Il golpe di latta e la vera partita sulla giustizia di Tommaso Cerno L’Espresso, 24 settembre 2017 Nel 2018 ci saranno le elezioni politiche e quelle per il rinnovo del Csm. Così politica e giustizia ancora una volta si trovano intrecciate. Mentre l’esplosione del caso Consip è solo l’ultima conseguenza di riforme mai fatte per ragioni di convenienza. Una coincidenza inquietante aleggia sul 2018. L’anno delle elezioni politiche, quando si sceglierà il parlamento del Paese, coinciderà con il rinnovo del Csm, l’organo di autogoverno dei giudici. Due campagne elettorali parallele, due poteri dello Stato che sulla carta sono separati e che, fatalmente, si intrecciano. Imponendo una domanda: perché politica e giustizia sono così legate fra loro anche dopo l’era di Berlusconi? Una prima risposta è celata nel caso Consip, una normale inchiesta divenuta "prodotto derivato" del berlusconismo d’antan, simboleggiato dalla bufera sul presunto golpe - di latta - contro Matteo Renzi e papà Tiziano, roba che fa sorridere il Paese che ancora oggi finge di indagare su Ustica e su Moro. Sa bene Renzi e sappiamo noi tutti che il problema della giustizia in Italia è un altro. E non riguarda né Consip né gli appalti pubblici che hanno trascinato, a ragione o a torto, il babbo dell’ex premier e una conventicola di toscani amici suoi nella bufera, con la successiva scoperta che in un mucchio di carte senza rilevanza processuale qualcuno (per ragioni da definire) avrebbe sistemato una trappola. E questa trappola sarebbe scattata per un paio di poliziotti "esagitati" o qualche magistrato "smemorato". Il problema vero è l’effetto che tutto questo produce: rimettere in corsa la politica e il tentativo che la destra fa da anni - e la sinistra comincia a guardare con meno sospetto - di utilizzare il clima generale per una "controriforma della giustizia", che porterebbe l’Italia indietro. Il rischio non è Consip, dunque, ma che nessuno fermi questa deriva, perché la giustizia è il vero, contorto nodo irrisolto a sinistra del ventennio berlusconiano. Una mancanza grave e dolosa, che oggi si rivolta contro il Paese, quello dove una politica forte avrebbe il dovere di agire subito. Perché non lo fa? Ci sono una ragione politica e una storica. Quella politica è l’effetto prodotto dallo scontro su Consip: il Pd - nel nome di chissà quale disegno eversivo contro se stesso, autore delle nomine da cui partono poi le accuse - finisce per rispolverare gli slogan di Berlusconi, confondendo "privacy" con "impunità". È vero che ci sono stati errori. Così come è capitato che alcuni inquirenti abbiano sbagliato in passato, usando male il potere enorme che avevano, ma - se è vero anche che la sinistra non sottomette l’interesse generale a quello del singolo - tali errori non possono diventare la giustificazione morale a una controriforma che riscrive la parola "garantismo" a uso e consumo dei potenti. Renzi, premier o no, dovrebbe opporsi a questo e rispondere a due banali domande politiche su Consip: chi e perché ha informato papà Tiziano dell’indagine? Perché al vertice della società ha piazzato tal Marroni Luigi, personaggio che ha rapporti con la vita precedente di Renzi nella sua Toscana? Non rispondere e barricarsi nel complottismo genera il più berlusconiano dei cortocircuiti: non si potrà nemmeno stavolta discutere davvero di giustizia in Parlamento, perché ci sono di mezzo gli affari del Capo. Arriviamo così alla ragione storica: questo impasse non avviene per colpa di Ultimo o Woodcock (uno dei due pagherà il conto), né dei giornali e delle loro inchieste, ma avviene perché il centrosinistra - per convenienza politica - non ha affrontato il nodo giustizia quando ne aveva la possibilità. Persuaso forse che un Berlusconi sotto scacco fosse la via migliore per indebolirlo. E creando una contaminazione virale anche all’interno del Pd, che oggi somiglia in certe affermazioni ai berluscones dei tempi che furono. La giustizia, tuttavia, è un Moloch proprio quando la politica è più debole. Per evitare di esserne ostaggio, Renzi e il Pd dovrebbero fare l’opposto di ciò che gli converrebbe sul breve periodo. Promuovere una riforma che affermi il dovere e il potere di indagare e il diritto di sapere cosa fa il Palazzo, rapidamente e nel rispetto della presunzione di innocenza. Da questa prospettiva, la polemica su Consip appare pretestuosa da qualunque parte la si guardi. Perché l’unico effetto che ha è mescola re ancora di più due ingredienti, politica e giustizia, che sono benefici se tenuti separati quanto nocivi se mischiati. Capaci di generare un’esplosione che apre nuovi spazi di impunità laddove il Paese chiede al contrario severità, rigore e certezze. Fine processo mai di Paolo Biondani L’Espresso, 24 settembre 2017 Processi lentissimi, tribunali in perenne arretrato, sentenze senza effetti. Sono malattie croniche del nostro sistema legale, che una serie di recenti riforme, dopo decenni di leggi e leggine con risultati nulli o negativi, ora promettono di guarire. La realtà della giustizia italiana resta però lontanissima dagli standard dei paesi più avanzati. Lo confermano magistrati e avvocati di grande esperienza. E lo documentano troppe vicende che a Londra, Berlino o Parigi suonerebbero inverosimili. Prima di interrogare giuristi e addetti ai lavori, per capire quale diritto possano aspettarsi i cittadini dopo le ultime riforme, conviene partire da qualche caso concreto. Storie di ordinaria malagiustizia. Che fanno comprendere perché, nonostante i primi segnali di miglioramento, tra i professionisti della legge regna ancora il pessimismo. Il primo caso evidenzia una verità da non dimenticare mai: di ritardata giustizia si può morire. In Sicilia, nel 1993, un piccolo imprenditore edile denuncia per concussione (estorsione di tangenti) il dipendente comunale che gli blocca tutti i cantieri. Dopo lunghe indagini e un processo approfondito, il funzionario viene condannato in primo grado, nel 2001, a cinque anni di reclusione. La condanna è confermata in appello, nel 2006. Quindi l’imprenditore si prepara a incassare il risarcimento: manca solo il timbro della Cassazione. Ma nel 2010 la Corte Suprema annulla tutto, per queste ragioni: "La sentenza d’appello era scritta a penna e in diversi passaggi risultava illeggibile, per cui la Cassazione ha riscontrato difetti di motivazione", chiarisce l’avvocato Rosario Pennisi. Tornato in appello, il nuovo processo (il quarto) si chiude nel 2016 con un verdetto capovolto: l’ex condannato viene assolto. A quel punto il denunciante si sente dire che non avrà nessun rimborso, anzi sarà lui a dover pagare le spese legali. Poche ore dopo, l’imprenditore si uccide. "Aveva affidato la sua vita a questo processo, dopo il blocco dei cantieri era stato aggredito anche dalle banche, si è sentito tradito e rovinato", ricorda il suo avvocato catanese: "Si è sparato nella sua casa, a Linguaglossa. resto convinto che avesse ragione. Invece ho dovuto spiegare alla vedova, ai tre figli, che la giustizia ci ha punito dopo averci dato ragione due volte. Un processo non può durare 23 anni e portare a sentenze così contraddittorie". Dal profondo Sud al ricco Nord, è allo sfascio la legalità quotidiana. In Veneto ogni avvocato può fornire elenchi di orrori giudiziari. Caso più comune: l’omicidio colposo. Nel 2012 un poliziotto che lavora per i tribunali muore in un assurdo incidente stradale. Lascia la moglie, casalinga, e due bimbi di sei mesi e due anni. La procura di Verona chiude l’indagine nel 2014 e nel 2015 l’accusato viene rinviato a giudizio. Ma poi si ferma tutto: il tribunale è intasato di processi. Ora la vedova è bloccata dalla legge, come migliaia di vittime di incidenti o infortuni sul lavoro: il processo penale è destinato alla prescrizione e la successiva causa civile ha una durata prevista, in Veneto, di oltre dieci anni. "La giustizia in Italia ha toccato il fondo", è l’amaro commento dell’avvocato della vedova, Davide Adami: "il processo funziona solo nella fase cautelare, con gli arresti, ma i dibattimenti sono un disastro. A Venezia la corte d’appello, che ha croniche carenze di organico, fissa i processi con anni di ritardo. Così i reati ordinari vengono cancellati dalla prescrizione. E la lentezza favorisce anche gli errori giudiziari: a distanza di anni, i testimoni non ricordano e i giudici non hanno più tempo di approfondire". La Sardegna è una delle regioni più colpite dal mal di giustizia, con casi di ritardo da primato mondiale. Qui, nel 1960, muore il proprietario di 721 ettari di terreni sulla splendida costa fra Chia e Teulada. Il ricco possidente ne lascia gran parte (508 ettari) ai due figli maschi, scontentando le quattro femmine, che impugnano il testamento per lesione della "legittima", la quota minima obbligatoria. La procedura avanza lentissima e col passare degli anni muoiono giudici, periti, avvocati e gli stessi eredi, per cui la causa si ferma più volte e poi prosegue tra i discendenti. La sentenza di primo grado viene emessa nel 2009: dall’avvio della causa sono passati 49 anni. Ma la legge prevede anche il giudizio d’appello e la Cassazione, che in teoria potrebbe annullare e far ripetere l’intero processo. Nel giustizialismo reale c’è solo un problema che preoccupa i cittadini e le imprese più della lentezza dei processi: l’incertezza del diritto. Le leggi dovrebbero essere chiare e condurre a sentenze prevedibili, invece spesso i verdetti sono dubbi e contrastanti. Anche su questioni essenziali per lo Stato come le entrate fiscali. Il più grave caso di evasione degli ultimi anni è documentato dalla lista Falciani: oltre centomila soggetti, tra cui 7.499 italiani, che avevano decine di miliardi in una banca svizzera, quasi mai dichiarati. In Germania, Francia e altri paesi sono piovute condanne e risarcimenti. In Italia i giudici tributari (che spesso non sono magistrati) hanno deciso in ordine sparso: con le stesse prove, alcuni accusati sono stati condannati, altri assolti; molti hanno avuto sentenze contrastanti in primo e secondo grado; qualcuno è riuscito addirittura a far distruggere il suo nome dalla lista per ordine del giudice. In questo caos, si attendeva il faro della prima sentenza della Cassazione, che nell’aprile 2015 ha convalidato la lista Falciani e stangato gli evasori. Pochi giorni dopo, però, un collegio tributario di Milano ha riaperto la via contraria: la lista non vale più, tutti assolti, almeno fino alla nuova Cassazione. La giustizia che porta al suicidio un imprenditore, ignora la morte di un poliziotto e migliaia di altre vittime di omicidi colposi, fa durare una lite familiare più di mezzo secolo, lascia impuniti gli evasori anche quando la Cassazione sigilla le prove: sembrano casi limite, ma in Italia sono la normalità. L’effetto di una stratificazione storica di leggi sbagliate, che porta un giudice come Piercamillo Davigo, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, a bocciare l’impostazione anche delle ultime riforme: "Si continua a intervenire sull’offerta di giustizia, sulle regole dei procedimenti e sulla magistratura, mentre il problema è un eccesso patologico di domanda: si fanno troppi processi solo per perdere tempo e sperare di farla franca. Negli Stati Uniti il 90 per cento degli imputati chiede il patteggiamento prima dell’unico grado di giudizio, perché teme condanne molto più pesanti. Anche in Germania, Francia o Inghilterra la prescrizione è rarissima. In Italia siamo gli unici ad avere tre gradi di giudizio, la prescrizione più favorevole del mondo e il patteggiamento anche in appello. Il risultato è che non patteggia quasi nessuno, i giudici sono oberati di processi e troppi delinquenti restano impuniti". Nel ventennio berlusconiano i governi di centrodestra hanno varato leggi punitive per i magistrati: dalla prescrizione più facile, al taglio delle risorse. Dal 2012 i ministri della giustizia hanno studiato riforme diverse, per migliorare soprattutto la giustizia civile: dal processo telematico al tribunale specializzato per le imprese. Ma le novità funzionano solo in alcuni distretti, come Torino, Bolzano o Milano. E la durata delle cause continua a restare sub-europea: in media, più di otto anni. Anche nel civile, sostiene Davigo, servirebbero "riforme coraggiose": "I giudici italiani decidono molti più processi dei colleghi stranieri, ma sono affogati da quattro milioni e mezzo di cause pendenti: un’enormità. Il problema è che in Italia chi sa di avere torto resiste comunque. Nei paesi dove i processi civili funzionano, c’è un automatismo: chi fa perdere tempo ai tribunali, rischia una stangata. La giustizia può avere tempi decenti se si ha il coraggio di disincentivare l’abuso dei processi". Il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, vede "luci ed ombre" nelle riforme varate dal ministro Orlando: "Certamente utile, soprattutto nel civile, è lo sforzo di limitare il sovraccarico della Cassazione, per concentrare la nostra Corte Suprema sui casi veramente dubbi. Se la sentenza definitiva arriva prima, oltre ai tempi si riduce l’incertezza del diritto: la Cassazione può recuperare il suo ruolo-guida ed evitare che i singoli tribunali, nell’attesa, adottino pronunce contrastanti, che creano sconcerto tra i cittadini". "Nella direzione della legalità vanno anche le misure per sospendere la prescrizione, che però avranno effetto solo tra molti anni", aggiunge Salvi. La prescrizione è una specialità italiana: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma non può più essere condannato, perché sono scaduti i termini. Il centrodestra nel 2005 ha facilitato questo tipo di impunità. La riforma Orlando è corsa ai ripari riallungando i termini, ma si applica solo ai reati futuri, per decisione della Corte Costituzionale. Per almeno 7-8 anni, dunque, la prescrizione continuerà ad incenerire oltre 130 mila processi all’anno. Con punte di oltre il 40 per cento nelle corti d’appello di Venezia e Napoli. Di fronte a una giustizia che gira a vuoto, Salvi considera sprecata l’occasione di una riforma strutturale: "In generale è mancata la necessaria consequenzialità logica. Resta, ad esempio, l’annoso problema delle notifiche degli atti, una delle principali cause di ritardo. Non sono state fatte scelte nette di semplificazione, ma con le mezze misure i processi continueranno a saltare. Liberare la Cassazione rischia di servire a poco, se insieme si aggravano i carichi delle corti d’appello. Anche il dovere per i pm di chiudere le indagini in tre mesi rischia di restare inapplicato, se non si aumentano i giudici e il personale: la procura di Roma ha oltre 50 mila indagini già concluse che restano ferme perché è il tribunale a non avere forze sufficienti". Consapevole che la crisi dei processi sta demolendo la credibilità dei magi strati, il pg Salvi chiede anche ai colleghi una svolta autocritica: "Per troppi anni abbiamo dovuto concentrarci sulle grandi emergenze: terrorismo, mafia, corruzione. Questo impegno ci ha portato a sottovalutare la giustizia quotidiana. Come magistrati dobbiamo porci il problema di garantire a tutti i cittadini una giustizia realmente efficace". Dall’altra parte della barricata, Mario Zanchetti, avvocato e professore di diritto penale, rimprovera al ministro Orlando di non aver consultato i legali, ma gli riconosce "i primi passi nella giusta direzione: sono positive, in particolare, tutte le norme che riducono il sovraccarico di processi evitabili, come l’estinzione del reato per chi ripara il danno. Trovo invece pessime certe ricadute nel vizio delle grida manzoniane: aumentare le pene minacciate per i reati che non si riesce a punire. Ai miei studenti amo ricordare che il codice Rocco, in vigore dal 1930, prevede fino a dieci anni di carcere per un furto di bicicletta, ma non ha abolito i ladri. Oggi la classe politica tende a scaricare tutto sui giudici: ambiente, salute, immigrazione, crisi... E se i processi civili non funzionano, si minaccia il carcere. Più della lentezza delle cause, che non riguarda tutte le regioni italiane, è proprio l’abuso dei processi a tenere lontani molti investitori stranieri". Per fermare il cortocircuito tra giustizia ed economia in crisi, il governo ha varato un disegno di legge che punta a rivoluzionare le procedure di fallimento, oggi disastrose. Roberto Fontana è uno dei magistrati convocati dal parlamento per illustrare le "misure d’allerta alla francese". "Il discorso è semplice", spiega: "In Italia i fallimenti emergono in ritardo, dopo tre o quattro anni, quando dell’azienda restano solo le macerie. Il danno è enorme. I tribunali fallimentari si trovano a gestire oltre 30 miliardi di passivi all’anno: tasse e contributi non pagati, dipendenti senza stipendio, fornitori indebitati che mandano in dissesto altre imprese. La nostra proposta è di imitare il modello francese: il fisco, l’Inps, i collegi sindacali segnalano le crisi nei primi sei mesi a un organismo camerale, che convoca l’imprenditore prima che sia troppo tardi, con incentivi per chiedere il concordato e limitare le perdite". Per una volta, la riforma sembra piacere a magistrati, avvocati e politici di ogni tendenza: già votata dalla Camera, attende l’approvazione del Senato. Ma con la finanziaria e le elezioni alle porte, il tempo stringe. E la giustizia rischia un altro fallimento. Ingiustizia: caro ministro ti scrivo di Lirio Abbate L’Espresso, 24 settembre 2017 Ministro Andrea Orlando, inizio questa lettera aperta dandole atto che durante la sua permanenza in via Arenula sono stati fatti dei tentativi per migliorare il sistema giudiziario italiano. È stata una legislatura in cui il Parlamento ha provato a mettere mano ad alcune riforme che attendevano da anni. E l’impegno finanziario dello Stato per l’amministrazione giudiziaria è aumentato. Le note positive, tuttavia, purtroppo finiscono qui. I cittadini continuano a pagare sulla loro pelle l’incredibile lentezza dei processi e di conseguenza la mancata affermazione della giustizia sia civile sia penale. Il sistema, così, non funziona. Ci sono troppi granelli di sabbia che inceppano la macchina. Il problema dei processi infiniti fa notizia di rado, magari quando coinvolge qualche politico importante. Ma questo dramma riguarda, silenziosamente, milioni di cittadine e di cittadini che hanno a che fare con i tribunali: vuoi come vittime di un reato, vuoi come imputati, vuoi come avversari in un contenzioso. Riguarda poi centinaia, migliaia di imprese. E quindi ha conseguenze economiche pesanti su tutto il Paese; gli imprenditori, in particolare quelli stranieri, non vogliono correre il rischio di affidarsi a un iter giudiziario lungo e incerto. La giustizia infinita è un gigantesco disincentivo a investire in Italia. Riguarda quindi tutta la credibilità all’estero del Paese, della nostra modernizzazione, del nostro far parte di quella parte del mondo che non resta indietro nella corsa globale. Troppi granelli di sabbia, si diceva, e forse su qualcuno si potrebbe intervenire. Si potrebbe, ad esempio, rivedere la norma secondo cui la sentenza deve essere emessa per forza dagli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento: oggi infatti accade troppo spesso, nei tribunali, che se un magistrato va in pensione o cambia incarico tutto il processo deve ricominciare dall’inizio. Ci sono migliaia di processi che si svolgono davanti a giudici monocratici gran parte dei quali cambiano ruolo o sede ogni tre o quattro anni. E ciò comporta che molti dibattimenti non si concludono con una decisione perché nel frattempo arriva la prescrizione. Basterebbe in questo caso una riforma per stabilire che gli atti compiuti sono validi salvo che il giudice subentrante ritenga necessario un’integrazione di uno o più atti. Far ricominciare un processo quando si è a metà del cammino dibattimentale è un lusso che la nostra giustizia non si può più permettere. Perché non liberare poi la magistratura da tutta una serie di compiti amministrativi che non hanno nulla a che fare con la giustizia, come ad esempio l’amministrazione dei beni sequestrati o confiscati? Adesso infatti è il gip a controllare i beni durante i sequestri preventivi. Un compito che dovrebbe spettare all’amministrazione e non ai giudici per le indagini preliminari, che sono già schiacciati da enormi carichi di lavoro. Oggi la figura dei gip è chiamata a risolvere e ricoprire troppi altri incarichi, tutti concentrati in una sola persona: dispone le intercettazioni, ordina misure cautelari richieste dai pm e scrive le motivazioni di sentenze per i procedimenti che si concludono con il rito abbreviato, diventati ormai tanti. C’è poi un altro imbuto giudiziario su cui bisogna rimettere mano. Sono i giudici di pace e i magistrati onorari che portano avanti con grande fatica la "piccola" giustizia quotidiana. Piccola per lo Stato, non certo per i cittadini. La riforma della magistratura onoraria raddoppia per loro i carichi di lavoro, ma ne vieta allo stesso tempo l’utilizzo per più di due giorni alla settimana. In questo modo si fa dilatare la durata già irragionevole di processi che investono una grande massa di cittadini. In ultimo, ma non per importanza, c’è da riformare la Polizia penitenziaria facendola diventare la "polizia della giustizia". Occorre attribuire a questi agenti nuove competenze: controllare i detenuti ai domiciliari e quelli sottoposti a misure alternative, proteggere i collaboratori di giustizia. In sostanza, assicurare tutti gli aspetti esecutivi della pena, anche fuori dai penitenziari. Rafforzare e sostenere il "Gruppo operativo mobile" che si occupa esclusivamente dei detenuti mafiosi al 41bis. Insomma, creare un corpo di polizia ad alta qualificazione con le funzioni dei probation office americani e dei marshall, in vista dell’introduzione sempre più massiccia di pene alternative. Insomma, quello che è stato fatto non basta, signor ministro. Certo, lo sappiamo: c’è anche un problema di risorse, e i nuovi bandi di concorso per magistrati e personale amministrativo non bastano per sostituire chi va in pensione. Ma - lo dica al premier, lo dica ai ministri economici - per un Paese moderno una giustizia efficiente non è una spesa: è un investimento. Che, se funziona, rende anche molto bene. Tanto in termini economici quanto in termini di fiducia nello Stato, quindi di stabilità e di coesione sociale. La guerra delle toghe dì Marco Damilano L’Espresso, 24 settembre 2017 L’ultimo scontro è andato in scena la settimana scorsa alla riunione del comitato direttivo centrale, il parlamentino dell’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati. Un gruppo di componenti ha presentato un documento che voleva impedire ai magistrati di intervenire pubblicamente fuori dalle materie di stretta competenza. Mozione respinta, ma il paradosso è che i presentatori, i difensori della purezza dell’ordine rispetto alle contaminazioni della politica, appartenevano alla corrente di Autonomia e Indipendenza, che si riconosce nella leadership di Piercamillo Davigo, il più interventista di tutti. E siamo appena all’inizio. Prove di forza, in vista della campagna elettorale. Non quella per il Parlamento, su cui sono concentrati tutti i partiti. No, l’altra, sconosciuta e altrettanto combattuta. Quella che eleggerà tra un anno il nuovo Consiglio superiore della magistratura, l’organo di auto-governo dei giudici che decide su nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni: il cuore del potere giudiziario. Non è usuale che nello stesso anno votino gli italiani per deputati e senatori e i magistrati per eleggere il Csm, è successo in casi rari nella storia repubblicana. E mai come questa volta il doppio voto avviene in un clima di incertezza assoluta, nel mondo politico alle prese con l’ennesima proposta di riforma elettorale e nel mondo giudiziario, dove equilibri antichi sono rimessi in discussione. E due procure importanti come Roma e Napoli sono divise sulla più delicata delle inchieste, quella sulla Consip che ha sfiorato la famiglia e il governo di Matteo Renzi, con i giudici di Roma che hanno aperto un’indagine sul collega John Henry Woodcock e i vertici napoletani che gli hanno confermato la fiducia e il procuratore capo di Modena Lucia Musti che in un primo momento sembra inguaiare con le sue dichiarazioni al Csm i carabinieri, a loro volta indagati, salvo poi smentire. Un pasticcio. Dice un importante magistrato: "Quando questo Csm fu eletto, nel 2014, ci fu un iniziale sconcerto per la scelta di Giovanni Legnini, che non aveva alcuna esperienza di giustizia. In molti prevedevano una leadership debolissima, in mano ai membri togati. Invece Legnini si è rivelato abilissimo, ha fatto politica ed è riuscito a compattare i sette membri laici del Csm, quelli eletti dal Parlamento, dalla politica, oltre le differenze di partito, e li ha portati a diventare il centro del Consiglio. Non era mai esistita una corrente del vice-presidente in Csm, Legnini è riuscito nell’impresa di unire i politici, strappando il ruolo di guida alle correnti della magistratura che lo avevano sempre avuto, in particolare Area, la corrente di sinistra in cui mi riconosco, che può contare su sette seggi ma è divisa al suo interno, in grave crisi di identità. Ora però la consiliatura sta per terminare il mandato. E nessuno può davvero scommettere su chi guiderà il Csm tra un anno". Un’incertezza che non ha precedenti, neppure negli anni in cui il centrodestra berlusconiano muoveva all’attacco della magistratura. Nel Csm si è sempre costituito un gruppo che riusciva a eleggere i vice-presidenti più graditi ai membri togati (i due ex de di lungo corso Virginio Rognoni e Nicola Mancino, il centrista Michele Vietti, che aveva cominciato il mandato da moderato del centrodestra e lo aveva concluso da moderato del centrosinistra), ma in quello che sarà eletto nel 2018 non si può prevedere quale maggioranza produrrà il futuro Parlamento. Nell’attesa, nei distretti e in Cassazione è già cominciata la campagna elettorale tra i magistrati, per decidere chi conquisterà la leadership del potere giudiziario. Il più osservato dei candidati possibili per il nuovo Csm, e il più mediatico, è stato nominato un anno fa presidente della seconda sezione penale della Cassazione. Piercamillo Davigo è una bandiera della magistratura impegnata, l’unico superstite dell’originario pool Mani Pulite di Milano del 1992-93. Due anni fa ha abbandonato Magistratura Indipendente, la fazione di destra, e ha fondato Autonomia e Indipendenza, che presiede: la prima corrente personale nella storia della magistratura italiana, ironizza qualcuno. Nel 2016, alla prima prova elettorale per gli incarichi rappresentativi e direttivi dell’Anm, Davigo ha ottenuto più di mille preferenze e la sua corrente 1.200 voti, un’identificazione quasi totale, ed è stato eletto presidente dell’associazione magistrati per un anno. L’accordo tra le correnti prevedeva una rotazione annuale degli incarichi, e Davigo ha lasciato il posto all’attuale presidente Eugenio Abamonte (Area), ma pochi mesi dopo Ai ha abbandonato la giunta ed è passata all’opposizione. La prova generale di una campagna elettorale da giocare tutta all’attacco delle altre correnti, senza compromissioni nella gestione del sindacato delle toghe. Davigo si annuncia come il protagonista di entrambe le campagne elettorali. Il procuratore ha sempre giurato di non voler lasciare la magistratura per la politica, ma i suoi interventi pubblici si fanno sempre più frequenti: il convegno del Movimento 5 Stelle del 31 maggio alla Camera, la festa del Fatto quotidiano, le apparizioni nei talkshow. E sempre più insistentemente si parla di lui come di un possibile ministro tecnico della giustizia in un governo M5S. I compagni di corrente della magistratura spingono invece perché si candidi al prossimo Csm. Non è facile essere eletti venendo dalla Cassazione, i posti sono due e uno è già assegnato per i rapporti di forza ai centristi di Unità per la Costituzione. Ma Ai è in crescita, prende voti a destra e a sinistra e raccoglie i consensi dei magistrati più giovani (il 60 per cento dei magistrati ha meno di 40 Anm). Mentre in crisi di identità sono due correnti storiche. La sinistra di Magistratura democratica, confluita in Area, raccoglie figure storiche come il procuratore capo di Torino Armando Spataro o il consigliere del Csm Piergiorgio Morosini e riflette come in uno specchio le divisioni della sinistra politica: nelle ultime settimane la segretaria di Md Mariarosaria Guglielmi, pm a Roma, ha difeso le Ong e si è scagliata contro gli sgomberi forzati degli edifici occupati nella Capitale, richiesti da Eugenio Albamonte, presidente dell’Anm e magistrato della procura romana, anche lui di Area. Anche per le candidature al Csm c’è un derby tutto interno alla procura di Roma tra Giuseppe Cascini, ex segretario dell’Anm, e Mario Palazzi. Altri candidati: Claudio Gittardi (procuratore Sondrio), Fernando Asaro (procuratore Gela), Rita Sanlorenzo, Paola Filippi o Giovanni Diotallevi per la Cassazione. La destra di Magistratura Indipendente ha il suo leader-ombra piazzato ai vertici del ministero della Giustizia, il sottosegretario Cosimo Ferri, entrato nel governo in quota berlusconiana e sopravvissuto per tutta la legislatura in via Arenula grazie ai buoni rapporti con Angelino Alfano, Denis Verdini e, ultimamente, il giro renziano. "Indifendibile", lo definì Renzi quando Ferri fu sorpreso a spedire dal suo ufficio di sottosegretario sms di campagna elettorale per i suoi candidati al Csm nel 2014.1 candidati stravinsero e Ferri restò al suo posto. Oggi la corrente è diretta dal segretario Antonello Racanelli, per un posto in Csm si preparano a correre Corrado Cartoni (tribunale di Roma), Antonio Lepre (pm a Paola), Paolo Criscuoli (Palermo). E Ferri è al bivio: fare il definitivo salto in politica e candidarsi in Parlamento con una lista centrista oppure attendere una poltrona di giudice costituzionale. Infine, c’è la corrente centrista, virtualmente maggioritaria, Unicost, con 14 rappresentanti nel parlamentino dell’Anm, tra cui l’ex segretario Francesco Minisci. Il leader è Luca Palamara, ex leader dell’Anm negli anni berlusconiani, oggi in Csm. La corrente ha già scelto la sua squadra di candidati: Carmelo Celentano (Cassazione), Gianluigi Morlini (Emilia e Piemonte), Marco Mancinetti (Roma), Michele Ciambellini (Napoli), Luigi Spina (pm a Potenza). Unicost vanta il consenso dal basso, si oppone tradizionalmente al protagonismo mediatico. E punta sull’indebolimento di Area e di Mi per conquistare la maggioranza dei seggi nel Csm. L’Anm si riunirà a metà ottobre a Siena per il suo congresso nazionale dedicato ai diritti e alle nuove sfide, così come voluto dal presidente Albamonte, alla presenza di Sergio Mattarella. Poi partirà la lunga campagna elettorale, più personalizzata delle precedenti. In gioco c’è il giudizio su questi anni: le riforme firmate dal ministro Andrea Orlando, che il corpaccione togato considera nel complesso deludenti e al ribasso, il ruolo di Raffaele Cantone, il presidente dell’autorità anti-corruzione che dopo un periodo di ostentato distacco dalla magistratura è tornato ad avvicinarsi ai colleghi, la gestione della procura di Napoli, da anni specchio di tensioni, con una guida dell’ufficio debole e contraddittoria, ostaggio dei pm più in vista o al contrario fin troppo severa, ora affidata alle mani esperte e politicamente avvedute di Giovanni Melillo, già capo di Parte la campagna elettorale per il Csm. E tra le correnti dei magistrati si annuncia una lotta senza precedenti gabinetto del ministro Orlando. E soprattutto il futuro. Siamo al cambio generazionale, tra il 2018 e il 2022 andranno in pensione Spataro, Ilda Boccassini, Giuseppe Pignatone (il prossimo Csm dovrà dunque decidere chi occuperà la poltronissima di procuratore capo di Roma), il primo presidente di Cassazione Giovanni Canzio. Andrà in pensione nel 2020 anche Davigo. A meno che non riesca a farsi eleggere nel nuovo Csm. Un’eventuale vittoria elettorale di M5S, con la possibilità di eleggere un pacchetto di nomi per i membri laici eletti dal Parlamento, più un’affermazione di Ai (oltre a Davigo c’è il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, invitato a Ivrea alla commemorazione di Gianroberto Casaleggio), potrebbe costituire il gruppo guida del prossimo Csm. Ma anche su questo c’è l’incertezza massima. Le due prossime campagne elettorali segnaleranno soprattutto una comune debolezza, l’incrocio di due difficoltà, di due crisi, la politica e la magistratura. Non c’è una supplenza delle toghe in vista, come sembrò accadere nel 1992-93, e la politica non ha neppure l’alibi del complotto giudiziario per mascherare il suo immobilismo. Si somigliano in questo i due mondi: scaricare sulla politica le colpe del mancato funzionamento della giustizia, o sui magistrati l’incapacità dei partiti di auto-riformarsi è una tentazione troppo grande. Soprattutto in questa lunga, doppia campagna elettorale. Il Ministro Orlando: "intercettazioni, più controlli sulla polizia" di Giovanni Negri e Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2017 Nella riforma arriva il "doppio brogliaccio". Con il codice antimafia più garanzie, ma aperti a modifiche. La riforma delle intercettazioni? In vista un doppio brogliaccio, con meno discrezionalità per la polizia giudiziaria. Il nuovo Codice antimafia? Disponibili a valutare richieste del Parlamento, però i passi avanti sono molti. I detenuti tornano ad aumentare? In vista misure per evitare la detenzione a chi è in attesa di giudizio, ma nessun effetto "svuota carceri". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando in un’intervista a "Storiacce", trasmissione di Radio 24, fa il punto sulle numerose questioni aperte in questo scorcio finale di legislatura. Signor ministro, già parecchi suoi predecessori hanno provato a metter mano a una disciplina delle intercettazioni tale da assicurare il diritto alla riservatezza. Dove si raggiunge l’equilibrio secondo lei con le necessità investigative e il diritto all’informazione dell’opinione pubblica? Obiettivo dell’intervento è di ridurre il rischio, limitando innanzitutto la mole delle intercettazioni sia nella fase di richiesta delle misure cautelari sia comunque in quella predibattimentale, stralciando ciò che serve all’attività investigativa da materiale invece del tutto irrilevante. Va individuato un meccanismo di selezione, che, se non condiviso, prevedrà anche un contraddittorio davanti a un giudice terzo. La vicenda Consip, indipendentemente da come si concluderà, può però far sorgere qualche perplessità sulla vasta area di discrezionalità che la bozza di lavoro in discussione assegna alla polizia giudiziaria nella valutazione già a monte, al momento della trascrizione, di quanto è rilevante. È possibile un ripensamento? Anche questo aspetto è oggetto di confronto. Non dobbiamo costruire la legislazione sulle patologie e quindi sopravvalutare la vicenda Consip, considerandola a paradigma dello svolgimento delle indagini. In termini generali è giusto che il pubblico ministero possa valutare la congruità dell’attività della polizia giudiziaria. Pensiamo allora a un doppio brogliaccio, uno dei quali riservato, relativo alla conversazioni stralciate che potrà servire al Pm, alla difesa e alla stessa polizia giudiziaria, per verificare la selezione fatta e recuperare conversazioni che dovessero essere state al primo ascolto ritenute irrilevanti. Uno più generale, quindi, e uno con la selezione fatta dalla polizia Giudiziaria? Uno con un richiamo del materiale che è stato espunto, sorta di promanazione dell’archivio riservato stesso, per consentire al Pm di verificare l’eventuale utilità per il quadro accusatorio. Non potrebbe essere questa l’occasione anche per permettere un accesso disciplinato dei giornalisti ad atti non più coperti da segreto? È sicuramente un tema importante. La delega però non ne fa cenno e sarebbe meglio non mettere troppa carne al fuoco. Di sicuro sarebbe importante avviare un confronto in Parlamento. Non lo escludo assolutamente; va detto poi che se si potrà contare su verbali di intercettazioni depurati da tutto ciò che in qualche modo può essere dannoso per la riservatezza, anche la discussione potrebbe avvenire con uno spirito più libero. Tra pochi giorni sarà approvata la nuova versione del Codice antimafia, sono però già annunciati correttivi. In quale direzione? Bisognerà vedere gli ordini del giorno che saranno approvati alla Camera. Certo viene estesa la possibilità di sequestro e confisca ad altri reati, soprattutto contro la pubblica amministrazione, ma il Senato ha già ritoccato la norma, prevedendo la necessità del vincolo associativo. Inoltre la stessa procedura cambierà in senso garantista. Le misure infatti saranno decise solo dopo un contraddittorio tra le parti, esercitando in maniera piena il diritto di difesa, rispondendo in questo modo anche alle sollecitazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. I detenuti stanno aumentando costantemente dopo una fase di calo negli anni scorsi. Lei ha dedicato una particolare e meritoria attenzione al mondo del carcere, ora è preoccupato? In vista c’è anche un nuovo ordinamento penitenziario; dobbiamo aspettarci un intervento "svuota carceri"? Una precisazione è doverosa. Molti di quei detenuti sono in attesa di giudizio. Avrebbero diritto agli arresti domiciliari, ma non hanno domicilio e quindi il giudice non può destinarveli. Sono poi mancati sinora i braccialetti elettronici e adesso dovrebbero arrivare dal ministero dell’Interno cui compete l’acquisto. Abbiamo però anche aumentato la capienza della carceri: eravamo partiti con 45.000 posti disponibili e adesso siamo a 50.500. Non ci saranno provvedimenti emergenziali, questo deve essere chiaro. Ci sarà uno spazio maggiore per il magistrato di sorveglianza di assegnare pene alternative quando ci sarà in corso un efficace progetto riabilitativo in corso. Anche in questo modo il carcere potrà essere utilizzato solo quando necessario, nei confronti di chi è ancora pericoloso socialmente. Al termine, o quasi della legislatura, resta una grande incompiuta: la riforma del Csm. Perché? Perché mettere in campo modifiche di rilevanza costituzionale quando già era in discussione il noto referendum costituzionale era complicato, perché il Csm ci chiese a suo tempo di intervenire con un’autoriforma che credo abbia anche dato qualche frutto e perché i tempi parlamentari, in una legislatura che pure ha dedicato ampio spazio al capitolo giustizia, non lo hanno permesso. Sardegna: carceri tra risse, suicidi e sovraffollamento… "bomba a orologeria" sardegnaoggi.it, 24 settembre 2017 Negli istituti penitenziari isolani regna il caos: aumentano i detenuti e diminuiscono i posti letto. Oltre a episodi frequenti di violenza. Parte dai banchi della Regione un appello al Parlamento. "Governo e Parlamento adeguino gli organici e risolvano i problemi dei penitenziari sardi". Il Gruppo PdS in Consiglio regionale, con Roberto Desini primo firmatario, ha presentato una mozione sottoscritta da tutte le forze di maggioranza, con cui si impegna il presidente Pigliaru e la Giunta regionale "a farsi parte attiva presso il Governo e il Parlamento nazionali affinché si facciano seriamente carico dei problemi del sistema penitenziario sardo e, sopperendo alle ormai croniche carenze di organico del personale della polizia penitenziaria e delle altre figure professionali prescritte dalle regole penitenziarie europee, garantiscano agli istituti presenti nel territorio regionale le risorse umane necessarie ad assicurare l’ordine e la sicurezza al loro interno e l’effettiva programmazione e realizzazione di idonee attività finalizzate al reinserimento sociale dei reclusi". Una richiesta che parte dalle due sentenze con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia (sentenza Sulejmanovic del 2009 e sentenza Torreggiani del 2013) riconoscendo che la situazione del sovraffollamento carcerario rappresenta nel nostro Paese un problema sistematico e strutturale e ingiungendo, pertanto, allo Stato di introdurre idonei rimedi. "E la Sardegna è tristemente l’emblema dei problemi degli Istituti penitenziari italiani". Le carceri sarde a oggi ospitano complessivamente circa 2308 detenuti: "nell’ultimo anno le persone recluse nelle strutture detentive della Sardegna sono aumentate almeno di 221 unità mentre i posti letto risultano, per vari motivi, diminuiti. Negli istituti di Cagliari-Uta si contano circa 620 ristretti per 561 posti letto (tanto che nel carcere di Uta in quasi tutte le sezioni si è reso necessario collocare nelle celle una quarta branda), a Sassari-Bancali 504 ristretti per 454 posti letto, a Lanusei 42 ristretti per 33 posti letto, a Oristano-Massama 273 ristretti per 260 posti letto e a Tempio 171 ristretti per 167 posti letto. All’evidente problema della sovrappopolazione carceraria si aggiunge il fatto che negli istituti di Sassari e Nuoro sono presenti numerosi detenuti in regime di 41 bis e di alta sicurezza. In particolare, nel carcere di Bancali sono presenti ben novanta detenuti sottoposti al 41 bis e addirittura venticinque detenuti sottoposti al regime particolare di sorveglianza per i presunti legami con le organizzazioni terroristiche di matrice jihadista: ciò significa che a Bancali si trova oltre la metà dei detenuti nelle carceri italiane per delitti connessi al terrorismo internazionale, tra i più pericolosi, se si pensa che un detenuto rientra nei primi trenta super-jihadisti della black list stilata dall’allora presidente dell’America, Barack Obama". Altre criticità: "La pianta organica della polizia penitenziaria in Sardegna prevede circa 1800 unità, mentre oggi la polizia penitenziaria conta soltanto 1100 unità ed è quindi fortemente sottodimensionata. Solo all’istituto di Bancali occorrerebbero almeno altri 150 agenti oltre a quelli attualmente in servizio: l’istituto, infatti, dovrebbe avere in servizio 415 poliziotti, ma al 15 dicembre 2016, secondo i dati del Provveditorato della Sardegna, figuravano soltanto 243 poliziotti e risultavano assenti per malattia 38 unità. Analoghe carenze si riscontrano, da tempo, nelle altre strutture, dato che nel carcere di Oristano sono presenti circa 140 poliziotti su 210 previsti, a Tempio Pausania circa 90 su 158, a Badu e Carros la carenza di organico è approssimativamente del 35 per cento". A Uta nel 2016 - secondo quanto riferito dall’Associazione Socialismo, diritti e riforme - si sono verificati ben 61 tentativi di suicidio, di cui due riusciti, 29 risse, 11 feriti e 133 episodi di autolesionismo e che negli ultimi mesi si assista a un’escalation di disordini e violenza all’interno dell’istituto; il 10 marzo 2017 un recluso ha tentato il suicidio per poi aggredire gli agenti intervenuti per salvarlo; nella stessa giornata, un detenuto ha ingoiato una lametta e tentato di aggredire un agente; pochi giorni dopo è stato aggredito un medico; a maggio un detenuto si è tolto la vita; alla fine di luglio si è verificato un altro tentativo di suicidio; il 18 agosto un recluso ha appiccato un incendio; il 19 agosto è esplosa una rissa tra detenuti, con allagamento di un’intera sezione; il 21 agosto è scoppiata una rivolta sfociata in barricate nel braccio "Cagliari" e uso di idranti per sedarla; ad aprile 2017 nel carcere di Badu e Carros un detenuto appartenente alla criminalità organizzata ha aggredito un agente; nel carcere di Bancali tra maggio e giugno si sono verificati un suicidio e un tentato suicidio. Bologna: detenuto di 39 anni si impicca nella cella della Questura Corriere della Sera, 24 settembre 2017 L’uomo, fermato per maltrattamenti in famiglia, si è impiccato usando una maglietta. Uno straniero arrestato si è suicidato impiccandosi in una cella di sicurezza della Questura di Bologna. È successo venerdì sera verso le 23. L’uomo, un senegalese di 39 anni, avrebbe utilizzato la sua maglia, appendendola alla grata della cella. Era stato arrestato per maltrattamenti in famiglia. Sono in corso accertamenti. Non sarà fatta l’autopsia sul corpo di Oumar Ly Cheiko, il senegalese di 39 anni arrestato per maltrattamenti a Bologna e suicida in una cella della Questura. Lo ha deciso il Pm Gabriella Tavano, disponendo l’invio della salma al Dos (deposito osservazione salme), per la trattazione in via amministrativa. Secondo quanto si apprende si ritiene sufficiente l’esame fatto durante il sopralluogo da parte del medico legale Emanuela Segreto, che avrebbe confermato l’impiccagione come causa di morte, con una maglietta appesa alla grata della camera di sicurezza. Non ci sarebbero quindi neppure dubbi di altro tipo sulla dinamica: un gesto volontario. I locali da vigilare sono quattro e molto spesso i colleghi si trovano a fare servizio in due. Rammentiamo che il sistema di sorveglianza a mezzo telecamere prevede l’installazione di un monitor collocato presso la sala volanti proprio per controllare in tempo reale le celle di sicurezza, soprattutto quando il personale è impegnato temporaneamente alla vigilanza di più soggetti. Purtroppo Il monitor pare si blocchi spesso rendendolo di fatto inutilizzabile". Sono alcuni dei problemi per i poliziotti addetti alla sorveglianza delle celle di sicurezza della Questura di Bologna, sottolineati dal sindacato Siulp dopo il caso del suicidio, di un senegalese arrestato. "Addolorati per la perdita di una vita umana, ma non si faccia l’errore di avviare ingiusti processi disciplinari", dice il segretario provinciale Amedeo Landino, auspicando l’impiego di "energie e risorse per mettere nelle migliori condizioni di lavoro gli operatori che svolgono il servizio di vigilanza, sui cui il Siulp già nel mese di luglio era intervenuto". Oltre a chiedere di ragionare sulla predisposizione di una postazione "regia", collegata a tutti gli ambienti da vigilare, il Siulp si augura "che sia evitata la deprecabile e infruttuosa prassi del capro espiatorio". Trento: "carcere, sventati 12 suicidi nel 2017" di Linda Pisani Corriere del Trentino, 24 settembre 2017 Carcere sovraffollato, carenza di organico, stress alle stelle, impegno massimo pur nelle difficoltà. Venerdì, giorno della ricorrenza del bicentenario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria, nel carcere di Trento si è svolta la cerimonia celebrativa, ma nessun sindacato - sono otto in totale - ha preso parte alla manifestazione. "Non c’è nulla da festeggiare - hanno fatto sapere Maurizio La Porta, delegato nazionale dell’Osapp e Raffaele Ciaramella, segretario regionale - ogni giorno nelle carceri italiane si annoverano gravissimi episodi di violenza che vedono spesso soccombere i poliziotti penitenziari, sempre più soli e senza adeguati strumenti di difesa a fronte di un’amministrazione penitenziaria sorda e indifferente". Eppure, nonostante l’amministrazione centrale, nelle carceri tanto si sta facendo, con i mezzi e con le persone che si hanno a disposizione. Rispetto, gratitudine, considerazione, abnegazione sono stati alcuni degli encomi che il direttore del penitenziario di Spini, Valerio Pappalardo, ha rivolto alle donne e agli uomini in divisa. "Non è un momento facile, né ci sono segnali confortanti - ha detto - stiamo lavorando in continua difficoltà. Invece di attenermi a regole e protocollo mi trovo a dover trovare soluzioni miracolistiche, prendere decisioni, spesso in modo affrettato ed equilibristico". La situazione, numeri alla mano, la illustra il comandante del reparto, Daniele Cutugno. Nel carcere di Trento ci sono 332 detenuti (305 uomini di cui 82 italiani e 223 stranieri e 27 donne di cui 10 italiane e 17 straniere), un numero in aumento rispetto al 2016 considerato che quest’anno ci sono stati 351 ingressi a fronte di 346 dimissioni. "Ci dicono che il carcere di Trento rispetto ad altre strutture è un’isola felice - commenta La Porta - ma solo perché la struttura è nuova. Mancano i soldi per la manutenzione e soprattutto il personale". "Il reparto - conferma Cutugno - soffre di gravissime carenze di risorse umane: a fronte di un organico di 214 unità, quelle disponibili sono solo 125 con un disavanzo di ben 89 unità che determina un massivo ricorso a prestazioni di lavoro straordinario". E se la media di ore giornaliera dovrebbe essere di sei, i turni sono di otto. "Un impegno che se continuerà così non potrà assicurare adeguati standard di efficienza, lucidità e attenzione - continua Cutugno - nell’ultimo anno si è riscontrata una certa saldezza di legami tra le organizzazioni criminali radicate sul territorio e la manovalanza finita in carcere. Solo nel 2017 sono state identificare 20 persone vicino al muro di cinta della prigione che cercavano di parlare con i detenuti. Ci sono pure stati lanci di droga all’interno delle mura e il ritrovamento di nove cellulari per comunicare illegalmente con l’esterno". I detenuti, inoltre, vanno spostati dal carcere alle aule di giustizia o a strutture sanitarie, solo negli ultimi mesi sono state eseguite "un numero impressionante di traduzioni" 595 per 857 detenuti. Sono pure stati sventati 12 tentati suicidi. "Ho a che fare con ragazzi che si impegnano costantemente - evidenzia il direttore - con dolcezza e tenerezza. La funzione della polizia penitenziaria è di sicurezza ma ha anche una funzione sociale di rieducazione". In Italia la carenza di organico è di circa ottomila agenti, l’ultimo concorso ne ha abilitati 300, a Trento ne sono stati richiesti 30, forse ne arriveranno 3 o 4, con l’aggravante che 30 agenti nel prossimo triennio andranno in pensione. "Da gennaio abbiamo proclamato uno stato di agitazione - fa sapere il segretario regionale del Sinappe Andrea Mazzarese - siamo pronti anche a scendere in piazza e a manifestare". Vicenza: il grido d’allarme dal carcere "troppi detenuti, pochi agenti" di Benedetta Centin Corriere del Veneto, 24 settembre 2017 Il direttore Cacciabue alla festa della Polizia penitenziaria: "Mancano almeno 38 persone per garantire la sicurezza". E parte della nuova ala resta chiusa. Una carenza cronica denunciata da tempo che ha portato la direzione del San Pio X a muoversi per chiedere al ministero nuove risorse: "Secondo i nostri calcoli ci vogliono almeno 37 ulteriori agenti per poter assicurare le attività minime, per garantire sicurezza, servizi e funzionamento della struttura" ha dichiarato il direttore Fabrizio Cacciabue. Una struttura, quella di via Della Scola, che dall’estate dell’anno scorso, da quando è stata intitolata all’agente di custodia Filippo Del Papa, può contare anche su un nuovo padiglione di cinque piani (che fa arrivare la capienza complessiva a 356 posti), ma ad oggi solo due dei quattro piani a disposizione per detenuti sono utilizzabili. La celebrazione dei duecento anni della polizia penitenziaria che si è celebrata ieri mattina al San Pio X è stata anche l’occasione per mettere in risalto le criticità della struttura carceraria di Vicenza. Eloquenti, in tal senso, sono i numeri che sono stati snocciolati dal comandante, commissario capo Giuseppe Testa. Oggi i detenuti sono 270 (a fine dicembre erano 222) a fronte di una capienza regolamentare di 156. Sono per il 51 percento stranieri, soprattutto nord africani (Tunisia, Nigeria e Marocco) e a seguire cittadini dell’Est Europa (Albania, Romania ed ex Yugoslavia). I numeri sono "disastrosi" anche per quanto riguarda il personale, ridotto all’osso: sono 142 le unità di personale ad oggi effettivamente disponibili quando la pianta organica ne prevede 198, quindi almeno 56 in più. Ottanta sono invece gli operatori che risultano necessari solo per il nuovo padiglione. Così non stupisce se le ore di straordinario utilizzate nel corso dell’anno 2016 sono state oltre 37mila (37.664 per la precisione). Che si traduce in undici giornate da 24 ore per ciascuno dei 142 agenti effettivi. "L’organico è molto ridotto, sono tutti impegnati al di sopra delle proprie capacità, ce la stanno mettendo tutta, non rimane che sperare in nuovi rinforzi già con l’anno nuovo - si augura il direttore del carcere, Fabrizio Cacciabue, stando al nostro "studio di fattibilità" dovrebbero essercene almeno 38 in più per garantire i minimi standard di sicurezza e tutti servizi ai detenuti: ad aprile abbiamo già avuto un contatto in videoconferenza con il capo dipartimento, confidiamo in risposte concrete a breve". Un lavoro, quello degli agenti di polizia penitenziaria, "reso ancora più difficile dal consistente sovraffollamento e dalla presenza di persone di etnie e di culture diverse con le quali siamo chiamati a confrontarci quotidianamente" ha ricordato, nel suo discorso, il comandante Testa, facendo sapere come nel 2016 siano stati oltre 1300 i detenuti passati al San Pio X, più di 1100 le perquisizioni e 703 gli eventi critici che hanno portato ad inoltrare 80 notizie di reato all’autorità giudiziaria. "Il sovraffollamento nella nostra struttura è cronico - ha ribadito il direttore Cacciabue: purtroppo il trend è in crescita e di certo non sta conoscendo rallentamenti: ci sono delle procedure in corso che possono venirci in aiuto, confidiamo che a Vicenza venga destinato presto ulteriore personale". Bologna: diserzioni, manfrine e problemi veri al bicentenario degli agenti penitenziari di Vito Totire* labottegadelbarbieri.org, 24 settembre 2017 Il ministro Andrea Orlando non è venuto al carcere di Bologna. Poco male; in verità abbiamo disertato la cerimonia anche noi (del circolo Chico Mendes) assieme agli agenti. Non abbiamo fatto fatica, abbiamo disertato perché noi non eravamo neanche invitati. Come mai non siamo stati invitati, signora direttrice? Mah! Non c’è la folla che preme ai cancelli della Dozza manifestando interesse al miglioramento della situazione; quelli che invece si interessano del carcere non sono graditi. Noi di Chico Mendes abbiamo inviato una relazione ai giornali sull’ultimo rapporto della Ausl sul carcere di Bologna. Ignorato il nostro documento, dopo 15 giorni qualcuno ne ha parlato senza minimamente citare le nostre proposte… distrazione? Andiamo avanti: ci sono lacune nella Dozza su questioni importanti quali igiene, sicurezza del lavoro, sicurezza dei mezzi di trasporto? È dal 2004 che facciamo una proposta chiara: abolire il Visag (Servizio di Vigilanza sull’Igiene e Sicurezza dell’Amministrazione della Giustizia) e attribuire la vigilanza ai servizi di medicina del lavoro della Ausl. La questione salute e sicurezza dei lavoratori penitenziari si riverbera sulla condizione delle persone detenute (più precarietà significa più tensione nelle relazioni in group-out group; vedi Zimbardo). La dinamica della vigilanza sulle condizioni di lavoro deve essere ricondotta a quella normale: ispezione e disposizioni/prescrizioni con tempi certi per la bonifica delle lacune. Tutti conoscono da decenni la realtà del rischio suicidario, certamente in parte legato a condizioni di stress e di costrittività. Lo vogliamo affrontare con un telefono-amico? O lo dobbiamo affrontare con un documento di valutazione del rischio validato da una struttura pubblica di vigilanza autonoma dal ministero? I lavoratori penitenziari sono trattati da lavoratori di serie B; solo in questi termini si spiega il fatto che il ministro di Grazia e giustizia, in materia di salute e sicurezza degli operatori, faccia coincidere il controllato con il controllore. Vi fu a Bologna un timido tentativo di andare controcorrente ma fu stroncato su input della amministrazione penitenziaria, avallato dalla "dirigenza" Ausl. Il ministro Orlando alle Terme di Caracalla ha parlato di "stress" dei lavoratori ma lo stress ce lo procura anche lui; venga a Bologna per un dibattito aperto! Per cortesia basta sceneggiate e rimozioni; sindacati e direttrice ne vogliamo parlare ? Dobbiamo invocare l’intervento di monsignor Zuppi come mediatore culturale? *Vito Totire è psichiatra e portavoce del circolo "Chico" Mendes di Bologna Asinara (Ss): nell’Osservatorio le memorie del carcere di Gavino Masia La Nuova Sardegna, 24 settembre 2017 Inaugurato alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri Nell’ex diramazione di Cala d’Oliva le storie dei detenuti raccontano il passato. Il vicepresidente dell’Ente Parco, Antonio Diana, e il vicesindaco di Porto Torres, Marcello Zirulia, hanno inaugurato ieri mattina l’Osservatorio della memoria carceraria allestito all’interno della ex diramazione centrale di Cala d’Oliva. Un progetto realizzato dall’Ente Parco con la collaborazione di detenuti del carcere di Bancali e della casa di reclusione di Alghero e con l’Archivio di Stato. Un osservatorio che descrive le tante facce dell’isola quando era ancora carcere e narra anche il vissuto di tutti i protagonisti della vicenda carceraria con un linguaggio ricco di mozioni. Un buon esempio del saper programmare e poi mettere in pratica i ricordi delle storie carcerarie secondo il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, che ha ringraziato la dirigenza del Parco per questa iniziativa e i detenuti che, seguendo corsi rieducativi, hanno collaborato attivamente alla realizzazione del progetto. "Come ministero della Giustizia raccolgo la sfida di puntare su modi detentivi diversi e aperti dove si faccia davvero rieducazione: dobbiamo distinguere quello che è la certezza della pena, quello che è garanzia di sicurezza e anche quello che deve essere tutto il percorso rieducativo del detenuto". Un nuovo modo di vedere il luogo di detenzione e il carcerato, dunque, così come avveniva all’Asinara quando numerosi detenuti venivano impiegati per la cura del bestiame, per il lavoro nei campi e nei processi di trasformazione come caseifici e produzioni di olio e vino. L’Osservatorio racconta proprio storia e umanità dell’Asinara carcere e in questo spazio di riflessione messo a disposizione dei visitatori c’è stata tanta attenzione al recupero conservativo di oggetti e scritti, evitando le banalità. La diramazione centrale dell’ex carcere di Cala d’Oliva si apre su un ampio cortile e ai lati ci sono le celle che raccontano il passato: quella comune è dedicata alle memorie, poi ci sono le celle degli sconsegnati, la sede polivalente per i racconti, il posto di medicazione, la barberia e la cella comune dove sono appese ad un filo le divise carcerarie. All’interno delle celle si trovano lettere d’amore, poster della squadra di calcio preferita e di popstar, messaggi lanciati verso familiari e amici per manifestare la propria sofferenza. Ma ai detenuti di allora non mancava la fantasia per tenersi in forma, al punto di costruire i pesi per allenamento con i barattoli della Cirio, e alcuni amavano al tal punto gli animali da chiedere alla propria famiglia di procurare un campanaccio per una capra. Il capraro dell’isola era per antonomasia Paolino Picchedda, di Albagiara, nell’Oristanese, presente ieri mattina all’evento, per 12 anni detenuto-pastore all’Asinara dopo una condanna per omicidio. Tante le storie di umanità di quella che oggi è un isola parco e tanti i racconti, non filtrati, di detenuti su punizioni e tentativi di evasione. A testimoniare la bontà di questo progetto la dirigenza dell’Ente Parco - il vicepresidente Antonio Diana, il direttore Pierpaolo Congiatu e il responsabile dell’Area marina protetta, Vittorio Gazale - e l’ex direttore del carcere Francesco Massidda. Il finale in musica con alcuni inediti sul mondo carcerario di Piero Marras. Lecce: teatro in carcere, niente più fondi. "Io ci provo" fermo dopo sei anni di Alessandra Lupo quotidianodipuglia.it, 24 settembre 2017 È stato uno dei fiori all’occhiello delle attività culturali pugliesi, portato ad esempio di coraggio, pervicacia ma anche di concretezza, visto che in una manciata di anni, sei in tutto, "Io ci provo" è stato capace di trasformare un’esperienza in un’attività stabile, arrivando a sognare un futuro sostenibile per una compagnia di teatro nata all’interno del carcere di Borgo San Nicola e diventata un piccolo gioiello, anche dal punto di vista autoriale. Ma adesso il progetto è fermo. La doccia fredda è arrivata qualche giorno fa dalla regista e pedagoga Paola Leone, anima ma anche cuore e braccia del progetto insieme a un gruppo molto coeso di collaboratori, che sui social ha annunciato con amarezza lo stop, scatenando un coro di rabbia e incredulità. La questione è rimbalzata sulla stampa (anche sulla rivista Detenzioni, che si occupa proprio dell’universo carcerario) destando preoccupazione ma anche parecchia indignazione, visto che al progetto non mancano le volontà e neppure i risultati - enormi in questi anni - ma unicamente i fondi per proseguire, tra bandi sempre meno accessibili e la disattenzione delle istituzioni. Basti pensare che Io Ci Provo è stato sostenuto dalla Chiesa Valdese, dalla Regione Puglia e in piccolissima parte dal Comune di Lecce (3.000 euro in 2 anni di cui 2.000 non ancora saldati) così come non ancora saldato il contributo Regionale del 2016. Dopo la solidarietà - tantissima - del web, i responsabili del progetto hanno chiarito la situazione: "Il vero problema è che, per questo tipo di progetti, servono le economie, purtroppo non bastano e non sono bastati almeno a noi il sostegno, l’apertura, il coraggio, e la lungimiranza della Direzione, del Comandate e dell’area educativa del carcere di Lecce - spiega Paola Leone. Il loro lavoro a favore di Io Ci Provo è indiscutibile e posso gridarlo forte come ho fatto in tutti questi anni, ma la vera questione resta, in una riflessione che riguarda i "vertici"". L’associazione intende infatti porre l’attenzione al documento prodotto dagli stati generali dell’esecuzione penale 2015/2016 dove si dichiara che per rendere efficace la pena occorre predisporre anche progetti culturali che permettono attività ponte con il mondo libero. Un’operazione in cui il contributo degli enti è vitale. "Ministero, Dap, ma anche Comune, Provincia e Regione - prosegue Paola Leone - dovrebbero mettere nella giusta condizione economica tutte quelle Amministrazioni Penitenziarie locali che hanno avviato dei processi e percorsi culturali artistici/educativi con le associazioni esterne, proprio per rendere il lavoro di queste realtà stabile". D’altronde non sono le istituzioni che devono garantire agli ospiti detenuti le attività previste dall’art 27 dell’ordinamento penitenziario? Vicenza: detenuti sul palco per rappresentare la parabola del "figliol prodigo" agensir.it, 24 settembre 2017 I detenuti del carcere di Vicenza sul palco per rappresentare la parabola del "figliol prodigo". Ne dà notizia "La Voce dei Berici", settimanale diocesano, che racconta l’esperienza di chi ha concretizzato le riflessioni maturate durante il catechismo in carcere in uno spettacolo teatrale. Il titolo è "Caccia alla luce" e andrà in scena al Piccolo Teatro di Ospedaletto e al Teatro San Marco, venerdì 29 settembre e giovedì 9 ottobre, alle 20.30. Sul palco anche alcuni attori professionisti, come Thierry Parrnentier, Fabio Benetti e Andrea Buttazzi, che hanno condiviso il percorso con i detenuti. Il testo è stato scritto da don Luigi Maistrello, cappellano della casa circondariale di Vicenza. "Il teatro è una delle forme artistiche più adatte per creare comunione tra i detenuti, i quali hanno la possibilità, attraverso questa espressione, di riflettere sulla propria esistenza e di vivere un tempo di ripartenza", ha spiegato il sacerdote al settimanale cattolico della diocesi di Vicenza. Lo spettacolo è stato presentato il 23 giugno scorso in anteprima agli operatori del carcere. Napoli: Premio Siani, "Nati per leggere" entra nel carcere di Nisida La Repubblica, 24 settembre 2017 Seguire il filo di una favola su un libro colorato, ridere davanti alla foto di un bambino. "Nati per leggere", progetto di promozione di lettura ad alta voce, approda al carcere minorile di Nisida. Storie, libri e cartonati superano le sbarre per una sfida ambiziosa: conquistare i figli dei giovani detenuti, che spesso hanno già una famiglia prima di compiere 18 anni. Il piccolo patrimonio di pagine e cuscini si trova in una tenda accogliente sistemata tra gli alberi, fuori dall’area dei colloqui. La struttura inaugurata dalla Fondazione Polis nell’ambito delle Giornate del Premio Siani, è in realtà un’abitazione mobile adottata da molti popoli asiatici ed è stata finanziata dal Progetto Abbracci con una cena di beneficenza al Circolo Posillipo, durante la quale sono stati raccolti circa 15 mila euro. "L’obiettivo è diffondere semi di legalità nelle menti di questi bambini" spiega Paolo Siani, presidente della Fondazione Polis e fratello del giornalista ucciso dalla camorra 32 anni fa. "È sorprendente la reazione dei giovani detenuti di fronte all’interazione dei propri figli con i libri". "Tentiamo di far rivivere il sorriso di nostro figlio attraverso quello dei bambini - spiegano Claudio Zanfagna e sua moglie Giovanna Donadio, fondatori del Progetto Abbracci - speriamo che possano affrancarsi attraverso la cultura". Ci sono 10 punti "Nati per leggere" nei quartieri a rischio, realizzati grazie a una donazione della Rai. "Finanziare questi progetti è fondamentale" ricorda Geppino Fiorenza. Al taglio del nastro è presente anche Patrizia Esposito, presidente del tribunale minorile: "La lettura è un elemento risocializzante e può essere la prospettiva di un futuro diverso"."Questi libri - aggiunge Gianluca Guida, direttore del carcere minorile di Nisida - sono a disposizione di tutti i punti lettura della città". Intanto nel carcere arrivano mamme, sorelle e mogli dei ragazzi detenuti che sono circa 60, di cui 10 sono femmine. La giornata prosegue con la proiezione del film d’animazione "Gatta Cenerentola" nel centro europeo di studi di Nisida. In sala ci sono due dei quattro registi, Alessandro Rak e Dario Sansone, che rispondono alle domande del pubblico sul cartoon della casa di produzione Mad che ha conquistato il festival di Venezia. I ragazzi di Nisida li ascoltano, seduti alle ultime file della sala affollata da studenti e istituzioni. Presenti tra gli altri questore Antonio De Iesu e il procuratore Giovanni Melillo. Dopo gli interventi, il presidente dell’ordine dei giornalisti della Campania, Ottavio Lucarelli, e il sindacato dei giornalisti consegnano con Paolo Siani 14 buoni-libro del valore complessivo di 4 mila e 200 euro a 14 scuole vincitrici del Premio Siani. Il rapper Lucariello lancia invece un videoclip realizzato con Raiz e 4 giovani del carcere di Airola (presenti in sala). La canzone "Puorteme là fore" è stata scritta dagli stessi detenuti: racconta una storia di amore e abbandono, della speranza di cambiare una volta fuori. Aversa (Ce): martedì spettacolo teatrale per i detenuti della Casa di Reclusione larampa.it, 24 settembre 2017 Musica e canzoni per i detenuti (e loro familiari) della Casa di Reclusione di Aversa (ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario). Ancora una volta istituzioni, associazioni e artisti scendono in campo per testimoniare con l’arte vicinanza e solidarietà a quelle persone che la vita ha riservato un percorso di sofferenza e tristezza. Martedì 26 settembre ‘17, a partire dalle ore 17.30, nel teatro della struttura aversana dell’Amministrazione Penitenziaria si esibiranno diversi artisti - che generosamente hanno accolto l’invito - per offrire ai detenuti alcune ore di svago, socializzazione e soprattutto di grandi emozioni all’insegna della musica. L’iniziativa è promossa d’intesa tra l’Associazione Casmu, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, guidata dal direttore Elpidio Iorio, i vertici della casa di Reclusione normanna, ovvero la direttrice Elisabetta Palmieri, il comandante commissario Luigi Mosca, il capo dell’area pedagogica Angelo Russo. Si avvale, inoltre, del patrocinio dei Comuni di Aversa, rappresentato dal sindaco Enrico De Cristofaro, Sant’Arpino, dal sindaco Giuseppe Dell’Aversana, Cesa, dal sindaco Enzo Guida, e Teverola, dal sindaco Dario Di Matteo e dall’assessore alle politiche sociali Enza Barbato. Lo spettacolo prevede un originale quanto coinvolgente "viaggio" alla ricerca delle gemme lucenti e intramontabili della musica classica napoletana. Ad accompagnare i presenti in questo emozionante cammino saranno gli artisti: Nello Fiorillo, Ignazio Nesi, Lucas e Gennaro De Crescenzo (il quale appartiene ad una famiglia di vocalist di assoluto spessore, Eduardo De Crescenzo e Eddy Napoli su tutti) che solo pochi giorni fa ha presentato con successo il nuovo singolo "Luntano se ne va". Alberto Selly, sarò l’ospite d’onore dell’evento che sarà presentato dalle bravissime Annamaria Esposito e Chiara Roio Neomelodica. La direzione artistica della serata è affidata al maestro Sio Giordano, quella tecnica a Alfonso Pellegrino. L’Associazione Artistica "Borgo e Musica - Aversa" si occuperà di animazione. Un buffet di prodotti tipici della tradizione enogastronomica aversana, sarà gratuitamente offerto dal "Caseificio Di Santo" di Sant’Arpino e dalla Pasticceria Ponticiello di Aversa. Caserta: quel rap della legalità scritto dai ragazzi di Airola con Raiz e Lucariello Il Mattino, 24 settembre 2017 "Senza la musica la vita sarebbe un errore", scrisse Friedrich Nietzsche. Pur non avendo mai letto nemmeno una riga del filosofo tedesco, il suo messaggio è arrivato - chiaro e diretto - a quattro ragazzi detenuti nel carcere minorile di Airola. Come tanti altri ragazzini che scontano debiti anche gravi con la società e la giustizia, loro c’erano. Presenti, ieri, alla cerimonia del premio Siani, sull’isolotto di Nisida. Fratelli nella notte: compagni di sventura in un tunnel che tuttavia fa intravedere un grande spiraglio di luce. E quella luce è nelle note di un rap. Tutto merito di due grandi cantanti: Raiz e Lucariello. Progetto musicale che si conquista il cameo finale nella giornata dedicata a Giancarlo Siani. Per quei ragazzi che hanno scritto il testo di una canzone che merita di essere ascoltata e che resta poi nella testa per il suo motivo accattivante è stato un giorno di gloria. Assente Raiz, impegnato all’estero, a presentare la clip - in anteprima nazionale - è stato Lucariello. Gli anticorpi della legalità corrono veloci anche sul pentagramma: e così è nato il progetto realizzato grazie alla "Onlus Co2". Parole e musica che mettono i brividi: "Spezza stì catene, aiutame a m’addurmì": il video a breve sarà anche su Youtube. Commovente, nel testo e nelle immagini che mostrano i giovanissimi ragazzi detenuti ad Airola, alcuni dei quali peraltro già padri pur non avendo ancora vent’anni. Li si vedono nella clip che dura poco più di tre minuti mentre abbracciano moglie e figli, durante le visite consentite ai familiari. "Una delle cose che di questi ragazzi più mi hanno colpito spiega Lucariello - è stato comprendere il loro dolore: a tanti quello che maggiormente è mancato è stata la figura del padre. E loro in alcuni casi sono già papà". I quattro giovanissimi che hanno scritto il testo di questa canzone hanno intanto già avuto una opportunità: iscritti alla Siae, beneficeranno dei diritti d’autore. Tra loro ce n’è uno che deve scontare 30 anni di reclusione per omicidio, ed un altro che viene da Torre Annunziata. Ha solo 18 anni e un viso d’angelo che stona con il contesto da Purgatorio che sta vivendo. Solo quando Paolo Siani gli consegna, tra gli applausi, la maglietta con impresso il volto sorridente di Giancarlo intuisce e dice: "Ah, era lui? Adesso ho capito. Che fetenzia averlo ucciso". E anche questo diventa un altro piccolo, grande miracolo di legalità. Ma di cose belle e buone a Nisida se ne fanno tante. Un altro esempio. Grazie ad un finanziamento della Rai, dell’Anm dell’Anci e dell’Eav non solo è stato possibile raccogliere i fondi per pubblicare e diffondere il volume "Fatti di camorra", che contiene la raccolta di tutti gli articoli firmati da Giancarlo Siani; ma si è riusciti a realizzare - con il supporto essenziale di personale specializzato il progetto della "Tenda della lettura". esperimento che coinvolge i figli dei giovanissimi detenuti - da zero a sei anni e oltre - insieme con i genitori. "E adesso la palla passa a me". Solitudine e riscatto nel carcere di Felice Accrocca L’Osservatore Romano, 24 settembre 2017 Il libro di Antonio Mattone "E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere" (Napoli, Guida editori, 2017, pagine 214, euro 15) con la prefazione di Andrea Orlando e la presentazione di Alessandro Barbano, offre una riflessione stimolante su una questione spinosa. L’autore, direttore dell’ufficio di Pastorale sociale e del lavoro dell’arcidiocesi di Napoli, vi raccoglie articoli editi nel corso degli anni sul quotidiano "Il Mattino". Nel constatare con dolore che la situazione delle carceri italiane non è delle migliori (nel 2013 la Commissione europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per i trattamenti imposti ai detenuti) e nel segnalare anche i coraggiosi segnali d’inversione di tendenza che in questi ultimi anni hanno caratterizzato il già famigerato carcere di Poggioreale - oggi intitolato al suo vicedirettore Giuseppe Salvia, caduto vittima della camorra nel 1981 per aver avuto il coraggio di voler perquisire il boss Raffaele Cutolo - Mattone mostra con chiarezza che la soluzione spesso invocata (ahimè, dai più) come panacea di tutti i mali, ossia quella di rinchiudere dentro tutti i "reprobi" e lasciarli al loro destino, in realtà non paga né in termini di sicurezza né in termini economici. Non paga in termini di sicurezza perché, con il sistema attualmente vigente, una volta fuori i detenuti tornano in buona parte a delinquere, finendo così per attraversare di nuovo la soglia del carcere; non paga in termini economici perché un detenuto ha un costo giornaliero rilevante per le casse dello Stato: una politica più avveduta consisterebbe invece nel perseguire il recupero del carcerato in modo che, una volta assolto il suo debito con la giustizia, possa reinserirsi nella società. Occorrerebbe dunque rendere il carcere più umano e preparare la società a favorire il suo reinserimento nel momento in cui il carcerato avrà scontato la propria pena. Tuttavia, questa via coraggiosa, soprattutto in tempi come quelli attuali in cui spirano forti i venti dell’intolleranza, non dà vantaggi in termini elettorali, anzi si rivela un percorso in salita per coloro che siedono in Parlamento; si finisce così per procrastinare uno stato di cose che, alla fin fine, non giova a nessuno. Antonio Mattone ha maturato il proprio impegno come volontario nelle carceri ormai più di dieci anni fa, dopo aver intrapreso un cammino formativo nella comunità di Sant’Egidio. Da questa scelta, nata in un contesto di fede, è scaturita una fitta rete di relazioni con tanti, giovani e meno giovani, che nei penitenziari italiani trascorrono un segmento significativo della propria vita. Incontri simili hanno portato l’autore a maturare la consapevolezza che la prima esperienza di detenzione è decisiva per il futuro del detenuto, perché o contribuisce in modo determinante a riabilitarlo, fornendogli le motivazioni per dare una svolta positiva all’esistenza, oppure lo porta a sprofondare ancora più in basso, in un baratro dal quale è sempre più difficile risalire. Mattone, naturalmente, la pensa come il guardasigilli Andrea Orlando: questi, nella sua prefazione (una prefazione non scontata né di maniera), sostiene con decisione che "va costruito un sistema di esecuzione della pena moderno, in linea con il probation system europeo, che abbia al suo centro misure alternative alla detenzione". Un proposito che, però, è ancora lontano dal trovare pratica attuazione, nonostante la storia recente (come per l’appunto dimostra il caso di Poggioreale) evidenzi che quando si trovano persone disposte a credervi, importanti cambiamenti sono sempre possibili e spesso proprio là dove meno ci si aspettava di vederli. È in particolare sulla ricostruzione della persona che bisogna puntare, poiché è pericoloso illudersi che l’aspetto deterrente, basato sull’inasprimento delle pene, basti a garantire la sicurezza dei cittadini. Semmai, è sufficiente solo a illudere e a soddisfare il desiderio di sentirsi sollevati da una responsabilità e da un compito che invece riguarda tutti. Eppure, come può uscire migliorato dal carcere chi è stato costretto - ad esempio - a vivere ammassato ai compagni, in estate, "fino a sedici per stanza, con i cancelli blindati che coprono le feritoie delle porte delle celle chiusi, la doccia solo due giorni a settimana e il caldo umido e appiccicoso che annienta la mente?". Chi negli anni di detenzione avrà provato esperienze di questo genere non farà che immagazzinare tanta rabbia, sfruttando la detenzione per apprendere quel che ancora non sapeva dell’arte del crimine. Finirà, in definitiva, per uscire dal carcere peggiore di come v’era entrato, con l’unica prospettiva di tornare - presto o tardi - ancora dietro le sbarre. Diversi anni fa, ebbi modo di frequentare per un certo tempo le "Comunità Incontro" fondate da don Pierino Gelmini per il recupero dei tossicodipendenti e d’incontrarvi moltissimi giovani che avevano vissuto l’esperienza del carcere: già all’epoca ricordo di aver ascoltato gli stessi racconti di sovraffollamento, sovente di scarsa igiene, di mancanza assoluta di possibilità alternative che ho ritrovato nel libro di Mattone. Ebbene, le considerazioni che trassi da quei colloqui con i giovani coincidono sostanzialmente con quelle dell’autore. Esemplare, in proposito, è un’esperienza da lui narrata: "Alla fine di giugno (2011) ho partecipato ad una gita al mare, organizzata dalla comunità di Sant’Egidio. Grazie alla presenza degli operatori dell’Asl e alla generosità di una famiglia di ristoratori che ci ha accolto nel grazioso ristorante della baia di Puolo è stato possibile trascorrere una giornata davvero memorabile. C’era chi non faceva il bagno da oltre vent’anni. Quella corsa verso il mare appena arrivati in spiaggia è stato un gesto liberatorio, un grido che richiama ciascuno alle proprie responsabilità. Quest’anno non è passato invano. Mi sembra che si sia aperto uno spiraglio almeno per chi è recluso negli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Molto si può fare per migliorare la situazione anche per tutti gli altri detenuti. Basta volerlo". Già, basta volerlo! Questa prospettiva chiama però in causa l’intera società, ci coinvolge tutti: un’approccio diverso al problema, infatti, chiede anche la disponibilità a farsi carico di un accompagnamento che in certe situazioni può diventare problematico e pesante. Per questo è così difficile sintonizzarsi su una tale lunghezza d’onda. Viceversa, più facile e sbrigativo, più remunerativo anche in termini elettorali, è chiedere che i malviventi siano rinchiusi in una cella e che la chiave sia buttata via. "Sogni senza stelle". Arrivano in Europa i sogni delle ragazze detenute in Iran Dire, 24 settembre 2017 È arrivato in Europa, in Francia, il nuovo film del documentarista indipendente Mehrdad Oskouei "Sogni senza stelle". Il lungometraggio fa luce sulle condizioni in cui vivono le minori detenute nelle carceri femminili in Iran, dove le ragazze sono giudicate penalmente responsabili per legge a partire dai nove anni e possono essere condannate a morte per impiccagione per crimini quali omicidio, traffico di droga e rapina a mano armata. Molte delle detenute devono aspettare in carcere di compiere 18 anni, quando verrà eseguita la condanna a morte. Oskouei ha raccolto in "Sogni senza stelle" le confidenze di ragazze che si trovano in un centro di detenzione e di riabilitazione per minori a Teheran e ha filmato la loro vita quotidiana. Il regista alterna scene di vita collettiva a interviste con le ragazze nella grande stanza in cui vivono o nel cortile del centro. Non mancano i momenti di ironia, ma dalle testimonianze emerge la disperazione di queste ragazze, le loro storie fotografano uno spaccato della società iraniana e della dimensione familiare. Il film è stato premiato in diversi festival tra cui quello di Berlino dove vinse il premio Amnesty International insieme a "Fuocoammare" di Francesco Rosi. Noi, i migranti e lo ius soli i dubbi che sono legittimi di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 24 settembre 2017 La legge è pensata e scritta secondo una prospettiva diciamo così astrattamente individualista, indipendente da ogni realtà culturale. Perché la maggior parte degli italiani, come indicano tutti i sondaggi, sono contrari alla nuova legge sulla cittadinanza nota come ius soli? A questa domanda - forse non del tutto irrilevante nel momento in cui da molte parti si auspica o si annuncia come prossimo il completamento in Senato dell’ iter di approvazione della legge - ci sono tre risposte possibili: a) supporre che i suddetti italiani siano male informati, e quindi ignorino quello che in realtà dice la legge; ovvero b), ritenere che per qualche misteriosa ragione sempre i suddetti italiani siano naturalmente predisposti a nutrire sentimenti xenofobi e/o razzisti; oppure, terza risposta, c), pensare che la legge presenti effettivamente aspetti discutibili capaci di destare a buon motivo perplessità se non allarme. Secondo me legislatori saggi e pur favorevoli in generale alla legge dovrebbero fare propria quest’ultima risposta: e dunque provare a vedere che cosa c’è nella legge che lascia dubbiosi. Provo a dirlo io secondo il mio giudizio: è il fatto che per la sua parte centrale la legge sullo ius soli è pensata e scritta secondo una prospettiva diciamo così astrattamente individualista, indipendente da ogni realtà culturale. È centrata esclusivamente sul candidato alla cittadinanza in quanto singolo. Come si sa, infatti, la cittadinanza italiana sarebbe d’ora in poi dovuta di diritto a chiunque, compiuto il diciottesimo anno di età, sia nato in Italia da genitori stranieri o vi sia arrivato prima dei dodici anni. E inoltre che in Italia abbia compiuto con successo un ciclo scolastico di almeno 5 anni o un corso d’istruzione o formazione professionale triennale o quadriennale. La legge insomma prescinde del tutto dal contesto culturale familiare o di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto, e tanto più da qualunque accertamento circa l’influenza che tale contesto può avere avuto su di lui, sui suoi valori personali, sociali e politici. Si richiede solo che uno dei genitori abbia un regolare permesso di soggiorno, un’abitazione degna di questo nome, un reddito minimo e sappia parlare italiano. Così come essa prescinde dagli eventuali vincoli di fedeltà che il candidato di cui sopra abbia contratto con altre istituzioni o Stati. Non è un caso che per il futuro cittadino italiano non sia previsto, mi sembra, l’obbligo della rinuncia a ogni altra nazionalità di cui sia eventualmente già in possesso (come è quasi certo). Ora, se si vuol stare coi piedi per terra è giocoforza ammettere che a proposito della nuova legge le preoccupazioni dell’opinione pubblica nascono in specie in relazione ad una categoria particolare di immigrati: gli immigrati di cultura islamica. Sono preoccupazioni realistiche. È in tale ambito, infatti, che si registra la presenza di un fortissimo vincolo familiare e di gruppo, cementato e per così dire sublimato da un altrettanto forte comandamento religioso: entrambi in grado di condizionare in misura decisiva mentalità e comportamenti del singolo. Di tenerlo legato ad un’appartenenza che, come è stato più e più volte dimostrato, è pronta, a certe condizioni, a non tenere in alcun conto regole, principi, fedeltà che non emanino da fonti diverse da quelle suddette. Non è possibile ignorare che è proprio un tale nodo di vincoli e di appartenenze a sfondo cultural-religioso- familiare che quasi sempre si delinea dietro gli ormai innumerevoli episodi di terrorismo islamista che da anni insanguinano l’Europa. Ma non è solo di questo che si tratta. C’è un ulteriore insieme di problemi e un ulteriore ordine di esigenze non attinenti questa volta all’ordine pubblico ma piuttosto all’ordine culturale di una comunità. In questo caso della comunità italiana, la quale legittimamente desidera continuare a riconoscersi come tale e quindi a conservare i propri valori e stili di vita. L’esigenza, per fare alcuni esempi, che le bambine non vengano rispedite a dodici anni nei propri Paesi d’origine per essere sposate contro la propria volontà, che nell’ambito familiare non sia impedito a nessuno di uscire di casa quando vuole e di apprendere l’italiano, che in generale vengano riconosciuti alle donne diritti e possibilità eguali a quelli riconosciuti agli uomini. È davvero così disdicevole o addirittura reazionario voler essere sicuri che chi acquista la cittadinanza italiana, i nostri nuovi concittadini, siano fermamente convinti delle esigenze che ho appena detto, che essi condividano questi elementi di base della cultura della comunità italiana, senza che ci sia bisogno che intervengano a ricordarglielo ogni due per tre carabinieri o magistrati? A me sembra di no. Il fatto è che se l’obiettivo pienamente condivisibile della legge sullo ius soli è l’integrazione nella società italiana, allora appare del tutto irragionevole supporre che una tale integrazione presenti gli stessi problemi per chi proviene, faccio un esempio, dal Perù o dal Congo. Appare del tutto sensato, invece, supporre che nel secondo caso l’integrazione sia assai più lunga e difficile, presenti aspetti assai più complessi. E poiché evidentemente la legge non può fare discriminazioni, appare allora altrettanto sensato pensare ad un testo di legge diverso da quello attuale, e cioè "tarato" sulla fattispecie più difficile, vale a dire sull’immigrazione proveniente dalle culture più distanti da quella italiana. Tra le quali dobbiamo riconoscere che la prima in assoluto è di fatto quella islamica. Per ragioni che dovrebbero essere ovvie: perché è quella con la quale l’Occidente ha da oltre un millennio un confronto-scontro anche assai aspro che ha lasciato eredità profonde da ambo le parti, perché è quella che in ambiti identitari cruciali - come la pratica religiosa e cultuale, il rapporto tra i sessi, le regole alimentari - ha le più marcate diversità rispetto a noi, e infine, e soprattutto, per una drammatica ragione geopolitica di fronte alla quale sarebbe da sciocchi chiudere gli occhi. Infatti, da un lato l’azione spesso violenta delle correnti islamiste antioccidentali, dall’altro il poderoso lavoro di penetrazione che grazie alle proprie immense risorse finanziarie molti Paesi arabi vanno compiendo in Europa, entrambe queste strategie si fanno forti in vario modo per i loro disegni della presenza nel nostro continente di vaste comunità musulmane. Stando così le cose è ovvio l’importante aiuto che la concessione della cittadinanza può oggettivamente offrire a questi progetti. E stando così le cose, è più che lecito chiedersi se sia davvero immaginabile che il semplice fatto, come immagina la legge, di avere frequentato le nostre scuole elementari (un ciclo d’istruzione di cinque anni appunto) possa realmente legare all’Italia, alla sua cultura e ai suoi valori un giovane che, mettiamo, per il resto della sua esistenza sia vissuto però entro un contesto familiare, religioso e di gruppo fortemente islamizzato. Se sia sufficiente una siffatta garanzia o non sia piuttosto il caso di prenderne in considerazioni anche delle altre. Per decidere quali non mancano certo in Parlamento e nel Governo le conoscenze e le competenze necessarie. L’importante è tenere a mente che in questo genere di faccende riguardanti il più vitale interesse nazionale non dovrebbe esserci posto né per il "buonismo" né per il "cattivismo", non dovrebbe esserci posto per il partito preso, per la superficialità o per la demagogia (né per quella di destra né per quella di sinistra). Qui dovrebbe parlare solo la voce del senso comune e del realismo: e bisogna sforzarsi di credere che nella vita politica del Paese non manchino le voci capaci di parlare questo linguaggio. Turchia. Tra i curdi che sognano l’indipendenza: "basta trattare, è un nostro diritto" di giordano stabile La Stampa, 24 settembre 2017 Migliaia in piazza a Erbil, Barzani: "Ce la siamo meritata". Lunedì lo storico voto. Lo stadio di Erbil è così pieno che la gente si è assiepata fin sulla terrazza del grande magazzino Carrefour alla sue spalle. Settanta, ottantamila persone sugli spalti e nel prato, che premono come forsennati sulle transenne. È come una finale di calcio e gli slogan sono quelli degli ultrà. "Gubukhé, Abadì", Al-Abadi vai a cagare. Il premier iracheno è il primo bersaglio, ma ce n’è anche per Trump che ora non vuole riconoscere il Kurdistan indipendente, anche se l’America, comunque, resta la grande amica. "Amrika, Amrika". E poi "Israil, Israil". Sventola una bandiera con la Stella di David: Israele è l’unico Stato ad aver riconosciuto l’indipendenza, prima ancora che venga proclamata. Un boato sottolinea l’ingresso di Massoud Barzani. Il presidente. Ora più che mai. Sulla tribuna d’onore ci sono tutti i pezzi grossi del suo Kurdish democratic party. E poi leader religiosi, sceicchi delle tribù arabe, il vescovo caldeo Bashar Warda. Lo abbracciano. Il Kurdistan sarà multietnico e plurireligioso, è il messaggio. In maniche di camicia, il governatore di Erbil, "città capitale del Kurdistan", introduce il discorso più atteso, quello del "dado è tratto". Barzani è nel tradizionale abito curdo con in testa il turbante a strisce bianche e rosse. L’inizio è esitante, il clamore della folla si calma, c’è tensione perché le voci si stanno accavallando e il timore è che il rais curdo abbia ceduto alle pressioni internazionali, l’ultima quella del Consiglio di sicurezza dell’Onu che nella notte gli ha chiesto di posticipare il referendum sull’indipendenza. Mancano ancora tre giorni a lunedì, tutto può succedere. Ma poi il vecchio condottiero comincia a scaldarsi, la voce si fa più sicura, potente: "Che cosa possiamo ancora trattare? Baghdad ci ha sempre promesso tutto e non ci ha mai dato nulla. Ora non è più tempo di discussioni. L’indipendenza è un nostro diritto. Andiamo avanti". Avanti, quello che la folla vuole sentirsi dire, avvolta nelle bandiere, con il Sole giallo del Kurdistan ancora più caldo alla luce del tramonto. La marcia per l’indipendenza è un fiume in piena. Non saranno gli ultimatum della Corte Suprema irachena a fermarla. E non saranno neanche le armi. "Abbiamo dato il sangue, nessuno può spezzare la nostra dignità e la nostra volontà. Abbiamo sconfitto lo Stato islamico, ci siamo sacrificati per il mondo". E poi l’affondo definitivo contro Baghdad: "Governi precedenti ci hanno gasato, i curdi sono passati attraverso il genocidio. E ora dicono "siamo fratelli". Come possiamo essere ancora fratelli?". Il riferimento è alla strage con il gas Sarin di Halabaja, 16 marzo 1988, cinquemila morti, e alla campagna Al-Anfal lanciata da Saddam Hussein, centomila vittime curde. Su quei morti si basa la legittimità, il diritto all’autodeterminazione. Dalle persecuzioni di Saddam è nato anche il sostegno internazionale che dalla Prima guerra del Golfo in poi, 1991, ha fatto del Kurdistan uno Stato indipendente di fatto ma non di nome. La costituzione del dopo Saddam ha puntato a un federalismo spinto. Ma ora non basta più, anche perché Baghdad non ha mai versato a Erbil il 17 per cento degli introiti petroliferi, come stabilito. La Russia di Putin sembra essersi adeguata. Lo Zar ha detto di non voler "interferire" e avrebbe già strappato un contratto da 4 miliardi per la costruzione di un gasdotto. Washington, Bruxelles invece premono, ogni giorno, perché Barzani rinunci al passo formale verso l’indipendenza e accetti un federalismo ancora più spinto. Il leader curdo non può fermarsi, vede una finestra d’opportunità che può chiudersi in pochi anni, se non mesi. Gliela ha data il califfato. Il regno di Abu Bakr al-Baghdadi è quasi finito ma ha squassato le fondamenta dell’Iraq. L’esercito iracheno è ancora debole, esausto dopo la battaglia di Mosul. I Peshmerga curdi sono più forti che mai, con le armi ricevute per combattere la minaccia jihadista. L’avventura del califfo ha consegnato al Kurdistan anche nuovi pezzi di territori e soprattutto Kirkuk che nel 2014 l’esercito iracheno ha abbandonato e i Peshmerga hanno salvato. Kirkuk è una città dalle mille etnie e religioni, curdi, turkmeni, arabi sunniti e sciiti, cristiani siriaci. I curdi non sono più maggioranza da decenni ma se la vogliono tenere con tutti i pozzi di petrolio. Potrebbe essere la scintilla per una nuova guerra civile. Ma non è il momento di pensarci. Finito il discorso la gente, ubriaca di entusiasmo, balla e canta sulle note della star nazionale Zakaria. Kurdistan, Kurdistan. Yemen. La bomba saudita della strage di bambini era "made in Usa" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 settembre 2017 Un "errore tecnico", contro quello che comunque era un "legittimo obiettivo militare", su cui "ci saranno accertamenti". Questa la dichiarazione asettica con cui il portavoce della coalizione a guida saudita che dal 25 marzo 2016 compie crimini di guerra in Yemen, ha liquidato la strage di bambini del 25 agosto. Che, ha scoperto Amnesty International, è stata causata da una bomba aerea a guida laser made in Usa. L’attacco, alle 2 di notte, ha centrato tre palazzi di Faj Attan, un quartiere residenziale della capitale Sanàa. Uno dei palazzi, si dice, era frequentato da un capo militare degli huthi, il gruppo armato che insieme alle forze fedeli all’ex presidente Abdullah Saleh è l’altro sanguinoso protagonista del conflitto. Ma anche se fosse stato così, sarebbe stato un buon motivo per uccidere 16 civili di cui sette bambini e ferirne altri 17 di cui otto bambini? Un buon motivo per decimare un’intera famiglia, la cui unica superstite è Buthaina, cinque anni, che ha perso cinque tra fratelli e sorelle? "Quando le chiedi cosa desidera, risponde che vuole tornare a casa. Pensa che quando tornerà a casa ci troverà tutta la sua famiglia. Aveva cinque fratellini e sorelline con cui giocare. Adesso non ne ha più nessuno. Riesci a immaginare il dolore e la pena che porta nel suo cuore?". Sono le parole di Ali al-Raymi, 32 anni, che la notte del 25 agosto ha perso suo fratello Mohamed, sua cognata e cinque nipotini di età compresa tra due e 10 anni: i fratelli e le sorelle di Buthaina. Dopo aver esaminato le prove fornite da un giornalista locale che aveva rinvenuto tra le macerie alcuni frammenti, gli esperti di Amnesty International hanno identificato il sistema di controllo MAU-169L/B, montato su diversi tipi di bombe aeree a guida laser prodotte negli Usa. Secondo l’Agenzia Usa per la cooperazione nella difesa e nella sicurezza, nel 2015 gli Usa hanno autorizzato la vendita all’Arabia Saudita di 2800 bombe a guida laser, equipaggiate col sistema di controllo MAU-169L/B: in particolare le GBU-48, le GBU-54 e le GBU-56. Dal febbraio 2016 che Amnesty International sollecita tutti gli stati ad assicurare che nessuna delle parti coinvolte riceva - direttamente o indirettamente - armi utilizzabili nel conflitto dello Yemen. La stessa richiesta sta inoltrando, insieme ad altri partner, Amnesty International Italia al governo italiano, che ha più volte autorizzato l’invio all’Arabia Saudita di bombe prodotte in Sardegna dalla RWM. Tuttavia, invece di chiamare i loro alleati a rispondere delle loro azioni in Yemen, gli Usa, il Regno Unito, la Francia, l’Italia e altri ancora continuino a rifornirli di enormi quantità di armi. Secondo il rapporto annuale sullo Yemen prodotto dall’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, nel conflitto iniziato nel marzo 2015 sono stati uccisi 1120 bambini e altri 1541 sono rimasti feriti. Nell’ultimo anno, la responsabilità di oltre la metà delle vittime è stata attribuita agli attacchi aerei della coalizione a guida saudita. Le forze huthi e quelle fedeli all’ex presidente Saleh hanno a loro volta commesso gravi violazioni del diritto internazionale. Secondo il rapporto citato sopra, sono responsabili della maggior parte delle vittime tra i bambini causate da azioni militari sul terreno, come combattimenti, colpi di artiglieria e impiego di mine antipersona, vietate dal diritto internazionale. Marocco. Lezione di islam moderato, jihadisti pentiti impiegati nelle carceri L’Osservatore Romano, 24 settembre 2017 Jihadisti pentiti tornano nelle carceri a fare corsi di islam moderato ai detenuti estremisti. Succede in Marocco, nell’ambito del programma adottato dall’amministrazione carceraria per contrastare la campagna di proselitismo e di odio condotta dallo stato islamico. Gli ex detenuti che hanno abbandonato il pensiero salafita jihadista avranno il compito, ora, di convincere i nuovi estremisti a correggere le proprie posizioni. Tutto ciò avverrà in particolare, viene osservato, con un confronto serrato sulle interpretazioni distorte dei dettami islamici e le varie posizioni teologiche che prediligono un letteralismo anacronistico e pericoloso. Il progetto viene illustrato dal commissario generale del dipartimento penitenziario e del reinserimento sociale, Mohamed Saleh Attamek, al sito marocchino Hespress: "Vengono analizzate le tematiche sull’approccio delle questioni religiose nella vita della comunità e sui problemi connessi allo sviluppo delle relazioni sociali e umanitarie sulla base di una diversità costruttiva e di una pacifica convivenza". Elementi che hanno assunto carattere prioritario alla luce "delle minacce derivate dalla diffusione dell’estremismo violento nella nostra società e che possiamo vincere solo attraverso una battaglia culturale, basata sul sapere e sui sani principi universali della nostra società". India. "Ho intervistato 100 stupratori. Vi spiego cosa ho imparato" huffpost.it, 24 settembre 2017 Madhumita Pandey è una studentessa di criminologia di un’università del Regno Unito e aveva solo 22 anni quando ha fatto visita alla prigione di Tihar, a Nuova Dehli, per incontrare e intervistare gli stupratori condannati in India. Si è approcciata alla conoscenza aspettandosi di incontrare dei mostri, perché solo l’inumanità poteva giustificare i gesti da loro compiuti. Dopo tre anni di interviste e quasi 100 detenuti incontrati, sulla sua tesi di dottorato è emerso un racconto diverso, che lei stessa non si sarebbe aspettata di scrivere. La spinta per compiere quel percorso di conoscenza la ebbe nel 2013, quando salì alla ribalta delle cronache il caso di una donna conosciuta oggi con il nome di "Nirbhaya", senza paura. Si trattava di una giovane studentessa di medicina violentata in India mentre stava tornando a casa, dopo aver visto un film al cinema con un amico. Nirbhaya ha portato migliaia di indiani sulle strade per protestare contro la cultura della violenza nei confronti delle donne diffusa nel suo paese, chiedendo che il governo intervenisse per arginare un fenomeno che, solo nel 2015, ha portato quasi 35mila a denunciare uno stupro. "Solo tre o quattro di loro hanno affermato di essersi pentiti, gli altri trovavano delle giustificazioni o incolpavano la vittima". In particolare, Pandey ricorda una discussione avuta con un 49enne, che espresso rimorso per aver violentato una bambina di 5 anni. Le ha detto che si sentiva male per ciò che aveva fatto, perché non essendo più vergine nessuno l’avrebbe sposata. Poi aggiunse: "L’accetterò io. La sposerò una volta uscito di prigione". "Gli uomini imparano ad avere un’idea falsata della mascolinità e le donne a sottomettersi", ha concluso la ragazza, "Tutti pensano ci sia qualcosa di particolare negli stupratori, qualcosa che si nasconde dentro di loro e appartiene solo a loro. Ma in realtà fanno parte della società, non si tratta di alieni catapultati nel nostro mondo. Dopo aver parlato con questi, la cosa più sconvolgente è che sono in grado di farti dispiacere per loro. Come donna non avrei mai immaginato di provare delle sensazioni simili. Nella mia esperienza ho capito che molti non si rendono conto di quello che hanno fatto, non capiscono cosa sia il consenso. Allora ti chiedi: vale solo per questi uomini o per la maggioranza di loro?".