"Un’esecuzione penale basata sull’umanità: ecco la nostra riforma" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 settembre 2017 Parla il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. "Personalizzare i trattamenti, ecco la chiave: significa sia rafforzare le misure alternative, sia osservare meglio ogni singolo recluso". "Basta automatismi: l’esecuzione penale, con la riforma penitenziaria, sarà basata sul principio della personalizzazione del trattamento". Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri parla della svolta in arrivo con i decreti attuativi che il ministro Andrea Orlando invierà a breve a Palazzo Chigi. Personalizzare, spiega, vorrà dire sia dare massima applicazione possibile alle misure alternative, sia assicurare percorsi specifici per chi sconterà fisicamente in carcere la pena. Sottosegretario Ferri, si parla di nuovo di sovraffollamento, cresce il numero dei suicidi in carcere e il rischio di radicalizzazione religiosa tra i detenuti... Modernizzare il mondo delle carceri, e per esso intendo l’evoluzione dei modelli di trattamento, il miglioramento della vita detentiva e la semplificazione delle procedure in capo al magistrato di sorveglianza, è una priorità nell’agenda del ministero della Giustizia. Parliamo di un terreno sul quale può ritenersi davvero radicata l’azione riformatrice di questo governo, dalla gestione della fase emergenziale successiva alla sentenza Torreggiani, attraverso la nuova stagione culturale inaugurata con gli Stati generali dell’esecuzione penale, per finire alla legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario la cui attuazione, entro la fine della legislatura, avrà posto finalmente le basi per la costruzione di un modello detentivo moderno e rispettoso dei diritti dei detenuti. Intervento urgente, secondo il rapporto diffuso a settembre dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa... Indubbiamente la questione del sovraffollamento segnalata da Strasburgo è reale: la popolazione carceraria è aumentata dal livello più basso, 52.164 presenze, registrato a dicembre 2015, alle quasi 57.000 presenze al 30 giugno di quest’anno. Questo dato, come evidenzia il Dap, va spiegato con la cessazione, a dicembre 2015, della misura straordinaria della liberazione anticipata speciale. Non va sottaciuto che in Italia lo spazio a disposizione del singolo detenuto viene determinato in 9 metri quadri, a fronte dei 6 in cella singola e dei 4 in cella multipla indicati dal Comitato per la prevenzione della tortura. È ovvio che questa segnalazione va tenuta nella massima considerazione, è un monito autorevole a concludere rapidamente il processo teso a stabilizzare gli effetti degli interventi che hanno consentito di chiudere il caso Torreggiani. Come si è concretizzato il progetto riformatore? Parliamo di interventi complessi, non isolati ma di sistema, nel senso che non è possibile rinnovare l’ordinamento penitenziario senza cambiare il volto della sanzione con l’obiettivo di deflazionare il processo penale, fatti salvi i casi in cui questa è giustificata dal disvalore della condotta o dalla finalità del trattamento punitivo. Vanno create al tempo stesso le condizioni per realizzare un carcere fuori dal carcere, attraverso forme di custodia attenuata che siano idonee a realizzare la funzione costituzionale della pena. Tutto questo senza abdicare alla tutela della sicurezza della collettività e senza arretramenti dello Stato nel garantire l’effettiva applicazione delle norme. Un equilibrio difficile? La strada seguita e da seguire è rivedere la disciplina delle misure alternative, con l’obiettivo, già sperimentato con successo nel 2013, di estendere l’accesso ai domiciliari e l’affidamento in prova ai servizi sociali, di limitare il più possibile il ricorso al carcere per quei condannati la cui detenzione intramuraria sarebbe sproporzionata rispetto alla loro pericolosità e alla gravità del reato. A questo si aggiunge il miglioramento della qualità dell’osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà e dei controlli da parte degli Uepe, coinvolgendo la polizia penitenziaria. Ci saranno anche meno automatismi nei trattamenti riservati al singolo detenuto? Assolutamente: si prevede l’eliminazione di automatismi e preclusioni che possano impedire o ritardare l’individualizzazione dei trattamenti. Nei primi nove mesi del 2017 è aumentato il numero dei detenuti che si sono tolti la vita... Il compimento di gesti estremi da parte dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria ci lascia sgomenti e crea grande dolore in tutti noi. La prevenzione è nella differenziazione dei percorsi penitenziari per consentire l’emersione delle condizioni del singolo detenuto. In questo senso, numerose sono le direttive emesse dall’Amministrazione penitenziaria nell’ultimo biennio proprio per migliorare la capacità del sistema di individuare con precocità le situazioni di disagio. E in concreto quali misure si possono adottare? È decisiva la conoscenza dei bisogni della persona detenuta per individuare tipologie di trattamento più personalizzate possibile che prevedano, ad esempio, continuità nelle relazioni con i familiari e l’accesso ad internet, o che evitino il collocamento in celle singole. Altra prevenzione necessaria è quella relativa al rischio di radicalizzazione dei detenuti di religione islamica... Altro tema delicato. È in corso un’intensa attività di osservazione delle abitudini carcerarie dei circa 500 detenuti a rischio. Dal 2014 ad oggi sono stati espulsi 91 soggetti, 46 dei quali nel solo 2017. Ma una reale prevenzione del rischio può compiersi solo favorendo l’integrazione dei detenuti stranieri con la mediazione culturale ed ampliando, come previsto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, la libertà di culto negli istituti. Torniamo, ancora una volta, all’importanza della conoscenza e del dialogo per avvicinare identità diverse ed evitare forme di discriminazione che possono generare fondamentalismi e reazioni violente. Dal primo ottobre il lavoro dei detenuti costerà l’83% in più di Francesca Devincenzi parmapress24.it, 23 settembre 2017 L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa - lo comunica il Sinappe. La prestazione lavorativa del detenuto deve essere retribuita e il compenso è calcolato in base alla quantità e qualità di lavoro prestato, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi nazionali. Sono riconosciute, inoltre, le medesime garanzie assicurative, contributive e previdenziali di quelle previste in un rapporto di lavoro subordinato. L’occupazione in carcere (elemento che abbiamo detto essere essenziale del trattamento rieducativo) si pone dunque quale specchio riflesso di una società civile che al contrario non riesce ad assicurare una occupazione al cittadino comune (vedasi il preoccupante tasso di disoccupazione). Abbiamo detto che la prestazione lavorativa va retribuita e l’ammontare delle retribuzione è parametrata a quella dei contratti collettivi riferiti alle singole mansioni. Tecnicamente, la retribuzione prende il nome di "mercede". Attorno a tale tema si è sviluppata copiosa giurisprudenza che come al solito ha visto soccombente lo Stato perché - pur facendo lavorare i detenuti all’interno delle strutture - da lungo corso non aveva provveduto ad aggiornare le mercedi. La questione trova il proprio punto di risoluzione con le recenti disposizioni emanate dall’Amministrazione Penitenziaria che stabiliscono come dal primo di ottobre, i parametri delle mercedi saranno aggiornati con un aumento medio di circa 83% di quello precedentemente percepito. Da sindacalisti non possiamo non abbracciare il principio per cui il lavoro va retribuito e la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto. E accogliamo il doveroso aggiornamento delle tariffe anche con serena vicinanza appunto perché crediamo nel valore del lavoro quale strumento riabilitativo del condannato. La chiusura degli Opg ci ha lasciato senza una alternativa valida di Cristiana Lodi Libero, 23 settembre 2017 A Bologna un uomo con disturbi mentali ruba e aggredisce: condannato più volte, ma nelle strutture specializzate non c’è posto. Ha diciotto processi all’attivo. Dal 2014 ruba, rapina, scippa e aggredisce chi gli capita sotto tiro. Alla cieca. Una perizia voluta dalla procura di Bologna lo dichiara seminfermo di mente, nonché socialmente pericoloso. Sulla sua testa pendono diversi ordini di "applicazione della misura di sicurezza detentiva" in realtà mai eseguiti. L’ultimo di questi provvedimenti, in ordine di tempo, risale a cinque mesi fa: un anno e mezzo la pena inflitta; mentre un arresto in flagranza di reato per l’ennesima rapina messa a segno è scattato giusto una settimana fa. Ma cosa succede? Che il pazzo criminale (ribadiamo: è dichiarato mentalmente incapace dai magistrati dell’accusa), è libero. E lo resterà fino a data da destinarsi. Motivo: nella Rems di Bologna (una delle 30 residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria), non c’è posto. Idem nelle restanti 29 strutture. Così questo trentenne, italiano, con una sfilza di altri processi fissati in calendario e pronti ad andare a sentenza, rimane libero di circolare. Impunito e pericoloso. Certo, a onore del vero, l’uomo ha (avrebbe) l’obbligo di firma dai carabinieri, almeno fino a quando non si libererà una branda in una Rems, da qualche parte d’Emilia o d’Italia. È il risultato della legge che ha ordinato la chiusura degli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, meglio conosciuti come manicomi criminali. Ce n’erano sei in Italia, l’ultimo (Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia) ha chiuso a febbraio scorso, dopo una bufera di polemiche seguite a presunti scandali sulle modalità di trattamento degli internati. È il 17 gennaio 2012: la Commissione giustizia del Senato approva la chiusura di tutti e sei gli Opg (compreso quello di Mantova che rappresentava una eccellenza). L’anno dopo, 31 marzo, la proposta passa, ha il sì delle Camere, ma viene prorogata una prima volta al primo aprile dell’anno seguente e una seconda volta, definitivamente, al 31 marzo 2015. Nel 2017 viene dunque applicata la chiusura: via tutti gli Opg. Con i pazzi criminali che vi sono reclusi, in buona parte, rimessi in libertà. Proprio così: in libertà. E la ragione è semplice quanto matematica. I sei vecchi istituti ospitano fino a quel momento 1.500 pazienti detenuti. Nelle 30 Rems (presto potranno essere 32) invece ci sono 604 posti. Lo ha detto il 24 febbraio scorso lo stesso Franco Corleone, commissario unico nominato dal governo per la chiusura degli Opg. Quel giorno si conclude così la lunga stagione dei manicomi criminali. Una storia cominciata nel 1975, quando gli Opg entrano a fare parte del sistema penale italiano, soppiantando i vecchi manicomi. D’altro canto, c’è un calcolo tanto semplice quanto inquietante: sarebbero circa 900 le persone con disturbi mentali e socialmente pericolose che non si trovano più all’interno delle strutture, vengono seguite dalle Asl e di fatto sono liberi di girare per strada. Tornando al caso di Bologna, è emblematico del vuoto creato dalla nuova legge, inadeguata sia sotto il profilo della sicurezza dei cittadini, sia della tutela dei pazzi che commettono reati. Lo dice il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che parla di "un problema sempre più ricorrente, perché di casi simili a quello del trentenne semi infermo, ce ne sono tantissimi". E tiene a sottolineare il magistrato: "I principi nobili di alcune leggi, si scontrano con la realtà di un sistema in grande sofferenza per quel che riguarda i posti disponibili". In Emilia, le Rems sono due: una a Bologna alla Casa degli Svizzeri e l’altra a Parma, per un totale di circa 30 posti. Entrambe hanno aperto i battenti ad aprile 2015. A Bologna attualmente ci sono 5 o 6 reclusi in attesa di entrare nella Rems della Casa degli Svizzeri, che accoglie le persone in carico alle Ausl di Bologna, Imola, Ferrara e della Romagna. La transizione dal regime di detenzione penitenziaria, quale era quello degli Opg, alle Rems è cominciata nel 2014. I problemi di sovraffollamento si sono presentati subito e in tutta Italia, non solo in Emilia o a Bologna. Questo sia per i ritardi di molte Regioni nel dotarsi di residenze sul proprio territorio, sia per la complicata fase di rodaggio tra magistratura e psichiatria nella gestione dei pazienti criminali. Ha poco da esultare, quindi, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, quando il 24 febbraio, nel giorno della chiusura dell’ultimo Opg in Sicilia, si dichiara entusiasta e soddisfatta: "Oggi è una giornata storica dice, - perché siamo arrivati al raggiungimento di questo fondamentale obiettivo che è il superamento definitivo degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ormai realizzato in tutta Italia". Senza offrire in alternativa una soluzione valida. A tutela dei matti, delle loro famiglie impossibilitate a gestirli e della collettività. Legge Pinto. Dal 2016 più fondi disponibili. Processi lumaca, dall’Europa ok all’Italia Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2017 L’Italia ha risolto i problemi dei ritardi nei procedimenti e pagamenti degli indennizzi dovuti, in base alla legge Pinto, a chi ha subito un processo troppo lungo, e per cui numerose erano state le condanne da parte della Corte dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che deve vigilare sull’esecuzione delle sentenze della Corte, sottolineando, tuttavia, che restano ancora delle questioni da risolvere. Il Comitato dei ministri ha preso atto "degli importanti sviluppi" dopo le misure adottate dalle autorità italiane per rimediare ai ritardi, e ha deciso di chiudere 119 fascicoli relativi a condanne della Corte di Strasburgo su questi temi. In particolare, il Comitato dei ministri "nota con soddisfazione che dal primo gennaio 2016 la legge Pinto consente di attingere a fondi addizionali una volta che quelli stabiliti per i pagamenti degli indennizzi sono esauriti e questo evita ritardi eccessivi nei versamenti dei risarcimenti". Ma l’esecutivo del Consiglio d’Europa afferma anche che non tutti i problemi sono risolti. Ad esempio, la riforma del 2012 della legge Pinto ha "limitato l’accesso a questo rimedio escludendo il risarcimento per i processi durati sei anni o meno". E poi c’è "l’inefficacia del rimedio Pinto nei casi di durata eccessiva dei processi amministrativi". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha sottolineato che sono stati riconosciuti gli sforzi dell’Italia e, che, in due anni, il debito da legge Pinto si è ridotto di oltre 100 milioni. La riforma del processo penale è ormai legge. Che cosa cambia per i cittadini? di Adriano Monti Focus, 23 settembre 2017 Ecco le modifiche più importanti. Dopo il via libera dei due rami del Parlamento e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il 4 luglio scorso, la riforma del processo penale è ormai legge. Che cosa cambia per i cittadini? Ecco in pillole alcune delle modifiche più importanti e un confronto. Creata unificando in un unico testo diversi provvedimenti distinti, la riforma introduce altri importanti cambiamenti sia nel Codice penale (che definisce quando e come si commette un reato, con le relative sanzioni) sia nel Codice di procedura penale (che disciplina il processo penale vero e proprio). Ricorso in Cassazione - Aumentano le sanzioni pecuniarie in caso di inammissibilità. Se il ricorso è infondato la procedura avviene in modo semplificato; in pratica, cioè, senza contraddittorio. Riforma dell’ordinamento penitenziario - Le deleghe al governo mirano a facilitare il ricorso alle misure alternative al carcere, incrementando il lavoro intramurario ed esterno, il volontariato e riconoscendo alcuni diritti di rilevanza costituzionale, come quello agli affetti. Sono esclusi dai benefici i condannati all’ergastolo per mafia, terrorismo e delitti di eccezionale gravità. Processo a distanza per mafiosi in carcere - Nei processi di mafia, terrorismo e criminalità organizzata la partecipazione al dibattimento attraverso collegamenti in video diviene in sostanza la regola per detenuti, "pentiti", testimoni sotto protezione e agenti infiltrati. Prescrizione - L’obiettivo è quello di rendere più difficile che il reato si estingua col semplice trascorrere del tempo: un fenomeno che nell’ultimo decennio ha "arenato" circa un milione e mezzo di processi in Italia. Per questo, a partire dai reati commessi dopo la riforma, i tempi della prescrizione si allungano, con il "timer" sospeso per 18 mesi dopo la condanna di primo grado, di altri 18 dopo la condanna in appello e di eventuali 6 nel caso di rogatorie all’estero (cioè atti processuali che l’autorità giudiziaria chieda di effettuare fuori dai confini nazionali), oltre che durante gli interrogatori di polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. Percorso in linea con gli ordinamenti francese e tedesco, dove qualsiasi atto giudiziario interrompe la prescrizione. I tempi si allungano a un minimo di 6 anni per i delitti e 4 per le contravvenzioni (con eccezioni al rialzo per reati gravi). Negli altri Paesi. Francia. Da 1 a 10 anni, in base al reato; 30 anni per quelli più gravi, come terrorismo e traffico di stupefacenti. Germania. 30, 20, 10, 5 o 3 anni a seconda dei casi. Decorre da quando il reato viene scoperto. Riparazione del danno - Nei reati perseguibili attraverso querela (e quindi di non grave impatto sociale), sentite le parti e la persona offesa, il giudice potrà dichiarare estinto il reato se l’imputato avrà riparato integralmente il danno con restituzione o risarcimento, e ne avrà eliminato le conseguenze nocive. Negli altri Paesi. La cosiddetta "giustizia riparativa" è già applicata in vari ordinamenti esteri come quello tedesco (dal 1994) e britannico (2003). Reati contro il patrimonio - Per i "reati predatori" il limite minimo della detenzione aumenta: da 6 anni a 7 per estorsione e rapina, da 1 anno a 3 per furto in casa, da 3 anni a 4 per lo scippo. Fa eccezione il voto di scambio politico-mafioso, dove aumenta pure il massimo: la forbice passa da 4-10 a 6-12 anni. Negli altri Paesi. Germania. Fino a 10 anni. Gran Bretagna. Fino a 7 anni. Francia. Fino a 3 anni. Intercettazioni e tutela della privacy - La legge delega l’esecutivo a predisporre norme per evitare la pubblicazione di intercettazioni che non sono rilevanti per le indagini, o che includono persone ad esse estranee, con pene fino a 4 anni di carcere per chi le capta in modo fraudolento e le diffonde per recare danno alla reputazione altrui. Come già previsto da una sentenza del 2016 della Corte di Cassazione a sezioni unite, viene ammesso come strumento d’indagine al pari delle intercettazioni - in modo particolare per i reati associativi, legati cioè al crimine organizzato - l’uso dei trojan, i virus informatici che possono trasformare pc e telefonini in vere e proprie cimici, captando suoni e immagini dell’ambiente circostante. Con alcuni limiti: l’avvio della registrazione non dev’essere indiscriminato ma deciso dagli inquirenti, e i dati trasmessi unicamente alla Procura. Negli altri Paesi. Usa. L’Attorney General (ministro della Giustizia) può autorizzare il procuratore capo di uno Stato a presentare istanza al giudice federale per approvare l’uso di intercettazioni, in base a fondati sospetti, per ipotesi di reati gravi come omicidio, sequestro di persona, rapina, estorsione, corruzione di pubblici ufficiali ecc. Chi le divulga rischia fino a 5 anni di carcere. Francia. Autorizzabili unicamente dal giudice istruttore, solo se ritenute necessarie e per reati con pene superiori ai due anni di carcere. Durata massima quattro mesi, prorogabile. Gli operatori sono obbligati al rispetto del segreto istruttorio. Si trascrivono solo le parti utili al procedimento. Per intercettare parlamentari o magistrati, va informato rispettivamente il presidente dell’Assemblea o il procuratore generale della giurisdizione di appartenenza. Germania. Sono autorizzabili dal tribunale su richiesta della procura, solo se altri mezzi d’investigazione non sono praticabili. Esplicito divieto di utilizzare contenuti legati alla sfera intima della persona. Durata: 1 mese, prorogabile. Tempi delle indagini - Dopo la chiusura delle indagini il magistrato ha 3 mesi di tempo (15 per i reati di mafia e terrorismo) per presentare la richiesta di archiviazione oppure quella di rinvio a giudizio che, se accolta dal giudice, fa iniziare il processo. Se non fa nulla, il procuratore generale presso la Corte d’appello può intervenire d’ufficio per avocare a sé il fascicolo e decidere il da farsi. Negli altri Paesi. Francia. In caso di fermo, il giudice ha 6 mesi di tempo per interrogare il pm circa l’esito della procedura; quest’ultimo deve decidere entro un mese se esercitare l’azione penale o archiviare il caso. Se non lo fa, l’interessato può far valere la nullità degli atti. Patteggiamento in appello - Già esistente nel Codice di procedura penale, eliminato nel 2008 ed ora nuovamente reintrodotto nella formulazione originaria. In sostanza le parti possono mettersi d’accordo sui motivi dell’appello ed eventualmente sulla nuova pena. Dopo il patteggiamento, il ricorso in Cassazione è ammissibile solo in alcuni casi particolari. Negli altri Paesi. Germania. Introdotto nel 2009, come facoltà del giudice, non delle parti, di accordarsi su misure per snellire il procedimento. Francia. Introdotto nel 2004 per reati che prevedano pene detentive non superiori a un anno. A differenza dell’Italia, è necessario che l’imputato riconosca la propria responsabilità. Mafia: il killer del giudice Livatino e le vittime si parlano di Sergio D’elia Il Dubbio, 23 settembre 2017 Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento è nota perché nel Palazzo ducale e nel Castello sono state girate alcune scene de Il Gattopardo, il kolossal diretto nel 1963 da Luchino Visconti, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Negli anni 90 è diventata teatro di scene più crudeli, di guerra vera della e nella mafia. Nel corso del secolo, la storia narrata nel capolavoro della letteratura del Novecento è quasi svanita nella memoria collettiva e, negli ultimi decenni, ha preso il sopravvento la cronaca nera di fatti drammatici di violenza inaudita che hanno lasciato ferite profonde non ancora del tutto rimarginate: molti servitori dello stato sono stati uccisi e molti autori di quegli omicidi, prima complici e poi, all’improvviso, divenuti nemici e assassini l’uno dell’altro. Nell’atrio di Palazzo degli Scolopi, sede del Municipio di Palma, campeggia una lapide che ricorda le vittime di mafia onorate della cittadinanza postuma: il carabiniere Giuliano Guazzelli, il giudice Rosario Livatino, il magistrato Antonino Saetta ucciso insieme al figlio Stefano. A ventisette anni dalla morte del giudice Rosario Livatino, il comune di Palma ha scelto il film Spes contra Spem - Liberi Dentro di Ambrogio Crespi per ricordare la figura del "giudice ragazzino" ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Un film che raccoglie le testimonianze di condannati all’ergastolo ostativo che hanno riconosciuto le loro terribili colpe e hanno manifestato il definitivo ripudio di ogni scelta criminale. Tra i protagonisti del film, girato nel cercare di Opera a Milano, c’è anche Gaetano Puzzangaro, cittadino di Palma, che fece parte del commando che tolse la vita al magistrato. L’evento senza precedenti è stato particolarmente voluto dal sindaco di Palma, Stefano Castellino, neo iscritto al Partito Radicale e lui stesso colpito dalla mafia che gli ha strappato lo zio. "È rivoluzionario che un uomo delle istituzioni ricordi un altro un uomo delle istituzioni assassinato con parole di compassione e inclusione del responsabile di quella morte a fronte del suo cambiamento", ha notato Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno tocchi Caino, che ha proposto la costituzione di una "Lega di Sindaci per il Diritto alla Speranza". Per il giovane sindaco, il bene e il male sono entrambi cittadini di Palma: il bene che ha ispirato la vita di Rosario Livatino, un giudice buono e giusto; il male compiuto da Gaetano Puzzangaro che gli ha tolto la vita e ha segnato la sua stessa vita condannata all’ergastolo senza speranza. Stefano Castellino è convinto che il male compiuto da Gaetano può essere convertito nel bene per altri che oggi hanno l’età che lui aveva quando, illuso dal guadagno facile, dal potere e da un malinteso senso del rispetto, ha scelto la via della violenza. A loro si rivolge Gaetano con una lettera letta dall’avvocato Maria Brucale, che lo segue in tutto e per tutto. "Scegliete di mettere in gioco la parte sana di voi stessi a beneficio delle persone che vi stanno vicino e per la comunità in cui vivete, poiché, mettendo a disposizione la parte migliore di voi, potrete capire il significato dei valori per cui vale la pena di vivere e perfino sacrificare il vostro respiro per ciò che amate". Il nipote di Gaetano, Anthony Puzzangaro, è intervenuto per dire di essere orgoglioso e felice del cambiamento di suo zio e di aver visto nei protagonisti del docufilm "uomini senza speranza che riescono a dare speranza ad altre persone, aiutandole a non intraprendere strade che portano alla morte non solo degli altri ma della loro stessa anima". La proiezione docufilm di Ambrogio Crespi, presente all’evento e commosso nel suo intervento, si è tenuta nel cortile del palazzo comunale affollato di cittadini di Palma. Nel suo intervento, dopo aver ricordato le vittime della mafia onorate della cittadinanza di Palma e che ha conosciuto nel corso della sua vita da magistrato, Santi Consolo ha detto che "gestire il disagio, la sofferenza e l’emergenza è possibile se non si uccide la speranza". "È facile, soprattutto quando siamo travolti dalla paura, dire "pena di morte" o "buttiamo via la chiave". Ma voi credete che uno stato sia civile se a crimini efferati, omicidi, morti risponde con uccisioni di massa? La violenza chiama violenza e quando noi facciamo del male al prossimo quel male torna a noi stessi". "Occorre guardare avanti con coraggio e fiducia e costruire insieme un futuro di accoglienza, solidarietà, giustizia, verità e benessere", ha scritto nel suo messaggio don Giuseppe Livatino, postulatore della causa di beatificazione del giudice ucciso, che da tempo sta seguendo il percorso di riconciliazione di Gaetano Puzzangaro. Il 21 settembre, a Palma di Montechiaro, forse, è iniziata un’altra storia, di segno diverso da quella descritta dalla cronaca degli ultimi decenni. È storia di tolleranza, inclusione, accoglienza e di riscatto di un’intera comunità, alla quale i protagonisti negativi di quegli anni possono tornare per essere non più un pericolo ma una risorsa preziosa. La scelta tra perdono e odio, cioè tra civiltà e istinti di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 settembre 2017 L’incontro di Palma di Montechiaro, e le lettere inviate da alcuni degli assassini di Rosario Livatino, - il "giudice ragazzino" scannato a 38 anni dalla mafia, nel 1990 - sono un fatto straordinario, perché vanno in controtendenza, aprono una speranza. Bisogna essere grati al sindaco di Palma per questa iniziativa. In un’epoca nella quale - sui giornali, in Tv, nei social - la richiesta più gentile, di solito, è quella di gettare in carcere più persone possibile e poi di "buttare via la chiave", una riunione pubblica, in una cittadina siciliana sfregiata da Cosa Nostra, nella quale si chiede dialogo e pacificazione, e non patibolo, era persino un fatto imprevedibile. Così come era imprevedibile che partecipassero i familiari delle vittime, esponenti politici, il vescovo, il capo delle carceri, e sull’altro versante, con le loro lettere, gli autori del delitto. Noi siamo da mesi impegnati su questo tema. La denuncia dell’odio e del suo linguaggio e la richiesta di "riabilitazione" del dialogo come strumento principe della lotta politica. È l’argomento sul quale si sta impegnando in una azione di organizzazione e di ricerca questo giornale e l’intera avvocatura italiana, che nei giorni scorsi ha chiamato al confronto le avvocature dei più importanti paesi dell’Occidente. A Palma ieri si è detto in modo concreto, e clamoroso, che il dialogo può esistere. Che non ci sono limiti al dialogo. E che in una battaglia furibonda come è quella della lotta alla mafia, il dialogo è l’unica arma vincente. Molto più forte della retorica, della ferocia, dell’odio, della richiesta di fedeltà. L’incontro tra le vittime e i sicari - reale o figurato - pone sul tappeto un problema molto complicato, e cioè il problema del perdòno. Il perdòno è una idea complessa, che in genere viene considerata una semplice componente - quasi liturgica o addirittura superstiziosa - delle religioni e in particolare del cristianesimo. Oppure viene liquidata come espressione della debolezza umana, della mancanza di orgoglio, di personalità, di forza morale. Questo modo di pensare non può portare ad altra conclusione che all’odio. Odio e perdòno sono due concetti, e due sentimenti - ma anche due concrete realtà - completamente alternativi e incompatibili. Ieri abbiamo pubblicato su questo giornale alcuni brani di uno dei più bei romanzi dell’ottocento, i Fratelli Karamazov. Vi abbiamo offerto una parte del capitolo chiamato "la leggenda del Grande Inquisitore", nel quale si racconta una favola, quella di Gesù che torna sulla terra e viene accolto da tutti con gioia, e compie miracoli, e conquista l’umanità in un battibaleno. Ma per poco tempo. Il tempo che entri in scena il grande inquisitore o lo arresti. Accusandolo di voler di nuovo dare all’umanità la libertà, mentre la libertà è il male assoluto, e porta alle sofferenze, e impedisce la felicità. Il popolo si schiera con il Grande inquisitore, non con Gesù. Non abbiamo pubblicato però la pagina di Dostoevskij che precede il racconto della leggenda. Nella quale la protagonista è la Madonna, che si scontra addirittura con Dio Padre, in nome del perdono. Ne trascrivo poche righe: "Maria visita l’inferno in compagnia dell’arcangelo Michele. Vuole vedere i peccatori e il loro dolore. Osserva i peccatori in un lago bollente: affogano nelle acque del lago, non possono risalire "Dio li dimentica per sempre". Maria torna subito al trono di Dio, è sconvolta, piange forte, si mette in ginocchio davanti al trono e chiede a Dio pietà per tutti i dannati, lo supplica che li perdoni tutti, senza distinzioni! Ma dio le mostra le mani e i piedi di suo figlio piagati e bucati dai chiodi, e le chiede: "vuoi che perdoni anche i suoi carnefici?". Allora la vergine si inginocchia con tutti i santi, i martiri, gli angeli e gli arcangeli e insieme chiedono pietà per tutti, senza distinzione". Il valore del perdono, come vedete, in Dostoevskij supera tutti gli altri valori. E addirittura porta Maria in conflitto con Dio. E Maria non si tira indietro: in nome del perdono apre il conflitto. Non c’è niente di tenero nel perdòno. O, almeno, non c’è solo tenerezza. Il perdono è una struttura fondante della costruzione sociale. Non è un accessorio. Sostituirlo con l’odio non è un errore "etico", è un errore assolutamente politico. L’odio è l’incapacità di perdonare, è la debolezza. La civiltà è il superamento di questa debolezza. È la sostituzione dell’odio col perdono. E della vendetta col dialogo. Ed è la fine del l’identificazione del conflitto con l’odio. Non è l’epoca giusta per dire queste cose, per tentare questi ragionamenti? Anch’io penso così. Però, per esempio, da Palma, Sicilia profonda, viene una speranza: non vi pare. Le violenze sessuali calano, ma non abbastanza: "denunciare subito" di Giusi Fasano e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 settembre 2017 È un primo passo ma ancora non basta. A dispetto della percezione falsata dai casi di cronaca delle ultime settimane, dall’1 gennaio al 15 settembre di quest’anno il ministero dell’Interno ha registrato 163 violenze sessuali in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Erano 2.936, sono 2.855. Ma su questo fronte la cattiva notizia è che fra i reati di genere - chiamiamoli così - gli stupri in percentuale diminuiscono decisamente meno di tutti gli altri: -2,25%. E invece (sempre nei dati a confronto fra questi primi otto mesi e mezzo e gli stessi del 2016) calano vistosamente i femminicidi. Il 15 di settembre di un anno fa le donne uccise (da gennaio) per mano di fidanzati, mariti, spasimanti o amanti erano 80, oggi l’elenco conta 59 nomi, e cioè 21 in meno: una diminuzione del 26,25%. E ancora: il confronto con il 2016 ci dice che i casi di stalking sono scesi del 18,61%, i maltrattamenti del 12,71%, le percosse del 7,81. Le violenze sono in fondo alla lista con quel 2,25% in meno che vuol dire (se l’andamento sarà mantenuto) arrivare a fine anno con circa 4.000 casi: una enormità, anche se a conti fatti sarebbero oltre 250 in meno rispetto al 2014, anno nero per gli abusi sessuali. La querela e i tempi - I fatti recenti di cronaca - dalle violenze di Rimini a quelle di Firenze, da Noemi uccisa dall’ex fidanzato a Nicolina ammazzata dall’ex di sua madre - hanno messo a fuoco forse più di sempre l’importanza del fattore tempo. Inteso sia come tempo di reazione della vittima sia come tempo di intervento di forze di polizia, magistrati, medici, assistenti sociali, centri antiviolenza. Per dirla con Rita Fabbretti, dirigente della sezione reati contro minori e reati sessuali della questura di Milano, "è fondamentale intervenire subito ed è importantissima la tempestività della denuncia, sia per le indagini sia per aiutare le vittime, anche dal punto di vista psicologico". Mai dimenticare che i casi di maltrattamenti, lesioni e stalking sono spesso sentinelle d’allarme per il femminicidio. E la differenza fra la vita e la morte passa quasi sempre dagli uffici delle procure. Perché ci ritroviamo così di frequente davanti a storie di donne che avevano chiesto aiuto e che però non si sono salvate? Le misure - La risposta parte da una premessa: la Giustizia e il sistema di intervento delle forze dell’ordine si muovono a rallentatore rispetto alle decisioni che in alcune situazioni sarebbe necessario prendere immediatamente. L’esempio ultimo è il caso di Noemi, la 15enne uccisa dal fidanzato vicino Lecce. La madre di lei lo aveva denunciato a maggio ma quel documento è arrivato in procura a luglio, con la posta ordinaria. Dopodiché niente si è comunque mosso. "La verità è che così non funziona" ammette Fabio Roia, magistrato che dal 1991 si occupa di questi argomenti. "Le denunce per questo tipo di reato devono diventare priorità, essere affrontate immediatamente, da professionisti: bisogna sentire le vittime, i testi, studiare il contesto, valutare il rischio. Subito". La vittima può chiedere al questore l’ammonimento del suo stalker. I dati disponibili più recenti dicono che in quel caso quasi l’80% degli ammoniti si ravvede. Se trasgredisce scatta l’arresto, misura prevista anche per lo stalker colto in flagranza. Fino a poco tempo fa la querela per atti persecutori era revocabile soltanto davanti al giudice. Oggi, dopo una recente sentenza della Cassazione, la revoca è possibile anche davanti alle forze di polizia: qualcuno, insomma, che possa verificare che la vittima non agisca sotto ricatto o minaccia del suo persecutore. Valutazione del rischio - La difficoltà più grande nei casi di violenza domestica è valutare il rischio che corrono le vittime. La polizia utilizza Eva, un protocollo ideato dalla dirigente delle volanti di Milano, Maria José Falcicchia, e adottato (da febbraio di quest’anno) in tutt’Italia: scheda tutte le liti e i maltrattamenti in famiglia in un database e rende immediato il recupero dei dati in caso di intervento. Uno strumento utile se si pensa che alla seconda volta è previsto l’arresto. I carabinieri usano una procedura diversa che ha però lo stesso obiettivo: capire se un caso di lesioni o percosse o una semplice lite in famiglia può diventare un reato più grave. Il piano nazionale antiviolenza scaduto a giugno prevedeva l’utilizzo di un altro protocollo, il Sara plus, messo a punto dalla psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry. Tante procedure portano però a dati non omogenei mentre "sarebbe fondamentale che fossero uguali per tutti" dice Rita Fabbretti. Sperando che lo diventino con il nuovo piano antiviolenza L’avvocata Giulia Bongiorno: "Mai concedere sconti di pena" - Interventi immediati, pool specializzati, stop ai riti premiali, ripristino della legge sullo stalking. Per Giulia Bongiorno, penalista, lo stato deve intervenire. E subito: "Le denunce per violenza non devono attendere i tempi lenti della giustizia". "Sono richieste d’aiuto che non possono restare bloccate in un fascicolo come un qualsiasi altro reato. Serve un codice rosso per dare priorità. Anche i femminicidi di questi giorni lo dimostrano: sono morti annunciate. Occorre istituire al più presto una norma che dia priorità assoluta a questi casi". E chiede specializzazioni degli operatori di giustizia, "serve esperienza e sensibilità che può mancare a chi si è solo occupato di corruzione o rapine". Poi punta il dito su giudizi abbreviati e riti che, riducendo le pene, "svuotano del valore preventivo le sanzioni": "Lo Stato deve essere garantista fino a quando non si sa chi è il colpevole, ma è intollerabile uno Stato perdonista". (l.p.) Paolo Ferrara: "Più prevenzione tra i giovani" - Contro le violenze servono azioni di prevenzione e contrasto che puntino sulla formazione e partano dai giovani, maschi e femminine", dice Paolo Ferrara responsabile della Campagna Indifesa di Terre des Hommes che, oltre a occuparsi dei diritti delle bambine, affronta la violenza di genere coinvolgendo le scuole. "Sicurezza e prevenzione non sono disgiunte - dice. Però affrontare la violenza solo dal punto di vista della sicurezza non produce cambiamenti: la maggior parte delle violenze avvengono in famiglia o in situazioni di contiguità affettiva dove difficilmente potrà entrare il controllo poliziesco. Meglio lavorare sul rispetto delle emozioni, proprie e altrui, sulla conoscenza del confine tra il proprio corpo e quello degli altri e sulle libertà, anche di negarsi o concedersi sessualmente. I cambiamenti si hanno quando i giovani sono protagonisti e con la loro creatività diventano anche educatori dei loro pari". Nuovo Codice antimafia: basta un sospetto e scatta il sequestro del denaro di Paolo Emilio Russo Libero, 23 settembre 2017 Basta un sms di troppo, cioè un secondo, per vedersi sequestrato tutto: conti correnti, case, automobili. Quella che sarà in discussione la settimana prossima alla Camera è la legge che più si allontana dal concetto di "garantismo" che sia stata approvata dal Parlamento italiano negli ultimi due decenni. Stiamo parlando della riforma del Codice Antimafia, approvata lo scorso 19 luglio al Senato, in calendario a Montecitorio per l’ultima lettura. La legge scritta dal Pd sotto il controllo dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e sponsorizzata dalle associazioni attive nel campo dell’antimafia è composta da 36 articoli suddivisi in sette capi, è destinata a colpire le organizzazioni (e non solo, come vedremo) nel loro patrimonio. Scritta per colpire duramente chi si macchia di reati associativi legati alla criminalità organizzata, la legge ha visto però ampliare - tra una spola e l’altra tra i due rami del Parlamento - i suoi ambiti di efficacia ad altri tipi di reato, certamente gravi anch’essi, ma sicuramente diversi da quelli per cui era stata scritta. Se il Codice inizialmente prevedeva "misure di prevenzione personali e patrimoniali", cioè sequestri e confische dei beni ai mafiosi da realizzarsi in 24 ore sulla base anche di soli sospetti, queste stesse sono state poi previste prima anche ai corrotti ("indiziati di una serie di reati contro la pubblica amministrazione"), poi a chi prova a truffare lo Stato e l’Unione europea (cioè i "soggetti indiziati in materia di reati di truffa aggravata, anche comunitaria, per il conseguimento di erogazioni pubbliche"), dunque agli aspiranti terroristi ("indiziati di uno dei delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo") e, infine, addirittura, agli stalker. Il reato di "Atti persecutori" introdotto nel nostro ordinamento nel 2009 è molto grave e può salvare molte vite umane (specie di sesso femminile), ma non vi è dubbio che uno stalker difficilmente ha la stessa pericolosità sociale di un mafioso o di un terrorista internazionale. C’è dell’altro. Il reato di stalking consiste in un "insieme di condotte persecutorie ripetute nel tempo come le telefonate, le molestie, i pedinamenti, le minacce che provocano un danno alla vittima incidendo sulle sue abitudini di vita oppure generando un grave stato di ansia o di paura" e dunque lascia un ampio margine discrezionale ai magistrati chiamati a valutare la gravità degli atti che provocano "turbamento". Secondo la Cassazione gli "atti" devono essere almeno tre. Chi è sospettato di Atti persecutori rischia di vedersi confiscato tutto nel giro di poche ore esattamente come un mafioso, di subire lo stesso trattamento. I sequestri possono essere disposti sui conti correnti italiani ed esteri, sui beni mobili, immobili e addirittura sugli esercizi commerciali e sulle aziende. E pensare che proprio questo stesso governo e lo stesso ministro della Giustizia, che era stato sfidante di Matteo Renzi alle primarie per la segreteria del Pd, aveva di fatto depenalizzato lo stesso reato prevedendo la possibilità di estinguerlo "dietro pagamento" di una somma. "Credo che ci siano le condizioni per portare queste legge fino in fondo", diceva pochi giorni fa il Guardasigilli. Ma nello stesso Pd moltissimi hanno sollevato dubbi sull’equiparazione tra reati così diversi e, soprattutto, sulla giustezza di consentire misure interdittive a semplici "sospettati", molto prima che arrivino le condanne. "Estendere le misure antimafia ai reati comuni rischia di mandare a carte quarantotto i principi costituzionali", ha protestato, per esempio, Francesco Paolo Sisto, deputato forzista e giurista. I legali di fiducia di Silvio Berlusconi avrebbero avvertito che, con quel Codice in vigore, l’ex premier avrebbe rischiato il sequestro preventivo delle sue aziende. Analoghe preoccupazioni erano state espresse dal presidente di Confindustria: così, secondo gli industriali, si fermeranno tutti gli appalti. Ma critiche al Codice le ha fatte pure il numero uno dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. La provocazione guadagna spazi: la sanzione può essere ridotta per effetto dell’attenuante di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2017 Anche se la legittima difesa è improponibile, tuttavia può scattare l’attenuante della provocazione. La Corte di cassazione, sentenza n. 43904 depositata ieri, interviene su un tema tradizionalmente delicato e oggetto, anche in questo scorcio di legislatura di proposte di modifica normativa. Nel caso approdato in Cassazione, un uomo era stato condannato a sei anni di carcere per tentato omicidio. Aveva, infatti, sparato a un cittadino rumeno, che si era introdotto nel cortile della casa del padre e stava scassinando la serratura del deposito, provocandogli gravi lesioni. Il riconoscimento dell’esimente della legittima difesa, anche putativa, negato sia in primo grado sia in appello, è stato respinto anche dalla Cassazione. Che ricorda innanzitutto come l’ultimo intervento normativo, datato 2006 con la legge n. 59, ha riguardato solo il concetto di proporzionalità con l’obiettivo di rafforzare il diritto di difesa in un domicilio privato o in un luogo equiparato, rimanendo comunque fermi i requisiti dell’attualità dell’offesa e dell’inevitabilità del ricorso alle armi come strumento di protezione della propria oppure altrui incolumità. In questo contesto, anche l’intervento a tutela della proprietà è giustificabile solo quando non esiste un pericolo attuale per la persona fisica dell’aggredito. Evidente, anche a giudizio della Cassazione, il fatto che, nel caso esaminato, sono del tutto assenti i requisiti del pericolo attuale di un’offesa ingiusta e dell’inevitabilità della difesa: la persona colpita si trovava comunque distante dall’abitazione e non aveva assunto atteggiamenti minacciosi. No anche all’esimente putativa, visto che questa non può avere come perno un criterio solo soggettivo ed essere, quindi, ricavata dal solo stato d’animo di chi ha agito, a prescindere dalla situazione concreta che si era venuta a creare. Però c’è invece spazio per la considerazione di un’attenuante, tale da potere abbassare la sanzione inflitta e che invece non è stata presa in considerazione dai giudici di merito, quella della provocazione. Circostanza che si verifica quando, sottolinea la sentenza, si è in presenza di tre elementi: un fatto ingiusto altrui, lo stato d’ira in relazione alla situazione verificatasi e alla persona che l’ha provocata e l’esistenza di un collegamento tra l’azione e la reazione. E la Cassazione mette in evidenza come, a differenza dell’esimente della legittima difesa che richiede la proporzionalità tra e adeguatezza fra condotte, questi elementi non sono necessari per il riconoscimento dell’attenuante della provocazione. Sproporzione che può tornare in gioco solo se la reazione è "talmente macroscopica" da escludere o lo stato d’ira oppure il collegamento psicologico. E, nel ferimento del cittadino rumeno, uno stato d’ira poteva e, per certi versi, doveva essere valutato, visto che l’imputato aveva subito numerosi furti, l’ultimo solo tre giorni prima del fatto, e che parte della refurtiva di questo precedente reato era poi stato trovato nella camera da letto della vittima. Anestesista violenta la paziente: l’Asl deve pagare i danni Corriere della Sera, 23 settembre 2017 Secondo gli ermellini oltre al medico anche l’Azienda sanitaria è tenuta al risarcimento perché la funzione svolta dall’imputato all’interno della struttura "è stata un presupposto necessario dell’accaduto". Ha diritto a essere risarcita anche dalla Asl la paziente violentata dal medico in ospedale. La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’Azienda sanitaria locale di Rieti che, dopo la condanna definitiva dell’anestesista stupratore, era stata citata in giudizio dalla vittima, a cui assieme al medico aveva dovuto versare un indennizzo di 25 mila euro. Gli abusi - La paziente, peraltro parente dell’anestesista, era ricoverata al San Camillo De Lellis, l’ospedale di Rieti, per essere operata al tunnel carpale. Ma il medico - così la sua denuncia - l’aveva "denudata parzialmente", "toccata nelle parti intime" e "fotografata più volte in pose erotiche" mentre si trovava "in stato di totale incoscienza conseguente al trattamento anestetico subito". "Asl responsabile" - La Asl si è battuta fino in Cassazione per non pagare alcun indennizzo alla vittima, sostenendo che il comportamento tenuto dal medico "nulla ha a che vedere con le funzioni di anestesista affidategli dalla struttura ospedaliera". La terza sezione di piazza Cavour, però, ha respinto il ricorso: "È vero che quanto è accaduto dimostra la totale distorsione della finalità istituzionale in vista dell’esclusivo tornaconto personale ed egoistico, perché il comportamento tenuto dal medico, oggettivamente inqualificabile ed incredibile, è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto anche a un’etica minima della professione sanitaria - si legge nella sentenza depositata oggi - Ciò non toglie, però, che la funzione svolta all’interno dell’ospedale reatino è stata un presupposto necessario dell’accaduto", per cui "la responsabilità" della Asl, in base a quanto previsto dall’articolo 2049 del codice civile (inerente la "responsabilità dei padroni e dei committenti"), "deve essere confermata". Antiriciclaggio. Sanzione alla società se il manager è salvo Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2017 Può essere sanzionata la società per violazione della disciplina antiriciclaggio, anche quando l’illecito si è estinto nei confronti del legale rappresentante. La società poi potrà rivalersi, perseguendo il soggetto responsabile dell’infrazione. Questa la soluzione cui sono approdate le Sezioni unite civili della Corte di cassazione con la sentenza n. 22082 depositata ieri. Respinto così il ricorso presentato dalla difesa di una srl che si era vista infliggere una sanzione pecuniaria per violazione della norma sull’utilizzo dei contanti: aveva, infatti, effettuato transazioni finanziarie con un intermediario, una Cassa di mutualità, privo dell’abilitazione. La difesa aveva sostenuto l’estinzione dell’obbligazione della società, come soggetto vincolato solidalmente, una volta azzerata la contestazione al manager. Sul punto, l’interpretazione da dare all’articolo 14 ultimo comma della n. 689 del 1981, diversi e contrastanti erano gli orientamenti della Cassazione. Ora le Sezioni unite sposano la linea di maggiore rigidità nei confronti della società, puntualizzando che la solidarietà prevista dalla legge non si limita ad assolvere una funzione di sola garanzia, ma ha anche un obiettivo di natura pubblicistica di generale deterrenza nei confronti di tutti, persone fisiche o enti, ha cooperato con il trasgressore rendendo possibile la violazione. La Corte sottolinea come l’individuazione dei soggetti responsabili in solido non è neutra, ma esprime un giudizio del legislatore "di disvalore operato nell’area intermedia tra correalità ed estraneità al fatto". In maniera analoga a quanto previsto sul versante della responsabilità civile aggravata, a fondare l’attribuzione della responsabilità solidale "è la relazione con la res adoperata o il soggetto danneggiante". La possibilità dell’azione di regresso per il totale della sanzione agevola da una parte la repressione e, dall’altra, che gli effetti economici ricadranno in via definitiva sull’autore del fatto. In termini sistematici, poi, ricostruisce la sentenza, forme estese di responsabilità aggravata puntano a dissuadere quelle condotte che possono agevolare la violazione delle norme amministrative. Il principio di personalità non ne esce né contraddetto né attenuato, ma piuttosto ricondotto "alla sua reale e naturale funzione garantistica, che non esclude la visione dell’illecito come fatto di rilevanza sociale piuttosto che quel mero episodio della vita del singolo". Piemonte: la Regione punta sul medico di famiglia anche per i detenuti di Alessandro Mondo La Stampa, 23 settembre 2017 L’assessore Saitta: "Chiederemo al Governo, bisogna rivedere le norme nazionali che regolano l’attività dei medici coinvolti". Le competenze sulla sanità penitenziaria sono state trasferite alle Regioni dal servizio sanitario nazionale. L’assistenza sanitaria, anche nelle carceri, si compone di fattori diversi: compresa la possibilità, per i detenuti, di usufruire del medico di famiglia. È la richiesta che l’assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta, si impegna a portare al Governo. La volontà è emersa al termine dell’incontro per intensificare la collaborazione fra la Regione e l’Amministrazione penitenziaria: con questo obiettivo si sono incontrati l’assessore, il nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta Liberato Guerriero, il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, il Coordinatore regionale della Rete dei servizi sanitari in ambito penitenziario Antonio Pellegrino e i tecnici dell’assessorato. "Il Piemonte è una delle regioni che maggiormente si è occupata della sanità penitenziaria, da quando sono state trasferite le competenze al servizio sanitario nazionale - spiega Saitta, dotandosi lo scorso anno di una rete di coordinamento e garantendo in tutte le carceri non solo i servizi di base ma anche alcune cure specialistiche". Questo non significa che non si possa fare meglio. "In particolare, uno dei problemi è la necessità di rivedere le norme nazionali che regolano l’attività dei medici coinvolti: "La cosa più importante è prevedere che i detenuti abbiano un proprio medico di famiglia in carcere. Porrò questo problema come coordinatore della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e chiedo che anche il Governo si occupi di questo tema". "Sono molto soddisfatto che l’assessore Saitta e i funzionari dell’assessorato abbiano potuto dedicare tempo all’incontro con il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria - sottolinea il Garante dei detenuti Mellano. La Regione ha istituito un gruppo per il monitoraggio dell’attuazione della delibera che ha definito la rete dei servizi e sono stato chiamato a coordinare questo lavoro. In questi giorni stanno giungendo le schede di rilevazione e a breve saranno convocati gli esperti che partecipano alla valutazione per arrivare entro fine anno ad un’analisi della situazione. Si tratta di un’attività complessa ma decisiva per conquistare, almeno dal punto di vista della salute, una carcerazione diversa". Liguria: straniero un detenuto su due, carceri al collasso di Fabrizio Tenerelli Il Giornale, 23 settembre 2017 Il riferimento è al numero di detenuti stranieri nelle carceri liguri, che, dati alla mano, supera quota cinquanta per cento, rispetto ai nostri connazionali che, a conti fatti, sono meno della metà della popolazione carceraria. Col record, tra l’altro, che spetta agli africani. Dell’idea di applicare le convenzioni internazionali, affinché il detenuto straniero - poco importa se africano o europeo - sconti la pena nel proprio Paese di origine: è Michele Lorenzo, segretario nazionale del sindacato della polizia penitenziaria Sappe. "Un detenuto costa, in media, 180 euro al giorno - spiega - e teniamo presente che gli stranieri in Liguria sono 710, su una popolazione carceraria di 1382 detenuti. Un grande risparmio che consentirebbe di investire ulteriori risorse nel potenziamento delle strutture esistenti o di crearne delle nuove, con un occhio in più al personale della polizia penitenziaria, che è sempre più lasciato solo di fronte al crescente numero di reclusi e tutte le difficoltà che ne conseguono". Lorenzo, in particolare, ha ancora il "dente avvelenato" per via della chiusura del carcere di Savona, che ha creato un sovraccarico di detenuti nelle altre carceri liguri. Ma diamo un’occhiata ai numeri. In Liguria sono attivi sei istituti di pena. I detenuti italiani sono 672 e quelli stranieri 710. Il record spetta agli africani che sono 361, contro 222 europei, 31 asiatici, 94 americani e due apolidi. Nel dettaglio: a Sanremo, dati di questa mattina, sono presenti 211 detenuti, di cui 102 italiani e 109 stranieri; Imperia: i detenuti sono 88, con 51 stranieri e 37 italiani. Marassi: 687 reclusi, con 348 stranieri e 339 italiani; Pontedecimo: 132 detenuti, 62 stranieri e 70 italiani; Chiavari: 59 detenuti, 25 stranieri e 34 italiani. Ma quello dell’alto numero di detenuti stranieri non è l’unico problema che affligge la popolazione carceraria ligure. "In soli due giorni - ancora Lorenzo - nel carcere di Sanremo si sono consumati due tentativi di suicidio: uno per impiccagione e l’altro per un mix di farmaci". Prosegue Lorenzo: "È un dato allarmante, dovuto più che al sovraffollamento, che sicuramente comporta un aspetto negativo nella convivenza dei detenuti, alla mancanza di psichiatri negli istituti di pena. Per questo motivo lancio un appello all’assessore regionale alla Sanità, Sonia Viale, affinché si proceda al più presto ad uno screening del personale sanitario nelle carceri liguri, evidenziando eventuali criticità o carenze". Il primo tentativo di suicidio è avvenuto due giorni fa, quando un detenuto ha tentato di impiccarsi ed è stato salvato in extremis dalla polizia penitenziaria. L’uomo è tuttora ricoverato in ospedale per il classico "trauma da impiccagione". L’ultimo, ieri sera, quando un altro recluso ha tentato di togliersi la vita, ingerendo una massiccia quantità di farmaci. Quest’ultimo era da due giorni, a Sanremo, ed aveva appena terminato il periodo di osservazione, con il personale che sottopone sempre ogni nuovo arrivato a visite mediche e test psicologici. A testimonianza che è necessario l’apporto di uno psichiatra in carcere, c’è anche quest’ultimo dato: "Nel corso del 2016, in tutti gli istituti liguri, si sono verificati 1800 eventi critici - conclude il sindacalista del Sappe - che vanno dall’unghia sbucciata all’impiccagione. Cinquecento sono stati gli episodi più seri. Sono dati che devono fare riflettere sulla necessità di garantire un apporto sanitario adeguato". Palermo: le famiglie dei detenuti in corteo per chiedere l’amnistia blogsicilia.it, 23 settembre 2017 Si conclude oggi la seconda edizione di una settimana di iniziative che ha voluto e permesso la ricostruzione della memoria riguardo la rivolta popolare del Sette e Mezzo del 16 settembre 1866 a Palermo, un pezzo della nostra storia sepolta sotto le verità ufficiali. Centinaia di persone di tutte le età hanno partecipato ai diversi eventi che, abbracciando tutte le dimensioni della cultura, hanno fatto riemergere le tradizioni e le radici siciliane. Ieri sera, nonostante i divieti e gli ostacoli posti dalla questura per impedire l’autorizzazione di un evento, in pubblica piazza, di musiche e danze siciliane un fiume di persone ha attraversato, con una festosa parata musicale, le stesse strade in cui i nostri concittadini si sono battuti per la libertà contro lo stato Italiano. Oggi ci si congeda con un corteo popolare per l’Amnistia indetto dalla redazione Antudo.info e dal centro sociale Anomalia e che, partendo alle ore 18.00 da Largo Alfano nel quartiere di Borgo Vecchio, mirerà ad accendere i riflettori sul sovraffollamento delle carceri e le disumane condizioni di vita dei detenuti. "Si continuerà a ripercorrere la storia di quelle giornate in cui i rivoltosi assaltarono il carcere dell’Ucciardone per liberare i detenuti attualizzando, così, una battaglia contro lo strumento punitivo del carcere. Giungendo sino al carcere dell’Ucciardone si rivendicherà, insieme ai detenuti e le loro famiglie, amnistia contro il sovraffollamento, stop alla dispersione dei detenuti affinché la pena venga scontata nella propria città di appartenenza e vengano così evitati alle famiglie gli esosi costi economici che implicano i diversi spostamenti per i colloqui" si legge in una nota. Il corteo, che giungerà al carcere dell’Ucciardone, è stato indetto dal centro sociale Anomalia e dalla redazione Antudo.info. Emmanuele Surdi del centro sociale Anomalia spiega: "Carceri sempre più affollate, condizioni di vita dei detenuti sempre più inumane ci indicano che l’Amnistia è la risposta, oggi più che mai, urgente e necessaria. L’ultima fu concessa nel 1990. Dati alla mano il numero di detenuti in Italia sfiora quota 57mila (56.817),in netto aumento rispetto agli anni precedenti, con un tasso di sovraffollamento pari al 113,2%. Nello specifico poi i detenuti provengono prevalentemente dal meridione d’Italia: 10.029 sono di origine campana, 7.253 sono siciliani e 4.179 sono pugliesi. Pensate che in molte carceri si torna a scendere sotto lo spazio minimo previsto di 3 mq per detenuto e in più del 70% delle carceri le celle sono sprovviste di doccia. Come un bollettino di guerra, ogni giorno i quotidiani ci informano di un nuovo suicidio in cella. Per citarne uno: Maurizio Famà, 38 anni, è l’ennesima vittima di un sistema carcerario disumano. Si è suicidato lo scorso 18 agosto nella Casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto aggiungendosi ai suicidi dall’inizio dell’anno oltre ai 38 morti per altre cause! L’aumento del tasso dei suicidi nelle carceri italiane va di pari passo al peggioramento delle condizioni di vita e igienico sanitarie in cella. Le condizioni dei detenuti sono rese ancora più difficili se si aggiungono trasferimenti fuori dai comuni di residenza dei familiari per i quali si fa molto complesso recarsi ai colloqui. Molte famiglie vivono difficoltà economiche, oppure si tratta di persone anziane con problemi di salute". Milano: Antonino Santapaola malato e al 41bis. Il legale: "non ci dicono come sta" Il Dubbio, 23 settembre 2017 "Non sono ancora note le condizioni di salute di Antonino Santapaola, detenuto al 41 bis nella Casa circondariale di Milano - Opera". Lo afferma in una nota il suo difensore, l’avvocato Giuseppe Lipera, aggiungendo che "nonostante molteplici richieste di informazioni sia al direttore della casa di reclusione ove è detenuto che ai sanitari che lo hanno avuto in cura, ad oggi, trascorsi oltre 23 giorni dal ricovero in ospedale, nessuna risposta è pervenuta". Il legale ricorda che il boss ergastolano, "affetto da gravi patologie, è stato ricoverato il 30 agosto scorso nell’unità operativa complessa di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale San Paolo di Milano per essere poi trasferito il 12 settembre scorso nella quinta divisione di Medicina protetta dello stesso ospedale. Non posso nascondere la mia indignazione. È assolutamente ingiusto, inaccettabile, oltre modo inammissibile e disumano afferma Lipera - non consentire né al difensore né, tanto meno, alla moglie di un uomo - già affetto da malattie gravi e, nonostante questo, sottoposto alla reclusione in regime di 41 bis - di sapere come sta e se è ancora in pericolo di vita". Mantova: in carcere arriva un’altra ispezione, due tentativi di suicidio tra i detenuti Gazzetta di Mantova, 23 settembre 2017 Ancora tensione nel carcere di Mantova. In meno di tre giorni ci sono stati altri due tentativi di suicidio. I detenuti hanno ingoiato delle lamette. Per fortuna la polizia penitenziaria è intervenuta in tempo. Sul fronte della protesta la tensione non accenna a diminuire tant’è vero che sarebbe in arrivo una seconda ispezione ministeriale, dopo quella avvenuta una settimana fa. Nel frattempo anche la Procura si sta muovendo e, a breve, potrebbe iscrivere nel registro degli indagati chi, a vario titolo, ha provocato la rivolta. Sono iniziati i lavori per l’installazione della nuova antenna che permetterebbe di vedere tutti i canali previsti per legge. Nella giornata di ieri era attesi i nuovi televisori ma non sono arrivati. Nei giorni scorsi per cercare di smorzare la protesta che andava avanti ormai da quasi una settimana, è stato deciso il trasferimento in un altro penitenziario dei presunti ideatori della sommossa: si tratta dei capi di due diverse fazioni. Secondo alcune indiscrezioni, in una logica di divisioni per clan, gli albanesi e i rumeni si sarebbero dissociati. Gli ispettori inviati dal ministero hanno comunque potuto verificare la situazione anche se, a quanto pare, stanno per essere effettuati nuovi e più accurati controlli con una seconda ispezione. Siena: il vicesindaco Mancuso visita l’orto dei detenuti di Santo Spirito comune.siena.it, 23 settembre 2017 Da un’idea nata nell’ambito del progetto degli orti sociali e del regolamento per la cura e la rigenerazione dei beni comuni, e grazie alla proficua collaborazione dei volontari del Comitato Siena, anche la Casa circondariale di Santo Spirito ha un suo appezzamento di terra da coltivare a orto. Nella mattina di ieri, il vicesindaco con delega alla Smart City, Fulvio Mancuso, ha fatto visita ai detenuti del carcere senese nel corso della loro ormai quotidiana attività di semina e coltura di sementi e piante, svolta con il tutoraggio di alcuni esperti volontari del Comitato Siena2, in quella che, fino a poco tempo fa, era un’area verde inutilizzata. "L’Amministrazione comunale - ha detto Mancuso - non dimentica nessuno dei suoi cittadini e vuol far sentire la sua vicinanza anche a chi sta scontando un percorso di pena. Questa azione, sviluppata all’interno della casa circondariale grazie alla sensibilità del suo direttore, è coerente con il piano programmatico e operativo di Smart City in ambito di sostenibilità ambientale ed è per questo che l’abbiamo sostenuta fin dalla sua ideazione. L’auspicio è che possa contribuire al recupero dei detenuti e alla loro crescita personale". "Nelson Mandela - ha aggiunto il direttore del carcere, Sergio La Montagna - rievocando la significativa esperienza agricola vissuta negli anni della sua detenzione, diceva che l’orto è l’unica cosa che controlli in prigione e l’idea di essere custode di un pezzo di terra ti dà il gusto della libertà. Attraverso la cura di un orto, inoltre, i detenuti apprendono un’abilità da spendere una volta liberi. Questa iniziativa rappresenta anche uno strumento di educazione ecologica, ambientale e alimentare in grado di riconnettere i detenuti con le radici del cibo e della vita". Ravenna: Dante in carcere, detenuti e studenti alle prese col Sommo Poeta ravennanotizie.it, 23 settembre 2017 Lo spettacolo, "Scenderemo nel gorgo muti", fa parte del cartellone di eventi realizzati dal Comune di Ravenna e andrà in scena sabato 23 settembre. Detenuti e studenti riuniti su un unico palco in omaggio alla poesia di Dante Alighieri. Per il sesto anno consecutivo, il progetto "Dante in carcere" entrerà a far parte degli eventi realizzati dal Comune di Ravenna per il Settembre Dantesco. Grazie all’entusiasmo di Carmelina De Lorenzo, direttrice della Casa Circondariale di Ravenna e della dirigente scolastica del Liceo Classico "Dante Alighieri" Patrizia Ravagli, anche quest’anno andrà in scena uno spettacolo teatrale che metterà in dialogo la città e la sua Casa Circondariale, in una serata dedicata alla riflessione sui grandi temi della poesia dantesca. Lo spettacolo, intitolato "Scenderemo nel gorgo muti" (verso tratto da una famosa poesia di Cesare Pavese), andrà in scena presso la Casa Circondariale di Ravenna domani sera - sabato 23 settembre alle ore 20 circa - e sarà diretto, come negli anni scorsi, dai registi Eugenio Sideri di Lady Godiva Teatro e Mario Battaglia, coordinatori del Laboratorio Teatrale "Sezione Aurea", ed è stato scritto da Iacopo Gardelli. La drammaturgia, che rielabora tra il serio e il faceto i versi della Commedia, racconta di un Dante imprigionato all’Inferno, ormai privo di quella "speranza dell’altezza" che gli garantiva nel poema l’arrivo nell’Empireo. La serata vedrà inoltre la partecipazione del coro di voci bianche Ludus Vocalis, diretto da Elisabetta Agostini. "Scenderemo nel gorgo muti" - regia di Eugenio Sideri (Lady Godiva Teatro) e Mario Battaglia sulla drammaturgia di Iacopo Gardelli - con i detenuti Vanni, Antonio, Ajack, Enxhi, Fabrizio, Matteo, Majid, Taufick, Riccardo, Erik, Nicolas e Davide e con gli studenti Sara "Bertoz", Carlo, Cast, Ilaria, Giovanni, Giulia Giga, Giulia N, Giulio, Sara, Livia e con Enrico "Kike" Caravita. Hanno sostenuto il progetto Bper Banca e Confindustria. Ancona: i Modena City Ramblers in carcere, gran finale Barcarock al Barcaglione Corriere Adriatico, 23 settembre 2017 Grande partecipazione per il Festival Barcarock: canti dal carcere. Ad animare il pubblico non sono solo i ristretti del carcere Barcaglione, ma un numeroso pubblico esterno, che nelle calde giornate estive hanno fatto ingresso in carcere nel cortile dell’ora d’aria. Un festival riuscito - A inaugurare il Festival, la Macina di Gastone Pietrucci, che ha aperto l’anteprima del Monsano folk festival proprio dentro le mura cintate, a seguire la Gang con le loro sonorità folk rock. A chiudere l’edizione del festival, domani alle 15 salirà sul palco del penitenziario di Ancona I Modena City Ramblers per presentare "Mani come rami, ai piedi radici". Pronto lo Spazio Musica - I due organizzatori del festival, Marino Severini della Gang e Francesca Marchetti dell’associazione Art’O soddisfatti dell’iniziativa, tanto che a novembre, sull’onda lunga del Barcarock, si inaugurerà lo Spazio Musica nel carcere, dove i detenuti potranno imparare a suonare i diversi strumenti e creare una rockband interna dove poter suonare e migliorare la loro vita detentiva: utilizzare la musica come un grimaldello per liberare energie positive ed accompagnarli verso un percorso naturale di rieducazione. Da sempre, la musica abita i luoghi della reclusione, memorabile il famoso concerto di Jonny Cash nel carcere di massima sicurezza di Folsom nel 1968, non poche sono le canzoni legate al mondo del carcere; un mondo maledetto quanto fonte di grande ispirazione. Egitto. I frutti prevedibili della penosa realpolitik di Luigi Manconi Il Manifesto, 23 settembre 2017 Nulla è più piccino del compiacersi di aver avuto ragione, quando ciò corrisponda a un torto altrui che comporta guai per tutti. Di conseguenza rivendicare fieramente "l’avevamo detto", a proposito delle relazioni tra Egitto e Italia e del ritorno del nostro ambasciatore al Cairo, lungi dal consolare, rischia di produrre ulteriore frustrazione. Ed è esattamente questo il sentimento che si prova nell’apprendere "le ultime notizie dall’Egitto". Notizie che, ridotte all’osso, possono riassumersi così. Nel pomeriggio dell’altro ieri, 21 settembre, forze di polizia egiziane, accompagnate da ispettori dell’Investment Authority, hanno tentato di mettere i sigilli alla sede dell’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione che - tra l’altro - rappresenta legalmente in Egitto la famiglia di Giulio Regeni. La chiusura degli uffici è stata evitata grazie a un cavillo legale: l’Ecrf è registrata sia come società di avvocati che come compagnia privata, e quindi quel provvedimento, probabilmente valido nei riguardi delle organizzazioni non governative, non ha potuto trovare attuazione. L’atto di ieri è l’ultimo di una lunga serie di pressioni, diciamo così ruvide, ai danni dell’Ecrf: la loro sede era già stata perquisita lo scorso ottobre, con la contestazione che contenesse libri e rapporti sui diversi casi di sparizione forzata registrati in Egitto dal 2013 in poi, e di uno dei loro legali, Ibrahim Metwally, per una settimana erano state fatte perdere le tracce. Nelle stesse ore La Stampa pubblicava il retroscena che sarebbe avvenuto durante i colloqui ad alto livello a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu. Mentre gli alleati del Cairo, come l’Arabia Saudita, si impegnavano a dichiarare che gli errori possono capitare, in situazioni così difficili, ma non devono essere trascinati al punto di compromettere le relazioni internazionali, invitando quindi l’Egitto ad assumersi le proprie responsabilità, i rappresentanti del governo di Al-Sisi opponevano una netta chiusura. E, secondo quanto riportato sempre da La Stampa, questi sarebbero stati alcuni dei commenti che circolavano in quelle ore: "La colpa è di Regeni. Il Cairo non ha fatto nulla di male e gli italiani stanno esagerando la questione". Si tratta, evidentemente, di due fatti assai diversi, ma - a collegarli - è il senso di cupa minaccia che entrambi trasmettono; e l’immagine dell’interlocutore-avversario (il governo di Al-Sisi) che comunicano. L’Egitto di oggi è un regime dispotico, responsabile di aver organizzato (o contribuito a organizzare, o comunque tollerato) 378 "sparizioni" dall’agosto del 2016 all’agosto del 2017. E, come tutti i sistemi illiberali, quello di Al-Sisi vive di una ininterrotta e irriducibile pulsione alla menzogna. A questo regime l’Italia ha voluto dare fiducia: prima ha dichiarato che fosse in atto una crescente cooperazione, sul piano politico-diplomatico e su quello giudiziario, poi ha inviato l’ambasciatore Cantini al Cairo. E la ragione di questa scelta consisterebbe nella possibilità di svolgere un ruolo assai più efficace e incisivo di quanto permetterebbe una sede diplomatica priva del suo titolare. Si è visto. La beffarda e grottesca coincidenza tra la pienezza dei ranghi dell’ambasciata italiana e i messaggi oltraggiosi espressi dagli episodi qui ricordati dimostra come il realismo politico, compulsivamente evocato dai nostri critici, sia solo un espediente retorico e un’etichetta malamente rattoppata. Persino un po’ miserevole. Turchia. Dopo il tentato golpe 200mila persone in carcere, studente un arrestato su tre Quotidiano di Sicilia, 23 settembre 2017 Post-golpe: secondo il ministero Giustizia in carcere 201mila persone. Nella Turchia dello stato d’emergenza il numero dei prigionieri continua a crescere ogni giorno. Una tendenza dove non fanno eccezione nemmeno gli studenti che rappresentano un terzo della popolazione carceraria complessiva del paese. Secondo i dati comunicati dal ministero della Giustizia, lo scorso agosto si contavano in carcere oltre 201mila persone, un numero che include circa 70mila studenti, sia liceali che universitari. Il dato, estremamente inquietante, sugli studenti in carcere è stato annunciato dal ministero della Giustizia in risposta ad una interrogazione parlamentare presentata questo mese dalla deputata dell’opposizione Gamze Akkus Ilgezdi (Partito repubblicano del popolo, Chp). Ma il numero comunicato si riferirebbe solo al dicembre 2016, quindi la cifra reale potrebbe risultare di gran lunga superiore, anche perché include solamente gli studenti effettivamente iscritti e non quelli che hanno congelato la propria posizione. Commentando la risposta fornita dal ministero, la parlamentare Chp ha ricordato che oltre questo dato di per sé allarmante va considerato che lo stato di detenzione - spesso molto lungo - limita fortemente il diritto allo studio degli studenti, anche perché nella maggior parte dei casi le strutture carcerarie non hanno spazi dedicati agli studenti, una biblioteca o un collegamento a internet. Inoltre, non potendo partecipare ai corsi obbligatori, gli studenti vengono bocciati per mancanza di frequenza, mentre spesso non riescono a dare esami perché le prigioni non forniscono la possibilità di trasferta, oppure vengono semplicemente espulsi dalle scuole e università frequentate, a causa della situazione in cui si trovano. I motivi dei fermi e degli arresti che colpiscono gli studenti sono svariati, ma aver protestato contro il governo, essere accusati di una affiliazione terroristica o aver condiviso nei social media dei post o altro materiale critico nei confronti dell’esecutivo emergono come principale causa di detenzione. In Turchia ci sono attualmente 381 prigioni, 38 delle quali costruite nel 2016. La tendenza è in evidente crescita, con ben 11 nuove strutture carcerarie inaugurate tra giugno e agosto. Ed in totale accordo con il clima delle purghe di massa che proseguono dall’estate 2016. Turchia. A Istanbul uccisa un’attivista siriana e la figlia giornalista di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 settembre 2017 Sono state trovate morte giovedì 21 settembre nella loro casa ad Uskudar, nella Istanbul asiatica, Arouba Barakat, 60 anni, e la figlia Halla, 22 anni, giornalista critica del regime di Assad. A far scoprire i cadaveri sono stati colleghi della ragazza che, allarmati dalla sua assenza dal lavoro, hanno avvisato la polizia. Sale così a cinque il numero dei reporter siriani uccisi in Turchia negli ultimi anni mentre un sesto è sopravvissuto a ben due attacchi. Recentemente le due donne avevano ricevuto minacce di morte. Halla collaborava con l’edizione araba di Huffington post, con la TV turca Trt e con Orient TV mentre la madre era un membro del Consiglio Nazionale Siriano e, negli anni ‘80, si era opposta con grande coraggio al regime siriano prima a Hafez al Assad e poi a suo figlio Bachar che gli è succeduto nel 2000. Dopo l’esplosione della guerra civile siriana Orouba aveva chiesto asilo politico in Gran Bretagna, poi negli Emirati Arabi e infine si era stabilita con la figlia ad Istanbul. Secondo gli investigatori l’omicidio risale a quattro giorni fa. Le due donne sono state strangolate e chi le ha uccise ha poi infierito sui cadaveri con un’arma da taglio. Gli assassini prima di lasciare il luogo del delitto hanno cosparso di detersivo i cadaveri per evitare che l’odore allertasse i vicini. Su Facebook la sorella di Arouba, Shaza, ha parlato di "un assassinio compiuto dall’ingiustizia e dalla tirannia" mentre ad Istanbul la coalizione nazionale dell’opposizione siriana ha reso omaggio alle due donne e denunciato "un omicidio atroce" da "imputare al terrorismo e alla tirannia". Dall’inizio del conflitto siriano, nel marzo del 2011, più di tre milioni di cittadini sono fuggiti dal paese per rifugiarsi in Turchia. Filippine. Duterte contro il figlio "giustizierò anche lui se traffica droga" di Raimondo Bultrini La Repubblica, 23 settembre 2017 Paolo Duterte, figlio del presidente filippino, è stato accusato da un avversario politico di aver favorito l’ingresso nel Paese di metanfetamine per un valore di 125 milioni di dollari. "Ho detto a Pulong: ‘Il mio ordine è quello di ucciderti se sei coinvolto (nei traffici di droga). E proteggerò la polizia che ti ucciderà, se è vero". Pulong è il soprannome di famiglia di Paolo Duterte, figlio 42enne del presidente delle Filippine Rodrigo, celebre in tutto il mondo per la sua campagna contro gli stupefacenti che ha portato a una impressionante serie di omicidi extragiudiziari di presunti spacciatori e boss della droga. Il brutale annuncio di Duterte padre è in linea con diverse altre sue dichiarazioni rese già durante la vittoriosa campagna elettorale di un anno fa, quando disse testualmente che "nessuno dei miei figli è legato alle droghe, ma se così fosse il mio ordine è di ucciderli anche se sono membri della mia famiglia". Questo clamoroso caso familiare e politico arriva nel momento di massima divisione nella società filippina tra i sostenitori del presidente-giustiziere e quanti protestano per il clima di terrore creato dalle sue campagne antidroga con oltre 7000 vittime, come hanno dimostrato ieri i due grandi cortei pro e contro Duterte nelle strade di Manila. All’inizio del mese Paolo "Pulong", vicesindaco della città meridionale di Davao guidata prima dal padre e ora dalla sorella Sara, era stato convocato assieme a suo cognato Manases Carpio, marito di Sara, da una commissione d’indagine del Senato che lo sospetta di essere membro di una potente triade cinese che avrebbe contrabbandato nelle Filippine una tonnellata di metanfetamine del valore di 125 milioni di dollari. Durante l’udienza i due hanno negato ogni accusa, ma Paolo si è rifiutato di mostrare ai commissari il tatuaggio sulla schiena di un dragone con dei caratteri cinesi che secondo il senatore Antonio Trillanes è una sorta di codice segreto d’appartenenza alla Triade, ribattezzata nelle Filippine "Davao group". Trillanes è lo stesso politico che fin dall’inizio della nuova presidenza tentò di screditare come "false e fuorvianti" le campagne antidroga di Duterte, denunciando una serie di conti bancari segreti intestati anche alla figlia Sara e provenienti secondo lui da operazioni illegali connesse ai traffici di droga. Da allora Trillanes è una perenne spina nel fianco di Duterte e uno dei principali leader del movimento popolare sostenuto anche dalla chiesa cattolica, che lo accusa di aver trasformato il grande arcipelago in una dittatura simile "a quella del nazismo di Hitler", paragone che il presidente-giustiziere ha accettato e rilanciato in uno dei suoi provocatori discorsi sulla necessità di usare ogni mezzo contro la droga. Il leader filippino ha però sempre negato di aver iniziato personalmente la campagna di giustizia sommaria fin da quando era sindaco di Davao, anche se in un’occasione disse perfino di aver ucciso con le sue mani tre sospetti trafficanti. Fu sempre Trillanes a rendere pubblica la clamorosa testimonianza di Arturo Lascanas, un vigilantes ex membro delle Davao Death Squad (Dds), o squadre della morte istituite secondo diversi testimoni proprio da Duterte tra gli anni 80 e il 2016. Le indagini del Senato contro suo figlio Paolo presero le mosse dalle testimonianze di un ex agente di polizia e di un trafficante pentito che fecero il suo nome come "mente" di un sindacato criminale coinvolto anche nel contrabbando di auto e beni di lusso. Ma è stato sempre Trillanes, a sua volta sospettato da Duterte di essere un politico corrotto, ad assumersi la responsabilità delle accuse. "O lo distruggo io - ha detto due giorni fa il presidente - o lui mi distruggerà". Nel frattempo il battagliero senatore, che fu a capo di un tentato golpe di ufficiali contro la ex presidente Gloria Arroyo, ha annunciato l’intenzione di lasciare la politica quando scadrà il suo termine nel 2019 per timore della sua incolumità. "So che qui la mia vita è in gioco", ha detto. Non è improbabile che la sfida tra i due continuerà a colpi di manifestazioni di piazza e dichiarazioni emotive. Come l’ultima battuta con la quale Duterte ha annunciato l’intenzione di andare avanti nella sua battaglia costi quel che costi. "Nessuno potrà dire niente contro di me - ha sostenuto - Loro (i miei nemici, ndr) continuano a parlare. Questo è il cadavere di mio figlio". Stati Uniti. Sordomuto ucciso in casa dalla polizia, oltre 700 le vittime da inizio anno di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 23 settembre 2017 L’uomo non aveva risposto agli ordini. Il racconto dei vicini di casa è di quelli che fanno gelare il sangue: "Tutto è durato pochissimo, al massimo un paio di minuti, sono entrati nel suo appartamento, ci sono state delle urla e poi lo hanno ucciso come un verme. Non è stata una perquisizione, è stata un’esecuzione". Una morte crudele e incomprensibile quella del 35enne Magdiel Sanchez, abbattuto nel salotto di casa da una squadra di polizia di Oklahoma city. Gli hanno sparato addosso perché non rispondeva agli ordini che gli stavano intimando, ma lui non poteva farlo perché era sordomuto; come racconta il New York Times i suoi famigliari e gli stessi vicini di casa hanno provato a dirlo a quegli agenti invasati, ma non c’è stato modo. Prima lo hanno colpito con una scarica di taser, poi il colpo di pistola, fatale, sparato a una decina di metri di distanza dal sergente Christopher Barnes. Quando è arrivata l’ambulanza con i soccorsi Sanchez è stato dichiarato morto sul posto. Cosa ha spinto i poliziotti a sparare? Mentre gli agenti gli urlavano di mettersi a terra con le mani sopra la testa, Sanchez aveva in mano una piccola asta di metallo rivestita di cuoio, non era un arma ma una specie di feticcio che si portava sempre dietro. "Non si separava mai da quell’asticella, neanche sotto la pioggia, lo usava per allontanare i cani randagi e per comunicare con le persone del quartiere, probabilmente anche con gli agenti che lo hanno abbattuto", scrive ancora il Nyt riportando la testimonianza di Julio Rayos, dirimpettaio di Sanchez. La catena di eventi che ha portato alla morte del povero Sanchez è decisamente assurda: la polizia era alla ricerca di un uomo che aveva abbandonato il luogo di un incidente stradale; un testimone ha riferito il numero di targa alla polizia che in poco tempo è risalita all’indirizzo. Solo che alla guida del camion fuggito non c’era Magdiel Sanchez ma il padre, peraltro non ancora rientrato in casa. Nella feroce concitazione del blitz non c’è stata la possibilità di spiegarlo ai poliziotti. "Non sappiamo ancora perché Barnes abbia esploso quel colpo, stiamo indagando", ha detto in conferenza stampa Bo Matthews, capo della polizia di Oklahoma city, specificando che gli agenti non conoscevano il linguaggio dei segni. Per il momento il sergente Barnes è finito sostto inchiesta ed è stato sospeso dal servizio in congedo amministrativo retribuito. "Magdiel Sanchez non ha commesso alcun crimine ma è stato barbaramente giustiziato. Il solo fatto di non rispondere a delle istruzioni non può giustificare un omicidio, perché l’ordine di un agente non può contare più della vita di un individuo. Come società civile dobbiamo pretendere che i nostri ufficiali siano selezionati e addestrati per proteggerci e non per farci correre dei pericoli", tuona Allie Shinn, responsabile dell’Associazione di difesa delle libertà civili (Aclu) che punta il dito sulla cultura della violenza e sull’impreparazione delle forze dell’ordine Usa, protagoniste di un’escalation di uccisioni ingiustificate avvenute nel corso di banali controlli. Magdiel Sanchez è la 712esima persona uccisa dalla polizia d’oltreoceano dall’inizio del 2017 secondo il database Post’s Fatal Force, reso pubblico ogni anno dal Washington Post, una media di tre persone al giorno. Nel 2016 erano un terzo di meno.