Riforma dell’Ordinamento penitenziario, in arrivo le bozze dei decreti attuativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2017 Un primo obiettivo dei criteri direttivi è l’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione, anche attraverso la semplificazione delle procedure. A fine mese giungeranno a palazzo Chigi tutte le bozze dei decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. A darne notizia è stato lo stesso ministro della giustizia Orlando durante un incontro con l’esponente del partito radicale Rita Bernardini e il giornalista, già direttore di radio radicale, Massimo Bordin. Le tre Commissioni, istituite il 20 luglio scorso dal Guardasigilli per redigere i decreti, hanno lavorato incessantemente e hanno finito prima del tempo previsto per il 31 dicembre. Fondamentale è stata la pressione, su iniziativa del Partito Radicale, del Satyagraha. Parliamo dell’iniziativa violenta indetta il 16 agosto scorso e che sta vedendo protagonisti 9338 detenuti, compresi 401 cittadini liberi. Un’iniziativa che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello. Quindi, se tutto andrà come previsto, entro tempi brevi si attuerà una radicale modifica dell’ordinamento penitenziario. Il provvedimento definitivamente approvato il 14 giugno dalla Camera, e intitolato "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", contiene un’ampia delega al Governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Un primo obiettivo che traspare dalla lettura dei criteri direttivi è quello dell’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione, anche attraverso la semplificazione delle procedure di accesso. Ci sarà la semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione; la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; la revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza; la previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria. Sempre nel senso di un utilizzo della pena detentiva come extrema ratio, si prevede il superamento degli automatismi che precludono o limitano l’accesso alle forme extra-murarie di esecuzione della pena detentiva a categorie di detenuti che si presumono pericolosi, anche in relazione ai casi dell’ergastolo ostativo. Un secondo obiettivo perseguito dal legislatore è una profonda riforma dell’esecuzione intramuraria della pena detentiva. A questo fine, il provvedimento contiene un lungo elenco di criteri relativi all’incremento delle opportunità di lavoro, alla valorizzazione del volontariato, al mantenimento delle relazioni familiari anche attraverso l’utilizzo di collegamenti via Skype, al riordino della medicina penitenziaria, al riconoscimento del diritto all’affettività, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri, al rafforzamento della libertà di culto. Tra questi merita un’attenzione la previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative. Una vera e propria rivoluzione dell’ordinamento penitenziario. Tutti punti che entro fine mese, stando alle parole del guardasigilli, avranno delle direttive e saranno, si spera, al più presto approvate dal consiglio dei ministri. L’Italia se ne frega della Corte europea dei diritti umani di Andrea Fioravanti linkiesta.it, 22 settembre 2017 Siamo il primo paese europeo con sentenze Cedu non eseguite. Dal sovraffollamento delle carceri alla detenzione illegale nei Cie, il nostro Pase non si adegua abbastanza per tutelare i diritti umani. Almeno diminuiscono i processi e i risarcimenti. Subiamo condanne per non aver rispettato i diritti umani, accumuliamo milioni di risarcimento ogni anno, non li paghiamo in tempo, né aggiorniamo velocemente le nostre leggi. E il "gioco" ricomincia. L’Italia è il primo paese con più sentenze della Corte europea dei diritti umani non eseguite. Secondo una tabella elaborata da Politico, su 9944 sentenze Cedu non implementate, 2219 riguardano l’Italia: il 22,3%. Per capirci, una su cinque. Distanza siderale rispetto a Francia con 56 sentenze non eseguite e Germania con solo 17. Stati non proprio famosi per il rispetto dei diritti umani come Russia (1540) e Turchia (1342) sono più virtuosi di noi. Insomma, facciamo peggio di tutti e 47 i Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa. Dal 1949 l’Italia fa parte di questa organizzazione internazionale, che non c’entra nulla con l’Unione europea, creata per tutelare i diritti umani in Europa. E la Cedu, dal 1959, è la sua corte di giustizia alla quale tutti i cittadini dei 47 Paesi membri possono adire quando credono di aver subito una violazione dei propri diritti. Come ha fatto Silvio Berlusconi ricorrendo contro la Legge Severino che lo ha interdetto dai pubblici uffici dopo la sua condanna per frode fiscale. La corte con sede a Strasburgo pronuncia le sentenze basandosi sulla convenzione europea dei diritti dell’uomo firmata a Roma il 4 novembre del 1950. L’articolo 46 vincola gli Stati ad adeguarsi alle sentenze della Cedu: risarcendo con una "equa compensazione" chi vince la causa e, nel caso, imponendo ai governi di modificare o aggiornare una legge per tutelare in futuro chi subirà una violazione del diritto umano in questione. Non importa come nel dettaglio, purché lo faccia. Lo Stato deve conformarsi quindi e anche velocemente e ha al massimo sei mesi per comunicare quali misure ha adottato o intende adottare. Se non lo fa, interviene il comitato dei Ministri, l’organo decisionale del Consiglio d’Europa, con dei richiami. Il 94% delle sentenze non eseguite (2105) sono o classificate come "enhanced" cioè hanno bisogno di azioni urgenti o riguardano cambi fondamentali nel sistema. Lo stesso comitato dei Ministri ci ha inserito nel gruppo di Paesi con problemi strutturali, alcuni non risolti da oltre dieci anni. Con noi ci sono anche Russia, Ungheria e Moldavia. Nel nono rapporto sull’implementazione delle sentenze Cedu, pubblicato a giugno, il cdm segnala le sentenze italiane più gravi non eseguite. Non si tratta solo di leggi non approvate. Spesso il governo italiano è intervenuto modificando delle o adottando dei provvedimenti per rispondere alle sentenze della Cedu, ma non ha fatto abbastanza. Come nel caso del sovraffollamento delle carceri. Per il Consiglio d’Europa nonostante la legge Sono ancora tanti gli istituti di pena che "operano al di sopra delle loro capacità". A partire dal caso Richmond Yaw e altri c. Italia del 6 ottobre 2016 sull’ingiusta detenzione presso i Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione). Secondo la Corte manca una legge adeguata perché i risarcimenti si possono solo chiedere in un processo penale e sono troppo lenti i tempi di attesa per decidere se un rifugiato debba restare o meno nel Cie. Non si tratta solo di leggi non approvate. Spesso il governo italiano è intervenuto modificando o adottando dei provvedimenti per rispondere alle sentenze della Cedu, ma non ha fatto abbastanza. Come nel caso del sovraffollamento delle carceri. Il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva applaudito alla riforma voluta dal ministro Orlando per rimediare alle dure condizioni dei detenuti dopo la sentenza Torreggiani v Italia del 2013, definendola addirittura un "modello da seguire". Ma secondo un report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), pubblicato l’8 settembre il problema del sovraffollamento nelle carceri non sembra risolto. Sono ancora tanti secondo il report, gli istituti di pena che "operano al di sopra delle loro capacità". Non solo carceri. Dal 5 luglio l’Italia ha finalmente una legge sul reato di tortura e il Governo ha risarcito quasi tutti i 163 ricorrenti che hanno subito delle violenze nella caserma Diaz durante il vertice G8 di Genova del 2001. Ma non basta. La stessa presidenza del Consiglio dei ministri ammette nella relazione presentata al Parlamento il 1° settembre, che bisogna ancora adeguarsi perfettamente alla sentenza Cestaro del 2015, per evitare un’altra condanna legata alla violazione del reato di tortura (Art. 3). Negli ultimi tre anni il governo italiano sta cercando di smaltire l’enorme mole di sentenze non attuate. Secondo la relazione siamo finalmente usciti dalla classifica dei dieci Stati del Consiglio d’Europa con più condanne. Con "sole" 15 sentenze nel 2016, siamo passati da decimi a quindicesimi. Se diminuiscono i processi contro l’Italia, lo fanno anche i risarcimenti: dai 77 milioni di euro versati nel 2015, l’Italia è scesa a quasi 16 milioni nel 2016. Ci sono ambiti dove il Governo si è finalmente adeguato alle sentenze della corte di Strasburgo. Per esempio sulle espulsioni di massa dei migranti verso la Libia, giudicate dalla Cedu una violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Roma. Il faldone Italia è ancora corposo (i casi contro il nostro Paese sono il 7,8% del totale) ma secondo il Governo italiano la maggior parte riguarda l’eccessiva durata dei processi o l’insufficienza degli indennizzi Pinto, la legge che regola il risarcimento nei casi di violazione dei diritti umani. I provvedimenti in questo caso sono stati aggiornati e i casi simili saranno progressivamente chiusi. La repubblica del sospetto di Beniamino Migliucci Il Mattino, 22 settembre 2017 Se quanto prospettato l’altro ieri nell’amaro articolo di fondo del direttore Barbano si realizzasse davvero, ci troveremmo difronte ad una delle pagine più mortificanti della nostra democrazia. Una legge (quella sul codice antimafia e sulle misure di prevenzione) che si sa essere inutile, pericolosa e contraria alle più elementari regole del buon senso e del diritto, e che tanto l’Accademia che autorevoli rappresentanti della magistratura hanno valutato negativamente, viene approvata dal Parlamento con l’assicurazione, tuttavia, che presto sarà di fatto eliminata dall’ordinamento. E tutto questo per soddisfare un populismo giudiziario che solo a parole si dice di volere contrastare e che invece finisce con l’ispirare ogni provvedimento in materia di giustizia. D’altro canto non c’è da meravigliarsi più di nulla, dopo la doppia fiducia imposta a Camera e Senato sulla riforma del codici penali. Conta, di fronte ad una opinione pubblica frastornata, mostrarsi attivi, appuntarsi sul petto medaglie di efficientismo, impreziosite da una vena di giustizialismo che, nel caso, consentirà di ampliare misure ingiuste, retaggio di un’epoca autoritaria, e di introdurre equiparazioni pericolose fra fattispecie di reati e contesti di illecito che nulla hanno a che vedere con il fenomeno mafioso. Le regole del "giusto processo" danno fastidio e vengono oramai considerate un ostacolo: meglio aggirarne le norme e i principi ispiratori, meglio consentire confische e misure personali che si risolvono in vere sanzioni senza processo, applicate magari nei confronti di chi è già stato processato e assolto. Non importa se nel procedimento di prevenzione si è costretti a preparare una difesa in solo 10 giorni, magari a fronte di una domanda costruita su decine di migliaia di atti, pazienza se non vi è un vero diritto alla prova, o se le impugnazioni, i cui limiti di ammissibilità sono peraltro assai ristretti, vanno proposte in quegli stessi pochi giorni. A chi interessa che sia sufficiente il sospetto per incidere nella vita e nei patrimoni delle persone. Equazioni semplicistiche aprono la strada a simili riforme: poiché noi abbiamo la criminalità organizzata ogni risposta deve essere possibile, il fine giustifica i mezzi, anche quello di estendere a soggetti ed a reati che nulla hanno a che vedere con la eccezionalità di quegli originari contesti criminali, norme che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha di recente giudicato eccessivamente "discrezionali", "arbitrarie" ed "inadeguate agli standard convenzionali". Sordi agli appelli della dottrina e dell’avvocatura (riunite in un importante convegno tenutosi di recente a Salerno, dove si sono espressi criticamente giuristi del calibro di Giovanni Fiandaca, Vincenzo Maiello, Giovanni Verde, Vittorio Manes, ed altri) la politica ha oramai trovato nella legislazione penale lo strumento ideale di governo delle pulsioni popolari, di produzione di facile consenso, trasformando i codici e le norme penali in una merce di scambio, in una moneta che ha oramai corso presso ogni schieramento politico. Mentre svalutata del tutto sembra essere la politica del coraggio, della costruzione faticosa di nuovi spazi, di nuovi diritti e di nuove tutele, proprie di un moderno stato di diritto. Mentre si approvano norme destabilizzanti ed inique come quelle del codice antimafia, stentano a farsi strada leggi impegnative come quella sullo ius soli o sulla morte assistita, o una decente legge sulla tortura, solo perché minano il consenso elettorale, per non dire poi delle norme sui "magistrati in politica" che navigano da anni tra i cassetti delle diverse commissioni senza mai trovare un qualche approdo. Ma non fa nulla, una volta approvata quella legge, si troverà poi il modo di neutralizzarla, anzi sembra essere stato già trovato. D’altro canto la politica non è l’arte del possibile? E allora suvvia non sottilizzate troppo, non disturbate il manovratore; quanto alle regole della democrazia, si sa che sono sempre plasmabili a piacimento. La forza preoccupante delle idee illiberali di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 22 settembre 2017 Una "sindrome da sottosviluppo" ha colpito le menti di tanti, non solo al Sud: un insieme di atteggiamenti che indicano la volontà di prendere congedo dalla modernità. Forse la fine della più grave crisi economica del dopoguerra ridimensionerà, magari anche drasticamente, in altri Paesi europei, il peso dei movimenti impropriamente definiti populisti ma che è meglio definire "antisistema" (nemici della società libera o aperta). Ma è dubbio che tale ridimensionamento sarà possibile in Italia. Per un insieme di ragioni che hanno a che fare con il nostro passato sia lontano che recente. Da noi l’avversione per la società libera, per l’ordine liberale, è sempre stata potentemente diffusa. Non si può dimenticare che l’Italia, fin dalla sua rinascita democratica, e per tutta la Guerra fredda, ha goduto del dubbio privilegio di avere il più forte partito comunista d’Occidente. Se si sommano i voti dell’estrema sinistra e della estrema destra di allora, risulta che la quota di elettori che votavano per partiti ideologicamente e programmaticamente illiberali non fu mai inferiore al trenta per cento del totale. Si aggiunga che, soprattutto negli anni Cinquanta/Sessanta, nella Dc e nel Psi erano presenti correnti di minoranza, anch’esse a vario titolo illiberali. Date le preferenze di una così ampia parte di italiani, ciò che salvò la nostra fragile e zoppicante democrazia, ciò che impedì che essa venisse sostituita da una qualche forma di corporativismo autoritario (magari al termine di una guerra civile), fu l’ancoraggio internazionale, il fatto che la Guerra fredda ci "inchiodò" al blocco occidentale, ci costrinse ad accettarne regole e costumi. Se si guarda alle percentuali che i sondaggi assegnano oggi alle formazioni illiberali di varie e variopinte tendenze si ottengono percentuali non dissimili da quelle che premiavano i partiti illiberali della Prima Repubblica. Sono cambiate le motivazioni ideologiche ma non le pulsioni e gli orientamenti di fondo, coperti, giustificati e (più o meno) nobilitati da quelle motivazioni. C’è dunque una costante storica. Ma a essa si sono aggiunti, in epoca più recente, altri fattori che, anch’essi, alimentano le propensioni illiberali di una parte cospicua di nostri concittadini. Facciamo un rapido elenco. Si sono definitivamente consumate le illusioni - che c’erano nei primi decenni dell’età repubblicana - di potere un giorno azzerare il divario fra Nord e Sud (un terzo del territorio nazionale), di risolvere la questione meridionale. Nessuno ci crede più. Pensare che questa fine delle illusioni non abbia conseguenze destabilizzanti, che il Sud non alimenterà forme di rancoroso ribellismo, è sbagliato. C’è poi una più generale "sindrome da sottosviluppo" che ha colpito le menti di tanti, non solo al Sud. Per sindrome da sottosviluppo intendo un insieme di atteggiamenti che indicano la volontà di prendere congedo dalla modernità. È una sindrome incompatibile con le esigenze di una società libera (e quindi anche prospera e dinamica). Ha due principali cause: una prolungata stagnazione economica e un sistema di istruzione che, in diverse parti del Paese, è inceppato, capace più di sfornare diplomi, pezzi di carta, che conoscenze. La combinazione di questi fattori spiega la diffusione di atteggiamenti anti-industriali (spacciati per sensibilità ecologica) e di incomprensione/avversione per la scienza e il progresso tecnico-scientifico. In un Paese che si de-industrializza si diffondono atteggiamenti del tipo "uva acerba": "Sai che ti dico? Non ci interessa più un Paese industriale moderno. Fa male alla salute". Guardate certe sentenze dei Tar quando sono in gioco investimenti e attività industriali e vi accorgerete di quanto sia diffusa questa sindrome. Anche l’altro baluardo di una società moderna, la scienza, da noi è sotto attacco. La vicenda dei vaccini docet. D’altra parte, un sistema educativo poco selettivo, che diploma anche coloro che, per preparazione, non ne avrebbero diritto, perché dovrebbe permettere alle persone di apprezzare una cosa complicata come la scienza? Senza contare il fatto che da noi sono troppo pochi, tradizionalmente, i laureati in materie scientifiche e quei pochi non riescono a fare massa, non riescono a influenzare le opinioni dominanti. Proprio perché la sindrome da sottosviluppo ha scavato così a fondo, ad esempio, è stato preso sul serio da tanti il "principio di precauzione": l’arma ideologica escogitata per fermare l’innovazione tecnica, l’idea, ridicola e assurda, che non si possa fare alcunché senza essersi prima assicurati di avere abolito ogni rischio. I rischi, naturalmente, non possono mai essere eliminati del tutto, la vita stessa è un rischio. Invece, il progresso tecnico-scientifico può essere benissimo eliminato, o quanto meno ritardato, a colpi di ideologia. Oltre alla sindrome da sottosviluppo, da alcuni decenni, fornisce argomenti ai nemici della società aperta anche il circo mediatico-giudiziario. Il suo incessante operare ha prodotto due conseguenze: ha annullato, in primo luogo, nella coscienza di tanti, il principio fondamentale su cui si regge la società libera, la distinzione e la separazione fra il "peccato" e il "reato", fra l’etica e il diritto. Ha convinto molti, in secondo luogo, che la politica rappresentativa sia in mano ai corrotti e che occorra quindi ristabilire - contro la politica rappresentativa - il governo della virtù. Non c’è nemmeno bisogno di rifarsi al "principio di precauzione". Non ci sono rischi, solo certezze: qualunque cosa accada negli altri Paesi europei, in Italia i nemici dell’ordine liberale continueranno a essere davvero tanti. Giustizia: tutti contro tutti, indagato il Presidente dell’Anm Albamonte di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 22 settembre 2017 La notizia che il Presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, sia stato indagato per falso e abuso d’ufficio, è una buona o una cattiva notizia? Si potrebbe dire che è buona perché dimostra che nella giustizia non vi sono santuari. Per me è però pessima. Conferma che la giustizia è avviata a diventare un carnevale permanente. Il permanente festival della giustizia offre, oggi, un nuovo appassionante spettacolo: è indagato il Presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, sostituto procuratore della Repubblica a Roma. La notizia segue quella della indagine a carico del sostituto procuratore della repubblica di Napoli, Woodkock, cui ormai da qualche mese è dedicato ampio spazio sui quotidiani. È una buona o una cattiva notizia? Si potrebbe dire che è buona perché dimostra che nella giustizia non vi sono santuari. Conferma che la legge è uguale per tutti e che non vi sono cittadini più uguali degli altri. Ciò a parte il fatto che, come si è detto più volte, l’esistenza di una indagine non equivale affatto ad un giudizio di colpevolezza. Per me è una pessima notizia. Conferma che la giustizia è avviata a diventare un carnevale permanente, nel quale diventa sempre più difficile distinguere buoni e cattivi. Guardie e ladri diventano categorie interscambiabili in un clima di generale confusione, in cui i contorni sfumano e, ai giudizi di valore, si sostituiscono gli odi di parte. Il fatto che possa entrare, nel sentire comune, l’idea che anche i magistrati che indagano commettono reati, proprio funzionali alle indagini e ad un esito precostituito, costituisce una ferita alla immagine ed alla credibilità della giustizia, che nemmeno le auspicabili assoluzioni potranno rimarginare. Tuttavia, era al tempo stesso inevitabile che una giustizia sempre più ridotta a spettacolo e strumentalizzata a fini di lotta politica o di lotta economica finisse con il divorare anche i suoi protagonisti. Il prestigio e la notorietà dei magistrati coinvolti dalle indagini di cui si è detto indica che si è ormai raggiunto il livello di guardia. Oltre il quale vi è spazio per un disastro istituzionale tale da mettere in pericolo la stessa democrazia. Le indicazioni, allora, sembrano dover essere due. La prima è che la continua strumentalizzazione della giustizia ne distrugge la funzione in una società civile e democratica. Se si pensa alla lista di impresentabili, stilata nelle ultime elezioni regionali dalla Commissione Antimafia presieduta dalla Bindi e redatta sulla base dei procedimenti in corso, appare evidente il carico improprio che viene messo sulle spalle della giustizia, tale da demolirne inevitabilmente la credibilità. La seconda è che la magistratura deve essere più gelosa ed attenta rispetto al ruolo che è chiamata ad esercitare. Deve, perciò, essere più capace di autogovernarsi, non tollerando che vi siano deprecabili sbavature. Il tema della violazione del segreto istruttorio è emblematico. La indagine aperta dalla Procura di Roma per violazione del segreto istruttorio nella indagine Consip dà una sensazione straniante. Dopo decenni in cui il segreto istruttorio è stato il segreto di pulcinella, ed in cui non solo le procure ma anche gli organi disciplinari della magistratura si sono ben guardati dall’intervenire, suona come una singolare curiosità che esista una indagine seria su questo tema. Suona buffo, insomma, che una norma a lungo ignorata e da tutti vilipesa divenga improvvisamente meritevole di applicazione. Quando, poi, questo accade in una cornice giurisprudenziale caratterizzata da una permanente incertezza degli esiti, è la credibilità stessa dell’ordinamento ad essere compromessa. Ed è un esito rispetto al quale la magistratura non può non fare un serio esame di coscienza. Il presidente dell’Anm indagato per falso e abuso. Accusato dagli Occhionero di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 22 settembre 2017 Titolare di una delle inchieste più complesse sotto il profilo della sicurezza informatica - quella sui fratelli Giulio e Francesca Occhionero (nome in codice "Eye Pyramid") - il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, è indagato per falso e abuso d’ufficio. Con lui sono iscritti sul registro degli indagati della Procura di Perugia il dirigente della polizia postale Ivano Gabrielli e il suo vice Federico Pereno, il pool investigativo che ha svolto le indagini, ai quali si contesta anche l’accesso abusivo ai sistemi. Un atto che comunque non impedirà ad Albamonte di rappresentare l’accusa in aula. Pubblico ministero dei casi Shalabayeva, eredità Sordi, morte del tifoso Ciro Esposito (per dirne alcuni), Albamonte è stato indagato dal procuratore Luigi De Ficchy e dal suo sostituto, Gemma Miliani, dopo essere stato ascoltato come persona informata sui fatti l’estate scorsa. Sotto accusa i metodi con cui sarebbe stata svolta l’inchiesta che aveva rivelato un sistema di intercettazione di politici, religiosi, imprenditori, manager e fatto in parte luce su collegamenti con la P4. Infettate fra le altre le mail di Denis Verdini, Nicola Latorre, Stefano Fassina, Maurizio Sacconi. Ma anche quelle di aziende come Alitalia, Poste Italiane, Trenitalia, Agenzia delle Entrate. E banche: Allianz, Intesa, Mediolanum, Citibank. Mentre un tentativo di entrare anche nell’account di posta elettronica dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi era fallito. Era stato lo stesso Occhionero, ingegnere nucleare, affiliato alla massoneria e grande esperto di sistemi informatici a sporgere denuncia nei confronti del presidente dell’Anm a febbraio scorso. Ma l’iscrizione risale a pochi giorni fa. Potrebbe trattarsi, tecnicamente, di un atto dovuto da parte di chi sta svolgendo verifiche sull’esposto. Il caso è stato sollevato ieri mattina al processo Occhionero dagli avvocati della difesa, Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari che hanno sollecitato a questo punto l’astensione del pm. Richiesta respinta: nel pomeriggio il pm ha fatto sapere che, d’accordo con il procuratore capo Giuseppe Pignatone e con il procuratore generale Giovanni Salvi, continuerà a rappresentare l’accusa. Mentre una tranche d’indagine è ancora in corso con rogatorie negli Stati Uniti. Occhionero ha sempre cercato di ribaltare le accuse sostenendo di essere stato a sua volta infettato da un malware della polizia giudiziaria, un Trojan attraverso il quale si sarebbe potuto accedere ai suoi dati, legittimamente conservati per la propria professione di consulente d’azienda. La sua difesa ha anche accusato la Procura di abuso nelle perquisizioni, durante le quali si sarebbe introdotto il virus in assenza di una formale richiesta di provvedimento al gip. In questi mesi Francesca Occhionero ha denunciato le condizioni estreme della sua detenzione, attraverso una lettera aperta: "Si è indotti a sospettare che le disumane condizioni carcerarie vadano a conciliarsi perfettamente con l’aspettativa che il detenuto collabori". Sul suo trasferimento ai domiciliari Albamonte aveva espresso parere positivo. Orlando: "Aiuti alle vittime di reati, ecco il piano" di Errico Novi Il Dubbio, 22 settembre 2017 "La giustizia non può essere solo una fredda macchina burocratica. Deve farsi carico anche della condizione in cui spesso si vengono a trovare le vittime di reato. È per questo che, da ministro della Giustizia, ho deciso di firmare un protocollo d’intesa con l’Associazione Rete Dafne, che si fa carico proprio di ascoltare e assistere le vittime, i soggetti più deboli, e che è presieduta da un magistrato come l’ex procuratore generale di Torino Marcello Maddalena". Andrea Orlando parla attorniato da telecamere. Ha appena esposto i contenuti dell’intesa con la Onlus messa su alcuni anni fa da Maddalena: quest’ultima inviterà tutte le altre associazioni disseminate nel Paese e impegnate sullo stesso fronte a riempire delle schede-censimento, per comprendere in che modo il fenomeno è gestito e cosa potrà fare il ministero della Giustizia per sostenere queste attività, anche con eventuali finanziamenti pubblici. L’ex pg del capoluogo piemontese, oggi in pensione ma attivissimo nella sua città in iniziative a sfondo sociale, spiega che "si tratta di ascoltare e dare assistenza soprattutto alle donne vittime di violenze in ambito familiare. Certo, vanno orientate a comprendere i loro diritti e a individuare le forme giuridiche per ottenerne la tutela, ma non si tratta solo di questo. Il più delle volte abbiamo dovuto verificare che una donna veniva in Procura in cerca di un sostegno psicologico, prima ancora che di una repressione penale". Orlando è un uomo di sinistra, Maddalena è lo storico leader delle toghe conservatrici: curioso che si in- contrino su un terreno del genere. Non è invece sorprendente che Orlando scelga una simile iniziativa come lascito del suo mandato da guardasigilli. Insiste molto sul fatto che "la giustizia deve essere innanzitutto ascolto, servizio e non solo burocrazia". Da uomo di sinistra prova a lasciare un segno di apertura e solidarietà a via Arenula, sede di un ministero che guiderà ancora per qualche mese, per poi dedicarsi a tempo pieno al Pd. Insieme con Rete Dafne dunque ci si avvia intanto a una mappatura nazionale completa di tutte le associazioni che danno assistenza alle vittime di reato. "Siamo un Paese che ha iniziato a muoversi da poco per la tutela effettiva delle vittime di reati", spiega Orlando in conferenza stampa, "il fondo per i risarcimenti alle vittime di reati violenti è stato attivato solo due anni fa e ammontava a 2,6 milioni di euro. Quest’anno con la legge europea siamo passati a 40 milioni: un passo importante, ma ancora non sufficiente rispetto alla drammaticità delle situazioni da affrontare. Qui però si tratta di andare oltre le prerogative processuali della persona offesa titolare di diritti, e promuovere la tutela della vittima anche come portatrice di bisogni che vanno soddisfatti". In una giornata intensissima, Orlando ha anche chiarito che entro fine settembre invierà a Palazzo Chigi la proposta di decreto legislativo per l’attuazione della delega sulle intercettazioni. "Poi dipenderà dal Consiglio dei ministri", spiega, "ma penso che in un paio di mesi si potrà avere un testo". Rispetto ai contenuti del decreto conferma una correzione già ventilata: "Non ci sarà il riassunto, ma per una ragione diversa da quanto detto con una campagna discutibile: il riassunto ci è stato contestato non dai giornalisti, perché la Fnsi non si è presentata, ma dai penalisti", fa notare, "secondo i quali una sintesi riduce la capacità tempestiva di difesa: una obiezione che terremo in considerazione". In Italia chi pensa alle vittime dei reati? di Francesco Grignetti La Stampa, 22 settembre 2017 Nasce a Torino una rete nazionale, iniziativa del ministro Orlando e di Rete Dafne. Chi si occupa delle vittime di un reato? Chi pensa al loro disorientamento, al dolore, alle ferite più profonde? "Spesso sono colpite persone già molto fragili, che non conoscono neppure i loro diritti", avverte Marcello Maddalena, ex procuratore capo di Torino, ora presidente di Rete Dafne, un’alleanza virtuosa tra pubblico e privato che dal 2008 a Torino si prende cura delle vittime, unendo gli sforzi di enti locali, Asl, procura, Gruppo Abele, associazione Genoa, Compagnia di San Paolo. Ebbene, Rete Dafne è un’esperienza pilota che ha preso piede anche a Firenze, grazie al ruolo propulsore del giudice Marco Bouchard. E ora, grazie al patrocinio del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, potrebbe allargarsi a tutt’Italia. "Siamo uno strano Paese - dice il ministro - dove tutti citano i diritti delle vittime, a proposito e qualche volta a sproposito, ma poi nessuno fa nulla di concreto. È’ un tema spesso evocato, mai risolto. Eppure il problema di una assistenza extragiudiziale per le vittime, che sia informativa, o psicologica, esiste. Il ministero della Giustizia ha raggiunto un accordo con Rete Dafne perché procedano a un monitoraggio nazionale di esperienze simili alla loro, e anche a una valutazione perché la materia è particolarmente delicata e occorre una sorta di accreditamento". Esiste una direttiva europea del 2012 che impone agli Stati membri di attivare un sistema di protezione per le vittime di tutti i reati così da garantire una assistenza integrata che sia emotiva, psicologica, economica, medica, legale, linguistica. Ma in Italia, salvo la realtà torinese, in questo campo dell’assistenza extra giudiziaria, eravamo all’anno zero. "L’anno scorso - rivendica Orlando - per la prima volta è stato istituito un fondo di risarcimento per le vittime. Il primo stanziamento è stato poco più che simbolico, con 2,6 milioni di euro. Quest’anno siamo già saliti, grazie a specifici fondi europei, a 40 milioni. Ma molto altro potremo fare in futuro, quando saranno attivi gli "sportelli di prossimità", a cui stiamo lavorando, per avere in tante città che un tempo avevano uffici giudiziari e ora li hanno perduti, una sorta di ufficio informazioni dedicato al servizio giustizia". È’ una rivoluzione culturale, quella che l’Europa chiede all’Italia. "Per costruire un servizio nazionale di assistenza alle vittime di reato va superato l’approccio limitato alle prerogative processuali della "persona offesa" quale titolare di diritti, per arrivare a una più evoluta concezione della vittima quale portatrice di bisogni", dice ancora Orlando. L’ex magistrato Maddalena, con una lunghissima esperienza alle spalle, è forse la persona ideale per aprire la strada. "Prima, durante e dopo il processo, chi si occupa delle vittime? Nessuno. Chi fornisce le prime informazioni a persone che a volte sono colpite duramente? Magari il reato non pare grave, ma per un anziano truffato, che perde i risparmi di una vita, chi c’è ad assisterlo sotto un profilo psicologico, informativo, anche materiale? Oppure pensiamo ai figli piccoli di una persona uccisa. Capita che serva persino un’assistenza psichiatrica per certe vittime. A Torino, il servizio psichiatrico della ASL ha aderito volentieri alla Rete Dafne". Quanto prima il monitoraggio delle esperienze similari in giro per l’Italia sarà pronto. Ci sono esperienze importanti in Sardegna, a Mantova, a Milano. Altre realtà salteranno fuori da un elenco di circa 1500 associazioni che sulla carta si occupano di vittime. Conclude Orlando: "Lo spazio per una sinergia tra pubblico, privato e associazionismo c’è. La Rete Dafne trasmetterà per conto del ministero una scheda di rilevazione delle attività. Mi auguro che in tanti rispondano, Ma siccome non vogliamo che una attività così nobile possa essere sporcata da chi ci vuole marciare, contiamo molto sulla loro valutazione dell’attività". Pedofilia. Il Papa: "A chi è colpevole non darò mai la grazia" di Salvatore Cernuzio La Stampa, 22 settembre 2017 Francesco riceve la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori e annuncia nuovi cambi di procedura su processi e ricorsi circa i casi di abusi: "È una malattia, mettiamocelo in testa. La Chiesa ha preso coscienza troppo tardi". Non ci sono vie di mezzo: preti e religiosi condannati per pedofilia non avranno mai la grazia di Papa Francesco. Perché? "Semplicemente perché la persona che fa questo, uomo o donna che sia, è malata. La pedofilia è una malattia. Oggi lui si pente, va avanti, lo perdoniamo, ma dopo due anni ricade". La linea di "tolleranza zero" inaugurata da Benedetto XVI e raccolta ampiamente da Bergoglio contro i crimini degli abusi sessuali su minori assume nuove sfumature e nuove applicazioni pratiche. Il Pontefice argentino le illustra nell’udienza alla Pontificia Commissione per la Tutela dei minori, ricevuta in mattinata in Vaticano, durante la quale pone sul tavolo i temi su cui riflettere nel corso dell’assemblea plenaria al via oggi. In un breve discorso a braccio, Francesco annuncia cambiamenti e indicazioni che, in un certo qual modo, rappresentano un punto di rottura col passato: "Chi viene condannato per abusi sessuali sui minori può rivolgersi al Papa per avere la grazia, ma io mai ho firmato una di queste e mai la firmerò. Spero che sia chiaro", sottolinea Bergoglio. Una linea dura che il Papa argentino ha deciso di adottare dopo anni di lacune ed errori delle diocesi e dei Tribunali ecclesiastici nella lotta alla piaga della pedofilia. "La Chiesa è arrivata tardi", ammette: tardi nell’avere coscienza della gravità del problema, tardi nell’assumersi le proprie responsabilità. "È la realtà: siamo arrivati in ritardo. Forse l’antica pratica di spostare la gente, ha addormentato un po’ le coscienze", dice. E "quando la coscienza arriva tardi, anche i mezzi per risolvere il problema arrivano tardi". Ma non tutto è perduto: "Il Signore ha suscitato dei profeti", ha detto Francesco, "uno è il cardinale" Sean ÒMalley, arcivescovo di Boston - diocesi statunitense fortemente piagata da casi di abusi - e presidente della Commissione che, con gli altri membri, sta lavorando duramente e "controcorrente" per "far salire il problema alla superficie e guardarlo in faccia". Questo lavoro, però, sottolinea il Papa non riguarda solo la Commissione ma "tutta la Santa Sede". A cominciare dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, il Dicastero preposto per affrontare tali crimini. "Credo che per il momento risolvere il problema di abusi dev’essere sotto la competenza della Congregazione per la Dottrina della fede", conferma Francesco, "questa è stata una cosa pratica. Quando veniva un problema nuovo, veniva una disciplina nuova per la riduzione allo stato laicale, l’ha presa sempre la Congregazione per la Dottrina della Fede. Poi quando la cosa si è sistemata bene, nel caso della laicizzazione dei preti è passata al Culto e poi al Clero". "E questo lo dico - aggiunge - perché alcuni chiedono che vada direttamente al sistema giudiziale della Santa Sede, cioè alla Rota e alla Segnatura". Ma "in questo momento il problema è grave", denuncia il Vescovo di Roma, e "non è grave solo il problema ma anche il fatto che alcuni non hanno preso coscienza del problema". Pertanto "è bene che resti alla Dottrina della fede, finché tutti nella Chiesa non prendano coscienza". Il primo passo è "cominciare a studiare e classificare i dossier" in modo anche da velocizzare alcuni processi rimasti in fase di stallo. "Ah, ci sono tanti casi che non avanzano, che stanno lì… Questo è vero", dice Papa Francesco, perciò "col nuovo segretario (Giacomo Morandi, ndr) - e anche il prefetto precedente (il cardinale Gherard Ludwig Müller, che ha concluso il mandato il 1° luglio scorso, ndr) era d’accordo - si sta cercando di assumere più gente che lavori nella classificazione dei processi". Il secondo passo riguarda invece la commissione interna alla Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dall’arcivescovo di Malta, Charles Scicluna, che riceve i ricorsi: "Lavora bene ma deve essere aggiustata con la presenza di qualche vescovo diocesano che conosca proprio il problema sul sito", afferma Papa Bergoglio. "Si sta lavorando su questo", aggiunge, e anche su un altro limite: "In questa commissione sono in maggioranza canonisti. Esaminano se tutto il processo va bene, se non c’è un "qui pro quo", ma così "c’è la tentazione degli avvocati di abbassare la pena. D’altronde vivono di questo". Allora, annuncia il Papa, "ho deciso di bilanciare un po’ questa situazione e dico che anche un solo abuso su minori, se provato, è sufficiente per ricevere la condanna senza appello. Se ci sono le prove è definitivo. Perché? Semplicemente perché ala persona che fa questo, uomo o donna, è malata. È una malattia. Oggi lui si pente, va avanti, lo perdoniamo, ma dopo due anni ricade. Dobbiamo metterci in testa che è una malattia". Su questa scia, Francesco annuncia una nuova disposizione "al terzo livello": "Chi viene condannato. può rivolgersi al Papa per chiedere la grazia. Io mai ho firmato una di queste e mai lo firmerò. Sia chiaro, potete dirlo". Bergoglio fa un "mea culpa" e ammette che solo in un caso, ad inizio pontificato, riguardante un sacerdote di Crema, ha scelto "la via più benevola" piuttosto che la riduzione allo stato laicale. "Dopo due anni, però, lui è ricaduto. Io ho imparato da questa esperienza e non l’ho fatto poi mai più". "È una brutta malattia", rimarca il Papa. Brutta e "vecchia", come testimoniano lettere di San Francesco Saverio che rimproverava i monaci buddisti per questo "vizio". Bisogna andare avanti e sradicarla. Punto. La questione è vecchia, ma ci sono "nuove soluzioni". "Andiamo avanti con fiducia", conclude Francesco. E ribadisce la sua gratitudine ai membri della Commissione anti-abusi perché "senza di voi non sarebbe stato possibile fare quello che abbiamo fatto in Curia e che dobbiamo continuare a fare". Autoriciclaggio, si amplia l’area dei reati presupposto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 43144/2017. Anche l’interposizione fittizia di quote societarie può rappresentare il reato presupposto dell’autoriciclaggio. Infatti, in termini più generali, non è necessario che il reato presupposto sia in sé produttivo di quelle illecite attività economiche da riciclare o reimpiegare. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 43144 depositata ieri. Respinto quindi il ricorso nel quale la difesa, tra l’altro, aveva sottolineato che l’intestazione fittizia non può mai fondare una successiva contestazione di riciclaggio e autoriciclaggio. La tesi difensiva è era che il delitto in questione non produce profitti illeciti, escludendo in questo modo a priori che la possibilità che nel perimetro di riciclaggio e autoriciclaggio possano essere i profitti derivanti dalle attività delle società le cui quote sono emerse come intestate fittiziamente. La Cassazione non è stata di questo avviso e ha spiegato di non condividere, malgrado sia assai diffusa, quella "prospettiva essenzialmente "naturalistica" che vede correlare l’oggetto del riciclaggio o del reimpiego all’oggetto del delitto presupposto, inteso quale bene fisicamente avulso dalla condotta materiale di quest’ultimo delitto". Nel caso esaminato, infatti, se la ratio del reato di interposizione fittizia è di impedire la divaricazione tra titolarità formale e sostanziale di beni che appartengono a soggetti che possono essere soggetti a misure di prevenzione, questo obiettivo non può escludere i profitti che derivano dalle attività fittiziamente intestate. Il profitto delle attività oggetto di intestazione fittizia riveste allora carattere illecito, nella lettura della Cassazione, proprio perché chi ne è titolare è un soggetto diverso da quello esposto all’applicazione della misura di prevenzione e quindi esposto alle misure patrimoniali. Se si ragionasse diversamente, avverte la sentenza, si finirebbe per attribuire un effetto di sanatoria alle attività che producono un profitto economico anche se oggetto di un’iniziale intestazione fittizia. E il delitto di intestazione fittizia, puntualizza la Corte, ha tutte le carte in regola per essere considerato presupposto dell’autoriciclaggio: ne è infatti evidente la funzione di reato-ostacolo per impedire l’accumulazione, il godimento e lo sfruttamento economico di beni riferibili a soggetti sospettati di appartenere a organizzazioni criminali come nel caso approdato alla Corte. La violazione del codice della privacy non vanifica gli accertamenti con Dna di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 21 settembre 2017 n. 43433. Sono utilizzabili gli accertamenti dell’identità dell’indagato attraverso i dati del Dna contenuti nell’archivio informatico della Polizia giudiziaria, anche se compiuti in violazione delle cautele previste dal codice della privacy, se non c’è una violazione di legge. La Corte di cassazione, con la sentenza 43433, respinge la tesi della difesa del ricorrente, condannato per rapina aggravata, secondo la quale i dati del Dna, tratti dall’archivio della Pg, non potevano essere utilizzati perché non erano stati depositati gli atti, grazie ai quali sarebbe stato possibile verificare le modalità di acquisizione dei campioni di raffronto, impiegati dopo il ritrovamento di un paio di guanti dell’indagato. Per la Cassazione però la Corte d’Appello aveva adeguatamente chiarito che l’omessa acquisizione di atti relativi ad un diverso procedimento all’interno del quale era stato svolto l’esame del Dna non era causa di nullità o inutilizzabilità. La "svista" poteva semmai riguardare esclusivamente approfondimenti che avrebbero potuto essere sollecitati tramite richieste istruttorie mai avanzate nei primi due gradi di giudizio. La Suprema corte ci tiene comunque a precisare che "non è inutilizzabile, in mancanza della violazione di un divieto di legge, l’accertamento sulla identità dell’indagato compiuto mediante ricorso ai dati relativi al Dna contenuti in un archivio informatico che si trovi presso la polizia giudiziaria, finanche in violazione delle cautele previste dal codice sulla privacy". La Cassazione chiarisce che neppure il prelievo del campione genetico implica speciali competenze tecniche che comportano l’esigenza di osservare precise garanzie difensive, che sono invece necessarie per la successiva attività di valutazione dei risultati. Suicidio del paziente, psichiatra a rischio omicidio colposo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 21 settembre 2017 n. 43476. Risponde di omicidio colposo lo psichiatra che rimanda a casa, dove a distanza di qualche ora si suicida buttandosi dal balcone, il paziente psichiatrico condotto in ambulatorio da un parente a fronte dell’assunzione di una quantità eccessiva del farmaco prescritto. Una condotta definibile "auto lesiva", in relazione alla quale la Società italiana di psichiatria consiglia l’adozione quantomeno di un’Aso (accertamento sanitario obbligatorio). Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 21 settembre 2017 n. 43476, respingendo il ricorso del medico contro la condanna a quattro mesi (oltre al risarcimento del danno) decisa dalla Corte di appello di Caltanissetta. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il medico psichiatra "è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo - quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie - di apprestare specifiche cautele". Una posizione che il medico curante "in servizio la mattina del sinistro presso l’ambulatorio dell’ospedale, direttamente interpellato dai familiari e informato dell’accaduto, certamente aveva assunto". I fatti - La donna, che era affetta da schizofrenia paranoide cronica con episodi psicotici acuti, aveva subito 13 ricoveri ospedalieri. Nell’ultimo dei quali, avvenuto un mese prima, era stata seguita dal medico ricorrente che le aveva somministrato cure farmacologiche da eseguire a casa. La mattina del 2 settembre 2009 si era presentata presso il Servizio Pschiatrico dell’ospedale, accompagnata dal convivente il quale aveva riferito dell’ingestione un intero flacone di Serenase. Il medico, tuttavia, dopo aver constatato che la paziente si presentava "tranquilla e con gli occhi aperti, senza manifestare i sintomi tipici di una massiccia assunzione di quel farmaco di tipologia aloperidolo", li aveva congedati. Tornata a casa si addormentava e dopo poco, uscito il convivente, si buttava dalla finestra. La motivazione - Per i giudici, lo psichiatra una volta informato dell’ingestione di un intero flacone di Serenase, meno di un’ora prima, "non avrebbe dovuto aprioristicamente escludere la fondatezza della informazione constatando che la donna si presentava ancora apparentemente vigile, atteso che, secondo i dati scientifici, il farmaco raggiunge livelli di picco nel sangue almeno due ore dopo l’assunzione e, in più, l’intossicazione varia in ragione della diversa sensibilità individuale". Inoltre egli era a conoscenza del fatto che la donna, già sua paziente, "in talune occasioni aveva manifestato volontà autosoppressiva". Dunque, per i giudici di legittimità, "tali dati" qualificano la condotta come "oggettivamente al di sotto della diligenza esigibile", e certamente in violazione delle "regole di prudenza". In altre parole l’imputato, "chiamato a governare il rischio nella gestione della paziente, non ha posto in essere le condotte adeguate a scongiurare il rischio suicidario". Infine, quanto al rapporto di causalità, per la Cassazione "non avere prospettato neppure una possibilità di ricovero, non aver tenuto la paziente sotto osservazione per un tempo minimo ragionevole, e, infine, non aver neppure imposto al marito di attuare sulla moglie una vigilanza costante" sono tutti elementi che "hanno sicuramente avuto piena incidenza causale sulla condotta della vittima"; ben potendo detti comportamenti, ove attuati, "scongiurare l’evento concretamente verificatosi con probabilità prossima alla certezza". Monza: la direttrice del carcere "disagio psichico per metà dei detenuti" di Sarah Valtolina ilcittadinomb.it, 22 settembre 2017 L’allarme arriva dalla Casa circondariale di via Sanquirico dopo l’ultimo caso di suicidio, quinta morte dall’inizio dell’anno. L’intervista alla direttrice disegna il quadro di una struttura sovraffollata da detenuti che per la metà hanno problemi di droga, disagio o patologie psichiatriche. Cinque decessi dall’inizio dell’anno, due i suicidi, l’ultimo solo la scorsa settimana. Sono i numeri della casa circondariale di Monza dove dall’inizio dell’anno cinque detenuti sono morti per diverse cause: uno per infarto, deceduto nonostante il tempestivo intervento degli agenti che hanno immediatamente praticato le manovre di rianimazione e il massaggio cardiaco, due decessi dovuti ad abuso di inalazioni di gas proveniente dalle bombolette in dotazione ai detenuti per cuocere gli alimenti, e due gesti di autosoppressione, come vengono indicati i suicidi. L’ultimo lo scorso 14 settembre. Un detenuto italiano trentenne, ristretto nella sezione infermeria, si è tolto la vita impiccandosi con i propri indumenti, come riferisce Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp. "Quello che svolgono gli agenti di Polizia penitenziaria è un lavoro difficile - ha commentato il direttore dell’istituto monzese, Maria Pitaniello - Ogni giorno si trovano a contatto con persone dal vissuto estremamente complesso, con traumi da abbandono e complicazioni dovute alla tossicodipendenza. In questi anni - continua - il profilo dei detenuti a Monza è cambiato. Il 50% dei ristretti attualmente è tossicodipendente e affetto da disagio psichico se non da una vera e propria patologia psichiatrica. Inoltre in questo istituto è presente un dipartimento di salute mentale a cui vengono assegnati detenuti provenienti anche da altre carceri. Tutti questi elementi concorrono a rendere il lavoro all’interno del carcere estremamente complesso". Ad oggi sono 640 i detenuti presenti nell’istituto di via Sanquirico, a fronte di una capienza massima di 403 persone, mentre sono 419 gli agenti di Polizia penitenziaria assegnati alla struttura, di questi però sono solo 290 gli effettivi. Almeno una cinquantina sono i distaccamenti. "A Monza la situazione degli organici resta preoccupante, così come nelle altre carceri lombarde - spiegano i vertici dell’Osapp - Crediamo sia ora di porre fine ai giochi di prestigio sui numeri del personale di Polizia, per cui per il principio della sorveglianza dinamica un agente teoricamente potrebbe vigilare su tutto il penitenziario". Un lavoro complesso, quello della Polizia penitenziaria, che a Monza ha permesso di sventare numerosi tentativi di suicidio. L’ultimo lunedì sera, quando intorno alle 22.30 un detenuto collaboratore di giustizia, come riferisce il comunicato diramato dal sindacato Osapp, ha tentato di impiccarsi. Anche in questo caso il pronto intervento degli agenti ha scongiurato il peggio. L’uomo è stato condotto in ospedale per accertamenti e già in serata ha fatto rientro in istituto. Ancona: "Montacuto una discarica sociale, reinserimento impossibile" anconatoday.it, 22 settembre 2017 I recenti episodi di cronaca spingono l’associazione Antigone alla denuncia. Lunedì la visita a Montacuto. Sovraffollamento, carenza di personale di polizia penitenziaria, presenza di immigrati, assenza del direttore. I difetti finora messi all’indice quali "cause dell’inasprimento delle condizioni di vita all’interno della Casa Circondariale di Montacuto e delle rivolte che hanno interessato l’istituto nei giorni scorsi". Non la pensa allo stesso modo l’associazione Antigone Marche che, con la sua attività dell’Osservatorio, visiterà lunedì 25 settembre il carcere di Montacuto e in quella sede cercherà di capire le dinamiche di quanto accaduto. "Alla base - dicono dall’associazione - ci sono altri motivi: la scarsa applicazione di misure alternative e la mancanza di percorsi per il reinserimento sociale. In poche parole: pochi sono gli educatori che seguano le persone ristrette, pochi sono gli psicologi che indirizzino il cambiamento di vita e che possano intercettare il malessere, poche le attività professionalizzanti che trasmettano un mestiere spendibile una volta tornati in libertà. Al contrario, sono tante le categorie sociali che i carceri li riempiono anche perché le loro tasche per pagarsi difese costose sono vuote: migranti, persone in attesa di primo grado e tossicodipendenti. Pochi i posti nelle comunità di recupero e i soldi per i percorsi terapeutici". Per Antigone, insomma, il carcere si ritrova a essere "una discarica dove mettere tutto quello che politica e istituzioni non riescono ad affrontare. Su questi temi stiamo lavorando da mesi incontrando sia dirigenti sanitari, specialmente i referenti delle dipendenze patologiche, sia i politici regionali, per portare i temi della sanità carceraria e dell’applicazione delle misure alternative all’attenzione del mondo istituzionale regionale più alto. Per ora, va sottolineato un punto: in carcere, sovraffollamento, suicidi, autolesionismo, consumo smodato di psicofarmaci non sono fenomeni naturali, bensì spie di qualcosa che non funziona. Tutti i numeri dicono che dalle misure alternative è l’intera società a trovare giovamento: risparmio per lo Stato e abbassamento della recidiva. Ma forse è la società che non vuole tutto questo, assillata da un bisogno di sicurezza sociale che neanche i numeri giustificano più, dimostrando al contrario la diminuzione dei reati da alcuni anni ad oggi". Napoli: Radicali e penalisti a Poggioreale per separazione delle carriere e migranti di Fabrizio Ferrante lagazzettacampana.it, 22 settembre 2017 Prossima tappa Secondigliano. A Poggioreale si è svolta ieri, 21 settembre, la prima delle due giornate di raccolta firme previste nelle carceri napoletane a sostegno della proposta di legge sulla separazione delle carriere in magistratura e di quella tendente a regolamentare i flussi migratori in Italia. Giovedì 28 settembre si replica a Secondigliano ma intanto l’iniziativa congiunta della Camera Penale di Napoli e di Radicali Italiani ha portato in dote 90 firme di detenuti per la separazione delle carriere fra giudici e Pm, oltre a 57 sottoscrizioni per "Ero straniero". Hanno partecipato alla raccolta firme una delegazione di penalisti napoletani fra cui il presidente della Camera Penale partenopea, Avvocato Attilio Belloni e il coordinatore cittadino della raccolta "Separare le carriere" (che in tutta Italia ha superato quota 66 mila firme) Avvocato Leopoldo Perone. Presente anche il presidente di Arcigay Napoli, Antonello Sannino. A guidare la delegazione radicale un altro avvocato, Raffaele Minieri, membro della Direzione Nazionale di Radicali Italiani. Al termine della giornata di mobilitazione a Poggioreale, Minieri ha commentato l’esito della raccolta firme su due campagne che stanno vedendo ulteriormente consolidarsi la sinergia fra radicali e mondo dell’avvocatura e il contributo dei detenuti non è mancato, sebbene con qualche distinguo: "La raccolta su "Ero straniero" - ha esordito Minieri - sconta la difficoltà di far comprendere la complessità del tema rispetto alla narrazione ormai diffusa della contrapposizione tra immigrati e italiani. È stato difficile far capire ai detenuti che non c’è alcuna rivalità, dato che vedevano nei migranti un pericolo per la loro stessa possibilità di integrazione e di trovare un lavoro. Questo indica come la percezione di contrapposizione fra ultimi stia prendendo piede e la nostra proposta vuole superare questa idea". Migliore dunque la risposta dei detenuti nei due padiglioni visitati (Italia e Firenze) alla proposta sulla separazione delle carriere: "Tema più sentito dai detenuti per ovvi motivi - ha spiegato l’esponente radicale - ma anche perché la proposta è stata meglio e più spiegata, quindi è considerata come una priorità anche connessa al loro stato di detenzione. La proposta è stata letta come qualcosa che possa giovarli, come può giovare a tutti i cittadini". Circa il gap di firme di Ero straniero in rapporto a "Separare le carriere", Minieri si è così espresso anche rispetto a quanto accade nella stessa galassia radicale: "La differenza si spiega con la maggiore conoscenza su una proposta piuttosto che sull’altra e ciò è indicativo di quanto nella stessa area radicale la differenza tra proposte, idee e la volontà di spiegare le iniziative di tutti i compagni sia un elemento che balza agli occhi automaticamente". Prossimo appuntamento con la doppia raccolta firme, giovedì 28 settembre dalle 14:30 a Secondigliano. Lecce: delegazione del Consiglio comunale in visita al carcere leccenews24.it, 22 settembre 2017 Ieri mattina la Presidente del Consiglio comunale Paola Povero, accompagnata dai vice presidenti Marco Nuzzaci e Fabio Valente, si è recata in visita al carcere di Lecce. Con loro l’assessore alle Pari opportunità, Diritti civili e Volontariato Silvia Miglietta e il presidente della Caritas Don Attilio Mesagne. Ad accoglierli la direttrice della casa circondariale, Rita Russo e il suo staff. La casa circondariale è stata la prima tappa di un percorso che, come preannuncia la nuova amministrazione, "sarà continuo e fruttuoso in termini di conoscenza delle esigenze in particolare delle categorie deboli della popolazione leccese". Particolare attenzione è stata dedicata alla condizione dei detenuti, ai loro bisogni e numerosi progetti dei quali la direzione del carcere ha autorizzato e supportato lo svolgimento, andando a incidere positivamente sulla condizione delle persone che vivono un periodo di detenzione. Al momento dell’incontro è seguito il momento della visita alla sezione femminile del carcere. In questa ultima circostanza la Presidente ha potuto visitare la struttura, inclusi i laboratori nei quali alcune donne detenute hanno la possibilità di lavorare, le cucine, curate dalle stesse ristrette, e gli spazi di incontro dedicati alle mamme con bambini e ai colloqui. Apprezzamento è stato espresso per la cura con la quale l’ambiente carcerario è stato ingentilito a beneficio dei minori che temporaneamente vi risiedono con la madre (al momento solo una bambina, ndr) o vi si recano per incontrarla. L’assessore Silvia Miglietta ha scambiato con la direttrice del carcere idee ed esperienze in relazione all’attività delle associazioni di volontariato che curano progetti di inclusione nella casa circondariale e la cui azione risulta fondamentale per costruire un ponte tra la struttura e la città e per migliorare sensibilmente la qualità della vita di chi è ristretto. "Il Consiglio comunale è una comunità - ha dichiarato la presidente Povero - attenta alle esigenze di tutti, perché rappresenta la città nella sua interezza. Stamattina abbiamo condiviso con la direzione del carcere l’esigenza di una più stretta collaborazione tra la comunità carceraria e la città. Credo fortemente che sia compito della politica combattere i fenomeni di esclusione sociale e promuovere la coesione per tutti quelli che sono a rischio di emarginazione sociale ed economica. Dobbiamo riconoscere il diritto delle persone in esecuzione penale alla riabilitazione e al reinserimento a pieno titolo nella società. Nessuno deve rimanere indietro, nessuno deve essere escluso". "Anche nel contesto carcerario la determinazione delle associazioni di volontariato svolge un ruolo insostituibile nel determinare migliori condizioni di vita per le persone temporaneamente detenute - ha aggiunto l’assessore Miglietta - Con loro e con la direzione della casa circondariale, che sappiamo essere particolarmente sensibile e ben disposta nei confronti dei progetti sociali a favore dei detenuti, l’amministrazione comunale intesserà stabili relazioni di collaborazione". Monza: dall’orto in carcere 800 kg di prodotti al Banco Alimentare, ora servono sponsor quibrianzanews.com, 22 settembre 2017 Per continuare a sfamare chi ha bisogno e soprattutto per aiutare i detenuti ad apprendere una professione poi spendibile una volta terminato di pagare il proprio conto con la giustizia è necessaria la generosità dei nostri lettori. Con un accorato appello Anna Martinetti - anima dell’associazione "Una Monza per tutti" e promotrice del progetto orto in carcere - si affida alla generosità dei monzesi (ma non solo) per proseguire il progetto intrapreso un anno fa. Un progetto che in dodici mesi ha già dato importanti frutti con oltre 1.200 kg di verdura raccolta di cui 800 kg destinati al Banco Alimentare dando da mangiare a famiglie indigenti e il restante utilizzato all’interno delle cucine del carcere di Monza. Una vera a propria azienda agricola che oggi però si trova al verde e che ha bisogno di un aiuto. "Ci stiamo già muovendo per intraprendere il percorso migliore, per renderci autonomi - ha spiegato - Non solo per coltivare prodotti della terra ma anche per coltivare ragazzi e uomini che, usciti dal carcere, saranno non solo persone libere ma anche e soprattutto persone autonome con un lavoro tra le mani". Quello dell’orto all’interno del carcere di Sanquirico è stata una scommessa che all’inizio sembrava difficile da vincere: recuperare tre grandi serre abbandonate, coinvolgere circa otto detenuti che sotto la guida di un agronomo volontario hanno non solo imparato a coltivare la terra ma anche ad amare questa professione. Un raccolto davvero abbondante con pomodori, basilico, zucchine, melanzane, vari tipi di insalata. I detenuti sono già tornati al lavoro seminando nell’orto quelle verdure autunnali come cavoli, cavolfiori e cime di rapa che raccoglieranno tra qualche mese. Sperando di poter continuare a svolgere quello che un giorno usciti dal carcere si augurano possa diventare la loro professione. Anna Martinetti incrocia le dita augurandosi di trovare quei fondi che permetteranno a quella che è a tutti gli effetti una piccola azienda a agricola dietro le sbarre non solo di proseguire nella sua attività, ma di spiccare il volo. "I ragazzi credono molto in questo progetto - conclude - così come pure la direttrice della casa circondariale Maria Pitaniello". Chi vuole dare un contributo o ricevere informazioni sul progetto può inviare un’email a martinettianna@gmail.com. Prato: il cane del detenuto ammesso al colloquio, proteste della Polizia penitenziaria Il Tirreno, 22 settembre 2017 Gli agenti di Polizia penitenziaria si infuriano e minacciano di chiedere il trasferimento in massa ma la direzione della Dogaia dice che è tutto regolare. A un detenuto recluso nel carcere della Dogaia è stato concesso di far entrare il proprio cane nella sala dei colloqui e questo ha suscitato le ire degli agenti di polizia penitenziaria, che ora, secondo quanto sostengono i rappresentanti sindacali di varie sigle, minacciano di chiedere tutti il trasferimento in un’altra sede. L’oggetto del contendere, come detto, è un cane. O meglio, il suo proprietario, un detenuto trasferito a Prato da Sollicciano solo da pochi giorni. Secondo quanto riferiscono i rappresentanti sindacali, l’uomo si è agitato quando gli hanno detto che non avrebbe potuto vedere il suo cane, come chiedeva, e avrebbe danneggiato la cella, rompendo alcune suppellettili e minacciando pesantemente gli agenti di polizia penitenziaria. Quando è arrivata l’ora del colloquio, al detenuto è stato concesso di vedere il cane, accompagnato alla Dogaia da una parente, e questa è stata interpretata dagli agenti di custodia come una resa di fronte alle minacce e agli atteggiamenti violenti, insomma un modo per dargliela vinta. Dalla direzione della Casa circondariale fanno sapere che il cane in sala colloqui non è un caso isolato. Sarebbe accaduto anche altrove, in presenza di una richiesta motivata, di un animale vaccinato e provvisto di museruola, come in questo caso. Dunque si tende a minimizzare la vicenda, anche se non si può negare che il clima dentro la Dogaia sia parecchio agitato. A fine agosto gli stessi sindacati denunciarono una sorta di rivolta dei detenuti con atti di autolesionismo e barricate improvvisate nei corridoi, e anche in quel caso qualche giorno dopo la direzione ha ridimensionato l’episodio parlando di una cosa che aveva coinvolto pochi soggetti. In quell’occasione lo stesso vice sindaco Simone Faggi si disse preoccupato, annunciando un prossimo consiglio comunale aperto sul tema, che dovrebbe tenersi entro la fine del mese. Oggi intanto il corpo della polizia penitenziaria festeggia anche a Prato i 200 anni dalla fondazione. Il programma prevede un alzabandiera all’interno del carcere e poi una cerimonia nel salone del consiglio comunale. Ma per gli agenti di polizia penitenziaria sarà anche l’occasione per rinnovare la protesta. Nei giorni scorsi hanno diffuso una lettera in cui annunciano che non parteciperanno alla celebrazione del bicentenario del corpo. Oltre alle questioni legate alla sicurezza, gli agenti di custodia denunciano l’insufficienza dell’organico e il sovraffollamento del carcere. Problemi che riguardano anche altri istituti sparsi per l’Italia. Piacenza: il Garante regionale alla premiazione del concorso letterario "Parole oltre il muro" ilpiacenza.it, 22 settembre 2017 Il ruolo del volontariato, ha sottolineato Marighelli, "è di fondamentale importanza nella proposta culturale ai detenuti". Il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, ha partecipato, a Piacenza, alla premiazione del concorso letterario per i detenuti, Parole oltre il muro, promosso dall’associazione "Oltre il muro", editore di Sosta forzata, la rivista (realizzata dai detenuti) della casa circondariale cittadina le Novate. L’evento fa parte della manifestazione Piacenza e il carcere. Partecipo all’iniziativa, ha evidenziato il Garante, "in continuità con le precedenti edizioni, per rimarcare, una volta di più, l’importanza del ruolo delle associazioni di volontariato nella proposta culturale ai detenuti, con particolare attenzione alle donne in carcere". La pubblicazione di giornali all’interno delle mura carcerarie, ha sottolineato quindi Marighelli, "è una delle attività, rivolte ai detenuti, più importanti per la promozione dei diritti umani e la conoscenza della realtà del carcere". Venezia: presentazione del libro "Un Cerchio in carcere: i nostri primi venti anni" comune.venezia.it, 22 settembre 2017 Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, e l’assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini, sono intervenuti questo pomeriggio nel chiostro del Convento dei Padri Cappuccini alla Chiesa del Redentore alla Giudecca, alla presentazione del libro "Un Cerchio in carcere: i nostri primi venti anni, 1997-2017". All’incontro, introdotto da Gianni Trevisan, presidente onorario e tra i fondatori della cooperativa sociale Il Cerchio, e dal curatore del libro, Paolo Sprocati, hanno partecipato tra gli altri il presidente de La Biennale di Venezia, Paolo Baratta, il direttore generale del Teatro la Fenice, Andrea Erri, la direttrice della casa di Reclusione Donne della Giudecca, Antonella Reale e la direttrice della Casa circondariale di Venezia, Imma Mannarella. Presenti inoltre il vicepresidente del Consiglio comunale Saverio Centenaro e la consigliera Deborah Onisto. Il libro racconta la storia della cooperativa sociale "Il Cerchio" nata nel settembre 1997 per offrire lavoro ai detenuti, avviando nel contempo corsi di formazione, percorsi culturali e di studio, e promuovendo momenti di convivialità favorevoli a un reinserimento sociale. Come riportato nel volume la cooperativa nei vent’anni d’attività ha dato lavoro, per giorni, o per settimane, o per mesi, o per anni a circa settecento (700) ristretti, raggiungendo così un rilevante risultato. "Vent’anni - ha esordito Venturini - sono un traguardo importante, per fare bilanci e guardare al futuro. Quelli del Cerchio sono 20 anni di storie di persone che hanno saputo fare squadra ed essere tenaci prima nel dare e poi anche nel chiedere. Il merito principale del Cerchio è quello di non aver fatto assistenzialismo, ma di aver offerto alle persone che nella loro vita hanno avuto un incidente di percorso una prospettiva concreta di rifarsi una vita grazie al lavoro. Il lavoro che la cooperativa ha portato avanti in tutti questi anni ha fatto da collante con le istituzioni, ha costruito ponti e di questo siamo riconoscenti". "Quella del Cerchio - ha concluso il sindaco - è una grande esperienza trasversale che da sempre nobilita la città. Il lavoro corale dei volontari è un esempio concreto di quella sussidiarietà che io ritengo essere un grande principio di costituzione e di libertà. Nel libro, che racconta la storia di questa esperienza, ci sono anche i dati di bilancio, il fatturato, gli utili che crescono nel tempo e questo è importante: se hai un profitto puoi usarlo come meglio credi, altrimenti sei sempre costretto a chiedere. Le carceri devono essere luoghi non solo di pena ma di riabilitazione, luoghi umani che garantiscano la dignità della persona e consentano di offrire occasioni di ripartenze reali. In questi 20 anni il Cerchio ha dato una gran bella lezione alla città; se continuiamo a procedere insieme, andremo lontano. Noi, come Amministrazione comunale continueremo ad aiutare questa realtà che è un grande orgoglio per la città". Milano: "Giochi di luci e ombre", dal carcere al palcoscenico attraverso l’Università unimib.it, 22 settembre 2017 "Giochi di luce e ombre" è lo spettacolo teatrale scritto, diretto e interpretato da studenti dell’Università di Milano-Bicocca e persone detenute nella Casa di reclusione di Opera. L’obiettivo del progetto, che comprende anche la presentazione del libro "Università@Carcere", è dare vita ad un’esperienza formativa e sociale che possa essere replicata in altre città d’Italia con una tournée di rappresentazioni teatrali. Sono i frutti del Protocollo d’intesa fra l’Università di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia (Prap), che ha "portato l’università in carcere" attraverso il corso sulla mediazione dei conflitti. Lo spettacolo sarà il primo di un tour per l’Italia con l’obiettivo di esportare in tante altre università come in tante altre carceri l’esperienza quadriennale che ha affiancato la Casa di reclusione di Milano Opera e l’Università Bicocca: un modello sperimentale di mediazione e inclusione sociale come occasione per rivedere modelli di intervento e gestione in linea con il documento finale degli "Stati generali dell’esecuzione penale", iniziativa del Ministro della Giustizia. L’obiettivo dell’accordo di collaborazione fra l’Ateneo e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, firmato nel 2011, è quello di sviluppare attività scientifiche, culturali e didattiche in collaborazione con gli istituti penitenziari. Il progetto complessivo prevede varie tipologie di intervento fra cui corsi ad hoc, repliche di insegnamenti attivi nell’Ateneo milanese e procedure d’iscrizione semplificate. Nel 2014 è stato anche lanciato l’Open day in carcere dell’Università Bicocca con la presentazione agli studenti-detenuti dei corsi universitari, per orientarli verso un percorso che possa rappresentare la base di un futuro reinserimento lavorativo. Gli appuntamenti - Venerdì 22 settembre alle ore 18 nella sede centrale della Biblioteca di Ateneo (edificio U6, 2° piano, piazza dell’Ateneo Nuovo, 1) sarà presentato il libro "Università@Carcere - Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono" scritto da studenti dell’Università di Milano-Bicocca e persone detenute presso il carcere di Opera. Interverranno Alberto Giasanti, docente presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Ateneo milanese, Giacinto Siciliano, direttore della Casa di reclusione di Opera, e Maurizio di Girolamo, direttore della Biblioteca di Ateneo. Il libro testimonia l’incontro fra società e carcere, per portare a contatto le esperienze "dell’esterno" e quelle vissute all’interno delle mura carcerarie. Sabato 23 settembre alle 20,45 nell’Auditorium "Guido Martinotti" dell’Università di Milano-Bicocca (edificio U12, via Vizzola, 5) si svolgerà lo spettacolo teatrale "Giochi di luci e ombre" rappresentato, scritto e diretto da un gruppo di attori-non attori: sei studentesse dell’Università Bicocca e sette persone detenute nella Casa di reclusione di Opera porteranno in scena frammenti di storie di vita. L’ingresso è a offerta libera fino ad esaurimento dei posti e il ricavato sarà destinato alla realizzazione di un documentario della tournée "Giochi di luci e ombre". "L’accordo fra l’Università di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia - spiegano Giacinto Siciliano, direttore della Casa di reclusione di Opera, e Alberto Giasanti, docente di Sociologia del diritto e del mutamento sociale all’Università Bicocca - è un’esperienza innovativa nella quale si sono visti studenti e persone detenute conoscersi, paure e diffidenze abbattersi, abilità e consapevolezze nuove affermarsi, e gap culturali colmarsi a volte anche grazie alla sola forza dell’esperienza di strada". Civitavecchia (Rm): la musica etnica varca la soglia del carcere terzobinario.it, 22 settembre 2017 L’orchestra di musica popolare EtnoMusa dell’università La Sapienza di Roma, la cui finalità è quella di trasmettere e tenere vivo l’interesse per l’arte popolare nazionale, si è esibita presso la Casa di Reclusione "Giuseppe Passerini" di Civitavecchia. La band diretta dalla dottoressa Letizia Aprile, composta da venti elementi tra musicisti, cantanti e ballerini studenti universitari, per la realizzazione del concerto in carcere, si è avvalsa anche alla preziosa collaborazione di Marianna Arbia. Nell’ambito delle attività risocializzanti a favore dei detenuti, il laboratorio EntoMusa con il suo messaggio di solidarietà, integrazione e cultura, ha regalato ai reclusi una mattinata davvero speciale portando loro spensieratezza, leggerezza e sorrisi. Partecipazione vivace parte dei reclusi. La dottoressa Patrizia Bravetti e tutto il personale del penitenziario ringraziano gli autori dell’iniziativa. Verona: serata rock all’interno del carcere, un successo Corriere di Verona, 22 settembre 2017 Ritmo e festa in un luogo dimenticato, dentro un divertimento che diventa emozione, atto sociale condiviso e rigenerante per tutti: pubblico e artisti. Mercoledì sera Five Points ha portato il rock ai detenuti della casa circondariale di Montorio. "Rock’n roll is back in town" ed "Eradius" le due band veronesi che si sono esibite in un’ora e mezzo di concerto nella cappella del carcere, di fronte ad una sala gremita di gente. "La risposta è stata magnifica - racconta Lorenzo Tomelleri, fra gli organizzatori di Five Points, con la scuola BTMusic e anima artistica della rassegna -: è stato tutto molto naturale, neanche il tempo per le band di montare gli strumenti che è arrivato il pubblico e si è iniziato a suonare". Musica come gesto civico, dunque, che si allarga ai luoghi spesso dimenticati, lontani. "Siamo molto contenti - conferma Mariagrazia Bregoli, direttrice del carcere -. I detenuti si sono emozionati e divertiti, hanno trovato sollievo nel passare un pomeriggio diverso; a fine concerto avrebbero voluto si continuasse ancora, talmente era la loro voglia di musica. Ringrazio gli organizzatori: quando successo è un importante segno di collegamento fra il dentro e il fuori, fra cittadini e detenuti. È stato come un ponte unico. Spero che l’iniziativa ora si possa replicare in futuro, anche in altri ambiti e in altri contesti". Se la voce del dolore è una esibizione social di Michele Serra La Repubblica, 22 settembre 2017 La popolarità del Male, rispetto alla sua banalità, è uno stadio più avanzato in direzione della sua metabolizzazione e, direbbe un pessimista, del suo trionfo. Il Male, nell’evo della comunicazione globale e capillare, dei network e dei social, è una dimestichezza da ostentare, è un linguaggio da padroneggiare. Nessuno arretri, nessuno si faccia trovare impreparato o muto, atterrito o vinto, di fronte al Male. Gli faranno un selfie, molto presto, al Male, posando accanto a lui come accanto a Messi o a Lady Gaga. La sfortunata madre della povera ragazza Nicolina ha concesso una lunga e quasi ciarliera intervista a una trasmissione Mediaset del mattino mentre la figlia agonizzava in ospedale, colpita in faccia (in faccia!), mentre andava a scuola, dalle pistolettate di un ex fidanzato di mamma, uno dei tanti ributtanti maschi omicidi (e poi suicidi) che non tollerando di essere lasciati da una femmina soffocano l’onta nel sangue. Non si pretendono, dalla gente semplice, i toni della tragedia greca. Ma la gente semplice, fino a non tanti anni fa, sapeva ammutolire. Chiamatelo pudore, dignità, vergogna, chiamatelo come preferite, ma quando la voce del dolore rimaneva chiusa nelle stanze dei disperati, il Male non mieteva un successo così corale, e non trovava inserzionisti pubblicitari, già al mattino presto, disposti a cavalcarlo. Il crocchio dei curiosi, e tanto più il lutto delle vittime, rimanevano confinati in una dimensione di bisbiglio o di pianto o di scoramento inerte (quando si diceva: "Non ha più neanche le lacrime per piangere"). Qui ora, nel caso di questo ultimo delitto atroce (uccide per vendetta la figlia adolescente della donna che non riesce a rintracciare per ucciderla...), ma anche di molti altri, c’è intanto da rintracciare, alle spalle dell’evento, l’immancabile "dietro le quinte" delle paginette Facebook dei protagonisti, che a leggerle dopo quello che è successo, signora mia, già lasciano capire come sarebbe andata a finire. E spesso, effettivamente, traboccano odio, ignoranza e vanità (che non sono colpe, no, ma neanche bandierine da sventolare online), come per preparare il terreno all’arrivo, a cose fatte e a cadavere caldo, delle telecamere e dei microfoni, fratelli maggiori che hanno fatto carriera. Anche loro, in fin dei conti, "social media", per giunta di calibro infinitamente maggiore, e padroneggiati da veri professionisti nella zoomata sulla piaga, della catalogazione del Male a seconda della sua telegenia. Non si dubita che quella povera madre pugliese fosse sotto choc. Chi non lo sarebbe. Resta da capire come mai le persone sotto choc (non solo lei: parlo dell’abbondante cast di vittime e protagonisti di delitti efferati, che alle interviste neanche si sognano di sottrarsi) si consegnino con tanta naturalezza ai palinsesti. Eravamo rimasti alle persone sotto choc che crollano o fuggono o smaniano, quando era ancora impensabile che diventassero docili ingredienti delle infernali cucine della televisione del dolore: che sarebbe ora di chiamare in modo diverso, perché di doloroso ha veramente poco, la televisione del dolore. La popolarità del male è uno stato d’animo a suo modo spigliato, di mondo, si parla della morte degli ammazzati, e dei delitti degli assassini, con un tono appena compunto, però dinamico e informato, senza trasalimenti, senza esitazioni o silenzi, senza arretrare di fronte ad alcunché, ci sono scalette da rispettare così come, su Facebook, ci sono contro-insulti e contro-minacce da digitare in fretta, a raffica, colpo su colpo. Ha ritmo, ha passo spedito, la popolarità del male, Dostoevskij ci metteva duecento pagine per dire le stesse cose che si possono dire in trenta secondi di televisione, o in dieci parole sullo smartphone. Nicolina nel frattempo se ne è andata. Ci aspettano i reperti - parole e immagini - della sua breve vita, spremuti dalle sue chat. Anche le vittime, malgrado spariscano dalla faccia della terra, sono scritturate a vita. Se ragazzine graziose e innocenti, poi, allora è il massimo. Perché gli assassini non hanno più il senso di colpa di Melania Rizzoli Libero, 22 settembre 2017 "Nessun reale senso di colpa, ed organizzazione borderline della personalità con capacità intellettive al limite". Con queste parole è stato definito il profilo psicologico, tracciato a seguito di una perizia neuropsichiatrica, del fidanzato 17enne di Noemi Durini, la ragazza da lui assassinata la settimana scorsa e nascosta sotto una catasta di sassi nelle campagne in provincia di Lecce. Il giovane omicida, attualmente recluso all’Istituto Penale minorile di Bari, sarà presto trasferito in una struttura in Sardegna dove sarà anche curato per seguire "un percorso trattamentale altamente specialistico, anche se al momento dell’omicidio era pienamente in grado di intendere e di volere". Un percorso terapeutico e psicologico che si rivelerà probabilmente tardivo ed inefficace, poiché a quell’età la personalità di un giovane uomo è già definita, caratterialmente depositata, e difficilmente modificabile. In questa tragica vicenda, infatti, la cosa che ha più colpito i periti è stato il verificare l’assenza totale del senso di colpa nel reo confesso, pur nella consapevolezza di aver commesso un atto così crudele e definitivo, aggravato dalla mancanza del benché minimo pentimento, e di qualunque stress emotivo conseguente, quello che normalmente insorge quando una nostra azione od omissione ha causato un danno, fisico o di altra natura, ad una persona. Il senso di colpa è un sentimento fisiologico innato e comune a tutti gli esseri umani, che si impara a riconoscere già da piccoli, quando viene solitamente stimolato, con intento educativo, da un genitore che ci rimprovera per aver commesso qualcosa che va contro il nostro codice di comportamento, e che provoca il senso di vergogna, un rimorso che cresce dentro tormentandoci finché non facciamo qualcosa per rimediare al nostro misfatto. Il non provare il senso di colpa è invece un’ostilità che può comparire già durante l’infanzia o l’adolescenza, e che andrebbe percepito immediatamente, perché è un rifiuto consapevole che si caratterizza per un atteggiamento di disprezzo non corretto, di inosservanza e violazione dei diritti delle altre persone lasciato libero dalle regole, e che si manifesta spesso con atteggiamenti aggressivi anche fisici, per poi far rimanere il soggetto completamente indifferente alle proprie azioni di danneggiamento. L’affettività e l’educazione hanno un ruolo molto importante nell’espressione e nello sviluppo di questo comportamento, e una madre troppo indulgente, o un padre che non sa trasmettere un sistema di valori al proprio figlio, ritenendoli troppo correttivi o punitivi, rischiano di far svanire il meccanismo psicologico della colpa e della responsabilità, utile a valutare la gravità e le conseguenze delle nostre azioni. Il senso di colpa viene considerato in psichiatria una "riserva relazionale", è correlato all’altruismo e all’empatia, e ci spinge a prendere coscienza dell’altro, costringendoci ad una messa in discussione e ad un’assunzione di responsabilità sociale. La mancanza di tale senso è considerata al pari di una patologia seria, soprattutto dopo atti gravi come l’omicidio o la violenza, quando non si prova alcun rimorso, ma addirittura compiacenza. Oggi in molti giovani il senso di colpa sembra un sentimento sparito, è stato sminuito e disinibito, e l’assenza di vergogna o di rimorso trionfano in un disincanto generalizzato, alla faccia degli epici dissidi morali tra il bene e il male. Il disintegrarsi delle famiglie tradizionali, e l’indebolirsi del ruolo educativo genitoriale, hanno contribuito ad acuire questo fenomeno, ed il caso del giovane in questione, che ha ucciso senza emozioni la sua fidanzata, può darci la misura di quello che sta accadendo, perché un ragazzo che dopo un crimine così efferato non avverte nessun tormento e nessuna angoscia, non soffre di insonnia e si alimenta regolarmente, è una cosa che deve far riflettere. Il suo vissuto doloroso, il senso di inadeguatezza e la bassa autostima che lui manifestava apertamente, non bastano però da soli a giustificare un delitto tanto irresponsabile, inutile e privo di totale coscienza morale. Il senso di colpa, infatti, è il residuo degli atteggiamenti correttivi che abbiamo assorbito durante l’infanzia, come il castigo o la penitenza, e deriva da norme, divieti ed ordini che abbiamo memorizzato in maniera rigida, ed interiorizzato come un genitore virtuale, correttivo e punitivo, che non mostra indulgenza verso di noi, ma in mancanza del quale ci si sente liberi di agire, saltando tutte le regole. Il rispetto degli altri si impara già nei primi anni di vita, e fa sorridere l’annuncio di una proposta di legge da parte della sinistra parlamentare, per istituire dei corsi "antistupro", per insegnare ai giovani dei codici di vita con l’intento di contrastare la violenza sulle donne, perché quando si sente la necessità di far imparare a scuola quello che dovrebbe essere ovvio e già conosciuto nella esistenza reale, quel tentativo risulta irrisorio, se non ridicolo, perché nasce già compromesso. Ius soli, gli appelli degli intellettuali: "il governo ponga la fiducia" di Lucrezia Clemente La Repubblica, 22 settembre 2017 Due diversi appelli di esponenti del mondo della cultura - da Luigi Manconi a Furio Colombo e Luciana Castellina fino a Carlo Ginzburg e Goffredo Fofi - per chiedere alle istituzioni uno scatto sulla legge pel la cittadinanza. Continua la battaglia di intellettuali e professori per l’approvazione, prima della fine della legislatura, dello Ius soli, la riforma della legge sulla cittadinanza italiana. In mattinata il senatore democratico Luigi Manconi, insieme a Ginevra Bompiani, Furio Colombo, Luigi Ferrajoli, Luciana Castellina e il professor Franco Lorenzoni, ha presentato al presidente del Senato Pietro Grasso due appelli rivolti ai cittadini italiani e alle istituzioni. "La partita non è definitivamente chiusa, i tempi della legislatura consentono l’approvazione della legge" ha dichiarato Manconi, presidente della commissione per la tutela dei diritti umani al Senato. "Chiedo al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che su questo tema importante venga posta la questione di fiducia, ne vale della dignità del Parlamento". I due appelli, lanciati nei giorni scorsi hanno già raccolto oltre 6 mila adesioni tra cui quelle di prestigiosi intellettuali italiani, da Carlo Ginzburg a Goffredo Fofi, da Moni Ovadia a Erri De Luca. Il primo, "Appello Ius Soli" è stato proposto dall’editrice Ginevra Bompiani e fatto circolare successivamente in Senato da Manconi. "Ci sono due immaginari oggi, uno fatto di diffidenza e paura, su cui non si costruisce niente e l’altro di apertura e creatività. Si tratta di scegliere a quale dare voce" ha detto Bompiani, "lo ius sanguinis è come un dialetto che si appoggia alla lingua madre, lo ius soli invece è la lingua comune, approvarlo è una questione in primo luogo d’onore per l’Italia". Il secondo appello, che ha come primo firmatario il professor Franco Lorenzoni si rivolge invece direttamente agli insegnanti che il 3 ottobre, in occasione della giornata dedicata alla memoria delle vittime dell’emigrazione, cominceranno una mobilitazione di un mese per fare pressioni sull’approvazione della riforma. "Settecento insegnanti entreranno in uno sciopero della fame simbolico, già in 3 mila hanno aderito all’appello" racconta Lorenzoni, "i bambini che ho di fronte in classe ogni giorno hanno tutti la stessa dignità. La scuola è l’epicentro di una battaglia che riguarda tutti". La legge, bloccata al Senato da un anno e mezzo, dopo l’approvazione alla Camera, è fortemente contestata dalle forze di destra. Gli oltre 40 mila emendamenti presentati dalla Lega obbligano il Governo a porre la questione di fiducia per blindare la legge, ma i numeri per ottenerla ancora non ci sono, dopo il "no" dei senatori di Ap. "I numeri possono essere cambiati con la pressione dell’opinione pubblica" ha ricordato Luciana Castellina. E proprio alla destra nazionalista si è rivolto il giurista Luigi Ferrajoli, firmatario dell’ "Appello Ius soli": "voglio ricordare che la tradizione propria del diritto romano è quella dello Ius soli, mentre lo Ius sanguinis è di tradizione barbarica. È la stessa sicurezza che richiede la cittadinanza, evitando che si crei negli animi un senso di ingiustizia". Presente a palazzo Madama anche il giornalista Furio Colombo che ha dichiarato: "Non c’è alcuna argomentazione logica in base alla quale lo Ius soli comporti dei pericoli. Non riconoscere la cittadinanza a dei bambini cresciuti in Italia è una condanna disumana, stupida e contro la storia". Sul tema della ius soli, secondo il senatore Manconi, è stata fatta una campagna di disinformazione che ha deformato il senso della legge, dividendo l’opinione pubblica. "La legge va nella direzione di coloro che sono regolarmente in Italia, non di chi sbarca. L’appello è uno dei molti atti che intendiamo portare avanti. Ancora non è troppo tardi". Se la Gendarmeria del Vaticano allontana i clochard per "ragioni di decoro" La Stampa, 22 settembre 2017 Il Vaticano mette mano alla "pulizia" di piazza San Pietro con l’allontanamento dei troppi clochard della zona, per restituire decoro in un’area dove ogni giorno migliaia di pellegrini e di turisti si affollano per entrare in basilica o per visitare i Musei Vaticani. "È una questione di sicurezza e di buon senso", ha commentato il direttore della sala stampa vaticane Greg Burke. La situazione di degrado di piazza San Pietro nelle cui vicinanze sono nate anche alcune tendopoli e dove non di rado, raccontano poliziotti in servizio a Borgo Pio, si scatenano risse notturne tra alcuni clochard, aveva raggiunto una specie di punto di non ritorno quest’estate quando aveva fatto il giro del Web la foto di un senzatetto intento a urinare proprio sotto al colonnato del Bernini. Oltre che sollevare l’indignazione della Rete, l’episodio ha convinto anche l’autorità d’Oltretevere ad intervenire non per cacciare del tutto i barboni dall’area ma almeno per poter tenere la piazza più pulita e ordinata durante la giornata. Così nei giorni scorsi i giardinieri vaticani, addetti alle pulizie, sono intervenuti con la spazzatrice per una energica ripulita della piazza e del colonnato accompagnati da agenti della Gendarmeria vaticana col compito di assicurare che le operazioni potessero procedere anche nelle aree dove sono soliti accamparsi gruppi di senzatetto. L’azione del Vaticano è avvenuta inoltre in raccordo con l’ispettorato di Polizia di Borgo Pio (alcuni agenti in borghese hanno dato supporto ai gendarmi), con il Comune e con la stessa Ama. Per quanto riguarda i clochard, cui lo stesso papa Francesco ha voluto dare speciale accoglienza facendo predisporre per loro dei servizi di bagni e di docce e anche un dormitorio, potranno continuare a dormire la notte sotto i porticati ma quello che viene chiesto loro è di lasciare le aree libere la mattina per poter permettere ai mezzi di operare la pulizia. L’Elemosineria vaticana, fanno sapere dal Vaticano, continuerà ad occuparsi della loro accoglienza così come restano in funzione i bagni e le docce e tutti i servizi di assistenza operati finora come i pasti la sera. Papa Francesco è stato informato dell’intervento sulla piazza. L’obiettivo, ora, è quello di mantenere il nuovo standard di pulizia e di decoro ed evitare che la piazza sia trasformata ancora una volta in una "latrina". Un maggiore controllo dei gendarmi e degli agenti in borghese è ben visto anche dopo quanto accaduto nei mesi scorsi proprio ai bagni istituiti dal Papa. Gli agenti avevano scoperto, infatti, che alcuni clochard erano sottoposti alle violenze di altri senzatetto che imponevano una sorta di "pizzo" per l’accesso alle docce. Un presidio fisso dei gendarmi, ora smobilitato, ha consentito la cessazione di queste forme di prevaricazione sui più deboli. "La pena di morte scompaia dal mondo" di Roberto Giovene Il Dubbio, 22 settembre 2017 Iniziativa del Cnf e dell’associazione "Nessuno Tocchi Caino" per la moratoria. Il programma presentato a Tunisi si propone di contrastare le esecuzioni capitali, in un momento storico che vede l’aumento dei giustiziati per le leggi antiterrorismo. Visite ai condannati a morte al fine di ricostruire, nel rispetto della privacy la loro storia personale ed il contesto socioeconomico nel quale hanno vissuto, coinvolgimento ed ascolto anche degli operatori penitenziari, contatti con le famiglie dei detenuti ma anche con quelle delle vittime, coinvolgimento dei media e della società civile, queste alcune delle azioni che saranno intraprese nell’ambito del progetto dell’Associazione "Nessuno Tocchi Caino" sulla moratoria della pena di morte approvato dalla Commissione europea e presentato il 19 settembre a Tunisi. Il Consiglio Nazionale Forense partecipa a pieno titolo all’iniziativa in virtù del protocollo di intesa sottoscritto dal Presidente Andrea Mascherin il 26 maggio scorso con Nessuno Tocchi Caino, capofila del progetto, che si avvale della partnership dell’Istituto Arabo per i diritti umani, molto attivo in un quartiere periferico di Tunisi, con una serie di iniziative sul territorio che coinvolgono soprattutto le scuole, le famiglie ed i giovani. Il programma, che coinvolge anche l’Egitto e la Somalia, si propone di arrivare ad una moratoria della pena di morte, in un momento storico che vede l’aumento dei casi di condanna a morte, anche a causa delle leggi di emergenza introdotte in molti Stati per combattere il terrorismo internazionale e rassicurare l’opinione pubblica. Si tratta di riaffermare i principi non derogabili in ordine all’applicazione della pena di morte così come previsto dagli accordi internazionali e dalla risoluzione per la moratoria della pena di morte votata dall’Assemblea generale ONU, uniformandosi alle raccomandazioni in materia dell’Ue e dell’Onu. A tal fine nel corso del prossimo anno verrà organizzato un training per gli avvocati penalisti che difendono imputati che rischiano la pena capitale con l’obiettivo di garantire l’accesso alla giustizia per gli abitanti in zone remote, di ridurre il numero dei condannati a morte mediante i rimedi interni o internazionali, ottenendo la commutazione della pena o il perdono, di effettuare una prima selezione dei casi più rilevati da portare all’attenzione dei giudici nazionali e internazionali e di Costituire un gruppo di avvocati disposti ad operare gratuitamente per coloro che rischiano la condanna a morte. In Tunisia attualmente sono detenuti 67 condannati a morte di cui 37 definitivi e sono 45 le ipotesi di reato per cui può essere comminata la pena capitale. Nel Paese vige una moratoria de facto (le ultime due condanne a morte eseguite risalgono rispettivamente al 1981 ed al 1991) ma il numero di condanne comminate, comprese quelle non ancora passate in giudicato, sono passate dalle 3 del 2012 alle oltre 40 del 2016, per effetto delle leggi di emergenza promulgate dopo il tragico attentato al Museo del Bardo. Sono questi i numeri emersi nel corso dei lavori della conferenza internazionale di presentazione del progetto, intitolata "La pena di morte in tempo di guerra al terrorismo" alla quale hanno partecipato tra gli altri, oltre a chi scrive per il C. N. F., Elisabetta Zamparutti e Laura Harth per Nessuno Tocchi Caino, il Presidente dell’Istituto Arabo per i diritti umani Abdelbasset Ben Hassen, il Presidente della lega per i diritti umani della Tunisa avv. Abdessatar Ben Moussa, già presidente dell’Ordine nazionale degli Avvocati di Tunisia e componente il quartetto per il dialogo nazionale tunisino vincitore del Nobel per la pace 2015. Magistrati, parlamentari ed avvocati, moderati dal capo redattore del giornale Maghreb Zied Krichen, hanno avuto un’occasione di dibattito e confronto, alla quale hanno preso parte anche esponenti dell’amministrazione penitenziaria. I condannati a morte dopo la rivoluzione del 2011 possono ricevere le visite di avvocati e familiari, uscendo dall’isolamento totale cui prima erano costretti, ma continuano a vivere nell’incertezza, non essendo prevista la moratoria in alcun provvedimento legislativo. Una grande sfida, che ha spinto gli intervenuti alla Conferenza a chiedere la riapertura del dibattito in Tunisia per l’abolizione della pena di morte, nel solco della strada già intrapresa negli ultimi decenni che ha visto i paesi abolizionisti passare da 1/ 3 ai 2/ 3 del totale degli Stati, anche se il 60% della popolazione mondiale vive in Paesi nei quali vige ancora la pena capitale, tra i quali alcuni stati degli Usa, la Cina e l’India. Appello per Carmine Sciaudone, da un anno e mezzo detenuto a Bali di Roberta Sottoriva radioluna.it, 22 settembre 2017 Anche il Ministro Alfano scrive alle Autorità indonesiane. Nuovo appello del papà Gaetano: "È molto provato, lo voglio riportare a casa". È arrivata a oltre 21 mila firme la petizione internazionale per chiedere la liberazione di Carmine Sciaudone, il 35enne di Latina detenuto a Bali dopo essere stato assolto in primo grado dall’accusa di lavorare clandestinamente sull’isola indonesiana dove si era trasferito da qualche tempo. Il papà di Carmine torna a farsi vivo, dopo mesi di paziente silenzio e spiega: "Ad oggi Carmine è ancora in attesa che la Corte Suprema esamini il ricorso alla sentenza di assoluzione di 1° grado. Voglio sempre ricordare che fu accusato di svolgere un’attività non conforme al visto dai turista, una sera, su una barca, invitato, sistemava un proiettore". Del caso si sono interessati senza successo la Farnesina, il Sindaco di Latina, la Nunziatura Apostolica, il Vescovo, viceministri e qualche giorno fa anche il ministro Angelino Alfano. "Ma è dal 22 maggio del 2016 che questa storia va avanti, mio figlio non ha fatto nulla ed è molto provato voglio riportarlo a casa" è l’appello di Gaetano Sciaudone. Il caso di Carmine era stato portato all’attenzione nazionale anche dall’organizzazione internazionale Prigionieri del Silenzio come un caso di violazione dei diritti umani. Carmine è ancora oggi prigioniero del silenzio. Egitto. Perquisizione ai legali di Regeni: "Vogliono chiuderci" di Giuliano Foschini La Repubblica, 22 settembre 2017 L’allarme della Commissione egiziana for Right and Freedoms, dove lavorano i consulenti della famiglia del ricercatore italiano ucciso al Cairo: "La tempistica non è casuale. Abbiamo appena pubblicato un dossier su 378 casi di sparizione tra l’agosto 2016 e quello del 2017". La sicurezza nazionale e la polizia egiziana hanno perquisito al Cairo la sede dell’Ecrf, l’Egyptian Commissione for Right and Freedoms, dove lavorano i consulenti della famiglia Regeni. "Vogliono chiuderci, hanno persino cercato di mettere un sigillo alla porta" spiegano i componenti della commissione, sottolineando come l’associazione non sia un’organizzazione politica ma uno studio legale aggiungendo che la chiusura dell’ufficio era "illegittima" perché la loro Ong opera in conformità con la legge egiziana. La Ecrf è sotto attacco da mesi da parte del governo di Sisi. E in particolare in questi mesi, dopo la pubblicazione di un dossier sulle sparizioni forzate in Egitto e dopo il lavoro di ricerca e denuncia che stanno conducendo sul caso di Giulio Regeni: uno dei loro avvocati, Ibrahim Metwally, è stato arrestato mentre si recava a Ginevra per relazionare sulla situazione egiziana in un convegno delle Nazioni Unite. "Ancora una volta sembra che la libertà e la sicurezza di coloro che ci aiutano a far luce sulla morte di Giulio sono a rischio" hanno detto ieri Paola e Claudio Regeni insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini. I Regeni hanno annunciato la loro volontà di volare al Cairo per incontrare i consulenti e per chiedere il fascicolo della morte di Giulio che era stato promesso loro dal procuratore generale mesi fa, ma ancora non è stato consegnato. "La tempistica della perquisizione non è casuale" dicono dalla Ecrf. "Abbiamo appena pubblicato il dossier che documenta 378 casi di sparizione forzata tra l’agosto 2016 e l’agosto 2017. Metwally - continuano - è stato arrestato illegittimamente in Egitto e in carcere in questi giorni è stato torturato con l’elettroshock". Amnesty International ha lanciato una campagna per la liberazione di Metwally (a cui sono appena stati confermati 15 giorni di carcere), che oltre a essere avvocato è anche il padre di un ragazzo vittima di sparizione forzata: è stato arrestato l’8 luglio del 2013 e da allora non si sa più nulla di lui. Arabia Saudita. L’attacco finale alla libertà d’espressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 settembre 2017 Da quando, il 21 giugno, Mohamad bin Salman è diventato principe della corona, la situazione dei diritti umani in Arabia Saudita è ulteriormente peggiorata. Lasciamo da parte i crimini di guerra commessi da oltre due anni nel conflitto dello Yemen (grazie anche alle forniture di bombe dall’Italia) per raccontare cosa sta accadendo all’interno del paese, dove è in atto quello che pare l’attacco finale alle ultime vestigia della libertà d’espressione. Nel giro di neanche due settimane, sono stati eseguiti oltre 20 arresti di leader religiosi, scrittori, giornalisti, docenti universitari e difensori dei diritti umani. Il primo a finire in carcere nel nuovo giro di vite è stato, il 9 settembre, lo sceicco Salman al-Awda, un riformatore con oltre 14 milioni di follower sui suoi social da cui da tempo chiedeva, seppur nell’ambito della sharìa, riforme e maggiore rispetto per i diritti umani. Stessa sorte per l’accademico e scrittore Abdullah al-Maliki e l’imprenditore Essam al-Zayeb, entrambi sostenitori di riforme in campo sociale ed economico, arrestati il 12 settembre. Durante lo scorso fine settimana, sono stati portati in prigione Abdulaziz al-Shubaily (nella foto) e Issa al-Hamid, due membri fondatori dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici, la cui direzione è stata progressivamente ridotta al silenzio a partire dal 2013, quando è stata ordinata la chiusura dell’associazione. Le loro condanne, rispettivamente a otto e a 11 anni, sono diventate definitive. Molti difensori dei diritti umani stanno già scontando dure condanne ai sensi della legge anti-terrorismo del 2014, al termine di processi irregolari celebrati dal Tribunale penale speciale, la corte che si occupa di casi di terrorismo. Naturalmente, il terrorismo non c’entra niente. Si tratta della scusa con cui le autorità saudite intendono regolare i conti col dissenso interno e col movimento per i diritti umani.