Fine pena quando? di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 settembre 2017 Carceri sovraffollate e aumento dei suicidi, l’Italia torna a ignorare i diritti dei detenuti. Scia di sangue nelle carceri italiane, con tre suicidi nel giro di 24 ore. Il primo a togliersi la vita, nella notte tra martedì e mercoledì scorso, è stato un ventunenne di origini tunisine nel penitenziario Don Bosco di Pisa, impiccandosi con un lenzuolo nella propria cella. Il suicidio ha suscitato le proteste degli altri detenuti, che hanno dato vita a una rivolta, lanciando qualsiasi genere di oggetto dalle proprie celle e incendiando lenzuola e cuscini. Solo l’intervento della polizia in tenuta antisommossa ha riportato la calma. Poche ore dopo un altro detenuto si è tolto la vita, questa volta nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino. È un detenuto di origine sinti di 27 anni. Anche lui si è suicidato impiccandosi con un lenzuolo legato alle grate del bagno della cella. Stesse modalità del terzo suicidio di cui si è reso protagonista un detenuto 51enne di Cervia, recluso nel carcere di Ravenna in via cautelare. Un’escalation che porta a 40 il numero dei suicidi avvenuti nelle carceri italiane dall’inizio del 2017 (basti pensare che nel 2016 furono 45 durante tutto l’anno, e ora siamo solo agli inizi di settembre). E il bilancio sarebbe potuto essere ancor più grave, se si considerano i due tentati suicidi registrati, sempre nelle stesse ore, nel carcere di Rimini. L’impennata di suicidi è legata principalmente al ritorno della grande emergenza del sovraffollamento carcerario. Negli ultimi mesi, infatti, il tasso di sovraffollamento nelle strutture penitenziarie italiane è tornato paurosamente a crescere, passando dai 52.164 detenuti reclusi nel gennaio 2016 ai 56.766 di fine luglio di quest’anno, quasi 5 mila in più, a fronte di una capienza di 50 mila posti (tasso di sovraffollamento al 113 per cento). Anche se, come sottolinea puntualmente l’associazione Antigone, che da anni si batte per i diritti dei detenuti, la capienza formale non tiene conto delle tante sezioni dei penitenziari chiuse perché inagibili o in ristrutturazione, situazione che fa spiccare ancora più in alto il tasso di sovraffollamento in alcune carceri, come a Como (186,6 per cento) o Busto Arsizio (174,2). Così in alcune strutture si è tornati a ospitare i detenuti in spazi inferiori ai 3 metri quadrati, la fatidica soglia indicata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al di sotto della quale la detenzione è classificabile come "trattamento inumano e degradante". Espressione ben nota all’Italia, che negli ultimi 20 anni ha ottenuto il record di sentenze di condanna da parte della Corte di Strasburgo per violazione dei diritti umani dei carcerati (dietro solo alla Turchia), e che nel 2013 provò la vergogna di vedersi aprire un fascicolo da parte della Cedu, con verifica annuale del rispetto delle sentenze. Nel 2016, a fronte di un considerevole calo del numero dei detenuti, la procedura venne definitivamente archiviata, con grande gaudio del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il quale però si spinse anche a dire che "il nostro Paese viene indicato dal Consiglio d’Europa come esempio da seguire nell’affrontare il tema del sovraffollamento". Beh, evidentemente proprio di esempio non si può parlare se ora, a distanza di quasi due anni, le carceri esplodono di nuovo e nel giro di tre anni potrebbero tornare ai livelli di emergenza del 2010, quelli che spingevano Marco Pannella a parlare di "flagranza di reato" dello stato italiano contro i diritti umani. Insomma, come uno scolaro indisciplinato, venuto meno lo sguardo severo della maestra Europa, l’Italia è tornata a ignorare i diritti dei detenuti. Tra questi ci sono anche i reclusi in attesa di sentenza definitiva, dunque oggetto di misure di custodia cautelare: sono 19.308, cioè il 34 per cento del totale, di cui ben 9.261 persino ancora in attesa di primo giudizio (16 per cento). Tutti ancora teoricamente innocenti, ma condannati preventivamente. Dell’italica culla del diritto non v’è più neanche l’ombra. Alessandra Kustermann. "L’emergenza stupri? Non c’è. Serve solo prevenzione" di Viviana Daloiso Avvenire, 21 settembre 2017 La donna a capo dell’unico centro pubblico antiviolenza in Mangiagalli a Milano: "L’emergenza stupri? Non c’è". Del Soccorso violenza sessuale e domestica (Svs) attivo presso la Clinica Mangiagalli di Milano si è parlato molto negli ultimi anni. È l’unica struttura pubblica di questo tipo in Italia, operativa 24 ore su 24 con 2 psicologi, 2 assistenti sociali, 2 infermieri specializzati e un medico legale. Un luogo in cui gli stupri si incontrano, e si affrontano, ogni giorno. "Per questo sono così infastidita da questo dibattito insistente e lontano dalla realtà" spiega Alessandra Kustermann, primario del Pronto soccorso dell’ospedale milanese e fondatrice del centro. Ci troviamo davanti a un’emergenza stupri? Nient’affatto. I numeri degli ultimi mesi, sia a livello nazionale che nel nostro centro, sono assolutamente in linea con quelli passati. Anzi, preciserò un dato di cui per ora nessuno parla: negli ultimi tre mesi abbiamo lavorato molto meno con le donne straniere che di solito arrivavano qui in seguito alle violenze subite nei centri di detenzione in Libia, prima di imbarcarsi alla volta dell’Italia. Gli sbarchi sono diminuiti, e sono diminuite in maniera rilevante anche le vittime di stupri. Quelli non interessano... Esattamente. Come poco interessa precisare che gli stranieri, con gli stupri, c’entrano assai poco. Che la gente ha bisogno di un nemico, che s’è deciso che il nemico siano gli stranieri e che allora sì, per questo all’improvviso conviene parlare di stupri. Questa riflessione esula il contesto sanitario, di cui sono chiamata a parlare come medico e primario, ma mi piacerebbe tanto che si mettesse un silenziatore sull’argomento. È un appello che vorrei poter fare pubblicamente. Torniamo alla sanità, allora. Qual è la situazione a Milano? Nel nostro centro trattiamo mediamente 1.100 casi di violenza l’anno. Il trend è confermato per il 2017. Circa la metà sono stupri, su donne nella stragrande maggioranza dei casi, ma anche su minori e in casi sporadici (che esistono) su uomini. Per quanto riguarda gli stupri in strada, cioè compiuti da sconosciuti, registriamo una minoranza di casi: 40, mediamente. Tutti gli ospedali sono attrezzati per gestire questo tipo di violenza? Nient’affatto. E su questo si dovrebbe lavorare subito: attrezzare i Pronto soccorso di tutta Italia ad accogliere e trattare la violenza di genere, e anche la violenza sessuale, in collaborazione con le forze dell’ordine e coi centri antiviolenza locali. Serve una rete, serve una risposta, anche per trasformare la violenza subita in denuncia. E per la prevenzione? Cosa pensa per esempio della castrazione chimica? Non serve a nulla. Lo stupratore agisce non per libido, ma per disprezzo nei confronti della donna. La maggior parte delle violenze sessuali che trattiamo, per esempio, avviene alla fine di una rapina: è l’atto di estremo oltraggio alla vittima, l’esercizio di un potere e di un dominio. Bloccare il desiderio sessuale, si capisce, non produce alcun risultato se non in casi rari. Nemmeno la galera serve, per altro: lo stupro è il reato con la maggior recidiva, lo stupratore esce dal carcere ancor più rabbioso. E scarica la violenza su un’altra donna. Che fare allora? Disabituare alla violenza. Trattarla prima che esploda, affrontando i conflitti in famiglia e nella coppia (esistono centri apposta). Disinnescarla dall’infanzia con un’operazione educativa capillare di cui c’è più che mai urgenza nel nostro Paese. Codice antimafia vicino al traguardo, confermata l’estensione della confisca alla corruzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2017 Codice antimafia avanti. Con cautela però. La commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame del provvedimento, respingendo tutti gli emendamenti al testo che da lunedì sarà all’esame dell’Aula. Nessuna modifica, quindi, e conferma dell’applicazione delle misure di prevenzione previste dal Codice al reato di truffa aggravata per ottenere finanziamenti pubblici e all’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro la pubblica amministrazione, dal peculato alla malversazione, alla concussione alla corruzione (anche in atti giudiziari). Interessate anche l’induzione indebita e la corruzione di persona incaricata di pubblico servizio. Resta, anche senza il vincolo associativo, l’estensione in caso di stalking. Ma è lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando ad anticipare possibili correttivi. "Credo sia emerso dalla discussione - ha sottolineato Orlando che è intervenuto ai lavori della commissione - che è vero che l’area delle misure di prevenzione si estende, ma cambia profondamente la loro natura, nel senso che viene giurisdizionalizzato il procedimento che porta alla loro assunzione, e questo consentirà di fare emergere le posizioni di chi è colpito da questi provvedimenti e quindi esercitare, secondo le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto alla difesa". "Riteniamo - ha proseguito Orlando - che dove possono esservi le condizioni di una precisazione anche sulla base di un ordine del giorno del Parlamento che circoscriva meglio l’esercizio di questo potere e faccia una ricognizione dei reati sottoposti a questo tipo di misure saremo disponibili a recepire questa indicazione e a metterla in atto. Attendiamo che il Parlamento ci dia una indicazione puntuale su quale è l’elemento che si ritiene sia rischioso e sulla base di quella indicazione abbiamo dato disponibilità a muoverci". E proprio dal Pd, ha annunciato, il capogruppo Walter Verini in commissione Giustizia, verrà presentato un ordine del giorno in cui si impegna il governo a trovare un correttivo all’equiparazione tra mafiosi e corrotti che ha sollevato diverse perplessità. "Verremo incontro alle riserve sollevate da personalità come Cantone - ha detto Verini - perché successivamente al varo del provvedimento si possa affrontare questa questione. La cosa fondamentale è approvare definitivamente il codice antimafia e raggiungere così un traguardo storico, metterlo su un binario morto sarebbe imperdonabile". E la presidente della commissione, Donatella Ferranti mette l’accento sulla necessità di un monitoraggio da una parte, ama anche sull’obbligo di non affossare la revisione del Codice: "quel che non possiamo fare è buttare a mare una riforma che mette ordine nelle misure di prevenzione, garantisce un processo giusto anche nelle misure di prevenzione, valorizza e riordina l’Agenzia per i beni confiscati e sostiene le azienda sane confiscate alla mafia dando un messaggio importante di legalità. Tutto il resto si può fare successivamente con piccoli interventi, mettendo maggiormente a sistema la normativa". Si sblocca la riforma dei fallimenti e sull’allerta spazio al Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2017 Decolla la riforma del diritto fallimentare. Che a questo punto potrebbe diventare uno dei punti veramente qualificanti di questo scorcio finale della legislatura. All’interno della maggioranza, si fa sapere dal ministero della Giustizia, è stata raggiunta l’intesa politica per arrivare a una rapida approvazione al Senato del disegno di legge. Senza emendamenti, evitando in questo modo di rinviare il testo alla Camera, con successivo intreccio con la sessione di bilancio e allungamento dei tempi. E al ministero si stanno già scaldando i motori (in vista l’istituzione di un gruppo di lavoro) per la redazione del decreto delegato. L’obiettivo, anche dopo lo stralcio della parte dedicata all’amministrazione straordinaria, è di arrivare a un restyling complessivo della Legge fallimentare, approvando un vero e proprio testo unico dell’insolvenza. L’accordo sulla legge delega, al momento in discussione in commissione Giustizia e dalla prossima settimana all’ordine del giorno dell’Aula, dovrebbe così permettere l’introduzione di un pacchetto di modifiche alla nostra legislazione della crisi d’impresa, più volte sottoposta a modifiche in questi anni, facendo debuttare novità assolute per il nostro ordinamento e da tempo assai discusse. Sopra a tutte, senza dubbio, l’introduzione di misure d’allerta. Nella versione messa a punto con i criteri di delega della commissione Rordorf (la commissione della Giustizia che ha preparato il testo del provvedimento) viene previsto un meccanismo di emersione tempestiva delle situazioni di crisi d’impresa, nell’intenzione di evitare che difficoltà magari temporanee e ancora risolvibili sfocino poi in un’insolvenza conclamata. Nel passaggio alla Camera, nel febbraio scorso, è stato sciolto uno dei nodi più delicati ammettendo che i creditori qualificati, Fisco e Inps, effettuino la segnalazione dei casi di mancato pagamento di imposte e contributi. Segnalazione però che andrà indirizzata non più all’autorità giudiziaria, ma all’organismo di composizione della crisi, istituito nell’ambito della disciplina del sovra-indebitamento delle persone fisiche e delle piccolissime imprese, che si conferma centrale nello sviluppo della procedura. Sarà lui infatti a dovere formulare una proposta, entro 6 mesi dalla proposizione dell’istanza, per arrivare a un’uscita soft dalla fase di difficoltà. Per incentivare l’imprenditore a rendere evidente l’impasse gestionale e a bilanciare lo sbocco giudiziale con segnalazione al Pm in caso di inefficacia della allerta, scatterà poi anche un aiuto di natura penale, con una copertura da possibili contestazioni di alcuni fatti di bancarotta. Significative poi anche le modifiche alla disciplina del concordato preventivo, dove, alla legittimazione per il terzo a promuovere il procedimento nei confronti dell’imprenditore ormai in insolvenza, si affianca la revisione dei poteri del tribunale non in astratto, ma con particolare riferimento alla valutazione della fattibilità del piano "attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla realizzabilità economica dello stesso". Esteso poi l’obbligo del sindaco unico a tutte le società a responsabilità limitata che si pongono al di sotto della soglia di 2 milioni di ricavi o 10 dipendenti. Ma nella delega trovano posto anche modifiche al Codice civile di particolare importanza come il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. Non solo. Nel Codice dovrà essere anche regolamentato il dovere, sempre per imprenditore e organi sociali, di attivarsi per l’adozione, anche qui tempestiva, di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. E ancora, a corollario, sempre nel Codice dovranno essere inseriti i criteri di quantificazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità promossa contro l’organo di amministrazione della società. Primo sì al nuovo reato contro le truffe ai danni degli anziani di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2017 Un nuovo reato per proteggere gli anziani. Nel Codice penale potrebbe entrare, se il Senato confermerà l’approvazione data ieri dalla Camera al disegno di legge, il delitto di frode patrimoniale a danno di un soggetto vulnerabile in ragione dell’età avanzata. In pratica, chi con mezzi fraudolenti induce un anziano a dare (o promettere) indebitamente denaro o altra utilità rischierà il carcere da due a sei anni e la multa da 400 a 3.000 euro. La frode è però punita solo se il fatto è commesso in casa o dentro o vicino a negozi, uffici postali, banche, ospedali e case di riposo oppure se si simula un’offerta commerciale. Spetta al giudice valutare la condizione di particolare vulnerabilità in rapporto all’età. Se la frode è commessa per telefono o internet scatterà l’aggravante. La pena aumenta anche quando chi raggira si avvale di dati personali acquisiti fraudolentemente o senza consenso. La condanna per frode ai danni di un anziano comporta la confisca (anche per equivalente) dei beni che ne costituiscono profitto o prezzo. È applicabile la custodia cautelare in carcere ed è obbligatorio l’arresto in flagranza. La sospensione condizionale della pena, inoltre, è subordinata alla restituzione e al pagamento del risarcimento del danno e all’eliminazione delle conseguenze del reato. Aumenterà poi la pena per il delitto di circonvenzione di incapace: la reclusione passerà dall’attuale forbice di 2-6 anni a 2-7 anni e la multa da 206-2.065 euro a 1.302-3.500 euro. Le limitazioni alla sospensione condizionale della pena e l’obbligatorietà del’arresto in flagranza valgono anche per questo reato. Il reato però deve essere stato commesso nei confronti di un soggetto ultrasessantacinquenne, ma che non sia in stato di incapacità a causa di patologie di decadimento oppure di indebolimento delle facoltà mentali: in questo caso infatti deve essere applicata la fattispecie criminale di circonvenzione di persone incapaci prevista dall’articolo 643 del Codice penale. Forti le perplessità di Forza Italia, che si è astenuta. A spiegarle, Francesco Paolo Sisto: "La misura contro le truffe o le frodi verso soggetti vulnerabili porta con se evidenti criticità sia tecniche sia di approccio. Non solo la fattispecie disegnata è già prevista e punita dal Codice penale, ma per come è stata definita presenta anche gravi profili di indeterminatezza: basti pensare ai riferimenti all’età avanzata o alla particolare vulnerabilità delle vittime, che sono altrettanti autogol rispetto alla necessaria specificità della norma penale". La barbarie del caso Mastella: quanti come lui? di Valter Vecellio L’Indro, 21 settembre 2017 Lo "stile" del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è riassumibile nell’espressione "pugno di ferro, guanto di velluto". Persona, insomma, decisa, determinata, riservata; capace di battute di sottile, micidiale umorismo e di accorta, sottile intelligenza. Si potrebbero citare una quantità di episodi, al riguardo, ma soprattutto li possono citare Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: loro altisonanti, enfatici, retorici, ridondanti, tronfi; lui asciutto, essenziale, sobrio, dimesso, spoglio. Eppure, quando il match si avvia alla fase finale, chi è che colpisce ai fianchi e mozza il respiro, chi sfianca e con "naturalezza" ti fa trovare schiantato sul tappeto senza appello? Alla cerimonia di celebrazione del bicentenario della fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria alle Terme di Caracalla a Roma, Mattarella si limita a un messaggio. Non più di venti righe di saluto. Un’intramuscolare, senza sbavature, composto e apparentemente di rito. Non fosse per nove parole, pesate e cesellate ad arte: "pur a fronte delle innegabili criticità del sistema carcerario". È qui, la carne del messaggio quirinalizio. Una classe politica stolta può fingere di non aver compreso; fingere di non vedere quell’indice ben teso. Una classe politica accorta, non necessariamente intelligente, ma perlomeno scaltra, ne dovrebbe, al contrario, fare tesoro. Non fosse altro per un riflesso di autoconservazione. Se ne è parlato per ventiquattr’ore; poi come cosa fastidiosa, se la sono scrollata di dosso, rimossa. L’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, accusato una decina d’anni fa di tentata concussione - imputazione poi trasformata in indebita induzione - viene assolto: il fatto non costituisce reato. Per questo verdetto ha dovuto attendere nove anni. Poteva essere condannato, la sostanza del discorso non muta: sempre nove anni di attesa, ed è questa la questione. "È una riparazione a dieci anni di sofferenze", dice ora Mastella. Al di là di Mastella e della sua consolazione: è una ennesima vicenda che dovrebbe far riflettere su come vanno le cose di giustizia in Italia: nove anni sulla graticola, e poi assolti. Nove anni in attesa di processo, con conseguenze umane e politiche che ci sono state è una barbarie, e non c’è altro modo per definire questa situazione e tantissime altre simili; e spesso, a volte molto più gravi. Processi troppo lunghi, troppa custodia cautelare, troppe celle disponibili solo in teoria, troppo basso il ricorso alle misure alternative che abbattono la recidiva. In alcuni penitenziari siamo di nuovo sotto la soglia minima dei 3 metri quadri per detenuto: alcuni carceri hanno quasi il doppio dei detenuti rispetto ai posti. È di questo che ci ha condannato il Comitato per la prevenzione e la tortura, dipendente dal Consiglio d’Europa dopo aver effettuato alcune ispezioni e ricognizioni nelle prigioni italiane. Anche di questo rapporto si è parlato poco e solo un giorno. Ennesima mancata occasione per un dibattito, un confronto, una riflessione politica che non si vuole ci sia. La questione giustizia è completamente espulsa dall’agenda politica italiana. Non ne vuole parlare nessuno. Nelle prigioni italiane ci sono più persone che in città come Sanremo, Cuneo, o Agrigento. Almeno 57mila i detenuti; oltre 30mila gli agenti di Polizia. Le cifre non dicono tutto, ma qualcosa possono spiegare. Allora: nel 1990 il tasso di detenzione in Italia era di 45 detenuti su 100mila abitanti; due anni dopo raddoppia. Gli ingressi annuali in carcere passano dai quasi 60mila del 1990 agli oltre 100mila del 1994. Presenze giornaliere negli istituti penitenziari: nel 1991 oltre 35mila; l’anno successivo più di 47mila. Di colpo le carceri si riempiono di detenuti; le carceri scoppiano. Come mai? Un fenomeno, spiega Stefano Anastasia, fondatore dell’associazione Antigone e garante dei detenuti della regione Lazio: "Sostanzialmente lo si deve a tre-quattro leggi: la Iervolino-Vassalli sulle droghe, a cui poi è seguita la Fini-Giovanardi; le leggi Martelli, Turco-Napolitano e Bossi-Fini sull’immigrazione; la Cirielli, che ha aggravato le pene e impedito l’accesso alle alternative al carcere ai condannati con precedenti specifici". Nel 2013 l’Italia è condannata dall’Europa per il sovraffollamento e approva una serie di misure per cercare di arginare il problema; ma oggi la situazione è tornata a livelli preoccupanti. Intanto, ‘fuorì cresce, alimentata da una classe politica in cerca di facile consenso, l’ansia di sicurezza dei cittadini. Sono gli anni del populismo penale, grimaldello per ricavare benefici elettorali. Si alimenta così la paranoia di vivere in un paese in perenne emergenza criminalità. Una lettura che cifre e fatti smentiscono: nel 2006 vengono denunciati 2.771.490 delitti. Nel 2015 se ne denunciano 2.687.249. Nel 1991 gli omicidi sono 1.773; nel 2016 sono 245. Negli ultimi dieci anni le rapine in banca crollano del 90 per cento: nel 2007 sono 2.972; nel 2016 sono 360. Nel 1993 il 31,2 per cento delle famiglie italiane ha la percezione di vivere in una zona a rischio criminalità. Nel 2015 la percentuale sale al 38,9 per cento. Ancora: la pena del carcere può corrispondere a un’esigenza di "giustizia"; chi sbaglia, paghi. Non corrisponde invece a un pragmatico ed efficace criterio di sicurezza. Anzi, il bilancio è di molto discutibile. Uno studio del 2007 dell’Osservatorio delle misure alternative svela la differenza che corre tra lo scontare l’intera pena in carcere e il poter accedere a misure alterative, come l’affidamento ai servizi sociali. Nel 1998, vengono scarcerate 5.772 persone; 3.951 di loro le ritroviamo di nuovo in carcere nel 2005: quasi il 70 per cento è diventato recidivo; la percentuale di recidiva scende al 19 per cento se si tiene conto dei detenuti che erano stati affidati in prova ai servizi sociali. Vita di e in carcere. Ecco come la descrive un detenuto: "C’è chi passeggia per ore lungo i corridoi e non parla con nessuno, imbottito di psicofarmaci. Chi fa mille addominali al giorno e chi non esce mai dalla cella. C’è anche chi studia e chi lavora, ma sono pochi e fortunati. In carcere si aspetta sempre qualcosa, il medico, l’agente, l’educatore, il volontario, il pasto, la messa, una lettera. Nella mia sezione ci sono molte persone che passano le giornate seduti di fronte al cancello, se dovessi chiedergli cosa stanno aspettando mi risponderebbero che non lo sanno, oppure risponderebbero, "qualche novità". Voi lo sapete cosa farete tra un anno? Tra quattro mesi? Tra sette anni e un giorno? Non lo sapete. Io so cosa farò ogni giorno della mia vita, per i prossimi vent’anni". Prima di chiudere: dal 2000 a oggi nelle galere italiane sono morte 2.695 persone: 974 si sono suicidate. Dall’inizio del 2017 i suicidi sono stati 41. Calabria: approvato pdl che istituisce la figura del Garante regionale dei detenuti Corriere della Calabria, 21 settembre 2017 La commissione Affari istituzionali ha approvato all’unanimità il progetto di legge a firma del presidente Franco Sergio che istituisce la figura del "Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale". Il testo base dell’articolato normativo è frutto dell’esame abbinato di due proposte di legge, rispettivamente a firma del presidente del consiglio regionale Nicola Irto e del presidente della prima commissione Franco Sergio. "Oggi - ha commentato Sergio - si è concluso un lavoro proficuo che la prima commissione ha portato avanti con il notevole apporto dei colleghi consiglieri e che consente di allineare la Calabria al resto del Paese in tema di tutela di diritti umani essenziali per coloro i quali per motivi di giustizia sono sottoposti a misure restrittive e limitative della libertà personale. Il garante rappresenta una figura di mediazione dotata di autorevolezza istituzionale autonoma sia rispetto all’amministrazione penitenziaria che all’amministrazione giudiziaria, indipendente, in grado di intervenire di propria iniziativa o su richiesta, sia per migliorare le condizioni detentive all’interno delle strutture che per l’esercizio dei diritti essenziali dell’uomo. Pertanto rappresenta un riferimento diretto per tutti coloro i quali si trovano nelle condizioni sopraesposte. Si è giunti a questa approvazione, dopo aver dato anche spazio, acquisendone il prezioso contributo e i suggerimenti nel corso delle audizioni, (oggi è intervenuta Maria Ciaccio per il dipartimento Politiche sociali della Regione), a tanti professionisti addetti del settore (tra gli altri Emilio Enzo Quintieri del Movimento nazionale dei Radicali italiani; Gianpaolo Catanzariti referente dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali italiane; Agostino Siviglia garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria; Caterina Arrotta direttrice della Casa Circondariale di Paola; Angela Marcello della Casa di Reclusione "Daga" di Laureana di Borrello). Il valore che assume il Garante dei detenuti va oltre l’accertamento delle condizioni detentive e può costituire un contributo per l’acquisizione di una nuova cultura generale di capacità e responsabilità d’intervento negli istituti penitenziari e rappresenta una figura di riferimento anche rispetto alle problematiche afferenti il sovraffollamento, la condizione di vivibilità delle strutture e i diritti basilari dell’uomo (vita, dignità, salute, religione, famiglia, formazione, istruzione, lavoro, risocializzazione)". Palmi (Rc): visita dei Radicali in carcere "ci sono 68 detenuti in esubero" inquietonotizie.it, 21 settembre 2017 La nota dei radicali italiani dopo la visita alla struttura effettuata nei giorni scorsi. Le condizioni strutturali del Carcere di Palmi sono critiche ma a breve ci saranno dei miglioramenti. Lo dice Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani che, nei giorni scorsi, unitamente a Valentina Anna Moretti, esponente dei Radicali Italiani, ha fatto visita alla Casa Circondariale di Palmi "Filippo Salsone", entrambi autorizzati all’accesso in Istituto dai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Ad accogliere la delegazione radicale, stante l’assenza del Direttore dell’Istituto Romolo Pani per motivi di salute, c’era il Commissario Capo Paolo Cugliari, Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, il Vice Ispettore Maurizio Tardio, Coordinatore della Sorveglianza Generale ed il Sovrintendente Massimo Ranieri che, dopo un breve colloquio, hanno accompagnato i visitatori all’interno della struttura detentiva. Nell’Istituto di Palmi, al momento della visita, vi erano 163 detenuti, 13 dei quali stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 152 posti, dai quali però vanno sottratti 57 posti (68 detenuti in esubero), a causa della chiusura del primo piano del Reparto dell’Alta Sicurezza per lavori di ristrutturazione finalizzati al rifacimento dell’impianto tecnologico a servizio della centrale termica e propedeutico alla realizzazione delle docce all’interno delle camere di pernottamento ed all’abolizione degli illegali locali doccia in comune. Le persone detenute appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza sono 109 mentre 54 sono quelli appartenenti al Circuito della Media Sicurezza, c.d. "comuni". Relativamente alle caratteristiche della popolazione detenuta su 163 detenuti, 93 sono giudicabili, 35 appellanti, 14 ricorrenti e 21 definitivi. Vi sono, altresì, 2 detenuti lavoranti all’esterno ma all’interno dell’intercinta muraria secondo quanto previsto dall’Art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario. Altri 30 detenuti, invece, lavorano all’interno dell’Istituto alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Fortunatamente, a differenza di altri Istituti Penitenziari della Calabria, nell’Istituto di Palmi, ormai da anni non vi sono "eventi critici" (decessi, suicidi, tentati suicidi, atti autolesionistici, risse, etc.) ed anche le sanzioni disciplinari sono ridotte ai minimi termini. Ciò conferma la professionalità di tutto il personale in servizio nella Casa Circondariale di Palmi, principalmente della Polizia Penitenziaria nonostante la carenza d’organico (96 unità presenti su 122, tante delle quali con oltre 25 anni di servizio effettivo) e dell’Area Giuridico Pedagogica (5 presenti su 5 previsti, di cui 4 a tempo pieno ed 1 in distacco presso la Casa Circondariale di Salerno) ed infine, più in generale, dell’Autorità Dirigente, molto sensibile ai problemi ed ai disagi, individuali e collettivi, delle persone ristrette. Buona anche la presenza della Società esterna: nell’Istituto fanno ingresso 36 volontari ex Art. 17 O.P. ed altri 11 volontari ex Art. 78 O.P. Il Reparto Isolamento, situato in un corpo di fabbrica separato dagli altri ed inutilizzato da oltre 4 anni, a breve, grazie ad un progetto di 50.000 Euro, finanziato dalla Cassa delle Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sarà ristrutturato ed all’interno dello stesso saranno realizzate 5 sale attrezzate per la videoconferenza, al fine di contenere i rischi e gli oneri attualmente sostenuti per le numerose traduzioni dei detenuti innanzi alle competenti Autorità Giudiziarie. Per quanto è dato sapere, al momento, la Casa Circondariale di Palmi dovrebbe essere uno dei pochi Istituti in Calabria in cui sarà possibile seguire i processi a distanza tramite il sistema di videoconferenza. Altre progettualità, presentate dalla Direzione dell’Istituto, sono state finanziate dalla Cassa delle Ammende (realizzazione di un impianto polivalente pallacanestro e pallavolo, adiacente al campo sportivo) ed altre sono in corso di valutazione (rifacimento facciate esterne e sostituzione degli infissi e reti metalliche). La Delegazione di Radicali Italiani lunedì 25, nel pomeriggio, si recherà in visita alla Casa Circondariale di Catanzaro "Ugo Caridi", diretta dal Dirigente Penitenziario Angela Paravati, ove nei giorni scorsi, è stato finalmente attivato il Servizio Multi-professionale Integrato di Assistenza Intensiva (Sai), destinato all’assistenza sanitaria specialistica delle persone detenute provenienti sia dagli Istituti Penitenziari della Calabria che di altre Regioni d’Italia. Emilio Enzo Quintieri Movimento Nazionale Radicali Italiani Avezzano (Aq): Regione e Casa circondariale unite nel reinserimento dei detenuti infomedianews.it, 21 settembre 2017 L’intesa tra l’Agenzia del Servizio Regionale e la struttura circondariale avezzanese arriva in occasione delle celebrazioni del bicentenario del corpo di Polizia Penitenziaria, svolte oggi al Castello Orsini. Soddisfazione espressa dal direttore dell’istituto marsicano, Anna Angeletti. Un’azione formativa volta al reinserimento sociale dei detenuti. Soggetto attuatore l’Agenzia del Servizio Regionale Beni Culturali di Avezzano-Rocca di Mezzo. L’Agenzia è direttamente coinvolta nel bicentenario della Fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, celebrato oggi al Castello Orsini del capoluogo marsicano, cui ha preso parte anche la Responsabile di Avezzano Annamaria Marziale. La convenzione triennale, stipulata a settembre del 2016 tra la Regione Abruzzo, ora Dipartimento Cultura DPH (nel periodo dell’Intesa siglata era Direzione Cultura e Servizi Culturali) e la Casa Circondariale a Custodia Attenuata di Avezzano - Ministero di Giustizia Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, è volta a promuovere un’azione formativa/informativa per il reinserimento del detenuto. La custodia attenuata infatti si realizza per una "detenzione a fine pena" volta al reinserimento, come avviene ad Avezzano, per i suoi circa 50 detenuti, oltre la metà extracomunitari. L’iniziativa si fa attraverso lo stimolo ad un percorso culturale finalizzato alla crescita personale e alla rieducazione. Un progetto che si concretizza con un’educazione alla lettura di testi specifici, dal valore sociologico e/o letterario, che ogni settimana Franca Gennuso, alle dipendenze dell’Agenzia, svolge tra le mura della Casa Circondariale e con appuntamenti di cine-forum attinenti anche alle tematiche dei testi letti. La Casa circondariale si avvale, inoltre, di un piccolo sistema di informatizzazione dei libri custoditi nel carcere. Tra le attività in essere anche quella di 2 detenuti che si occupano di manutenzione e gestione dei libri nella casa restrittiva. Ha parlato di carcere inteso come "mondo di conoscenza" Anna Angeletti, direttore da 9 mesi della Casa Circondariale di Avezzano. "In 24 anni di attività - ha aggiunto - ho imparato ad ascoltare sospendendo ogni giudizio". L’utilità di una legge di riforma del Corpo di Polizia è stata sottolineata dal Sindaco di Avezzano, Gabriele De Angelis; di fierezza del suo lavoro ha invece parlato Vera Poggetti, dirigente della Polizia Penitenziari di Rieti che, in gemellaggio con Avezzano, ha celebrato l’evento. Terni: alla Casa circondariale corso di formazione per detenuti assistenti alla persona terninrete.it, 21 settembre 2017 Dal 19 settembre per otto incontri di tre ore ciascuno, si svolgerà presso la Casa circondariale di Terni un corso per educare all’assistenza alla persona in condizione di disagio psichico, e/o fisico, e/o sociale. I responsabili scientifici sono il Dr. Antonio Marozzo, Direttore del Presidio Sanitario Usl Umbria2 Casa circondariale di Terni e la Dr.ssa Chiara Pellegrini, Direttrice della Casa circondariale di Terni. Gli obiettivi del corso sono quelli di far conoscere e saper applicare nella pratica i principi base di una corretta igiene personale e degli ambienti; apprendere le tecniche di mobilizzazione della persona in relazione alla presenza di limitazioni fisiche; acquisire gli elementi base di primo soccorso, con particolare attenzione alle procedure di allerta dei soccorsi e di stabilizzazione delle funzioni vitali; sviluppare attraverso tecniche psicologiche capacità di attenzione alle dinamiche comportamentali; accrescere le capacità di relazione con gli altri; saper cogliere i segni e sintomi di un grave disagio psichico. I destinatari del corso saranno i detenuti del circuito Media Sicurezza della Casa Circondariale di Terni. I docenti del corso saranno la Dr.ssa Bellanca Morena, Dirigente Psicologa presso la Casa Circondariale di Terni Usl Umbria 2, Dr.ssa Biscontini Sonia, Direttore di Dipartimento delle Dipendenze Usl Umbria2, Dr. De Santis David, Coordinatore Infermiere Casa Circondariale di Terni Usl Umbria2, Dr. Trequattrini Angelo, Responsabile Medico Spdc di Terni Usl Umbria2. Trapani: prevenzione dei suicidi in carcere, incontro alla Cittadella della Salute siciliaogginotizie.it, 21 settembre 2017 Vertice operativo alla Cittadella della Salute, sede del distretto sanitario di Trapani, tra il direttore del Dipartimento Cure primarie dell’ASP, Cono Osvaldo Ernandez e il direttore delle carceri di Trapani e di Favignana, Renato Persico, per l’attuazione del "Protocollo per la prevenzione dei suicidi in ambiente carcerario", siglato lo scorso luglio dal commissario dell’Azienda sanitaria provinciale di Trapani Giovanni Bavetta e dalla Direzione degli istituti penitenziari di Trapani e Favignana. "Sono stati affrontati - spiega Ernandez - gli aspetti operativi e organizzativi del protocollo e individuati gli attori coinvolti. Questo pone le premesse per una fattiva e produttiva collaborazione tra le due Amministrazioni pubbliche". Dal 2016 sono state trasferite all’ASP le funzioni di medicina penitenziaria. Oltre alla cura e all’assistenza medica dei detenuti, si interviene così anche per il disagio psicologico e il disturbo psichico. Il protocollo per le riduzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti della casa circondariale di Trapani e della Casa di Reclusione di Favignana prevede, tra l’altro, le modalità di valutazione multidisciplinare dei nuovi detenuti, la valutazione, il monitoraggio e la gestione di eventuali fattori di rischio e/o disagio, le diverse modalità di intervento nei casi di autolesionismo, tentativo di suicidio e suicidio, e le attività di formazione congiunta circa le attività di rischio clinico e di auditing, a cura dell’ASP. Presenti all’incontro anche Antonio Vanella, responsabile Area Osservazione e Trattamento degli Istituti penitenziari di Trapani e Favignana, Rosalba Safina, responsabile Assistenza primaria Distretto di Trapani, Giovanni Barone, responsabile Ufficio infermieristico del Distretto, Pierluigi Safina, dirigente medico del Dipartimento Cure primarie e Manuela Ponti, responsabile Ufficio Servizio sociale professionale dell’Asp. Pomezia (Rm): lavori di pubblica utilità in alternativa al carcere, il bilancio triennale lazionauta.it, 21 settembre 2017 Bilancio positivo per il Comune di Pomezia a conclusione dei tre anni di convenzione con il Tribunale di Velletri per lavori di pubblica utilità alternativi alla pena detentiva (esclusivamente per condannati per reati minori). In tre anni impiegate 5 persone presso il servizio cimiteriale con compiti di pulizia e manutenzione delle aree cimiteriali e 1 persona impiegata nella pulizia dei locali del centro diurno comunale, per un totale di 1454 ore di servizio prestato alla comunità in maniera totalmente gratuita. La convenzione, stipulata tra il Comune di Pomezia ed il Tribunale di Velletri in data 21/03/2014, aveva una durata di 3 anni e prevedeva un massimo di due condannati alla pena del lavoro di pubblica utilità di prestare contemporaneamente la loro attività non retribuita in favore della collettività del Comune di Pomezia, nelle seguente prestazioni: pulizia e manutenzione delle strade; pulizia e manutenzione degli edifici, aree verdi e più in generale del patrimonio comunale in qualità di operaio con eventuale specializzazione da muratore, elettricista, imbianchino, idraulico e di giardiniere; prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturale; attività di prevenzione al randagismo; pulizia delle aree cimiteriali; servizio idrico integrato con compiti di monitoraggio delle vasche di accumulo, pulizie delle aree delle vasche e sorgenti e riparazione delle tubature. "Abbiamo avviato le pratiche per rinnovare la convenzione - spiega il Sindaco Fabio Fucci - con l’obiettivo di ampliare il numero di condannati per reati minori da inserire nel programma. Vogliamo continuare a dare a questi cittadini la possibilità di intraprendere un percorso di recupero e di reinserimento in società, fornendo loro gli strumenti per sentirsi utili alla comunità". Milano: una cella di San Vittore alla Statale "ora provate voi a starci dentro" di Simona Ballatore Il Giorno, 21 settembre 2017 Idea nata da uno studente-detenuto e raccolta da professori e avvocati. La cella 124 del sesto raggio di San Vittore apre in un’ala della Statale, sotto il porticato di largo Richini. Ricreata nei minimi dettagli, quattro letti e una manciata di metri quadri, in cui cinque visitatori a turno vengono fatti entrare per cinque minuti, senza cellulari e orologi, dopo essere stati perquisiti e immatricolati. In 117 si sono lasciati "intrappolare" il primo giorno, una ragazza si è sentita mancare l’aria: dopo due minuti ha chiesto di uscire. I visitatori lasciano un messaggio, condividono emozioni. "Diritti verso il futuro" è una nuova associazione studentesca dell’università degli Studi, e si fa conoscere con l’installazione "VI Raggio Lato B Cella 124 - La dignità di un uomo si misura in metri", aperta sino a venerdì grazie alla Caritas Ambrosiana. Il sodalizio e la prima iniziativa, sposata anche dalla cooperativa sociale Estia, sono nati nel chiostro di via Festa del Perdono, dall’idea di un gruppo di studenti di Filosofia, cui si sono aggiunti colleghi di Lettere, ricercatori, avvocati, detenuti, docenti. Si parlava di attualità, dei diritti negati, con Julian, al secondo anno della magistrale in Scienze filosofiche: si è laureato lo scorso anno con una tesi di ambito morale, sulla scoperta e la conquista dell’altro; i primi due anni non ha potuto frequentare, studiava in carcere. Oggi ne ha 39, è ancora detenuto a Bollate, ma da due anni può seguire le lezioni. "Ho letto per caso l’Apologia di Socrate e mi sono innamorato - racconta - è un appello di vita difficile da seguire, ma ci fa riflettere sull’umanità. Cerco di dare un contributo, nel mio piccolo. La cronaca parla spesso di sovraffollamento delle carceri, qui facciamo capire di cosa si tratta. Dev’esserci un senso per chi è dentro e per chi è fuori, un incontro. È facile ripugnare e respingere chi è diverso, puntare il dito, noi vogliamo la via più difficile". L’università ha spalancato una finestra per Julian: "Ho scoperto capacità che non immaginavo, riconquistato fiducia in me e rielaborato la mia vita. Studiare Filosofia aiuta ad affrontare i problemi. Torno tutte le sere in carcere ma non mi fa più paura, torno per amore di ciò che sto costruendo, non per paura di una sanzione. Ho capito l’utilità della legge e sento l’esigenza di sensibilizzare e informare gli studenti". "Diritti verso il Futuro" conta già una quarantina di iscritti. In calendario nuove iniziative: "L’idea è abbattere i muri - spiega Anna Vanzetti, studentessa di Lettere, raccontare la quotidianità di chi si trova in condizioni di emarginazione sociale, carceri, riformatori, comunità psichiatriche". Bergamo: anti terrorismo, monitorati in cella 5 detenuti a rischio radicalizzazione L’Eco di Bergamo, 21 settembre 2017 Il comandante della Penitenziaria: "Istituito un nucleo investigativo per controllarli". Due secoli di vita per la polizia penitenziaria, tra tradizione e nuove sfide d’attualità: spicca in particolare quella, recentissima, legata all’anti-terrorismo. La parola d’ordine è prevenzione: un apposito nucleo investigativo composto da agenti della Penitenziaria tiene monitorate situazioni e persone potenzialmente a rischio rispetto al pericolo della radicalizzazione di matrice jihadista all’interno degli istituti penitenziari di tutta Italia. Mission che riguarda da vicino anche il carcere di via Gleno e tutti i 238 agenti in servizio che, proprio in occasione della cerimonia ufficiale del 200esimo anno di fondazione del corpo di polizia, si sono ritrovati ieri in Città Alta nell’aula magna dell’Università di Bergamo per festeggiare l’anniversario dei 200 anni del Corpo Il comandante, inoltre, nel corso della cerimonia ha illustrato gli ultimi dati riguardanti l’attività della polizia Penitenziaria di Bergamo, partendo dalla carenza di organico, che in sei anni ha visto un taglio di ben 55 agenti, dai 293 ai 238 attuali, e dal sovraffollamento della popolazione carceraria, che oggi conta 558 persone, di cui 340 condannati a pena definitiva. Per quanto riguarda la nazionalità, i detenuti stranieri provengono da 32 Paesi differenti, prevalentemente Marocco, Tunisia e Albania, e costituiscono il 55 per cento del totale di ospiti. Significativi anche i numeri relativi all’espletamento dei servizi di traduzione per motivi di giustizia e dei piantonamenti per ricoveri e visite ospedaliere. Nel corso del 2016, sono state infatti effettuate 3.059 traduzioni di detenuti, per un totale di 4.540 impieghi di agenti, e sono stati piantonati 96 detenuti, per 2.781 servizi. Palermo: corso di meccanica all’Ipm Malaspina, consegnati gli attestati a sette detenuti palermotoday.it, 21 settembre 2017 La consegna degli attestati è avvenuta nella struttura detentiva per minorenni di via Cilea. Oltre ai vertici delle fiamme gialle e del carcere non poteva mancare il luogotenente Domenico Schillaci, che ha vestito i panni del docente. Consegnati gli attestati di partecipazione ai giovani detenuti del carcere Malaspina per il corso informativo sui motori delle autovetture. Si è concluso il percorso di studi affrontato da sette ragazzi, di età compresa i 17 e i 22 anni, che hanno imparato da un luogotenente della guardia di finanza le nozioni fondamentali di meccanica tra lezioni frontali, compiti da svolgere in cella e test di valutazione. L’iniziativa è nata dalla collaborazione tra le fiamme gialle e il carcere Malaspina. La consegna dei "diplomi" è avvenuta ieri pomeriggio alla presenza del direttore dell’istituto Michelangelo Capitano, del centro di giustizia minorile Rosanna Gallo, oltre al presidente del Tribunale per i minorenni Francesco Micela, al magistrato di sorveglianza Mariarosaria Gerbino, al generale della finanza Giancarlo Trotta. E non poteva mancare il luogotenente Domenico Schillaci, che ha vestito - "sopra la divisa" - i panni del docente, vincendo l’iniziale diffidenza dei ragazzi che si sono ritrovati ad apprendere da uno "sbirro". L’idea di fondo del progetto che verrà ripetuto l’anno prossimo, e al quale si sta pensando di dare un seguito con un corso avanzato, è stata quella di fornire degli insegnamenti teorico-pratici per incentivare il reinserimento nella società di quelli che un giorno saranno ex detenuti. Brescia: tornano nel carcere di Verziano le lezioni di danza della Compagnia Lyria agensir.it, 21 settembre 2017 Tornano nel carcere di Verziano, in provincia di Brescia, le lezioni di danza. Ne dà notizia il settimanale della diocesi, "La Voce del Popolo". Il progetto, realizzato dalla Compagnia Lyria, diretta da Giulia Gussago, in collaborazione con il ministero della Giustizia, lavora sull’integrazione tra realtà carceraria e società civile, impegnando in particolare i giovani. Nel corso degli incontri i partecipanti, detenuti e liberi cittadini, si misureranno con laboratori di danza contemporanea, contact improvisation e teatro danza, che si svolgeranno all’interno del carcere. Le iscrizioni sono possibili fino a domani, giovedì 21 settembre. Gli incontri inizieranno dal mese di ottobre e sono in programma ogni settimana, nel weekend. Il progetto, che giunge alla settima edizione, si concluderà nel giugno 2018 con una festa aperta a tutti, nel campo sportivo di Verziano, durante la quale sarà presentata una dimostrazione del lavoro svolto durante l’anno. Una seconda presentazione sarà rivolta esclusivamente alla popolazione carceraria. Foggia: "Natale solidale in carcere", il CSV finanzia progetti di volontariato Ristretti Orizzonti, 21 settembre 2017 Il Presidente, Aldo Bruno: "Intendiamo fornire, attraverso l’opera delle associazioni, un supporto concreto alla popolazione detenuta che trascorre le festività natalizie in carcere. Particolare attenzione sarà data alle iniziative rivolte ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi, tali da determinare una condizione di maggior solitudine o che versano in stato di profonda indigenza". Il volontariato si "dona" al Carcere in occasione delle festività natalizie. Proprio nel periodo in cui le condizioni psicologiche della popolazione detenuta peggiorano, a causa dell’accentuato senso di solitudine e della riduzione di proposte "trattamentali", si fa avanti il mondo dell’associazionismo, grazie a un’iniziativa del CSV Foggia. Il Centro di Servizio al Volontariato di Via Rovelli promuove un Avviso finalizzato a sostenere iniziative di spettacolo (teatro, danza, musica, anche interdisciplinari) e di solidarietà nella Casa Circondariale di Foggia, con particolare attenzione alla popolazione detenuta in situazione di grave indigenza. "L’obiettivo del nuovo avviso - spiega il Presidente del CSV Foggia, Aldo Bruno - è quello di promuovere l'impegno delle associazioni di volontariato all'interno del carcere, al fine di contribuire al progresso civile e alla finalità rieducativa dell’esecuzione della pena. Intendiamo favorire, in questo modo, la collaborazione dei volontari con le figure istituzionali degli istituti penitenziari e degli uffici di esecuzione penale esterna, promuovendo lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. L’idea è quella di fornire, attraverso il volontariato, un supporto concreto alla popolazione detenuta che trascorre le festività natalizie in carcere, con particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi tali da determinare una condizione di maggior solitudine o che versano in stato di profonda indigenza". L’ammontare complessivo del sostegno per i progetti è di 1.500 euro; ciascuna iniziativa potrà beneficiare di un sostegno massimo di 500 euro. "La valutazione delle richieste di sostegno - sottolinea Aldo Bruno - sarà effettuata sulla base di criteri predefiniti, come la coerenza del progetto con gli obiettivi e le priorità dell’associazione, la chiarezza ed efficacia tra i bisogni espressi dall’Avviso e l’azione proposta. Saranno valutati positivamente anche i benefici del progetto sulla comunità detenuta e l’esperienza pregressa nell’ambito del volontariato penitenziario". Il CSV Foggia è, da tempo, impegnato nella promozione del volontariato penitenziario e sostiene numerose iniziative realizzate dalle associazioni all’interno degli Istituti carcerari di Capitanata. Nel 2016 ha contribuito alla realizzazione di "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre" di Annalisa Graziano, volume finanziato dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, i cui fondi sosterranno anche l’Avviso. "Il nostro impegno in tale ambito continua - conclude il Presidente del CSV Foggia - sempre con l’obiettivo di far crescere la cultura delle associazioni, le loro capacità gestionali ed organizzative. In tal senso vanno anche i nostri nuovi corsi di formazione, le cui iscrizioni sono vicine alla scadenza. Da Progettare nel Servizio Civile a Dinamiche relazionali e gestione dei conflitti, passando per Aspetti fiscali e amministrativi e Obblighi in materia di sicurezza: accrescere le conoscenze e le competenze dei volontari resta una delle nostre principali mission". Roma: a Rebibbia secondo appuntamento con la rassegna "Altri Sguardi" storiadeifilm.it, 21 settembre 2017 Secondo appuntamento oggi, 21 settembre, dopo l’apertura con "Tutto quello che vuoi" di Francesco Bruni, con la rassegna "Altri sguardi" che porta questa settimana a Rebibbia "La Ragazza del mondo" di Marco Danieli, con Sara Serraiocco e Michele Riondino e con Marco Leonardi, Stefania Montorsi, Lucia Mascino, Pippo Del Bono. Tema del secondo incontro con i detenuti del carcere romano: la ricerca della propria identità attraverso il superamento degli schemi dettati dall’imprinting familiare, uno spunto sul quale la Giuria speciale che assegnerà il premio finale si confronterà alla fine del film con il regista Marco Danieli e il protagonista Michele Riondino e con gli ospiti straordinariamente presenti all’incontro: Kim Rossi Stuart, Violante Placido e Massimiliano D’Epiro. Non è la prima volta che i detenuti affrontano, anche attraverso un confronto e un dibattito sui temi proposti dai film selezionati, un’esperienza che nasce dalle suggestioni e dagli spunti di riflessione del racconto cinematografico. È senza dubbio l’occasione di un confronto speciale, però, la formula che Altri sguardi, ideata e promossa dall’Associazione Mètide, mette in campo - con il sostegno del Mibact, Direzione Generale per il Cinema - costruendo un confronto d’opinione sugli spunti suggeriti dalle sceneggiature dei film scelti per questa prima esperienza. Cinque gli appuntamenti dedicati ad altrettanti titoli tra i più interessanti dell’ultima stagione. Tra questi una Giuria di 20 detenuti assegnerà, alla fine, il suo riconoscimento. Con questa rassegna l’Istituto accoglie un progetto articolato, oltre i film, sulla creazione di uno sportello di counseling, un supporto insomma per il personale al lavoro nell’Istituto, e un laboratorio che seguirà la rassegna - esclusivamente destinato alle detenute - con un’esperienza formativa attraverso la sceneggiatura. Presentata nei giorni scorsi anche alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Altri sguardi nasce per iniziativa dell’associazione fondata da Ilaria Spada, attrice, presidente dell’Associazione e Raffaella Mangini, cofondatrice di Mètide. Collabora con Mètide per quest’esperienza, come consulente scientifico, Clementina Montezemolo, psicologa psicoterapeuta. A Laura Delli Colli, esperta di cinema e Presidente dei Giornalisti Cinematografici Sngci, il compito, infine, di coordinare i contenuti e i dibattiti sui quali si articoleranno i cinque incontri con i detenuti, a commento dei film. Milano: presentazione del libro "Università@Carcere. Il divenire della coscienza" mi-lorenteggio.com, 21 settembre 2017 Venerdì 22 settembre alle ore 18 presso la sede centrale della Biblioteca di Ateneo (edificio U6, piazza dell’Ateneo Nuovo, 1) verrà presentato il libro "Università@Carcere. Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono", scritto da studenti dell’Università di Milano-Bicocca e da persone detenute presso il carcere di Opera. Interverranno Alberto Giasanti, docente presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, e Giacinto Siciliano, Direttore della Casa di reclusione di Opera. Modererà l’incontro Maurizio di Girolamo, Direttore della Biblioteca di Ateneo. Sabato 23 settembre alle ore 20,45 presso l’Auditorium "Guido Martinotti" dell’Università di Milano-Bicocca (edificio U12, via Vizzola, 5) si terrà lo spettacolo teatrale "Giochi di luci e ombre": sei studentesse dell’Università di Milano-Bicocca e sette persone detenute presso la Casa di reclusione di Opera porteranno in scena frammenti di storie di vita, scritti e interpretati da loro stessi. L’ingresso è a offerta libera fino ad esaurimento posti. "Non sono razzista ma...": la paura ai tempi dello Ius soli di Silvana Mazzocchi La Repubblica, 21 settembre 2017 L’odio contro gli stranieri è ormai legittimato? Luigi Manconi e Federica Resta analizzano la situazione e indicano come la politica dovrebbe saper raccogliere quel "ma" come grido di aiuto. "Non sono razzista, ma..." se nessun italiano si dichiara razzista, come mai sempre più spesso il linguaggio denuncia il contrario? E a chi attribuire la responsabilità di comportamenti sociali al limite della xenofobia, certo non rari nel nostro paese? Sono gli italiani a essere razzisti oppure, nell’indifferenza della politica, gli imprenditori della paura hanno trovato e trovano terreno fertile per coltivare l’avversione contro lo straniero; un atteggiamento che a volte rischia di sfociare persino in odio? Luigi Manconi, Presidente della Commissione per i diritti umani del Senato e insegnante di Sociologia dei fenomeni politici all’Università Iulm di Milano e Federica Resta, avvocata e dottore di ricerca in Diritto Penale, nel loro saggio "Non sono razzista, ma" analizzano quanto sta accadendo in Italia dove, a fronte di un inarrestabile flusso migratorio, cresce in modo esponenziale il timore verso chiunque arrivi nel nostro paese in cerca di riparo dalla guerra e dalla fame o, più semplicemente, di una vita migliore. Un timore che trova attuale conferma nel muro che si è alzato per bloccare la legge sullo Ius soli, anche se la norma riguarda solo chi, di provenienza straniera, sia nato in Italia Ci si chiede che fine abbiano fatte le conquiste per l’uguaglianza tanto radicate nel nostro paese. Gli autori ipotizzano che, dietro quel "ma", contenuto nella frase ripetuta spesso da molti, ci sia un’esplicita richiesta di aiuto a "non diventare razzisti". E il rischio sarebbe alimentato dalla fragilità economica e dalle tensioni sociali contemporanee "che mettono gli uni contro gli altri: gli ultimi (i migranti e profughi) e i penultimi (gli strati più poveri tra gli italiani)". Una situazione che rischia di degenerare in vero e proprio razzismo, mascherato da una motivazione (la necessità di garantire ai cittadini la massima sicurezza e stabilità possibili) che sembra avere più di un fondamento ma, che alla prova dei fatti, non trova riscontro nei dati che riguardano la criminalità. Se è vero, come è vero, che il gran numero di reati non sono commessi da extracomunitari regolari, bensì dagli "irregolari". E gli autori ricordano che è l’essere irregolari la "fondamentale causa della pericolosità sociale degli stranieri e dell’alto numero dei detenuti". Oltre a lanciare un grido di allarme e, oltre a denunciare come e quanto l’intolleranza etnica abbia ormai trovato spazio nella sfera politica, al punto che anche figure di rilevanza istituzionale arrivano a incentivare reazioni xenofobe tra i cittadini, Manconi e Resta argomentano del come si possa evitare che l’indifferenza e il vuoto della politica favoriscano il passaggio dalla xenofobia più o meno espressa, al vero e proprio razzismo. Il pericolo esiste. Il ruolo di una politica degna di questa nome sarebbe "disincentivare e disinnescare l’ansia collettiva", senza cedere alla tentazione di trasformarla soltanto in una strumentale risorsa elettorale. Non sono razzista, ma... Che cosa si nasconde dietro a quel "ma" ? "Quella frase ha una molteplicità di significati. Il primo e forse più importante esprime una sorta di grido di aiuto. Una richiesta che può assumere toni drammatici: aiutatemi a non diventare razzista. I principi di uguaglianza nei quali si riconoscevano molti italiani fino a qualche tempo fa sono oggi assai più fragili a causa della crisi economica e delle tensioni sociali. Dunque, in una situazione dove la convivenza tra italiani e stranieri si fa sempre più precaria, non essere razzisti è diventato più difficile. Forte è, infatti, la tentazione di attribuire la responsabilità del proprio disagio e della propria fatica di vivere a un nemico esterno, tanto meglio se diverso anche fisicamente da noi: lo straniero. Ma non tutti si rassegnano e da qui nasce quella frase che è anche un grido di aiuto, indirizzato alla classe politica: a chi governa e a chi amministra. D’altra parte quelle parole sottintendono un meccanismo psicologico tanto elementare quanto diffuso, volto da un lato a prendere le distanze da atteggiamenti e azioni ritenuti comunemente riprovevoli ("non sono certo razzista"); dall’altro lato quella frase vale a introdurre specifiche eccezioni, che si vorrebbero limitate, ma che tendono fatalmente alla generalizzazione, per esempio: ‘non sono razzista, ma gli islamici sono terroristì". Oltre a subire l’influenza degli "imprenditori della paura", non credete che l’intolleranza etnica si stia espandendo anche per il gran numero di extracomunitari che commettono reati, come i recenti avvenimenti di cronaca e la loro presenza in carcere? "Il tasso di criminalità tra gli stranieri regolari (oltre 5milioni) è pressoché pari a quello rilevato tra gli italiani: e, per alcuni reati, è anche minore. Quella percentuale cresce in maniera assai significativa tra gli irregolari: è questa dunque la fondamentale causa della pericolosità sociale degli stranieri e dell’alto numero dei detenuti. Da qui l’esigenza di regolarizzare quegli stranieri che si trovano in una condizione di marginalità e di non visibilità, pur lavorando, e moltissimo nei ristoranti e nei cantieri, nell’agricoltura e nel commercio. Non è una proposta ‘di sinistrà e, tantomeno, ‘buonistà: è una ipotesi intelligente e razionale, fatta propria dai governi di molti paesi europei: e dallo stesso governo Berlusconi-Maroni, responsabile della più grande sanatoria della storia nazionale. Ovvero centinaia di migliaia di extra comunitari legalizzati in poche ore nel 2009". Il passaggio dalla xenofobia al razzismo è un rischio. Come si può scongiurare nel rispetto dei diritti di tutti, italiani compresi? "È proprio nello spazio tra la fobia e la discriminazione che dovrebbe agire la politica ed è lì che, in genere, la politica non agisce. IL diffuso sentimento di inquietudine e di ansia degli stranieri, infatti, non è destinato fatalmente a diventare violento e aggressivo e a farsi razzismo. É qui, dunque, che si gioca tutto intero il ruolo della politica. È questa che può svolgere un compito di razionalizzazione e negoziazione o, all’opposto, può funzionare da irresponsabile incentivo e detonatore di pulsioni violente. La politica può disincentivare e disinnescare quell’ansia collettiva oppure può trasformarla in una strumentale risorsa elettorale. Si pensi a un primo ed essenziale dato: i comuni italiani sono 7.982 e, di questi, appena 1300 hanno accettato di realizzare progetti di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. La conseguenza è presto detta: su questi 1300 si scarica l’intero peso di un sistema che, se equamente distribuito tra tutti i comuni sarebbe assai più leggero e produrrebbe un numero assai minore di tensioni e conflitti. Insomma, la politica, se davvero lo volesse, potrebbe allo stesso tempo rispondere alle domande sociali e al bisogno di sicurezza dei residenti e alle necessità di tutela e di integrazione dei nuovi arrivati. Ma in genere, per una manciata di voti, gran parte della politica preferisce vendersi l’anima". Luigi Manconi - Federica Resta "Non sono razzista, ma", Feltrinelli, Pagg. 150, 15 euro. Modernità delle gabbie. Il cuore è uno zingaro di Luigi Manconi Il Manifesto, 21 settembre 2017 "Non sono razzista, ma...". Si tenga conto che oggi l’etichetta "zingaro" (o, più diffusamente, "rom") risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. Dal romanticismo magico dell’epopea gitana che sbanca il festival di Sanremo alla consapevolezza di Jannacci e De André. Follonica, mattina del 23 febbraio 2017. Nel retro del supermercato Lidl, due donne di etnia rom vengono sorprese da tre dipendenti mentre frugano tra i cartoni da smaltire. La scena successiva: le due donne sono state rinchiuse all’interno di una gabbia che contiene altri cassonetti bianchi pieni di cartoni. Piangono, gridano a voce altissima, sbattono mani e braccia contro l’inferriata, cercando di forzarla. Fuori dalla gabbia, due dei dipendenti ridono rumorosamente e uno, con voce stentorea, si rivolge alle donne. Ripete più volte che non si può entrare nell’angolo dei rifiuti della Lidl: "No, non si può entrare". A un tratto, l’eccesso di riso lo fa tossire. Un terzo addetto, nel frattempo, registra tutto col telefonino e si arrampica sulla sommità della gabbia per riprendere la scena dall’alto (successivamente due dei dipendenti verranno licenziati dall’azienda tedesca). Non si può escludere che dietro il mancato scandalo per l’"ingabbiamento" di due persone, come è avvenuto a Follonica, vi possa essere un oscuro e temibile retro pensiero. Se la gran parte delle persone intervistate nei giorni successivi tenderà a ridimensionare l’episodio, definendolo "una burlonata" attribuita a "ragazzi" (definiti sempre ed esclusivamente con tale termine), forse c’è di che riflettere. I due tratti che abitualmente vengono attribuiti da una parte rilevante del senso comune a rom e sinti - una certa ferinità e una sostanziale irriducibilità alla vita sociale - possono suggerire come sola forma di disciplinamento la soggezione in cattività. Dunque, l’idea che quel tipo di etnia possa/debba essere "chiusa in gabbia". Si tenga conto che oggi l’etichetta "zingaro" (o, più diffusamente, "rom") risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. A seguire, l’elenco dei "nemici" subisce variazioni continue dovute in genere all’influenza di fatti di cronaca che abbiano avuto una eco particolare e nei primi posti si alternano soggetti nazionali o regionali, destinatari, di volta in volta, dell’ostilità sociale. Non si dimentichi, infatti, che almeno tre gruppi regionali italiani si sono trovati, nell’ultimo mezzo secolo, a contendersi il primato, o almeno le piazze d’onore, in questa speciale competizione: "i siciliani", "i sardi", "i calabresi". Ma il dato costante è che "gli zingari", persino nei momenti di maggiore successo degli "albanesi" e dei "romeni" (corrispondenti all’incremento dei flussi di queste nazionalità verso l’Italia), hanno sempre saldamente occupato il primo posto nel podio (dell’odio). Eppure non è stato sempre così. A partire dalla questione, tutt’altro che insignificante, del nome. Qui si è utilizzato e si continuerà a utilizzare il termine "zingaro" in modo neutrale perché fino a una certa fase l’accezione positiva prevaleva nettamente su quella critica. Oggi le cose sono cambiate. E quel termine "zingaro" viene rifiutato innanzitutto dalle comunità rom e sinti (alle quali vanno aggiunte alcune centinaia di camminanti, presenti prevalentemente nella zona di Noto, in Sicilia) e dalle associazioni che ne tutelano i diritti. Si preferisce, cioè, il ricorso alle parole che segnalano l’origine etnica. Ma, come si è detto, non è stato sempre così. Quasi mezzo secolo fa, al festival di Sanremo del 1969, trionfava la canzone Zingara, sontuosamente interpretata da Iva Zanicchi (e da Bobby Solo). Appena due anni dopo Nada e Nicola di Bari portavano al successo Il cuore è uno zingaro. Dunque, il maggiore evento nazional-popolare del nostro paese, dove si riflettono la mentalità condivisa e i mutamenti culturali e del costume, celebra l’epopea gitana. Già nel 1968, Enzo Jannacci portava al secondo turno di Canzonissima Gli zingari: e cantava di "gente bizzarra, svilita", che un giorno arriva di fronte al mare. E solo "il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente ridotta, sfinita. Parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d’amore, di bene e di male". Poi, nel 1971, Mario Barbaja nella ballata Il re e lo zingaro ripropone la figura del gitano come eroe di un irriducibile nomadismo verso la libertà. E nel 1976 Claudio Lolli interpreta Ho visto anche degli zingari felici, in cui i protagonisti giocano un ruolo politico-profetico all’interno di un racconto dallo stile espressivo-visionario. E, ancora, nel 1978, Fabrizio De André canta Sally, Francesco De Gregori Due zingari e Umberto Tozzi Zingaro. Al personaggio del gitano si continuano ad attribuire tratti fiabeschi: lo zingaro sembra capace di raggiungere quelle mete dell’interiorità, della libertà, della consonanza con la natura, il cui senso per le comunità sedentarie e confinate nelle città moderne è smarrito. E c’è un verso, nella canzone di Tozzi, che, letto ora, appare davvero "scandaloso": "La scuola ti ruba i figli e non sono più tuoi". Sono parole che oggi nessuno potrebbe permettersi. Frequentare la scuola pubblica è unanimemente considerata la principale, forse l’unica forma di integrazione che possa consentire alle minoranze rom e sinti una convivenza pacifica con gli altri residenti nel territorio e un progressivo accesso al sistema della cittadinanza. E dunque, quella frase - se fosse riproposta ai giorni nostri - suonerebbe come l’affermazione di un relativismo radicale fondato su una sorta di mito del buon selvaggio. Un mito indirizzato contro il progresso e contro le sovrastrutture prodotte dai processi di civilizzazione ("la scuola che ruba i figli"). Al di là del fatto che si tratta di un’assoluta scempiaggine, è indubbio che chi oggi ripetesse quell’affermazione, e violasse l’obbligo scolastico per i propri figli, si troverebbe (dovrebbe trovarsi) i carabinieri alla porta. Ma, a prescindere da questi accenti estremi, ciò che conta è che fino a non molti anni fa, nell’immaginario culturale e sociale del nostro paese, la figura dello zingaro e della zingara abbia conservato quei connotati di romanticismo magico e di vitalismo naturalistico di cui si è detto. E la parola "zingaro", con questa forza evocativa, sopravvivrà a lungo nella musica leggera italiana così come nella letteratura, specie in quella popolare. Non solo. Nel 1995 la Mattel lancerà sul mercato Esmeralda, la bambola zingara della linea di Barbie, parallelamente al successo mondiale del film Disney Il gobbo di Notre Dame. E in Italia, per anni (dal 1996 fino al 2002), il programma televisivo preserale con i maggiori indici di ascolto vide come protagonista Cloris Brosca nei panni della Zingara, che leggeva le carte e prediceva il futuro. In tutte queste rappresentazioni, lo zingaro e la zingara trasmettono un’immagine che evoca, per un verso, uno stile di vita fuori da regole e convenzioni sociali e, per un altro, ambientazioni agresti e scenari esotici. Insomma, lo zingaro è il prototipo di un eroe premoderno e preindustriale, ispirato a valori forti e incontaminati, che rimandano allo spirito di una comunità chiusa, alla contrapposizione natura-cultura e al conflitto perenne tra integrazione e ribellione. E, invece, decenni dopo, le ultime tracce che se ne ritrovano nella musica leggera sembrano registrare un drastico cambiamento di clima e di senso comune. Chi percepisce tutto questo e le radici profonde, anche sovranazionali e geopolitiche, che lo determinano è Fabrizio De André che, nella splendida Khorakhané, canta: "I figli cadevano dal calendario/ Jugoslavia Polonia Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via". E questo porta a scoprire, in mezzo a noi, che "in un buio di giostre in disuso/ qualche rom si è fermato italiano/ come un rame a imbrunire su un muro". E il paesaggio sociale e urbano ne risulta segnato: "Il cuore rallenta la testa cammina/ in quel pozzo di piscio e cemento/ a quel campo strappato dal vento/ a forza di essere vento". E così questo ribaltamento dell’antico stereotipo porta all’acutizzarsi del pregiudizio e a una crescente ostilità, cantata dai Punkreas, nel 2000, con questi versi sarcastici: "Chiudete le finestre sbarrate le persiane/ pericolo in città di nuovo queste carovane/ nomadi gitani con abiti sfarzosi/ si nota a prima vista che son pericolosi/ cara io vado dai vicini tu chiudi con la chiave e porta su i bambini/ se fanno i capricciosi e non vogliono dormire/ racconta che gli zingari li vengono a rapire". Come si vede a questo punto e a questa data, la catastrofe sociale e culturale si è già consumata. E così nel 2015, un giovane autore, Calcutta, scrive: "Suona una fisarmonica/ fiamme nel campo rom" e nel 2016 un gruppo rock, gli Zen Circus, nel brano Zingara (Il cattivista) dà ironicamente espressione a un diffuso sentimento di intolleranza: "Zingara che cazzo vuoi io so che cosa fai/ stringo il portafogli vai via o chiamo la polizia/ ma quanto puzzerai tu non ti lavi mai/ zingara ci fosse lui vi bruciava tutti sai/ se siete ancora qui è colpa dei buonisti". Insomma si registra una sorta di aggiornamento, in chiave di cronaca nera e di stigmatizzazione criminale, dell’immagine popolare dello zingaro. Tratto da un capitolo di "Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura", di Luigi Manconi e Federica Resta, Feltrinelli editore. "Il luogo stretto". Faraj Bayrakdar e la vita nelle carceri del regime di Assad di Giovanni Vigna L’Indro, 21 settembre 2017 Al Festivaletteratura l’intellettuale, attivista, giornalista e politico ha presentato "Il luogo stretto". Quando la vita e la letteratura si incontrano il risultato è unico e sorprendente. Il poeta Faraj Bayrakdar ha una storia da raccontare. Di recente al Festivaletteratura di Mantova l’intellettuale, attivista, giornalista e politico, simbolo del movimento che si batte contro il regime di Damasco, ha presentato "Il luogo stretto" (Edizioni Nottetempo, 2016), raccolta di poesie scritte in carcere tra il 1987 e il 2000. Bayrakdar, nato nel 1951 nel villaggio di Tir vicino a Homs, ha pubblicato due raccolte di poesie prima di essere arrestato nel 1987 dal governo di Hafez Assad, padre dell’attuale dittatore. Le autorità del suo Paese lo hanno rinchiuso tre volte in prigione, due negli anni Settanta quando dirigeva una rivista letteraria che sosteneva giovani poeti siriani, e la terza nel 1987 in seguito alla sua adesione al Partito di Azione Comunista. Solo sei anni dopo, nel 1993, è stato processato e condannato a 15 anni di lavori forzati. Nel 2000, grazie a una campagna internazionale, è stato rilasciato. Lo scrittore siriano, che adesso vive in esilio in Svezia, ha pubblicato tre raccolte di poesie ricevendo diversi riconoscimenti tra i quali il Prix Hellman-Hammett (1998), il Pen Freedom-to-Write Award (1999) e il Free World Award (2004). "Ho scritto le mie poesie quando ero in cella", spiega Bayrakdar, "il tema è il tempo trascorso in prigione. Si tratta di una raccolta di fogli clandestini. Non avevo nulla su cui scrivere, imparavo a memoria i versi e poi, finito l’isolamento, li riportavo sulle cartine delle sigarette accartocciandole nei quadretti di legno che consegnavo a mia figlia affinché li portasse fuori dal carcere". Il poeta voleva che le sue composizioni fossero conservate qualora fosse morto durante la detenzione: "I miei amici decisero di pubblicarle a mia insaputa in Libano. Contemporaneamente uno scrittore marocchino lanciò una campagna per favorire la mia liberazione". Bayrakdar ha ricordato i difficili momenti trascorsi nella prigione di Tadmur (Palmira): "Stare in carcere trasforma il modo di guardare la realtà che sembra senza logica. Ho dato forma ai miei pensieri concentrandomi sul contrasto, quasi a rappresentare il cambiamento radicale che può portare il prigioniero fuori di senno. In quei frangenti il tempo scorre lento e scuote l’animo nel profondo". I detenuti, vittime dell’angoscia, possono reagire in due modi: subendo passivamente la situazione oppure avviando una riflessione. In prigione il tempo non manca. È possibile meditare su ogni particolare e ragionare sulle proprie posizioni politiche, culturali e sociali. Bayrakdar ha rivolto una domanda a se stesso: "Che cos’è il silenzio? Ho cercato di ascoltare la sua voce. Un poeta incarcerato ha scritto una poesia di due parole che mi ha colpito: silenzio pistola. Il silenzio può essere un’arma, dissi ai miei compagni di cella che chiedevano il significato di quella breve poesia". Lo scrittore ha rievocato le sedute di tortura con le quali i suoi aguzzini tentavano di estorcere informazioni. L’assenza di parole segnava questi interrogatori. Il boia non riusciva nel suo intento e si rendeva conto di aver fallito. "Alcuni secondini erano talmente frustrati di fronte al nostro muro di silenzio da diventare sessualmente impotenti, la mia forza era la mia moralità: io volevo democrazia, bellezza e umanità, il torturatore dittatura, violenza e repressione. Ciò che mi permetteva di resistere era il sentimento di riconoscenza nei confronti del mio popolo, di mia figlia e di mia madre. Non potevo deluderli". Durante l’incontro che si è svolto al Festivaletteratura, lo scrittore siriano ha letto alcuni passaggi delle liriche più suggestive. "Del silenzio voglio solo parole che non trovo" è uno dei versi che sintetizza meglio la condizione paradossale e disumana dei detenuti. Bayrakdar si è poi soffermato sulle relazioni con i suoi compagni di prigionia e sulle amicizie che sono proseguite anche dopo la loro liberazione. I ricordi corrono sul filo della memoria. Molto inquietante ed evocativa l’immagine della ‘porta nerà del penitenziario di Damasco che incuteva timore ai detenuti perché nessuno sapeva cosa accadesse dietro di essa. Commovente il racconto dell’incontro con il fratello, rinchiuso nello stesso istituto di pena. Il pubblico ha applaudito a lungo questo intellettuale che con voce calma e ferma ha ricordato violenze e sofferenze inaudite, stemperando e sciogliendo nella musicalità della lingua araba un dolore che non si può cancellare. Gioco d’azzardo: scommettiamo 132 euro al mese e siamo il Paese che perde di più di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 21 settembre 2017 In 18 anni puntate aumentate del 668%, la media è salita a 1.587 euro l’anno per ogni italiano. Un costo per la società fino a sei miliardi. "Nonna slot", l’ha ribattezzata un giornale locale. E buttato lì così pare un allegro nomignolo alla Jacovitti come Cocco Bill o Gionni Galassia. La tragedia della vecchietta trevisana che ha perso 200mila euro alle macchinette, dove i premurosi "Lucignoli" delle sale-slot la portavano in auto andando a prenderla al ricovero, è solo l’ultima di un "Paese dei balocchi" infernale. Al quale è dedicato un dossier presentato oggi al Senato. Si intitola "Lose for life", cioè "perdi per la vita", un gioco di parole che stravolge il nome, "Win for Life!" ("vinci per la vita") di uno dei "gratta e vinci" più noti ai giocatori incalliti. È stato curato da Claudio Forleo e Giulia Migneco, è promosso dall’associazione "Avviso pubblico" che rappresenta oggi 370 soci tra Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni, e ha un sottotitolo che dice tutto: "Come salvare un Paese in overdose da gioco d’azzardo". Che sia in overdose è fuori discussione. Come spiegano i curatori, il nostro è un Paese che ha sempre giocato d’azzardo. Basti ricordare Charles Dickens che in Impressioni d’Italia racconta d’un invasato spettatore che urlava a un poveretto morente dopo una caduta da cavallo: "Se ancora ti rimane un soffio, dimmi quanti anni hai, fammeli giocare al lotto, per amore del Cielo!". Ma "l’indiscriminato aumento dell’offerta di gioco lecito, iniziato nel 1997 con l’introduzione di Superenalotto, sale bingo e scommesse, è piombata su una società impreparata a reggerne l’urto". I numeri - Pochi numeri dicono tutto. Nel 1998 gli italiani giocarono 12,5 miliardi di euro attuali, nel 2016 ben 96,1. Con una impennata mostruosa del 668%. In pratica ogni italiano, dal neonato al centenario in coma, scommette oggi 1.587 euro l’anno. Vale a dire "132 euro al mese, all’incirca il costo di una spesa settimanale di generi essenziali per una famiglia media". Se "prendiamo in considerazione solo i contribuenti, però (meno di 41 milioni di persone) la media sale a 2.357 euro pro capite, pari a 196 euro al mese". Il che significa che, avendo gli italiani dichiarato in media nel 2016 un reddito di 1.724 euro al mese, ne buttano in scommesse varie l’11%. Dicono i sostenitori della "filiera dell’azzardo": tanta parte dei soldi torna indietro con le vincite. Ovvio: se non capitasse mai nessuno giocherebbe più. L’ammontare delle perdite è comunque di 19,5 miliardi. Il 54% va allo Stato? Certo, ma qual è il rapporto costi-benefici? "Guardando solo ai costi monetari", rispondono Leonardo Becchetti e Gabriele Mandolesi, "è evidente che i soldi spesi in azzardo sono sottratti ad altre destinazioni". Quei circa 20 miliardi sarebbero spesi infatti "in consumi che hanno un prelievo, fatta la media, superiore". Per non dire dei costi sociali. Non solo quelli delle cure mediche per le ludopatie ma anche quelli del "crollo della capacità lavorativa" di chi finisce dentro la "spirale di sovra-indebitamento e usura". Insomma, "nell’insieme le voci dei costi dell’azzardo vengono stimati in 5-6 miliardi di euro". Le casse dello Stato - Vale la pena, per ciò che resta poi nelle casse dello Stato, di detenere in proporzione al Pil il record del Paese che perde più soldi nell’azzardo davanti agli Stati Uniti, al Regno Unito, alla Spagna, alla Francia e alla Germania dove i tedeschi superano appena appena un terzo della quota di perdite italiane? Se uno studio del Cnr "ci ricorda che il 42% dei giovani tra i 15 e i 19 anni nel 2015 ha giocato d’azzardo" vale la pena di mettere a rischio i nostri ragazzi? C’è chi pensa che lo scioglilingua ("Il gioco è vietato ai minori e può causare dipendenza patologica") o l’invito al "gioco consapevole" possano servire davvero? Hanno già risposto non solo Maurizio Crozza (è come dire "annega con cautela, sparati con prudenza, buttati dalla finestra ma copriti per il freddo") ma pure, ricorda lo psicologo Mauro Croce, il prestigioso Institute National de Santé et de la Recherche Médical francese. Secondo il quale "il gioco responsabile è una ovvietà per tutte le persone che non giocano ma un paradosso per il giocatore, come dire "una baldoria ragionevole", "una ubriacatura moderata", "un eccesso calcolato"". Per non dire, prosegue il dossier, del rapporto con le mafie: "Nel corso degli anni gli interessi delle organizzazioni criminali sul gioco si sono evoluti e l’ampliamento del gioco d’azzardo legale si è trasformato in una risorsa per le mafie, anziché in un freno agli affari" come teorizzarono, puntando sullo Stato biscazziere, vari governi di sinistra e di destra. "L’elevato volume di danaro che ruota attorno a tale settore", accusa Giovanni Russo, Procuratore nazionale antimafia, "ha da sempre contribuito ad attirare le mire "imprenditoriali" delle organizzazioni mafiose, con pesanti ricadute non solo in termini di mancati incassi da parte dell’Erario dello Stato - sottratti dal gioco illegale - ma anche sul più ampio piano della sicurezza generale dell’ordinamento e dell’inquinamento del sistema economico nel suo complesso". Le imprese del settore - Non mancano, nel dossier, le posizioni delle imprese del settore (Stefano Zapponini, presidente di Sistema Gioco Italia, giura che "i veri nemici del gioco sono gli operatori illegali" e che "nel Dna degli operatori del settore non c’è mai stato, né mai ci sarà, la volontà o il disegno perverso di procurare danni a chi decide di divertirsi attraverso i diversi prodotti presenti nel panorama italiano del gioco") o del governo. Che per bocca del sottosegretario Pier Paolo Baretta spiega che "il punto di partenza è stato il contrasto al gioco illegale", riconosce come alcuni calcoli iniziali fossero errati rispetto all’esplosione del fenomeno e che il freno agli spot televisivi "non è ancora sufficiente" ma rivendica anche gli sforzi per una mediazione e il tentativo di ridurre l’offerta "perché la parte patologica e compulsiva ha creato delle condizioni sociali che sono sbagliate in sé". Né mancano le posizioni dei Comuni, delle Regioni, delle associazioni, di esperti come Maurizio Fiasco. La più toccante però (insieme con la storia raccontata da Toni Mira di Domenico Martimucci, il giovane calciatore ammazzato da una bomba nella guerra per il mercato delle slot) è forse la testimonianza di un giocatore pentito: "Mi sono giocato la casa, ho dovuto cambiare più volte posizione lavorativa per colpa della mia dipendenza. I miei datori di lavoro, sapendo che avevo due figlie, non mi denunciavano per evitare che fosse la mia famiglia a pagarne le conseguenze. Io approfittavo di quella che ritenevo essere una debolezza e continuavo a succhiargli l’anima". Finché finalmente capì che l’azzardo stava succhiando l’anima a lui. "Jihad training camp", così i musulmani si radicalizzano nelle carceri europee di Angela Napoletano L’Occidentale, 21 settembre 2017 Qualcuno parla della più grandi prigioni d’Europa come di "Università del terrorismo": ci entrano delinquenti qualsiasi, musulmani e non, chiamati a scontare una pena, ne escono professionisti del terrore carichi di odio. Succede soprattutto in paesi - come Francia, Gran Bretagna e Germania - con un’elevata percentuale di popolazione islamica e riguarda case circondariali a cui, spesso, riconducono le indagini sugli attentati terroristici degli ultimi anni. Difficile immaginare cosa avviene esattamente oltre le sbarre, tra detenuti arrabbiati e spaventati, magari in cerca di una protezione per sopravvivere alla violenza durante la detenzione. Il racconto di Jamal (nome di fantasia), 27enne musulmano recluso per frode bancaria nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra, fornisce dettagli che aiutano a capire. "Ho avuto sin dall’inizio l’impressione che la prigione non fosse governata dalle guardie ma da un terribile gruppo di islamici radicali, "Akhi", di cui una ventina trattati come delle celebrità", racconta a un magazine inglese appena due settimane dopo la scarcerazione. "Mi hanno offerto sigarette, cibo e ogni supporto - dice -. Il passo successivo è stato dirci che eravamo finiti in cella per colpa del sistema diabolico, che i non-musulmani stavano uccidendo le nostre donne e i nostri bambini, e che per questo eravamo chiamati a diventare soldati di pace". Il ragazzo dice di aver visto picchiare da 25 prigionieri un detenuto di religione cristiana, che hanno dovuto convertirsi all’Islam anche i due uomini con cui divideva la cella. "Ho visto gente che si radicalizzava ovunque. Il cambiamento è subito evidente perché si arrotolano i pantaloni al ginocchio, si fanno crescere la barba, cominciano a chiamare tutti "fratello" e diventano aggressivi". Dell’agghiacciante descrizione di quello che, a suo dire, è il più grande "jihad training camp" d’Inghilterra fa parte anche il ricordo dei festeggiamenti per l’attentato a Charlie Hebdo. Prigioni, dunque, ad altissima tensione, luoghi in cui il racket della protezione avvicina all’Islam radicale soprattutto i giovani, nuove reclute a cui l’indottrinamento ha insegnato la lucida follia necessaria a uccidere appena fuori dal carcere. Le autorità penitenziali e governative conoscono bene il problema, di cui fa parte anche la paura delle guardie carcerarie che, purtroppo, spesso fanno finta di non vedere. Molti temono addirittura di essere accusati di usare trattamenti discriminatori nei confronti dei musulmani. È di qualche giorno fa la notizia di un imam, vicino al gruppo estremista dei Fratelli Musulmani, segnalato al ministro della giustizia dello stato di Hessen, in Germania, per aver pagato visite extra al carcere, oltre a quelle settimanalmente consentite, che gli avrebbero consentito di intensificare la sua indottrinazione fanatica. Di tentativi volti a limitare, seppure marginalmente, questo pericolosissimo fenomeno ce ne sono. Sembra che il Federal Criminal Police Office tedesco (BKA) abbia recentemente messo a punto un documento per aiutare la polizia penitenziaria a riconoscere i segnali di sospetta radicalizzazione tra detenuti, come ad esempio la scelta di un nome diverso rispetto a quello di origine, il cambiamento delle abitudini alimentari, la tipologia delle conversazioni. Sempre in Germania, il governo ha sperimentato nel carcere minorile di Wiesbaden (300 detenuti, tra cui molti combattenti Isis di ritorno dalla Siria) un progetto per l’insegnamento del Corano attraverso la recitazione e il teatro. Difficile pensare che tutto questo possa bastare a svuotare cuori e teste dall’odio a cui sono stati abituati soprattutto durante la guerra, dal fanatismo che ha riempito le loro lacune di conoscenza, da quell’attitudine alla violenza con cui pensano di poter vincere la loro battaglia. Lo spinello legale salverà l’economia di Giovanni Tizian e Stefano Vergine L’Espresso, 21 settembre 2017 Viaggio in Catalogna. Nei social club della marijuana. Dove fumare non è reato. Un modello che contribuisce alla crescita della "weed economy" in mezzo mondo. Dando lavoro a migliaia di persone. Anche italiane. L’ingresso è anonimo, un po’ come per tutti i club in città. Una porta affacciata sulla strada, gli infissi bianchi, il vetro smerigliato a impedire sguardi indiscreti, nessun logo né scritta per indicare che qui si può fumare liberamente marijuana. Siamo a poche centinaia di metri dalla Sagrada Familia, simbolo della Barcellona modernista di Antoni Gaudí, e questo è uno dei tanti cannabis social club nati negli ultimi anni. Dentro, alle 3 del pomeriggio, un’ora dopo l’apertura, ci sono già parecchi clienti. Alcuni rollano in solitaria davanti al bancone, altri stanno al piano superiore a giocare alla playstation. Sedute sui divanetti ci sono anche un paio di signore catalane sulla sessantina. Enrico, 35 anni da Forlì, ci mostra i suoi prodotti dopo aver controllato il documento d’identità. Il menù del giorno è variegato: si va dall’indica alla sativa, dalla hybrid alla kush, e poi le resine hash, iceolator e solvent. "Per creare questo club e avviare una produzione di erba", racconta, "ho investito insieme ai miei due soci quasi 90mila euro, ma adesso gli affari vanno discretamente: incasso circa 1.000 euro al giorno e ho 6 dipendenti che guadagnano 1.100 euro al mese. Salari netti, a cui si aggiungono i contributi pensionistici". Profitti tolti alle mafie - Dicono le statistiche che in città ci sono ormai 250 club come quello di Enrico. E che la metà è gestita da italiani. Esploso nel giro di cinque anni sfruttando un vuoto legislativo, il fenomeno ha trasformato la Catalogna nell’epicentro europeo di quella che gli esperti di finanza internazionale chiamano già weed economy, l’economia dell’erba. Un pezzo di sommerso che vale miliardi, e che dopo decenni di proibizionismo qualche governo sta iniziando a portare a galla. Prima l’Uruguay di Pepe Mujica, poi la Giamaica e otto Stati degli Usa negli ultimi anni hanno infatti approvato leggi che permettono di coltivare e commerciare marijuana. Proprio gli effetti riscontrati in Nord America, il mercato più ricco, dimostrano che queste politiche funzionano. Non solo perché tolgono soldi alle mafie che controllano lo spaccio all’ingrosso, ma anche perché creano posti di lavoro legali e aumentano le entrate fiscali. La conferma arriva da una recente ricerca della Arcview Market Research, una delle società più autorevoli nel settore, secondo cui negli Stati Uniti l’industria della cannabis ha fatturato l’anno scorso 6,7 miliardi di dollari, dando un impiego regolare a oltre 100 mila persone. Numeri che lo stesso studio prevede in crescita esponenziale. Con stime di fatturato da oltre 20 miliardi di dollari tra soli quattro anni e altri 250mila occupati. Sono tassi di crescita superiori, tanto per fare un paragone, a quelli del comparto delle tv via cavo negli anni ‘90 o delle dot.com nei primi anni 2000. Questi dati non stupiscono se confrontati con il totale di fumatori di cannabis nel mondo stimati da Unodc, l’agenzia Onu specializzata nel contrasto ai traffici di droga. Ebbene secondo tali stime i consumatori di erba e hashish ammontano a oltre 182 milioni, quasi un milione in più dell’anno precedente. Più o meno 20 milioni si trovano in Europa. Insomma, la domanda, di certo, non è un problema. Il volume d’affari è di svariati miliardi di euro. Profitti che accrescono imperi del crimine globale. Passione alla luce del sole - L’ottimismo distillato nei report finanziari d’Oltreoceano si comincia a respirare in Catalogna. Secondo la Catfac, la federazione locale delle associazioni cannabiche, i social club della regione danno lavoro a 3.000 persone, tanto che il principale sindacato spagnolo, la Ugt, si sta interessando per creare un contratto di lavoro dedicato alla categoria. Samuele, 41enne romano, zazzera brizzolata raccolta in un codino, ha aperto il suo club un anno fa vicino al Camp Nou, lo stadio del Barcellona. "Prima coltivavo e vendevo marijuana in Italia, oggi finalmente posso realizzare la mia passione qui, alla luce del sole", racconta con l’unica condizione di apparire con un nome di fantasia. Da spacciatore a imprenditore, da coltivatore illegale a contribuente modello. Nel suo club lavorano infatti cinque persone: sei ore e mezzo al giorno per una paga netta di 900 euro. "È un business redditizio", dice, "ma i rischi sono tanti, a partire dal fatto che qui, a differenza degli Stati Uniti, quello della cannabis non è ancora un settore pienamente legalizzato". In effetti, nonostante i social club siano ormai una realtà consolidata in Catalogna, finora la loro attività è stata quasi sempre tollerata ma non legale. Per questo negli ultimi anni sono fioriti studi di avvocati specializzati. Come quello diretto da Oriol Casals, tra i primi penalisti catalani a sostenere le tesi delle associazioni anti-proibizioniste. "Sfruttando la legislazione spagnola, che tollera l’uso di marijuana e ne permette il consumo condiviso in luoghi privati, negli ultimi anni molte persone hanno iniziato a creare associazioni per coltivare erba e fumarla tra soci. Il boom è coinciso con il picco della crisi economica spagnola. Forse anche perché tante persone rimaste senza lavoro hanno deciso di rischiare lanciandosi in un nuovo settore", dice Casals. Ogni tanto la polizia è intervenuta, ha fatto chiudere alcuni club che in modo troppo spudorato si erano trasformati in centri di spaccio per i turisti, ma in generale la situazione è stata tollerata dalle autorità. Così è andata fino allo scorso luglio, quando il parlamento catalano ha approvato a larghissima maggioranza una proposta di legge popolare che riconosce ufficialmente i club cannabici come associazioni no profit, regolamenta la quantità massima di marijuana coltivabile annualmente (150 chili) e quella che ogni socio può consumare (60 grammi al mese). Javier, che gestisce un club nel quartiere di Poble Sec, ai piedi del promontorio del Montjuïc, dice che "la legge è sicuramente un passo avanti, anche se restano dei buchi importanti come il fatto che sia ancora illegale trasportare l’erba dal club a casa propria. Il vero problema", spiega "è però capire se il Tribunale Costituzionale non la boccerà, visto che già in Navarra una norma simile è stata respinta perché in contrasto con la legislazione nazionale. Questa possibilità purtroppo mi impedisce di investire altri soldi nell’attività. E anche di rispettare a pieno la nuova legge, che mi obbliga a dichiarare dove coltivo la marijuana. La mia paura è semplice: finire in prigione se la norma catalana verrà bocciata da Madrid". Indotto d’oro - Seppur temperati dalla speranza di ottenere almeno una maggiore autonomia dal governo centrale dopo il referendum per l’indipendenza (fissato per l’1 ottobre), i timori di Javier sono condivisi da tanti altri gestori di club che abbiamo incontrato in Catalogna. Di certo, quello che è successo negli ultimi anni a Barcellona, così come in altre città della Spagna, ha però già creato un’economia della marijuana. Un’economia forte soprattutto nell’indotto, perché è qui che si rischia poco ma si può guadagnare tanto. Negozi che vendono attrezzatura per coltivare, semi, prodotti cosmetici, libri, cibo, una gamma sterminata di strumenti per fumare. E nata pure qualche azienda tecnologica. La più famosa si chiama Weedmaps, è stata fondata in California nel 2008 da Justin Hartfield, che all’epoca aveva 23 anni e frequentava un master alla University of California, e da tre anni è presente anche a Barcellona. Il business principale è un software, una specie di Tripadvisor della cannabis, dove poter trovare informazioni sui club ma anche comprare prodotti. Seduto nel suo ufficio di Calle Tallers, una traversa de La Rambla, Rodrigo Charles, manager della filiale spagnola, dice che "a livello mondiale il gruppo fattura oggi 72 milioni di dollari al mese, quindi quest’anno dovremmo avvicinarci a un giro d’affari da 1 miliardo di dollari". C’è da crederci: per essere su Weedmaps le aziende del settore sono disposte a spendere anche 20 mila dollari al mese. "Ma in Spagna non facciamo pagare nemmeno un euro", assicura questo ragazzo sui trent’anni, nato in Messico e cresciuto in California, mandato qui dai fondatori del gruppo per sviluppare l’attività nel Paese che considera il più promettente d’Europa: "Abbiamo assunto 13 persone e ormai da tre anni qui stiamo solo investendo: facciamo video promozionali, creiamo iniziative a favore della legalizzazione, cerchiamo di portare il mercato nero sulla nostra app". Investimenti che, evidentemente, l’azienda pensa di poter recuperare presto. E lo stesso deve credere la Deutsche Bank, che sta finanziando Weedmaps in Spagna. Venti euro a pacchetto - Il business della cannabis legale si sta espandendo a macchia d’olio. Studiosi e attivisti del settore hanno individuato social club, alcuni per ora clandestini altri più o meno ufficiali, in Belgio, Slovenia, Olanda e Austria. I fumatori si prendono i propri spazi. Rivendicano il diritto a uscire dalla clandestinità. Così dove non lo permette la legge ci si arrangia. Per esempio in Germania- dove sono in molti a guardare a questo nuovo mercato con grande interesse - Weedmaps ha di recente inaugurato una sede. Ma c’è anche chi a Berlino si è spinto oltre. Nel quartiere Kreuzberg, a Est di quel muro che un tempo divideva la città e il mondo, è nato il primo social club tedesco. L’obiettivo ufficiale, tuttavia, è coltivare erba terapeutica. Con il tentativo di sopperire alla scarsità di scorte, visto che in Germania è diventato legale l’uso per scopi medici, ma come in Italia le importazioni da Canada e Olanda sono insufficienti. In questo modo il primo social club sperimenta una distribuzione fuori dai circuiti delle multinazionali che hanno in mano il business della terapeutica. Nella vicina Svizzera, invece, da un anno è possibile comprare legalmente marijuana per fumarla. La vendita è concessa a una condizione: la sostanza può contenere al massimo l’1 per cento di principio attivo, il Thc. Strano paradosso per la Confederazione, dove fino ai primi anni Duemila esistevano veri e propri "canapai" che vendevano un prodotto diventato famoso in tutto il mondo per qualità e alto contenuto di thc. Erano numerosi i clienti italiani che varcavano la frontiera nei weekend per rifornirsi nei canapai di Zurigo, Lugano e Lucerna. Entravano e in maniera molto diretta chiedevano la "skunk". Ufficialmente, però, compravano sacchetti profumati per il bagno. La festa per i turisti della cannabis durò qualche anno. Poi la tolleranza finì. Ora una parziale marcia indietro. Con alcuni grandi marchi della distribuzione che si sono ritagliati un ruolo da protagonisti: per esempio, dal luglio scorso, alcuni supermercati commercializzano pacchetti di sigarette alla cannabis. Le "bionde" Heimat, prodotte dalla startup sangallese Koch & Gsell costano 19,90 euro e sono un misto di tabacco e canapa, con thc inferiore all’1 per cento. Un esperimento che sembra aver ispirato l’italiana Easyjoint. Fenomeno Easyjoint - A pochi passi dal Vaticano c’è un negozietto che vende erba. Per essere precisi, la cannabis light a bassissimo contenuto di thc, tra lo 0,2 e 0,6 per cento. Un range che la rende "legale". Per capire, la più potente skunk si aggira tra il 15 e il 25 per cento. Il fenomeno Easyjoint, tuttavia, è la punta dell’iceberg di un percorso di attivismo antiproibizionista più ampio e articolato. Dietro questa sigla, infatti, c’è un vero network di realtà associative. "Il punto di svolta è nel 2016 con l’approvazione della legge sulla canapa industriale" spiega Markab Mattossi, vicepresidente di "Canapa info-point", "e questa nuova norma permette l’uso della pianta a 360 gradi con semi, però, che non producano infiorescenze con livelli più alti dello 0,6 per cento di principio attivo". Easyjoint non fa altro che imbustare e distribuire l’erba light prodotta da una rete di coltivatori che fa capo a Canapa info point. Una sorta di consorzio che coinvolge 300 persone e 20 realtà territoriali. Su questo business c’è persino il marchio dell’Unione europea, che certifica quali siano i semi a bassissimo contenuto di Thc. Talmente legale e trasparente che Mattossi suggerisce di segnalare la propria coltivazione "light" alle forze dell’ordine: "Un po’ per essere il più trasparenti possibile e un po’ perché così sono costretti a vigilare che nessuno entri per rubare e devastare le piante". In effetti si sono verificati atti di vandalismo e intimidazioni. "È accaduto soprattutto in certe aree", osserva Mattossi. Aree del Mezzogiorno, ad alta densità mafiosa. Segnale che legalizzare infastidisce i clan. Del resto per essere un esperimento Easyjoint può contare su numeri impressionanti. Distribuisce 40 chili a settimana. Un grammo si aggira attorno ai 5 euro, al di sotto dei prezzi proposti nel mercato criminale. Agli italiani, dunque, piace l’erba legale. A Roma, in Parlamento, qualcuno dovrebbe prenderne atto. Spagna. La solita storia: la politica che chiede aiuto ai giudici di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 settembre 2017 L’intervento della polizia e della magistratura nella lotta politica aperta in Spagna, attorno alla complicatissima questione dell’autonomia catalana, è la conferma clamorosa di una tendenza che si sta sempre di più consolidando nella vita pubblica in tutto l’Occidente. Quella alla interferenza tra i poteri, e all’uso reciproco e scorretto della magistratura da parte della politica e viceversa. In Italia ormai questa è la norma. Almeno da un quarto di secolo. E qualcosa di molto simile è successo recentemente anche in Francia, dove l’iniziativa giudiziaria ha raso la suolo il partito socialista. Sta avvenendo negli Stati uniti, dove la reazione dei democratici alla imprevista sconfitta elettorale di Hillary Clinton si è concentrata nella richiesta di intervento della magistratura: sia per bloccare l’azione di Trump, sia per cercare un pertugio che possa portare all’impeachment. Possiamo continuare con gli esempi. Citando il Brasile, cioè il più grande paese latinoamericano, dove i giudici hanno messo sotto scacco il partito dei lavoratori, arrestato molti suoi dirigenti e ora stanno cercando di incarcerare il leader: il popolarissimo Luis Ignacio Lula La Spagna non sfugge a questo schema. E lo applica nel modo più clamoroso, con una azione che comunque - per i tempi e i modi nei quali avviene - si presenta come l’atto autoritario più arrogante della recente storia europea. Arresti, perquisizioni, ancora arresti, che riguardano i vertici dello schieramento politico che sostiene il referendum autonomista e arrivano a trascinare dietro le sbarre ministri locali e un bel numero dei loro principali collaboratori. Non si era mai visto niente di simile, in democrazia. L’opposizione catalana fuorilegge. Il risultato è uno scontro aperto, drammaticissimo, tra Madrid e Barcellona, e un vero e proprio terremoto politico di dimensioni europee. La strada seguita dal premier Rajoy e dal suo partito è stata quella giudiziaria: non sentendosi in grado di sostenere lo scontro politico con gli autonomisti catalani, il premier si è rifugiato dietro il potere dei magistrati, li ha sollecitati, si è appoggiato a loro, e ha messo in moto la polizia. Vere e proprie retate, che avvengono sulla base di supposti reati politici, non si vedevano da tanti tanti anni. E fanno ancora più effetto proprio perché avvengono in Spagna, l’ultimo tra i paesi dell’Europa occidentale ad essersi liberato da un regime autoritario ( con la morte di Francisco Franco nel novembre del 1975), e l’ultima ad aver vissuto un tentativo di colpo di stato (nel febbraio del 1981, ad opera del colonnello Tejero che occupo’ il Parlamento ma poi fu arrestato dai militari lealisti). Però il problema non è solo quello delle suggestioni politiche e storiche, né la paura di una svolta autoritaria, che non è nelle cose. È la riduzione della lotta politica in attività che si svolge usando l’arma della giustizia. Contano pochissimo le elezioni, contano niente le piazze, i conflitti sociali, tantomeno i partiti politici e i sindacati. Conta la mannaia giudiziaria. Che talvolta i leader politici immaginano di poter utilizzare e governare, usandola come uno strumento potente nelle proprie mani, e lo fanno commettendo un grande errore: assai raramente il potere giudiziario si lascia utilizzare, e se lo fa, molto presto presenta un conto salato. In Italia noi questo lo sappiamo benissimo, perché siamo dei precursori. La politica ha pensato di poter risolvere per via giudiziaria - chiamandosi fuori dal conflitto - prima la tragedia della lotta armata, poi la complicatissima questione della corruzione. E addirittura ha pensato di poter compiere queste operazioni utilizzandole per sbarazzarsi dei propri avversari, o comunque per indebolirli. Al tirar delle somme tutta la politica ci ha rimesso. Chi ha gioito per i colpi presi da un avversario presto è tornato a piangere per i colpi che si sono rivolti contro di lui. Finché la politica si è trovata disarmata, nuda e priva di idee. Prima ancora che in Italia questa operazione era stata sperimentata in America. La democrazia americana però è diversa, ha una forza maggiore, sa reagire. Nel 1974 negli Stati Uniti ci furono le prove generali. Quando il presidente repubblicano Richard Nixon fu rovesciato, per via giudiziaria, da un complotto dell’Fbi realizzato attraverso l’uso della stampa. Lo conoscete tutti quell’episodio: lo scandalo Watergate. Nixon fu costretto a dimettersi, dopo avere stravinto le elezioni del 1972 con quasi il 70 per cento dei consensi, contro George McGovern, candidato ultra liberal. I democratici cantarono vittoria, per il Watergate, ma invece fu la loro tomba. Furono spazzati via dalla politica americana per un ventennio, e i loro nemici repubblicani operarono una secca svolta a destra, cancellando le posizioni moderate di Eisenhower e Nixon e inaugurando il reaganismo, cioè la linea ultra- liberista. Nonostante la breve e immobile presidenza Carter, i democratici restarono a bordo campo fino al 1992, quando un giovanotto di nome Bill Clinton riprese in mano, pazientemente, il partito e ricominciò a tessere i fili della politica- politica. La destra cercò di fare con Clinton lo stesso gioco che i democratici avevano fatto con Nixon: la vendetta giudiziaria, l’impeachment. Prima per una vicenda finanziaria poi per una storia sessuale. Ma Clinton era forte: vinse lui. E da quel momento il potere giudiziario ha perduto quasi tutta la sua forza politica. Da noi - da noi in Italia - non è stato così. La politica, squassata dalle inchieste e dal dilagare del giustizialismo nell’opinione pubblica, si è intimidita. Ha lasciato il campo. In Spagna sarà come in Italia? È un grande rischio. Ci sono le forze per reagire, ma sono deboli. Sarebbe necessario che l’intellettualità europea si convincesse che lo Stato di diritto è il bene più prezioso. Lo stato di diritto: non le manette. "Con i muri non si vincono le sfide. L’Onu torni in Libia" di Leo Lancari Il Manifesto, 21 settembre 2017 Incassa l’apprezzamento di Theresa May e Emmanuel Macron per come l’Italia sta affrontando la crisi libica, ma del presidente francese - che lo ha preceduto intervenendo martedì all’Assemblea generale delle Nazioni unite - Paolo Gentiloni sposa anche il metodo indicato per affrontare le sfide che attendono gli Stati, dai pericoli di un imminente conflitto con la Corea del Nord, reso ancora più concreto dalle parole del presidente Usa Donald Trump, all’immigrazione. Così se Macron aveva parlato dell’inutilità di innalzare muri per difendersi da eventuali (e il più delle volte presunti) nemici e dell’ importanza che ogni nazione non si muova da sola ("il multilateralismo è molto più efficiente"), ecco che Gentiloni utilizza gli stessi concetti e perfino le stesse parole del presidente francese: "Ci sono grandi sfide che dobbiamo cercare di affrontare in comune", dice. "Non si risponde a queste sfide con i muri, si risponde con un lavoro comune o, come si dice, multilaterale". Uniti si è più forti, ripete quindi Gentiloni, concetto ribadito anche per rispondere all’isolazionismo rivendicato da Trump nel suo discorso. Ma i temi importanti per l’Italia sono l’Africa e in particolare la crisi libica, letta sia sotto il profilo del conflitto interno che per quanto riguarda la crisi dei migranti. "Quanto accade in Africa riguarda tutti", avverte quindi Gentiloni chiedendo un maggior protagonismo delle Nazioni unite in particolare nel paese nordafricano. "L’Onu deve tornare in forze in Libia, perché ne abbiamo bisogno sia per il processo di pace, che deve essere allargato e completato per stabilizzare il paese, sia per quanto riguarda le migrazioni". Da tempo il governo italiano chiede che siano le Nazioni unite a gestire il processo di pace, mettendo così fine ai tentativi di mediazione compiuti da vari Paesi, comprendendo in questi anche la Francia. "Esprimiamo il pieno sostengo all’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamé e alla sua road map", ribadisce quindi Gentiloni, per il quale "l’obiettivo finale è quello di "fare elezioni politiche in Libia, ma prima serve un processo di pace". Per quanto riguarda i migranti il premier italiano sa che quanto il suo governo sta facendo in Libia è soggetto a molte critiche, sia per i presunti accordi siglati con le milizie per fermare i barconi, sia per le condizioni dei centri in cui i migranti vengono detenuti e che lui stesso definisce "vergognose e scandalose". Un problema non certo secondario, che il premier cerca di risolvere sollecitando la presenza delle organizzazioni dell’Onu nella gestione dei campi. Più in generale sull’immigrazione Gentiloni sollecita una "risposta globale da parte dell’intera comunità internazionale". Iraq: detenuti nelle carceri oltre 1.400 mogli e figli dei miliziani di Isis di Marta Serafini Corriere della Sera, 21 settembre 2017 Tra loro anche donne francesi e tedesche. Molti bambini senza certificati di nascita e documenti di identità. Il premier iracheno Abadi: "Non sono colpevoli". Ma le ong denunciano: "Non hanno assistenza legale". Nessuno sa che fine faranno e soprattutto nessuno sa come giudicarle, se vittime o colpevoli di affiliazione a un gruppo terroristico. Sono oltre 1400 le donne e i bambini, spose e figli dei miliziani dell’Isis, detenuti dalle autorità irachene dopo la caduta di Mosul e di Tal Afar. Molte di queste donne si sono più o meno volontariamente sposate con i foreign fighters, entrati a Mosul nel 2014 dopo che l’Isis ha preso il controllo della città irachena. Alcune di loro arrivano dall’estero, in particolare dalla Russia, dalla Turchia, da paesi dell’Asia centrale come Tagikistan e Kirghizistan, Cecenia, Cina. Un gruppo viene perfino da Trinidad, nei Caraibi. Ma ci sono anche donne europee, cittadine con passaporti francesi o tedeschi. Altre ancora sono finite nel gruppo senza aver alcun tipo di legame con Isis. Sono quasi tutte entrate illegalmente. La maggior parte è stata abbandonata dai miliziani fuggiti dopo la sconfitta sul campo, altre sono state catturate in combattimento, altre ancora si sono consegnate spontaneamente alle autorità, come successo anche ai ragazzini soldato reclutati da Isis. Teoricamente, se dovessero venire processate e condannate in Iraq, molte di queste donne rischiano la pena di morte. Ma non è ancora chiaro che cosa Bagdad voglia fare di loro.Il 16 settembre il premier iracheno Abadi ha spiegato che il governo non le ritiene colpevoli di alcun crimine ed è in contatto che i governi dei Paesi di origini per gestire la situazione. Ma resta il fatto che le mogli dell’Isis inizialmente rinchiuse nel campo di Hammam al-Alil insieme ad altri rifugiati, successivamente sono state trasferite a Tel Keif, a sud di Mosul, in un campo di detenzione. "Queste donne e bambini sono particolarmente vulnerabili. Indipendentemente dalle accuse, hanno diritto a protezione e assistenza", ha affermato Julie Davidson, vicedirettore del Norwegian Refugee Council, ong che si è presa a cuore il loro destino. Dalla ong norvegese spiegano poi al Corriere che il gruppo è composto da 509 donne e 813 bambini "di diverse nazionalità, dall’Europa, passando per gli Stati Uniti e il Canada fino all’Asia". "Molte donne sostengono di venire dall Turchia, ma è chiaro come siano necessarie indagini per capire la vera nazionalità", sottolinea Melany Markham, portavoce della Ong. "Nessuna italiana, per il momento, compare nell’elenco", dicono ancora da Erbil. A denunciare la zona grigia in cui si trovano queste donne, e soprattutto questi bambini, è anche Human Rights Watch che ha parlato con alcune di queste prigioniere nel campo di Hammam al-Alil. "Centinaia di bambini sono abbandonati a se stessi senza assistenza legale sia in Iraq sia da parte del Paese di origine", ha dichiarato Bill Van Esveld, ricercatore specializzato in diritti dei minori per HRW. Per molti bambini nati in territori sotto il controllo dell’Isis si pone anche il problema che sono privi di un certificato di nascita. Secondo la Reuters, che ha portato alla luce la notizia, una parte delle donne verrà rimpatriata. In assenza di accordi di estradizione non è però chiaro che iter seguiranno questi rimpatri. Da tempo infatti i governi europei sono in allerta per il ritorno in patria di elementi radicalizzati e dato il coinvolgimento sempre più frequente delle donne nei gruppi jihadisti - la propaganda jihadista di recente ha spiegato quanto sia necessario anche il loro "sforzo" - il ritorno delle donne nei paesi di origine desta delle preoccupazioni. Difficile infatti verificare il livello di coinvolgimento nelle attività terroristiche, soprattutto con donne e minori. "La filosofia generale è che gli adulti vengano giudicati in Iraq", ha spiegato un diplomatico francese alla Reuters. Diversa è invece la posizione sui numerosi bambini nati sotto la bandiera dell’Isis "loro dovrebbero invece godere di assistenza legale e sociale in Francia", ha aggiunto il diplomatico. Da capire poi cosa farà la Germania, coinvolta anche per il caso di Linda Wenzel, la teenager tedesca scappata in Iraq per unirsi al fidanzato ceceno, miliziano di Isis e poi catturata dai soldati iracheni. Cina. La morte di Liu Xiaobo e la tenerezza della democrazia di Angelo Aquaro La Repubblica, 21 settembre 2017 Se ne è andato chiedendo perdono: lui, il Nobel che l’Occidente non ha saputo salvare dall’ospedale- prigione della Cina. Se n’è andato chiedendo scusa per averci "messo tanto prima di aver avuto la forza di terminare l’incarico assegnato": lui condannato a 11 anni per "istigazione al sovvertimento dello Stato". Se ne è andato gridando l’amore per Liu Xia, la moglie anche lei ai domiciliari: "Il più grande rimpianto è non poter organizzare la prima mostra: poesie, dipinti, fotografie, le tre arti della piccola Xia riunite". L’ultima lettera di Liu Xiaobo è l’ultima prova di forza dell’uomo che abbandonò una brillante carriera di critico negli Usa per tornarsene tra i ragazzi che nella sua Tienanmen chiedevano una cosa sola: democrazia. È datata 5 luglio: scritta nell’ospedale di Shenyang dove era ricoverato per un cancro al fegato allo stato terminale, dopo che per sette anni nessuno si era curato di quel detenuto già ammalato di epatite. Pechino aveva parlato di "libertà condizionata": l’ultima beffa. Il Nobel aveva chiesto di poter almeno morire all’estero: da uomo libero. Inutilmente. Flebili le voci alzatesi per farne rispettarne la volontà. È morto il 13 luglio: una settimana dopo questa lettera. Gli avevano chiesto una prefazione per Accompagnando Liu Xiaobo, il libro di fotografie di Liu Xia in uscita in clandestinità: e lui, moribondo, si era messo al lavoro. Chissà se l’ultimo grido risveglierà qualche coscienza. #Freeliuxia è la campagna sui social per liberare la moglie, ricomparsa l’altro giorno su YouTube: dice che vuol essere lasciata sola "a elaborare il lutto", sarebbe "via a recuperare". L’ennesima manipolazione dopo il funerale-farsa con le ceneri in mare per non lasciare più traccia del dissidente? Gli amici giurano che la registrazione è fatta contro la sua volontà. Jared Genser, l’avvocato per i diritti umani, protesta all’Onu. "Quel video è una vergogna", dice a Repubblica Badiucao, il disegnatore in esilio che ha trasformato in immagine virale il ritratto in cella del Nobel e Liu Xia. "Gli intellettuali parlano e non agiscono mai" scriveva Liu Xiaobo quando era ancora un critico felice e sconosciuto. "Io spero di non diventare quello che sulla porta dell’inferno si atteggia in posa eroica e resta lì accigliato e indeciso". Quella porta lui l’ha varcata davvero, e all’inferno è rimasto per tutti questi anni, fedele a quell’"incarico" che si era "assegnato": chiedendo fino alla fine "perdono" al mondo che non ha alzato un dito per salvarlo.