire il viaggio verso la Francia. Non hanno alcuna intenzione di tornare indietro". Dall’altra parte del mare, adesso, sul continente africano, i traghetti della compagnia marittima Sonotrak aspettano pigramente con i portelloni abbassati a raschiare il molo del porto di Sfax. Fanno la spola avanti e indietro con Kerkennah, forse l’unica isola del Mediterraneo mai toccata dal turismo di massa. È l’isola che ha dato i natali a Farhat Hached, il fondatore dell’Ugtt, il più importate sindacato tunisino. Negli ultimi anni ci sono state proteste molto accese contro la disoccupazione. Anche i pescatori che usano l’antica tecnica della Charfia, una rete costruita con foglie di palma da dattero intrecciate, non riescono più a sbarcare il lunario. Dalle spiagge di Kerkennah l’Italia è così vicina che ti sembra di poterla toccare. Ma bisogna arrivarci. Bisogna avere il contatto giusto e sapere come fare. Ogni tanto vedi gruppi di ragazzini con piccoli zaini in attesa davanti al ristorante Tropez. Qualcuno cammina nervosamente lungo la ferrovia che trasporta i fosfati della compagnia Sncft. Arriverà un uomo a prenderli. "Tu ci staresti qui senza niente da fare dal mattino alla sera?" dice Neji, 23 anni, guardandosi continuamente le spalle. "Il dinaro ormai è carta straccia. Non vale più niente. La Tunisia è senza futuro. Per questo ce ne vogliamo andare". Da Sfax a Kerkennah in traghetto, poi da Kerkennah all’Italia su piccole imbarcazioni invisibili ai radar, pagando il viaggio ai trafficanti. Numeri ancora contenuti: sono 1500 i tunisini intercettati nel 2017 dalle forze di sicurezza italiane. Ma il tentativo è proprio quello di non farsi intercettare, per questo è difficile conoscere con esattezza l’entità del fenomeno. "Stiamo registrando un lieve aumento delle partenze rispetto all’anno scorso", conferma l’ambasciatore italiano a Tunisi Raimondo De Cardona. Un aumento continuo e molto preoccupante secondo Mounib Baccari, attivista tunisino dell’associazione Watch the Med: "Ogni giorno sentiamo notizie di piccole barche bloccate dalla Guardia costiera. Stanno partendo ragazzi molto giovani. Poveri, se non disperati. Molti di loro riprovano l’attraversata in continuazione mettendo a rischio la vita, convinti che sia l’unica possibilità per avere un futuro". Sfax con 300 mila abitanti è considerata la capitale del sud della Tunisia. Lungo l’autostrada incontri cinque posti di blocco e colonne di camion carichi di cibo diretti verso il confine libico. In questo zona costiera, il 20 settembre sono stati arrestati sette terroristi dell’Isis. Ed è sempre qui che, ormai da giorni, tiene banco la storia della professoressa Faiza Souissi, insegnante di arabo nel quartiere Cité Bahri 3. È stata aggredita da alcuni genitori perché ritenuta miscredente. La sua colpa sarebbe stata quella di aver chiuso le finestre della classe durante la preghiera delle 12,30. Per farla tornare fra i banchi è dovuta intervenire la polizia. Adesso la professoressa Souissi vive sotto scorta, mentre l’associazione "Donne per la democrazia" manifesta in suo sostegno. L’unica altra notizia di rilievo internazionale dice testualmente così: "Le unità di sicurezza di Sfax hanno fermato ventisei ragazzi all’imbarco per Kerkennah, dieci erano minorenni. Tutti sono stati arrestati per il reato di immigrazione clandestina". È questo il contesto. Da qui sono tornati a partire. "La Primavera Araba non ha cambiato la mia vita", dice un ragazzo in attesa. "Faccio il meccanico, quando riesco. Il mese che ho guadagnato di più ho preso 100 euro". Ci sarebbe poi da verificare anche la notizia che gira da giorni su Facebook, quella di un indulto che avrebbe liberato 1500 carcerati tunisini. L’ambasciata italiana a Tunisi conferma, ma in questi termini: "Ogni anno, per la festa della fine del Ramadan, il 25 di luglio, il governo libera i detenuti per i reati minori. Stiamo parlando perlopiù di piccoli consumatori di droga. Ed è sempre successo. Quindi non può essere ritenuto un elemento significativo per spiegare l’aumento delle partenze del 2017". Le madri dei migranti dispersi nel Mediterraneo manifestano per le strade. Souad Rawahi ha raccontato la sua storia al giornalista Medhi Arem dell’Associeted Press: "Non voglio più cucinare il piatto che amava mio figlio, non posso più sopportare questa assenza. I funzionari del governo devono darci una risposta, vogliamo almeno indietro i corpi. Quando io e altre madri abbiamo protestato, gli agenti ci hanno aggrediti. Porto ancora i segni addosso. Ero a terra e continuavano a prendermi a calci. È umano?". Non sono bastate le lacrime della signora Rawahi. Da questo crocevia ancora provano a imbarcarsi i ragazzi che sognano l’Europa. Molti di loro conoscono già l’italiano. Non è il primo tentativo. Il poliziotto che controlla l’ingresso del porto di Sfax ha un sorriso indecifrabile: "Sono pochi rispetto a tutti quelli che stanno cercando di partire dalla Libia per venire in Italia". Non ci sono segnali che uniscano queste due rotte, per il momento. Il ristorante La Sirène offre spigole e sogliole freschissime a prezzi stracciati. Il proprietario Saddoud Sleheddine una volta serviva alcolici, ma da qualche mese ha deciso di non farlo più. Il futuro e il passato della Tunisia sono qui. Tutto si incrocia davanti a questo mare turchese, dove è ricominciato a fiorire il contrabbando di sigarette e il traffico di migranti ragazzini. Egitto. Quel silenzio su Regeni di Theresa May di Andrea Malaguti La Stampa, 25 settembre 2017 La storia del passaggio a Firenze del primo ministro britannico Theresa May è semplice. Arrivata alla ex scuola dei Marescialli a piazza Santa Maria Novella, ha consegnato alla platea un discorso vago sul ruolo di Londra, "ancora e per sempre in Europa ma fuori dall’Unione", e dopo aver annunciato che il delicato passaggio della Brexit durerà un paio di anni, ha detto due cose cortesi e piuttosto ovvie sull’Italia, ignorandone però una terza sostanziale. La prima cosa cortese: "I 600 mila italiani che vivono in Gran Bretagna continueranno a essere i benvenuti". La seconda: "È un privilegio essere qui, nella culla del Rinascimento". Il silenzio, che sa di cattiva coscienza, è invece legato alla morte di Giulio Regeni, tralasciata come se fosse una vicenda lontana, ormai archiviata, che non riguarda il governo di Sua Maestà. Non è così. È difficile dimenticare che Regeni, sequestrato, torturato e ucciso dagli apparati di sicurezza del regime di Abdel Fattah Al-Sisi, abbandonato irriconoscibile e con le ossa fracassate lungo l’autostrada che unisce il Cairo ad Alessandria, era in Egitto per conto dell’Università di Cambridge. Dottorando al Girton College, conduceva una ricerca sui sindacati autonomi egiziani, considerati pericolosi dal regime. Dopo la sua morte, mentre la polizia di Al-Sisi lo descriveva prima come un omosessuale fatto fuori da un amante, poi come un tossicodipendente, quindi come una spia della Cia o dell’MI6 (i servizi segreti britannici), la professoressa Maha Abdelrahman, supervisor di Regeni a Cambridge, evitava di dire anche una sola parola sulla vicenda, consigliata dai legali universitari. Un comportamento ambiguo, che spinse Irene Regeni, sorella di Giulio, a protestare. "Loro non parlano, io voglio la verità", twittò davanti al Girton College. Una petizione firmata da migliaia di cittadini per avere indagini celeri e certe fu consegnata al Parlamento inglese, dove un attivista lasciò sul cancello una poesia di Emily Dickinson che recita: "Presi un Sorso di Vita /Vi dirò quanto l’ho pagato/ Esattamente un’esistenza/ Il prezzo di mercato, dicevano". Tra gli spiriti modernamente rinascimentali che tanto sembrano piacere alla May, è difficile immaginarne uno più curioso di Giulio Regeni. Parlava cinque lingue, era un navigatore interculturale amante del rigore universitario britannico e della vita disordinata delle strade del Cairo, conosceva l’arabo, era amico di scrittori e artisti e aveva carisma, che in fondo non è altro che la capacità di farsi dire sì prima ancora di avere fatto una domanda. Era il mondo come dovrebbe essere e aveva scelto l’Inghilterra - sbagliando? - come sua tutrice culturale. A Firenze Theresa May avrebbe potuto in parte rimediare ai silenzi di Cambridge, dicendo, come fece un anno fa Jill Morris, il suo ambasciatore in Italia, "il nostro governo farà di tutto per contribuire al raggiungimento della verità". Le è sembrato inutile, speriamo non insincero. Ma a unire le persone, e dunque i popoli, molto più della comunanza delle idee è l’affinità degli intelletti. Ed è nei dettagli che si misura la distanza, spesso incolmabile, tra rassicuranti buoni propositi e l’appartenenza reale a questa sensibilità comune che il primo ministro britannico ha dimostrato di non avere, compiendo un ulteriore passo fuori dall’Europa. Anzi, dall’Unione. Stati Uniti. Immigrazione: nel nuovo bando entrano Ciad, Corea del Nord e Venezuela La Repubblica, 25 settembre 2017 Le nuove misure riguardano otto paesi, cinque a maggioranza musulmana già presi di mira nel precedente decreto e che scade a mezzanotte. Dall’elenco esce il Sudan. Il provvedimento, salvo interventi della Corte Suprema, dovrebbe entrare in vigore dal 18 ottobre. L’amministrazione Trump ha annunciato una nuova stretta sugli ingressi negli Stati Uniti. Le nuove misure riguardano otto Paesi: oltre ai cinque a maggioranza musulmana già presi di mira nel bando in scadenza alla mezzanotte (Iran, Somalia, Libia, Yemen e Siria) spuntano ora anche Ciad, Corea del Nord e Venezuela. Esce invece dalla lista il Sudan. Le restrizioni non riguarderanno chi già possiede un visto Usa. Il provvedimento, secondo quanto si è appreso, dovrebbe entrare in vigore il 18 ottobre. Nella settimana precedente è prevista la discussione e l’eventuale decisione della Corte Suprema Usa sul precedente bando, il cosiddetto "muslim ban", contestato da molti giudici federali e di fatto mai entrato in funzione. Donald Trump avrebbe chiesto all’organo di giustizia più alto negli Stati Uniti di permettere un’ulteriore verifica sulla base proprio del nuovo decreto, spostando così l’attenzione da una presunta discriminazione verso appartenenti ad una religione, quella musulmana, a quella di un’esigenza reale di sicurezza per gli Usa. Coinvolgendo nel decreto Venezuela e Corea del Nord, il presidente americano sta cercando di allontanare il sospetto - che ha portato proprio ai ricorsi e alle decisioni di molti tribunali federali degli stati di non applicare lo stop all’ingresso in Usa di cittadini appartenenti a paesi a religione musulmana - che dietro il primo bando non ci siano ragioni legate al pericolo terrorismo, ma una vera e propria discriminazione nei confronti di persone che professano un credo religioso diverso da quello cristiano. Il divieto di ingresso di 90 giorni, che copriva l’Iran, la Libia, la Somalia, il Sudan, la Siria e lo Yemen, era valido fino alla mezzanotte di domenica. Il divieto di 120 giorni per i rifugiati, invece scade il 24 ottobre. Anche prima dell’ultimo annuncio di Trump, esperti giuristi sul Tribunale Supremo e esperti in materia di immigrazione avevano espresso dubbi sul fatto che i nove giudici avessero l’intenzione di pronunciarsi decisamente, in parte anche a causa del desiderio di rimanere neutrali su un problema così controverso. "Se il tribunale può evitare di entrare nel conflitto, questo può essere molto attraente per loro", ha detto Anil Kalhan, professore di diritto dell’immigrazione presso la Drexel University School of Law. Con le restrizioni di viaggio che scadono e con il nuovo decreto che cambia anche il numero e la tipologia di Stati a cui si applicherà, il tribunale ha una via di uscita facile perché potrebbe semplicemente dire che il caso non è più una questione d’urgenza e pertanto, in termini giuridici, sospetta di discriminazione razziale e religiosa, ma soltanto un problema di sicurezza nazionale che, in questo caso, potrebbe essere affrontata e risolta anche a livello di singoli tribunali federali e di singoli casi portati all’attenzione dei giudici locali. Il referendum curdo nella morsa di Iran e Turchia giordano stabile La Stampa, 25 settembre 2017 Meglio morire combattendo che lentamente di fame. Nel palazzo presidenziale di Sari Blend il leader curdo Massoud Barzani spiega così il perché del referendum sull’indipendenza. E perché ha deciso di tenerlo ora, senza aspettare qualche mese, qualche anno, come gli chiede la comunità internazionale. Appare affaticato. Ha ricevuto ambasciatori e telefonate fino all’ultimo momento. Ai confini della nuova nazione che sta per nascere si addensano minacce sempre più concrete. L’Iran ha chiuso il suo spazio aereo ai voli dal Kurdistan e sospeso tutti i collegamenti con Sulaymaniyah ed Erbil su "richiesta dell’autorità di Baghdad". La Turchia ha trasformato le manovre di avvertimento alla frontiera, nella zona di Silopi, in un presidio permanente, il preludio di una possibile invasione con decine di migliaia di soldati e centinaia di tank. Il Parlamento ha approvato compatto la mossa; i media vicini al presidente Recep Tayyip Erdogan parlano di "ultimo avviso". Sotto questa pressione tremenda i curdi cominciano a chiedersi se questo referendum, questo passo verso la dichiarazione formale di indipendenza, non rischi di compromettere tutto quello che hanno conquistato negli ultimi 25 anni, un’autonomia sempre più ampia, un proprio esercito, un governo, un budget separato da quello centrale. Barzani però è convinto del contrario. Lo ha spiegato in decine di comizi nelle ultime settimane. Lo spiega ora ai giornalisti, all’opinione pubblica internazionale. Il Kurdistan ha creduto nella possibilità di vivere in un Iraq federale, con la Costituzione del 2005. È Baghdad ad aver tradito quel patto. Le risorse che dovevano arrivare dal governo centrale, il 17 per cento delle entrate federali, non si sono mai viste. Da quasi due anni Erbil non riesce a pagare gli stipendi tutti i mesi, e se lo fa sono salari dimezzati. In un Paese che vive degli introiti petroliferi, con il settore pubblico che fornisce più di metà degli impieghi, significa "morire lentamente di fame". Barzani è convinto che lo "strangolamento" possa essere fermato solo da un colpo di mano. Ogni volta che ha azzardato, come con le prime elezioni curde del 1992, poi Baghdad "ha trattato" e gli alleati esteri lo hanno alla fine appoggiato. Dopo il voto popolare, con i sondaggi che danno il sì all’80 per cento, andrà a negoziare con il governo centrale: "non ci sarà una dichiarazione di indipendenza immediata", ci vorranno mesi, forse un anno. La partnership con Baghdad dentro uno Stato federale "è fallita", insiste il leader curdo. Rimane soltanto la possibilità di rimanere "buoni vicini di casa". Ma delle promesse degli arabi i curdi non si fidano più. E non c’è solo il lato economico. Ci sono i massacri, con armi chimiche, sotto il regime di Saddam Hussein. C’è l’arabizzazione forzata dei territori curdi, a cominciare da Kirkuk, che è andata avanti "fin dalla fine della Seconda guerra mondiale". Kirkuk "resterà nel Kurdistan", ribadisce Barzani. Ammette che una parte degli arabi e dei turkmeni in città non sono d’accordo ma potranno "esprimersi liberamente con il voto". La città, abbandonata dall’esercito iracheno nel giugno 2014 di fronte all’avanza dell’Isis, è ora presidiata soprattutto dalla polizia provinciale, con i peshmerga che tengono un profilo basso. Ma sulle strade di accesso a Sud-Ovest si vedono anche le bandiere delle milizie sciite Al-Abbas e Imam Ali, che rispondono direttamente al premier iracheno Haider al-Abadi. Un’altra possibile minaccia. Per ora sembra tutto tranquillo, al mercato Jizir al-Qalat, il Ponte della Fortezza, c’è la solita ressa attorno alle gabbie dei canarini da canto, una vera mania in Iraq, che possono costare fino a cinquemila dollari. Curdi, arabi, turkmeni, cristiani siriaci, dicono tutti che andranno a votare e che "fra loro c’è sempre stata armonia". Ma la tensione resta sotto la superficie, i commercianti si lamentano del crollo degli affari e si chiedono "come faremo se Baghdad ci taglia fuori?". La paura dell’isolamento è su tutti i fronti. A Sulaymaniyah, verso il confine con l’Iran, è arrivato in missione "segreta" il leader dei pasdaran Qassem Suleimani per fare un’ultima offerta ai dirigenti del Kdp, il partito di Barzani, e del Puk, l’altra grande formazione curda, che domina l’Est del Paese. Suleimani ha avvertito che Iran e Turchia sono pronte al blocco totale delle frontiere, degli scambi, e anche degli oleodotti che esportano il petrolio curdo. Uno "strangolamento veloce" invece di quello lento. "Le 72 ore dopo il voto saranno quelle decisive", dicono al Puk. Se il Kurdistan le supera, evita il caos, dopo ci sarà solo "da trattare, con pazienza". E infine la libertà. Brasile. Troppi ordini dalle carceri: "eliminare il contatto fisico tra parenti e detenuti" Nova, 25 settembre 2017 La violenza nelle favelas di Rio de Janeiro è di nuovo fuori controllo, e il sospetto che la regia di lotte tra bande e missioni punitive venga direttamente dalle carceri si fa sempre più consistente. Per questo il governo brasiliano sta ragionando sull’ipotesi di eliminare il contatto fisico diretto tra detenuti ed esterni nei quattro penitenziari di massima sicurezza del paese. L’idea, scrive il quotidiano "O Globo", è quella di permettere la visita solo nel parlatorio, anche ai familiari dei carcerati, e solo attraverso un vetro. Colloqui che sarebbero rigorosamente registrati e monitorati in tempo reale. Le autorità temono però che la decisione possa "causare una reazione violenta" nelle organizzazioni criminali comandate dall’interno delle prigioni, fino a provocare "attacchi nelle strade". Inoltre, riporta ancora la testata, il governo è preoccupato delle fondamenta giuridiche di un’azione che potrebbe intaccare il complesso normativo che riguarda i "diritti fondamentali della persona privata delle libertà". Sotto controllo, punto estremamente sensibile, i colloqui con i familiari. Attualmente i parenti hanno diritto a una visita settimanale, fino a tre ore, nel patio del presidio. Le intercettazioni ambientali sono previste, ma il rumore di fondo spesso impedisce di captare conversazioni che possono anche essere sussurrate. I nuovi controlli non sarebbero dunque cosa semplice ma i violenti scontri registrati domenica nella favela Rocinha, azione di guerriglia tra bande mossa da probabile mandato di un celebre detenuto, sembra convincere l’esecutivo a proseguire su questa strada. Si tratterebbe di un "secondo passo" mosso dal governo in tema di controllo della rete criminale che attraversa le sbarre. Ad agosto il ministero della Giustizia emanava un regolamento che di fatto eliminava gran parte delle visite fisiche nelle celle. tale diritto veniva garantito solo a parenti e amici di criminali non sospettati di alta pericolosità e non in carcere per partecipazione ad organizzazioni criminali. In pratica, rileva l’articolo, solo sei su oltre 500 reclusi nelle quattro prigioni di massima sicurezza.