In Italia non funziona nulla, neanche la prigione di Filippo Facci Libero, 20 settembre 2017 Carceri vecchie, troppi detenuti e un’altissima percentuale di recidive. Ma in tempo di crisi la politica se ne frega Sono i soli che la galera se la fanno tutta, i soli che non escono anzitempo, i soli che conoscono la situazione delle carceri italiane assai più di ministri, sindacati, ispettori Onu, soprattutto più di una classe politica che pronuncia la parola "galera" in continuazione ma non sa concretamente di che parla: a parte quattro gatti radicali, libertari o forse solo pietosi. Sono le macchiette di tanti film, sono i "secondini" improbabilmente buonissimi o sadici, caricature da canzone di De Andrè, ma soprattutto sono - forse non è chiaro a tutti - un corpo di polizia come gli altri, spesso più degli altri, militarmente organizzati ma con l’incombenza di dover essere efficienti e pure umani, energici ma anche sensibili. Gli agenti di polizia penitenziaria - questa la definizione corretta - ieri manifestavano davanti alla Camera in occasione del bicentenario del Corpo, ma la verità è che se li filano poco. Eppure sono i soli a conoscere la verità sull’affollamento delle carceri: 190 prigioni con 57mila detenuti (20mila gli stranieri) quando la capienza regolamentare sarebbe di 50mila. Sanno che, nel 2017, si è toccato il più alto tasso di suicidi tra le sbarre da quando è nata la Repubblica: già 40, e siamo solo a settembre. Sanno che, negli ultimi tre anni, ci sono stati altri 40 suicidi: ma erano loro colleghi, erano agenti penitenziari che quella vita non l’hanno retta più. Sanno che sono militari dignitosi, sanno che non scendono in piazza per lamentare qualche buchetto in organico: di poliziotti ne mancano ufficialmente 8mila, ripetiamo, 8mila. Sanno che nel carcere di Verziano, per fare un esempio, l’organico previsto è di 90 unità, ma ci sono solo 28 uomini e 11 donne, così sono costretti a straordinari massacranti ma soprattutto non pagati. Lavorano gratis. Sanno che gli agenti di tutto il Paese, nel 2017, si sono arrangiati per sventare 567 tentati suicidi di detenuti, 4.310 atti di autolesionismo, 3.562 risse, 500 ferimenti che spesso hanno coinvolto anche loro. Sanno che si sono fatti il mazzo per passare un concorso e prendere 1200 euro al mese, e tutto per fare quella vita di corridoi, sezioni, battitura di sbarre, chiavi che girano, comandi da eseguire, passi da fare, aprire e chiudere blindati, contare e ricontare, i piantonamenti, le scorte, ma anche aiutare chi ha appena cercato di uccidersi, chi potrebbe farlo. Sanno che sono sempre gli ultimi della fila, costretti a lamentarsi perché i magazzini non li riforniscono neanche più di divise e anfibi (arrivano a barattarsi il vestiario) ma la cosa che sanno meglio di tutte è che il sistema carcere è fallito, che la società l’ha rimosso salvo evocarlo astrattamente nelle parate da talkshow. Il carcere, quello vero, è un luogo da tenere lontano, dove isolare il male e buttare la chiave, dove gli stessi agenti finiscono imbrattati dal pregiudizio e dall’ignoranza. Sanno che le carceri sono una fabbrica o un corso di perfezionamento per delinquenti: il 67 per cento di chi sconta la pena (tutta) torna a in carcere perché delinque ancora, un fallimento che non tiene conto di quelli che non vengono beccati. La percentuale scende al 33 per gli indultati, e solo al 13 per cento per chi fruisce di misure alternative alla detenzione come gli arresti domiciliari o i lavori socialmente utili. Ogni tanto qualcuno s’indigna perché nel Nord Europa hanno celle con palestra e internet e conforti vari: col risultato che la percentuale di recidivi, nei due anni successivi alla scarcerazione, da loro, è del 20 per cento: da noi sfiora il 70. Ma fa niente, in galera si deve andare a star male, giusto? Questo pensa l’opinione pubblica foraggiata e surriscaldata dalla classe politica più ignorante che abbiamo mai avuto: il carcere come punizione, vendetta, impedimento fisico a delinquere. È una visione legittima: è la cosiddetta funzione retributiva che c’è per esempio negli Stati Uniti, dove non ha senso prevedere indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari, talché il problema del sovrappopolamento carcerario si risolve facendo più galere, punto. Il problema è che la nostra legge e la nostra Costituzione (articolo 27) dicono una cosa diversa, e spiegano che il carcere ha una forma anche rieducativa e che sarebbe teso a scoraggiare le recidive, cioè a convincere che di delinquere non valga la pena. Tutte parole. Gli agenti penitenziari, intanto, vedono entrare e uscire sempre le stesse persone (spesso padri, figli, nipoti) e sanno che le carceri italiane fanno schifo indipendentemente dal numero dei detenuti, e faranno sempre schifo perché nessun governo ci ha speso soldi in tempo di crisi perenne. Indulti e amnistie resteranno inevitabili. Moltissimi detenuti sono stranieri, ma i paesi di provenienza non li rivogliono: li liberiamo da un problema e peraltro spendiamo 300-400 euro al giorno per mantenere i delinquenti loro. Moltissimi detenuti, quasi la metà, sono drogati o piccoli spacciatori, questo per colpa della Legge Fini-Giovanardi che non distingueva tra droghe leggere e pesanti. In galera, per droga, abbiamo il 33 per cento dei detenuti contro il 14 di Francia e Germania. E poi dovremmo parlare della legge Gozzini, che tutti criticano salvo un dettaglio: funziona. A fuggire è meno dell’1 per cento dei detenuti che ottiene un permesso premio: per uno che scappa ce ne sono migliaia che rientrano dai permessi e dalla semilibertà e dal lavoro esterno, benefici concessi solo a chi si comporta bene. E se rientrano, se si comportano bene, se hanno pagato per le loro colpe e riusciranno a rientrare onestamente nella società, molto spesso sarà soprattutto grazie a loro, agli agenti di polizia penitenziaria, l’ultima ruota del carro, loro che fanno, obbediscono, ma ora non tacciono più. Liberiamo almeno loro. Carceri, Sergio Mattarella: "Ci sono delle innegabili criticità" agora24.it, 20 settembre 2017 "In occasione del 200/mo anniversario della costituzione del Corpo sono lieto di esprimere l’apprezzamento della Repubblica e di formulare le più vive espressioni di gratitudine alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria per il costante e generoso impegno che pongono in un ufficio così prezioso per la sicurezza dei cittadini e la coesione sociale". Lo scrive il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio inviato al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Con spirito di servizio la Polizia Penitenziaria quotidianamente contribuisce al mantenimento dell’ordine ed asseconda il complesso percorso di rieducazione dei condannati, dando così adempimento ai precisi obblighi in tal senso sanciti dalla Costituzione. Nell’esercizio dell’attività di vigilanza, spetta alla Polizia Penitenziaria il difficile compito di far fronte alle situazioni di sofferenza e di disagio proprie della realtà carceraria, compito assolto, grazie all’abnegazione ed alla non comune professionalità degli appartenenti al Corpo, pur a fronte delle innegabili criticità del sistema carcerario. In questo giorno di solenne celebrazione, nel rendere omaggio alla memoria dei caduti nell’esercizio del dovere, e nell’esprimere ai loro familiari la vicinanza del Paese, rinnovo a tutti i componenti del Corpo, ai colleghi non più in servizio e alle loro famiglie, sentiti auguri", conclude Mattarella. Lo rende noto un comunicato del Quirinale. Mattarella alla Polizia penitenziaria: "Siete un presidio per la sicurezza" di Valentina Stella Il Dubbio, 20 settembre 2017 Lo splendido scenario delle Terme di Caracalla ha incorniciato ieri a Roma la celebrazione del bicentenario del corpo di Polizia Penitenziaria, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel suo discorso il Capo dello Stato ha parlato di "innegabili criticità del sistema carcerario" a cui fanno fronte con "abnegazione, spirito di servizio e non comune professionalità" gli agenti penitenziari contribuendo quotidianamente "al mantenimento dell’ordine" e assecondando "il complesso percorso di rieducazione dei condannati, dando così adempimento ai precisi obblighi in tal senso sanciti dalla Costituzione", pur nelle "situazioni di sofferenza e di disagio proprie della realtà carceraria". Accanto a Mattarella il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Il corpo di Polizia Penitenziaria ha costantemente rappresentato un presidio essenziale per la sicurezza della Repubblica, rendendo tangibile la presenza dello Stato in un luogo cruciale per la democrazia come il carcere". Orlando ha sottolineato poi l’apporto cruciale che la Polizia Penitenziaria offre contro la radicalizzazione in carcere: "Nella consapevolezza dei rischi che affronta il nostro Paese, in un delicato scenario geopolitico, caratterizzato da minacce ibride e spesso inedite, nonché da dinamiche di radicalizzazione che richiedono un attento monitoraggio, occorre soffermarsi anche sul ruolo del Corpo in materia di sicurezza". E ha concluso con l’invito a "evitare che una maggiore apertura del carcere si traduca in una flessione degli strumenti di controllo e in maggiori rischi di sopraffazione e violenza". Alla cerimonia ha partecipato anche una componente del Consiglio nazionale forense, l’avvocato Donatella Ceré, che ha rappresentato il presidente Andrea Mascherin. A fare gli onori di casa il responsabile del Dipartimento dell’amministra-zione penitenziaria, Santi Consolo: "Il ruolo della polizia penitenziaria è, oggi, quanto mai strategico e incisivo per la sicurezza del Paese. Essa infatti rappresenta lo Stato negli istituti penitenziari, dove è chiamata ad agire con fermezza, equilibrio, saggezza e con la più generosa disponibilità, per finalità di alto valore sociale. Del che, purtroppo, non sempre nei mass mediasi trova adeguato riconoscimento". Il responsabile del Dap ha poi alzato il tono quando si è rivolto ai rappresentanti sindacali - Sappe, Osapp, Uil-Pa, Sinappe, Fns-Cisl, Uspp, Cnpp e Fp Cgil - che nelle stesse ore avevano convocato una manifestazione a Montecitorio "per rivendicare più sicurezza nelle carceri, ma anche nuove assunzioni, nuove dotazioni di risorse finanziare e tecnologiche e adeguati stanziamenti per il rinnovo del contratto scaduto oramai da dieci anni". A loro Consolo ha risposto richiamando il senso di responsabilità: "In questo momento di transizione faccio appello al senso di responsabilità delle forze sindacali con un saluto che vuole, anche, essere segno di intento collaborativo". Al termine della cerimonia, a cui erano presenti la sottosegretaria Maria Elena Boschi, la presidente della Camera Laura Boldrini, il sottosegretario Gennaro Migliore, oltre al conferimento della medaglia d’oro al valore civile alla bandiera del Corpo, sono state consegnate medaglie, alla memoria, ai familiari di due agenti che si sono distinti per meriti morali e civili: Calogero di Bono, torturato e ucciso dalla mafia il 28 agosto 1979, e Carmelo Magli, morto in un agguato di mafia nel 1994. "Condizioni critiche nelle carceri", sit-in della Polizia penitenziaria davanti al Parlamento Il Messaggero, 20 settembre 2017 La Polizia penitenziaria protesta in piazza, davanti al Parlamento, mentre a Caracalla si celebra il bicentenario del corpo. Otto sigle sindacali si sono date appuntamento davanti a Montecitorio per sensibilizzare politici e opinione pubblica sulle "condizioni critiche in cui vive quotidianamente il personale nelle carceri". Gli aderenti al Sappe, Osapp, Uilpa, Sinappe, Fns-Cisl, Uspp, Cnpp e Fp-Cgil) protestano "per rivendicare più sicurezza nelle carceri, ma anche nuove assunzioni, nuove dotazioni di risorse finanziare e tecnologiche e adeguati stanziamenti per il rinnovo del contratto scaduto oramai da dieci anni". "Sovraffollamento, carenza di organici, organizzazione del lavoro deficitaria, suicidi e violenze sul personale sono i parametri di un vero bollettino di guerra", sostengono i sindacati. "Criticità pesantissime trascurate dal Dap e dal Ministro della Giustizia colpevoli di non aver assunto nessuna decisone risolutiva sull’emergenza quotidiana delle carceri" concludono. Nuovo Codice antimafia, se lo Stato di diritto va al tappeto di Alessandro Barbano Il Mattino, 20 settembre 2017 La norma più illiberale e giustizialista della storia repubblicana sarà approvata dalla Camera entro una settimana, con l’impegno che sarà cancellata entro la fine della legislatura. È il paradosso e insieme il gioco d’azzardo di una politica che non finisce di stupire. Il nuovo codice antimafia, che estende i sequestri e le confische in assenza di giudicato ai sospettati di tutti i reati contro la pubblica amministrazione, compreso il peculato, diventerà legge, almeno per un po’. Così vogliono l’associazione Libera, che l’ha promosso, l’ala giustizialista del Pd, che lo cavalca, il ministro Orlando, che se l’appunta al petto per ingraziarsi una certa magistratura militante, la commissione antimafia, che lo sostiene per difendere le deboli ragioni del suo improbabile ruolo nella democrazia italiana. Il segretario del Pd, Matteo Renzi, e i cosiddetti moderati della maggioranza ingoieranno il boccone amaro, perché hanno ricevuto la promessa che, prima di andare alle urne, la norma incriminata sarà espunta dal codice antimafia e cancellata, con un provvedimento ad hoc, da infilare nella legge di bilancio o in qualche altra misura in via di approvazione. In tal modo, il nuovo codice antimafia resterà in piedi, ma senza quella stortura che i migliori giuristi italiani, e lo stesso presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, hanno definito inutile, incostituzionale e controproducente. L’accordo non è senza precedenti, ma, converrete, è quantomeno irrituale. Vogliamo credere che la trattativa, più o meno segreta, terrà alla tentazione del trabocchetto a Renzi, in una fase della legislatura in cui il segretario del Pd non sembra avere molti amici dentro la maggioranza che sostiene il governo. Vogliamo altresì sperare che, di questa trattativa, sia stato reso edotto il Quirinale, affinché quest’ultimo non abbia ad eccepire, quando si tratterà di infilare la parziale abrogazione del codice in un percorso legislativo che con i sequestri e le confische non avrà nulla a che vedere. Vogliamo infine sorvolare sull’intero pacchetto del nuovo codice antimafia, che, anziché ridurre la manomorta giudiziaria dello Stato fondata sulle confische a go-go delle ultime stagioni, la legittima e la rafforza con la costruzione di un nuovo carrozzone burocratico, l’Agenzia dei beni confiscati, che da piccolo ente inutile si avvia a diventare un grande e costoso ente inutile e dannoso. Da oggi tutti coloro che hanno a cuore le sorti della democrazia liberale hanno il dovere di vigilare. Perché, finché quella norma sarà in piedi, il Paese si troverà con un diritto penale e processuale che fa dell’emergenza la regola, del sospetto la prova, delle garanzie carta straccia, del giudicato un’inutile ritualità, del Parlamento l’ostaggio di gruppi di pressione. Questi ultimi perseguono due obiettivi diversi ma convergenti: mettere l’economia, dopo la politica, sotto la tutela di una parte della magistratura, e alimentare un circuito consociativo e clientelare di cui fanno parte spezzoni della stessa magistratura, della burocrazia, delle professioni e dell’associazionismo. Che poi questo universo sedicente di sinistra, capeggiato dal guardasigilli Andrea Orlando, abbia cavalcato e difeso con i denti, contro ogni ragionevolezza, una legge fascista, è circostanza figlia della confusione dei tempi. Le misure di prevenzione, infatti, sono figlie di un diritto cosiddetto del doppio binario, un diritto autoritario adottato dopo l’Unità d’Italia dalla destra storica per debellare i briganti, usato dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti, fatto proprio dai fascisti contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta Costituzionale non ne facesse appositamente menzione con l’intento di abrogarlo. Il Parlamento negli ultimi due decenni ne ha invece esteso i confini e, oggi, con il nuovo codice antimafia, ne fa la regola. Lo Stato di diritto è al tappeto. Chi ha ancora occhi per vedere, e voce per parlare, lo aiuti a rialzarsi. Lo stato di diritto contro la violenza sulle donne di Carlo Federico Grosso La Stampa, 20 settembre 2017 Leggi speciali per contrastare la violenza sessuale? Stando a quanto è stato riportato ieri dalle agenzie lo avrebbe ipotizzato, addirittura, il sindaco di Roma Virginia Raggi. Che la violenza sulle donne sia fenomeno esecrabile è ovvio. Che si debba reagire agli episodi ricorrenti di violenza con una legislazione speciale di emergenza mi sembra, tuttavia, un non senso. Occorre, piuttosto, assicurare che la legislazione penale vigente venga applicata efficacemente e con rigore e che, se del caso, vengano rafforzati i già previsti presidi di protezione, di prevenzione e di controllo del territorio. Innanzitutto sembra opportuno precisare che, se è vero che a livello di percezione il fenomeno criminale della violenza sessuale sembra essere aumentato, le statistiche ufficiali rivelano il contrario: sia pure soltanto con riferimento ai casi di violenza denunciati, essi parrebbero essere diminuiti di più del 10% dal 2006 al 2015. E gli stupri sarebbero ulteriormente diminuiti nel primo semestre del 2017 rispetto al semestre corrispondente del 2016. Quale legislazione di emergenza, dunque? Ricordo d’altronde che una legislazione speciale di emergenza era stata introdotta, nel nostro Paese, al tempo del terrorismo, per estirpare la violenza allora dilagante. Ma ricordo pure che, se si fa eccezione per l’efficacia dirompente di talune norme premiali, le disposizioni che hanno appesantito le sanzioni penali, attenuato le garanzie individuali, introdotto scorciatoie all’azione delle forze dell’ordine poco sono servite allo scopo. Semplicemente, hanno imbarbarito il livello dello stato di diritto introducendo nel nostro sistema giuridico pericolose scorie autoritarie. Che fare, dunque, di fronte ai casi di cronaca dei quali i giornali hanno ampiamente parlato nei giorni scorsi? Come dicevo, applicare rigorosamente la legge penale vigente e rafforzare nei limiti del possibile i presidi di tutela dei cittadini sul territorio. La legislazione penale in materia di violenza sessuale mi sembra adeguata ad una repressione efficace del fenomeno: essa prevede la reclusione da cinque a dieci anni per l’ipotesi base di chi con violenza o minaccia costringe taluno a compiere atti sessuali, pena che viene elevata in casi particolarmente gravi in ragione della qualità del soggetto agente o di quella della vittima (es. minore). Si tratta a questo punto di applicare adeguatamente e rigorosamente tale legislazione: nella cornice di un processo giusto per l’imputato, ma che garantisca nello stesso tempo il soggetto passivo della violenza da ambigui tentativi delle difese degli imputati - purtroppo talvolta ancora presenti e tollerati nei processi per stupro - di truccare le carte e di ribaltare il rapporto esistente fra carnefice e vittima. Ma a tale ultimo riguardo non sono utili o possibili riforme legislative, ma deve essere la magistratura a farsi, di fatto, garante della correttezza dello svolgimento del processo. La legge prevede d’altronde già oggi che il territorio sia pattugliato e controllato dalle forze dell’ordine a protezione dei cittadini contro i fenomeni di criminalità. Il controllo non è adeguato o sufficiente? Lo si potenzi, si investano per quanto possibile risorse, si predisponga un sistema capillare di videosorveglianza. Ancora una volta, nessuna legge speciale, bensì l’impiego di strumenti adeguati di tutela conseguenti ad un adeguato investimento di denaro nella sicurezza. Il tema della violenza sulle donne è, per altro verso, più complesso rispetto a quanto risulta evidenziato dagli episodi dei quali hanno parlato i giornali nei giorni scorsi. Non c’è, soltanto, la violenza degli estranei perpetrata nelle strade. C’è la violenza quotidiana consumata nelle mura domestiche, c’è la violenza perpetrata all’interno delle piccole comunità isolate, c’è la violenza subita in silenzio dalle donne terrorizzate dal contesto famigliare o sociale circostante. Anche con riferimento a queste situazioni di violenza la reazione giudiziaria deve essere inflessibile e l’applicazione della legge penale rigorosa. Ma anche qui il tema principale è costituito dalla predisposizione degli strumenti in grado di fare emergere, e pertanto anche sotto questo profilo contrastare, tali fenomeni criminali di regola sommersi: potenziamento dei servizi sociali, potenziamento delle istituzioni di protezione delle donne, interventi sul terreno della educazione civile. Il Garante privacy ai media: le informazioni sulle vittime di stupro non vanno diffuse di Marco Libelli Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2017 "Di fronte al ripetersi di atti di violenza sessuale contro le donne compiuti nel nostro Paese, il Garante per la protezione dei dati personali invita tutti i media ad astenersi dal riportare informazioni e dettagli che possano condurre, anche in via indiretta, alla identificazione delle vittime". È quanto si legge in una nota del Garante per la privacy". "Questo vale a maggior ragione - sottolinea il Garante - nei casi in cui la violenza (come nell’ultimo episodio riguardante una dottoressa della guardia medica siciliana) sia avvenuta in un piccolo centro, circostanza questa che potrebbe rendere ancora più facile l’identificazione della vittima". Il Garante ricorda che "anche quando i dati e le informazioni vengano forniti da fonti ufficiali, i media sono tenuti a non diffondere elementi che portino alla individuazione delle vittime di violenza sessuale. La pubblicazione di tali informazioni è infatti contraria al Codice deontologico dei giornalisti, al Codice della privacy e alla tutela rafforzata accordata dal Codice penale alle vittime di reati sessuali. Il Garante adotterà al riguardo le iniziative di propria competenza". Affermazioni in linea con quanto detto lunedì scorso da Giovanni Buttarelli, Garante europeo della protezione dei dati personali, che è intervenuto proprio sullo stesso tema, citando proprio il Codice deontologico dei giornalisti che "non contiene solo buone pratiche ma vere e proprie regole di rilevanza giuridica che fondano la legittimità del trattamento dei dati" da parte dei professionisti dell’informazione. In particolare l’articolo 6 che sottolinea come divulgare notizie di rilevante interesse pubblico non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. Un tema particolarmente caldo, quello della divulgazione dei dati personali, proprio nel momento in cui al ministero della Giustizia è in fase di elaborazione il decreto che innoverà la disciplina delle intercettazioni, previsto dalla delega alla riforma del processo penale e su cui a via Arenula si stanno svolgendo le consultazioni degli operatori interessati. Nelle bozze sinora circolate c’è la modifica dell’articolo 268 del Codice di procedura penale, che regolamenta l’esecuzione e prevede che le comunicazioni intercettate sono registrate ed è redatto un verbale nel quale è trascritto anche in maniera sommaria il contenuto delle intercettazioni. La modifica in cantiere invece istituisce un divieto inedito, quello di trascrizione delle comunicazioni o conversazioni che non hanno rilevanza per l’indagine. Magistratura e carriere, cambiare non è eversione di Giovanni Verde Il Mattino, 20 settembre 2017 Ci sono questioni che dovrebbero essere tenute fuori dalla polemica politica. Sono le questioni che riguardano la nostra democrazia. E la domanda da por-ci dovrebbe essere una sola: abbiamo a cuore la democrazia? E di fronte a questa domanda chi crede nella democrazia dovrebbe con onestà intellettuale chiedersi se l’organizzazione della nostra giustizia, quale è disegnata nella Carta costituzionale, sia la migliore possibile in un paese autenticamente democratico. La nostra Carta ha costituzionalizzato - e, quindi, ha reso immodificabile se non attraverso ima modifica della stessa Costituzione - ima magistratura, della quale fanno parte giudici e pubblici ministeri. Di conseguenza, ha predisposto per gli uni e per gli altri uno stesso organo di autogoverno, al quale essi partecipano in posizione assolutamente paritaria. Ci potremmo chiedere come e perché ciò sia possibile, dato che non è da dubitare che, per la natura delle cose, il giudicare è ben diverso dall’agire in giudizio e che il giudice deve avere un abito neutrale (senza del quale cessa di essere giudice) là dove chi agisce in giudizio, prospettando una richiesta è inevitabilmente "parte", ossia è per definizione parziale. I Costituenti ritennero di potere ridurre al minimo la differenza, introducendo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Se il pubblico ministero è obbligato ad esercitare l’azione penale, vuol dire che è privo di discrezionalità, e se è privo di discrezionalità, finisce con l’esercitare una funzione "neutra" non diversa da quella del giudice. È, insomma, l’obbligatorietà dell’azione penale ciò che giustifica la completa assimilazione dei pubblici ministeri ai giudici. Nel nostro Paese gli uni e gli altri sono magistrati e appartengono ad un corpo voluto come unitario, quale è la Magistratura, Quando l’Avvocatura, soprattutto quella penale, reclama la necessità di una separazione delle carriere, non si rende conto che un’effettiva separazione urta contro lo scoglio della Magistratura intesa come corpo unitario al quale partecipano giudici e pubblici ministeri e che l’unicità trova giustificazione nell’ idea che l’attività del pubblico ministero, in quanto attività doverosa, non sia molto diversa da quella del giudice. Una separazione, quale è quella alla quale pensa l’Avvocatura, dovendo rispettare la configurazione che la Corte costituzionale ha dato alla organizzazione della giustizia, servirebbe a poco o, forse, peggiorerebbe la situazione. Il vero problema che l’attuale stato delle cose pone drammaticamente in evidenza è, infatti, quello del controllo sull’esercizio dell’azione penale, rispetto al quale la risposta della magistratura è semplice: se il pubblico ministero è obbligato a proporre l’azione penale, non può esservi responsabilità nel suo esercizio; il processo che ne consegue è necessario, forse può diventare un male necessario, ma è inevitabile; e la lunghezza dei tempi processuali non può essere imputata ai pubblici ministeri, ma ad un sistema che riconosce troppe garanzie e che offre agli avvocati troppe armi di cui essi approfittano. In fin di conti, i veri responsabili delle distorsioni sono proprio i difensori, che difendono i loro assistiti "dal" processo e non già "nel" processo. Giovanni Falcone diceva che nel nostro Paese non vi è una politica giudiziaria e che tutto è riservato alle decisioni politicamente irresponsabili dei vari uffici di procura e, spesso, dei singoli magistrati. È probabile che egli avesse presente la singolarità del nostro sistema ed è significativo come egli avvertisse che l’esercizio dell’azione penale non può essere "neutro" e che comporta inevitabili responsabilità "politiche" (intese come quelle legate a scelte inevitabilmente discrezionali). Mi chiedo quanti e quali Paesi hanno tra i principi costituzionali quello di una magistratura costruita in maniera da includervi a pari titolo giudici e procuratori e quanti e quali Paesi hanno costituzionalizzato il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non credo che ce ne siano molti, A me viene a mente che la sola Francia ha un sistema avvicinabile al nostro, prevedendo due organi di autogoverno (ma la Francia conserva il giudice istruttore e sottopone i pubblici ministeri al controllo del Ministro della giustizia). E mi chiedo se saremmo disposti a cambiare e ad omologare la nostra organizzazione della giustizia a quella degli altri Paesi che appartengono alla nostra comune civiltà. Si dovrebbe, è chiaro, cambiare la Costituzione; dare un diverso assetto ai pubblici ministeri, abbandonare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, costruire un ragionevole sistema per preservare l’autonomia dei procuratori e al tempo stesso costruire una efficace politica giudiziaria (opera tutt’altro che facile). Ma per fare ciò occorrerebbe mettere mano a riforme della Costituzione, che, a distanza di settanta anni dalla sua entrata in vigore, continuiamo a celebrare come la più bella Costituzione del mondo, È difficile, se non impossibile. E qui non mi sento di addossare la responsabilità alla politica. Chi di noi è disposto a sostenere chela nostra Costituzione, come tutte le cose umane, soffre di obsolescenza? Chi di noi è disposto a correre il rischio che gli sia rinfacciato di nutrire chissà quali disegni eversivi? No. Il problema non è politico. È un problema culturale. Agli italiani va bene che le cose vadano come vanno e vogliono correre il rischio, come già negli anni Quaranta avvertiva un magistrato della Corte Suprema degli Stati Uniti di America, che l’azione penale sia utilizzata per colpire la persona piuttosto che il reato, sempre che la persona sia un altro (e non noi). E vogliono correrlo perché non hanno fiducia nelle istituzioni e nella politica e credono che, imponendo obblighi di legge (ossia costruendo l’azione penale come obbligatoria), si possano impedire difformità e ingiustizie. Amano coltivare questa illusione, chiudendo gli occhi di fronte al fatto che non può esservi obbligo fondato sulla necessariamente e inevitabilmente discrezionale attività di indagine. E se in questo modo la democrazia va in sofferenza e se le istituzioni vanno in malora non importa. Questo è e resta il migliore dei mondi possibili. Sequestro più esteso per ostacolo alla vigilanza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2017 Corte di cassazione, sentenza 19 settembre 2017, n. 42778. Sequestro allargato per ostacolo all’attività di vigilanza. Possono essere quindi assoggettati alla misura cautelare i finanziamenti ottenuti da una banca a favore del suo ex amministratore delegato, flussi poi utilizzati per alterare la rappresentazione del patrimonio di vigilanza. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 42778della Quinta sezione penale depositata ieri. Pronuncia che respinge il ricorso presentato dalla difesa dell’ex ad di Veneto Banca Vincenzo Consoli, contro la misura decisa dal Riesame di Roma. Tra i motivi alla base dell’impugnazione c’era l’errore dell’autorità giudiziaria nell’individuazione dei beni strumentali alla realizzazione del reato e questi non potevano che essere gli strumenti concretamente utilizzati per le false comunicazioni a Banca d’Italia e Consob. Di parere opposto è stata la Corte di cassazione per la quale, nel perimetro del sequestro per violazione dell’articolo 2638 del Codice civile, può rientrare anche la provvista messa a disposizione dei terzi da Veneto Banca per l’acquisto di azioni proprie. In questo modo - secondo la ricostruzione del Riesame fatta propria dalla Cassazione - la misura cautelare colpisce le risorse "destinate, per espressa disposizione dell’indagato in virtù della posizione apicale rivestita in seno alla banca, alle operazioni in virtù delle quali si è giunti alla mendace rappresentazione del patrimonio di vigilanza a Banca d’Italia e Consob, attraverso una realtà contabile artificiosa, che ha reso possibile, come si diceva, un’artefatta rappresentazione dello stato di salute dell’istituto di credito, "gonfiando" il patrimonio di vigilanza, mediante l’inclusione, tra gli elementi positivi, di obbligazioni e azioni proprie, acquistate con provvista finanziaria della stessa banca". Il reato di ostacolo alla vigilanza ha poi una portata assai estesa: può essere infatti di semplice condotta, sia per omessa comunicazione di informazioni dovute sia per l’utilizzo di mezzi fraudolenti indirizzati a nascondere fatti rilevanti per la situazione economica o patrimoniale ella società; oppure può essere anche delitto di evento realizzato con le più varie condotte. A causa di questa flessibilità, può senz’altro essere rilevante penalmente la rappresentazione artificiosa del patrimonio di vigilanza con elementi positivi privi di fondamento per effetto dell’acquisito di titoli grazie a finanziamenti erogati dalla banca stessa. E il sequestro non deve essere effettuato, come sostenuto dalla difesa Consoli, sui beni di Veneto Banca, perché dalle operazioni non ne ha tratto vantaggi. Anzi, queste hanno condotto l’istituto sull’orlo di una crisi economica irreversibile, evitata solo dall’intervento del Fondo Atlante. Bancarotta per distrazione, non vale il ne bis in idem se avviene con più azioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2017 Corte di cassazione, sentenza 19 settembre 2017, n. 42834. Non c’è violazione del ne bis in idem se le condanne per bancarotta, pur relative alla distrazione di uno stesso marchio, riguardano azioni commesse in tempi diversi dal legale rappresentante di due società fallite e si sono differenti rispetto ai patrimoni impoveriti e alle masse creditorie colpite. La Cassazione (sentenza 42834), respinge il ricorso con il quale si chiedeva l’applicazione del ne bis in idem per revocare la condanna più vicina nel tempo, inflitta dalla Corte d’Appello. A parere della difesa con la doppia condanna, una datata 2014 e una inflitta nel 2010 per bancarotta per distrazione rispetto allo stesso bene materiale, il marchio d’impresa, era stato violato il principio del ne bis in idem. Il brand era stato in prima battuta ceduto fittiziamente, senza giustificazione economica o contropartita, ad una società di famiglia in grave crisi finanziaria in seguito fallita, era "passato" poi ad un’altra società che, al pari dell’altra, faceva capo al ricorrente, con una fuoriuscita definitiva del marchio dal patrimonio delle due società in favore di un’azienda straniera. Per la Corte d’appello il fatto che il ricorrente avesse agito, come legale rappresentante di due diverse società fallite, consente di escludere l’identità dei fatti, essendo ininfluente anche la circostanza, evidenziata dal ricorrente, che una controllava l’altra. Né ha un peso che una delle due società dopo la cessione avesse cambiato denominazione, eliminando il marchio fino a cessare, due mesi dopo, l’attività. La Corte territoriale ha correttamente escluso la sovrapponibilità delle condotte. Diverse erano, infatti, le società fallite e i patrimoni depauperati, le masse dei creditori danneggiate, le modalità e i tempi in cui le azioni erano state svolte. Pur escludendo la violazione nel caso esaminato, i giudici ricordano che la duplicazione del procedimento è sempre più una disfunzione da scongiurare. I giudici sottolineano, in linea anche con le indicazioni dei lavori parlamentari che hanno preceduto l’approvazione dell’attuale codice di rito, che il divieto di ne bis in idem ha assunto il rango di principio generale dell’ordinamento processuale ed è posto a tutela anche dei diritti fondamentali dell’imputato. Piemonte: vademecum per i 4 mila detenuti delle carceri piemontesi di Cinzia Gatti torinoggi.it, 20 settembre 2017 "Alla privazione della libertà personale non deve accompagnarsi la perdita di altri diritti, tra cui quello ad essere informati". Con queste parole il Presidente del Consiglio Regionale Mauro Laus ha presentato il "Vademecum - Riferimenti utili per la comunità penitenziaria". Un libretto conoscitivo ed informativo da dare in mano agli oltre 4 mila detenuti ristretti nelle 13 carceri del Piemonte. Di questi 151 sono donne e 1.835 stranieri. Spesso proprio questi ultimi faticano a comprendere la realtà che li circonda. "Una difficoltà", ha proseguito Laus, "che di fatto limita la possibilità di esercitare i diritti loro riconosciuti dall’ordinamento di venire a conoscenza delle opportunità di studio, formazione e lavoro". "È una tessera", ha commentato il Garante delle persone detenute Bruno Mellano, "di un più ampio e complesso "puzzle" che è la rete sociale ed istituzionale, costituita dalla comunità penitenziaria ma anche dal tessuto territoriale: l’esecuzione penale nel nostro Paese, ormai e per fortuna, solo in parte costituita dalla mera detenzione in carcere". Milano: l’esempio del carcere di Bollate, che ha ridotto la recidiva dal 70% al 17% di Luciano Conti bandieragialla.it, 20 settembre 2017 La Rai ha trasmesso un interessante documentario redatto da un gruppo di detenuti del carcere di Bollate (Mi) su come si vive in un istituto penitenziario e più specificatamente, volto a illustrare un avanzato modello di applicazione gestionale di quanto previsto dall’ordinamento penitenziario già dal 1975. Il carcere di Bollate che comprende una popolazione di circa 1.100 detenuti e 100 detenute ha, infatti, messo in atto, a partire dal 2000 con la direttrice Castellano e proseguito poi oggi con il direttore Parisi, uno dei più innovativi sistemi organizzativi e gestionali a livello nazionale, teso alla piena riabilitazione e recupero del detenuto così come previsto dalla Costituzione Italiana sulla finalità della pena. L’impostazione organizzativa adottata è tesa a superare il modello stereotipato di funzionamento del carcere. Ha comportato lo sforzo di una diversa strutturazione delle modalità di utilizzazione degli spazi; del sistema di vigilanza; delle relazioni agenti/detenuti e, soprattutto, la messa in campo di una molteplicità di attività nell’ambito lavorativo, educazionale, sportivo e ricreativo, volte alla rieducazione e al reinserimento sociale dei detenuti. Un’attenzione particolare è data alla formazione professionale degli agenti e alla creazione di una sorta di "spirito manageriale" nella gestione di ogni singola sezione detentiva, basato anche e soprattutto sulla piena valorizzazione e sull’utilizzo delle professionalità e delle predisposizioni attitudinali di ogni singolo detenuto per contribuire alla vita e attività operativa del carcere. Il documentario prodotto è il frutto di una delle molteplici attività svolte all’interno del carcere di Bollate, grazie anche a una massiccia presenza del volontariato impegnato nelle più diverse iniziative. Questo descrive le principali attività che vengono svolte all’interno dell’istituto con interviste ai detenuti coinvolti. Questi raccontano del loro coinvolgimento nella vita del carcere, parlano della loro esperienza di vita e soprattutto delle loro aspettative per il futuro. Il settore femminile è quello che ancora presenta maggiori restrizioni e minori spazi operativi rispetto ai settori maschili, anche se anche qui esperienze interessanti sono state avviate, come quella della sartoria che vede impegnate le detenute dalle 9 del mattino alle 17 del pomeriggio e dopo è permesso loro di andare in palestra. Un’attività che impegna i detenuti è l’accudimento a uso orticolo di lotti di terreno con funzione di "orto-terapia" ancorché di utilizzazione personale di prodotti ricavati oltre che per la sezione. È stata avviata l’attività di gestione di un maneggio e accudimento di cavalli in cui vengono ricoverati animali oggetto di sequestri e sottratti da situazioni di maltrattamento. Anche in questa iniziativa si tendono a conciliare la valenza economica con quella rieducativa dell’ippoterapia. Il contributo maggiore all’aspetto occupazionale da un punto di vista lavorativo è dato dalla costituzione di una cooperativa che svolge le funzioni di cucina interna e di ristorazione verso l’esterno (gestione del ristorante "La galera" e catering). È stato costituito un attivo gruppo teatrale, è presente una partecipata sala lettura, sono messe in atto varie attività formative e scolastiche, attività sportive e una molteplicità di lavoratori ancorché la redazione di due testate giornalistiche (un’interna e una rivolta verso l’esterno). Questo modello organizzativo e gestionale ha trovato un riscontro altamente positivo da parte dei detenuti che riescono a trovare una motivazione di vita e una speranza per il futuro. Tutto ciò si riverbera positivamente nella capacità di reinserimento sociale riscontrata dai dati sulla recidiva che vedono per questo istituto penitenziario una radicale caduta dei dati rispetto a quelli della media nazionale. Il documentario si chiude con un messaggio di speranza per il futuro dato dell’intervista al detenuto Maurizio che annunciava orgoglioso ed emozionato il suo prossimo matrimonio con la compagna conosciuta anni addietro e con la quale aveva potuto coltivare in questi anni un rapporto con modalità facilitate di colloqui e incontri in carcere. Novara: detenuti e cantieristi al lavoro al parco e alla scuola "Thouar" novaraindiretta.it, 20 settembre 2017 I detenuti usciti in permesso premio dalla Casa circondariale, sotto il coordinamento tecnico di Assa e coadiuvati dai quattro detenuti impiegati in azienda come "cantieristi", hanno provveduto alla completa pulizia dell’area dai rifiuti, alla manutenzione degli arredi e dei giochi (applicando l’apposito impregnante) e alla riparazione della staccionata nei punti danneggiati, alla posa di nuove altalene e alla sistemazione della pavimentazione anti-caduta e della cartellonistica del parco, alla chiusura di diverse buche, alla manutenzione del verde e alla riparazione della fontanella dell’acqua potabile, alla sostituzione del canestro dell’adiacente campo da basket. "Grazie a questo intervento - commenta il presidente di Assa Giuseppe Antonio Policaro - abbiamo restituito in tutto il suo decoro questo giardino pubblico a tutti i suoi fruitori, in particolare a bambini, ragazzi e famiglie. Siamo soddisfatti di come stia procedendo in maniera spedita la nostra attività di sistemazione dei parchi, a noi affidata dal Comune e svolta nell’ambito dell’ambizioso progetto di recupero del decoro urbano che ha una sua duplice valenza sociale, in quanto ne beneficia l’intera comunità novarese e ne beneficiano i detenuti che si rendono utili alla società e acquisiscono anche specifiche competenze in ambito lavorativo utili a loro per il futuro reinserimento nel tessuto sociale". Il responsabile Assa dei Progetti sociali Riccardo Basile rimarca l’impegno dell’azienda "su due filoni di interventi nei parchi della città: una volta a settimana interveniamo con i detenuti risistemando completamente un’area verde nell’ambito del "Protocollo delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale" e quotidianamente operiamo con i "cantieristi disoccupati" del Comune, secondo quanto previsto dalla Legge regionale n. 34/2008, assegnati ad Assa proprio per le attività di pubblica utilità che prevedono anche la manutenzione del verde pubblico, oltre a bonifica, recupero e riqualificazione di aree degradate, manutenzione uffici e spazi pubblici. Sempre oggi, ad esempio i "cantieristi disoccupati" sotto il nostro coordinamento hanno lavorato nel parco della scuola "Thouar" completando la messa in sicurezza delle attrezzature ludiche, la manutenzione degli arredi e delle panchine, la sistemazione della pavimentazione e dei camminamenti, la regimazione delle acque". Pavia: in carcere condizioni inumane, detenuto ottiene lo sconto di pena di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 20 settembre 2017 Accolta l’istanza dell’avvocato: tolti 51 giorni di reclusione. Inumana detenzione al carcere di Torre del Gallo. Un detenuto ha ottenuto lo sconto di pena di 51 giorni dopo che il giudice di Sorveglianza di Pavia ha accolto l’istanza dell’avvocato difensore Pierluigi Vittadini, che evidenziava le condizioni in cui il suo assistito era recluso nella casa circondariale del capoluogo pavese. Il legale per sostenere la sua tesi ha presentato i dati dell’associazione Antigone, che si occupa dei diritti nel sistema penale, numeri che sono stati raccolti durante un’ispezione degli associati svolta ad aprile. I dati mostravano come ad esempio non in tutte le celle fossero garantiti i 6 metri quadrati calpestabili per detenuto come richiesto dagli standard, come non fosse garantita l’acqua calda in tutte le celle, non è inoltre rispettato il criterio di una cucina ogni duecento detenuti. Sono stati poi elencati i dati relativi al sovraffollamento: in particolare al momento della visita erano presenti 609 detenuti quando la capienza regolamentare ne prevede 518. Inoltre nel corso del 2016 ci sono stati 153 episodi di autolesionismo. Dati che secondo il difensore e l’associazione cozzano con i parametri previsti dall’ordinamento penitenziario: "Il giudice ha riconosciuto la validità dei dati presentati e ha accolto la nostra istanza", ha commentato il legale Vittadini. La scelta, in caso di esito favorevole al detenuto, ricadeva sullo stabilire un risarcimento monetario oppure applicare uno sconto di pena, si è optato per quest’ultima soluzione. Il detenuto stava scontando una condanna a circa cinque anni per spaccio e rapina: "Gli mancano un paio di anni per il fine pena", ha aggiunto il difensore. Ora gli saranno tolti dal conteggio cinquantuno giorni. Asti: il Consiglio comunale di visita il carcere, per capire come si vive e lavora di Selma Chiosso La Stampa, 20 settembre 2017 Un piccolo "Consiglio comunale" in carcere. Per capire come si vive e lavora, lodare le eccellenze, focalizzare i problemi e iniziative future. Alla visita, guidata dal direttore Elena Lombardi Vallauri, organizzata da Mariangela Cotto, assessore alle Politiche sociali, hanno partecipato assessori e consiglieri "bipartisan" e anche impiegati. All’uscita il sindaco Maurizio Rasero ha sintetizzato per tutti: "Il rapporto tra Comune e carcere si perde nella notte dei tempi. È un carcere che ha cambiato pelle, che ospita detenuti punto di riferimento per organizzazioni mafiose. Età media 40 anni, persone di cultura, capaci di capire quali sono le problematiche e annidarsi in esse. Il problema grande è la sofferenza di organico, le eccellenze sono il lavoro, la digitalizzazione delle pratiche edilizie per il Comune e ora anche per una società esterna; il centro cinofilo dove vengono addestrati cani antidroga per la polizia Penitenziaria di tutt’Italia. Ammiro la direttrice per il lavoro che svolge con professionalità e umanità e tutto il personale che lavora più del dovuto tra carenze di organico e difficoltà". Andrea Giaccone, assessore Lega Nord, ha annunciato che tra pochi giorni incontrerà il prefetto per informarsi sul possibile radicamento delle famiglie malavitose sul territorio, mentre il capogruppo Marco Bona ha ricordato l’interpellanza presentata da Roberto Simonetti al ministero della Giustizia sulla necessità di aumentare l’organico della Penitenziaria". Una buona notizia è arrivata dall’assessore Loretta Bologna: è in corso un accordo con Astiss per inviare in carcere istruttori di ginnastica. Angela Quaglia ha rilevato la necessità di sistemare palestra e teatro. Alla domanda su cosa possa fare concretamente il Comune per il carcere, il direttore ha risposto: "Aiutarci a sistemare il teatro, continuare a lavorare con noi organizzando iniziative sulle legalità e progetti con le scuole e la città. Mariangela Cotto non è nuova a "cose di carcere". È un aspetto di cui si è sempre occupata fin da quando era in Regione. Conosce bene la realtà astigiana: "Un polo importante che deve diventare sempre più risorsa. Dobbiamo migliorare i trasporti". Nella digitalizzazione dei documenti sono occupati 8 detenuti, di cui 3 per il settore edilizia del Comune. Sono 1714 le licenze digitalizzate, quelle del 1991. Un lavoro fatto bene che ha comportato una commessa esterna per cui lavorano in 5. Tra i presenti alla visita anche l’onorevole Paolo Romano con tutti i consiglieri 5 stelle. Monza: la Cgil denuncia "due tentati suicidi nello stesso momento" monzatoday.it, 20 settembre 2017 Due tentativi di suicidio nel carcere di Monza, entrambi intorno alle otto di sera di lunedì 18 settembre. Il primo protagonista è un italiano, collaboratore di giustizia, che ha cercato di impiccarsi. Gli agenti penitenziari sono intervenuti, l’hanno salvato e hanno disposto il trasferimento presso l’ospedale cittadino. Il secondo episodio è avvenuto invece presso il reparto di osservazione di psichiatria del penitenziario. Anche questo secondo detenuto è stato ricoverato al San Gerardo. Fatti drammatici, segnalati dalla Fp-Cgil Lombardia, secondo cui occorre domandarsi se e come è possibile prevenirli. "Il sovraffollamento dei detenuti e il numero ridotto di personale civile e di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Monza rendono critiche e difficilmente sostenibili le condizioni di vita dei carcerati", commenta il sindacato: "Ciò che accade dentro il carcere riguarda la società e la nostra comunità tutta, che non può rassegnarsi a questa triste situazione". Avellino: convegno a Grottaminarda "il carcere, dai problemi di ieri a quelli di oggi" di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 20 settembre 2017 Una giornata di intenso dibattito e di vive scuole di pensiero, palcoscenico ideale per trovare idee concrete, per disegnare il futuro partendo dal presente. Il carcere, dai problemi di ieri a quelli di oggi. Se ne discuterà a Grottaminarda alla presenza di esperti venerdì 22 settembre alle ore 17.00 all’interno del Castello D’Aquino. Saluti iniziali affidati a Claudio Luisi, membro dell’associazione LforL, Antonio Mustone membro Legalact, Giovanni Ragazzo consigliere Csv, Angelo Cobino sindaco di Grottaminarda, Sergio Melillo Vescovo della Diocesi di Ariano Irpino - Lacedonia, Padre Nicola Di Rienzo Cappellano della Casa Circondariale di Ariano Irpino. Interventi e relative tematiche: Pasquale Troncone, docente di diritto penale, dipartimento di Giurisprudenza Università degli Studi di Napoli Federico: "Perché punire? Quale trattamento è più disumano: la pena di morte o l’ergastolo? La pena e le sue funzioni". Giovanni Conzo, procuratore aggiunto presso il tribunale di Benevento: "L’obbligatorietà dell’azione penale: "La macchina della giustizia e il sovraffollamento carcerario". Giuseppe Sassone giudice presso la III sezione della Corte di Assise di Napoli: "La tutela dei diritti dei detenuti: la rivoluzione copernicana della sentenza Torreggiani". Paolo Pastena direttore della Casa Circondariale di Avellino: "Sono maturati i tempi per ridare vento alla vela del principio costituzionale per cui le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato". Tiziana Perillo commissario capo di Polizia Penitenziaria: "Dalle celle chiuse a doppia mandata al regime aperto. Complessità e criticità del nuovo modo di concepire la gestione penitenziaria." Luisa Del Vecchio volontaria presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino: "La voce di un volontario." Modera l’incontro Benedetto Coccia, coordinatore scientifico area sociale dell’istituto di studi politici San Pio V di Roma. Iniziativa realizzata nell’ambito delle attività del Bando "Proposte di Micro progettazione Sociale 2014 - 2015". Nelson Mandela, emblema della lotta all’apartheid, così chiosava: "Si dice che non si conosce veramente una Nazione se non si sia stati nelle sue galere. Una Nazione dovrebbe essere giudicata non da come tratta i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili". Per valutare il grado di efficienza del nostro ordinamento, allora, è necessario cercare di dar risposta all’interrogativo "Se un altro carcere sia possibile". Se, come diceva Voltaire, la democrazia e la qualità di un Paese si valutano dal grado di civiltà delle sue istituzioni totali, vuol dire che la tenuta democratica delle nostre istituzioni è fortemente a rischio. Se nel nostro immaginario si affaccia l’idea che possano esistere luoghi con diritti soggettivi attenuati o ridotti, ci si comincia ad affacciare in un tunnel pericoloso e preoccupante. Chi rompe il patto sociale e viola le regole della convivenza deve, ovviamente, assumersi le conseguenti responsabilità, ma la pena porta con sé un sovraccarico di sofferenza ed umiliazione, non scritto né cristallizzato in sentenza, e, soprattutto, non riesce a ricostruire una nuova identità personale sulla quale innestare un vero e compiuto progetto di cambiamento. È sotto gli occhi di tutti il conclamato collasso del sistema penitenziario, incapace di concretizzare e far divenire effettivi i principi costituzionali ed ordinamentali della rieducazione per disinnescare i rischi nefasti della segregazione detentiva in cui finisce per condensarsi. Per troppo tempo il carcere è stato, purtroppo, luogo dell’oblio, della rimozione sociale, l’elemento quasi catartico di una società violenta e diseguale. In qualche modo il carcere è sparito anche dai nostri occhi, nascosto o rimosso: difatti, negli ultimi decenni, l’architettura penitenziaria si è spostata sempre di più verso le periferie urbane, quasi che le contraddizioni più complesse del nostro vivere sociale dovessero essere allontanate anche dalla nostra vista, dai nostri pensieri, dalla nostra quotidianità, entrando così in evidente contraddizione con l’idea centrale del diritto, quella che vedeva gli originari luoghi di pena all’interno del tessuto urbano allo scopo di dare risalto ed evidenza empirica al fatto di reato ed alla sua pena come tributo da versare alla società, pagato il quale si veniva riammessi al consesso sociale. Si possono ricordare a questo proposito il Regina Coeli a Roma e il San Vittore a Milano, abili a testimoniare che l’espiazione della pena non doveva comportare l’espulsione dal contesto civile e sociale, né tantomeno la privazione della cittadinanza. Oggi tutto è cambiato: è cambiata la composizione sociale della popolazione detenuta; si è profondamente modificato il contesto, anche culturale; sono cambiate le condizioni ambientali e strutturali dei luoghi di pena. Il carcere, in altre parole, è sempre più luogo dell’assenza. Assenza di diritti, di umanità, di prospettive, di senso. Uomini e donne sono ammassati in luoghi sempre più ristretti ed angusti, dove il tema della difesa e della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo si oscura rispetto a tutto, dove la dimensione custodialista è ampiamente prevalente su quella inclusiva e riabilitativa. Le carceri sono diventate il luogo in cui si condensano fasce di povertà, di marginalità ed esclusione sociale, dove la dignità, la civiltà e il decoro si sono fermati: una vera e propria discarica sociale in cui rovesciare le contraddizioni più complesse e spigolose della nostra vita comune e di relazione. Ripristinare le condizioni di diritto, di umanità, di dignità delle nostre carceri è la premessa fondamentale per una riflessione ed un’elaborazione veramente profonda sul senso e sui fini della pena. Si tratta di cogliere e realizzare lo spirito di civiltà e quello di progresso necessari nel quadro normativo e attuale, di dar vita insomma ad un radicale rinnovamento, ad una profonda trasformazione e rivoluzione sul piano culturale: se limitazione della libertà personale significa rispetto della dignità umana, allora un altro carcere deve essere possibile. Questo il leit motiv del convegno che l’associazione "Liberi per Liberare - LforL" ha organizzato, per il prossimo 22 settembre, nel Comune di Grottaminarda in cui esperti del settore daranno vita ad un dibattito vivo e partecipato, aperto a tutti gli appassionati, cultori del diritto o "semplici" cittadini desiderosi di riflettere in profondità su un’idea più ricca dell’umano: quella dell’accoglienza e del rispetto da dedicare anche a chi ha violato il patto sociale che lega la nostra società. Per riuscire a capire che un altro mondo è possibile e può realmente essere possibile partendo dalla sfida della diversità e dal confronto di teorie, pratiche ed esperienze. Sarà una giornata di intenso dibattito e di vive scuole di pensiero, palcoscenico ideale per trovare idee concrete, per disegnare il futuro partendo dal presente. Benevento: il 27 settembre presentazione del libro di Antonio Mattone sui detenuti ilvaglio.it, 20 settembre 2017 Passione civile e umana solidarietà sono stati i due motori che hanno spinto Antonio Mattone a riflettere su malavita, solitudine e riscatto nel carcere. Ne è nato un volume che sicuramente farà discutere, "E adesso la palla passa a me" (Guida Editori) di cui si parlerà mercoledì 27 settembre a Benevento alle ore 18.00 presso il Centro di Cultura "Raffaele Calabria" in Piazza Orsini, 33. Con l’autore, intervengono l’Arcivescovo di Benevento S.E. Mons. Felice Accrocca, il sindaco di Benevento Clemente Mastella e Cosimo Giordano già direttore del carcere di Poggioreale. Modera Ettore Rossi direttore Ufficio per i problemi Sociali e il Lavoro della diocesi di Benevento. Letture di Luisa Del Vecchio e Antonio Assante. L’iniziativa è promossa da Cives - Laboratorio di formazione al bene comune, dal Centro di Cultura "R. Calabria" e dalla Comunità di S. Egidio. "E adesso la palla passa a me" è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore. "Quando uscirò dal carcere la palla passa a me, come mi hai detto tante volte tu". Antonio Mattone, che ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha raccontato nel volume 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari italiani, attraverso gli editoriali pubblicati su Il Mattino. Gli articoli trattano dei problemi e delle vicende di cui tanto si è parlato in questi anni. Sovraffollamento, sicurezza della società, violenza, salute, Opg, diritti negati, volontariato. Un viaggio dove alla fine un dato sembra inconfutabile: umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è. Antonio Mattone è nato e vive a Napoli. Fin da giovane è impegnato nella Comunità di Sant’Egidio dove ha incontrato i bambini e gli anziani dei quartieri di Scampia, della Sanità e del Centro Storico. Dal 2006, visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, e di altri penitenziari italiani. Ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Editorialista de "Il Mattino" sui temi sociali e del carcere, è direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. Napoli: "carcere di Poggioreale in condizioni critiche", il caso arriva in Parlamento Il Mattino, 20 settembre 2017 "Ho chiesto al governo di intervenire urgentemente in relazione alle gravi criticità che ho personalmente riscontrato nel Carcere di Poggioreale a Napoli, dove ho effettuato una visita accompagnato da una delegazione dei Radicali Italiani". È quanto riferisce il senatore Luis Alberto Orellana (Aut) che ha appena depositato un’interrogazione parlamentare rivolta ai ministri della Giustizia e della Salute, nella quale chiede innanzitutto di "far cessare le condizioni di disagio e di sofferenza dei detenuti, nonché quelle degli agenti di polizia penitenziaria". Orellana, dopo aver constatato di persona il grave problema del sovraffollamento della struttura, nella quale una stessa cella può ospitare fino a 9 detenuti, chiede ai ministri competenti di "avviare azioni concrete per ripristinare condizioni vivibili e umanamente dignitose con particolare riferimento alle carenze igienico-sanitarie del penitenziario". Il senatore nell’interrogazione chiede inoltre: "cure mediche adeguate e assistenza sanitaria per i detenuti affetti da gravi patologie". "Nelle carceri - afferma - vanno implementati i programmi di rieducazione e formazione dei detenuti, finalizzati ad un reinserimento futuro nel mondo del lavoro, così da consentire una piena riabilitazione sociale. Proprio l’inoperosità dei reclusi spesso sfocia in tensioni ed episodi di violenza che talvolta coinvolgono gli agenti di polizia penitenziaria". Napoli: separazione delle carriere, nelle carceri la raccolta firme di penalisti e Radicali di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 20 settembre 2017 Si comincia a Poggioreale il 21 settembre, la settimana seguente tappa a Secondigliano. Prosegue l’iniziativa congiunta della Camera Penale di Napoli e di Radicali Italiani, volta al raggiungimento delle firme necessarie a portare al vaglio del Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere di Pubblici Ministeri e giudici. Allo stesso tempo è in corso un’altra raccolta firme a sostegno di una proposta di legge popolare sul tema dell’accoglienza ai migranti. Quella per la separazione delle carriere in magistratura è una battaglia storica sia per il mondo dell’avvocatura che per la galassia radicale. Stavolta la raccolta di sottoscrizioni per le due proposte, dopo le tappe in Tribunale e in genere fra i liberi cittadini, coinvolgerà la comunità penitenziaria: il 21 e il 28 settembre prossimi, a partire dalle 14:30, una delegazione radicale accompagnerà i penalisti partenopei rispettivamente a Poggioreale giovedì 21 settembre e a Secondigliano una settimana dopo. Tra i partecipanti all’iniziativa spicca la presenza del presidente della Camera Penale di Napoli, Avvocato Attilio Belloni, oltre a quella del coordinatore della raccolta firme nel capoluogo campano, Avvocato Leopoldo Perone. Tra i promotori e animatori della duplice tappa nelle carceri cittadine anche l’Avvocato Raffaele Minieri nella veste sia forense che politica, essendo egli membro della Direzione Nazionale di Radicali Italiani. Minieri ha evidenziato l’importanza della raccolta firme dietro le sbarre come occasione fornita ai detenuti per esercitare un diritto. Ha citato inoltre l’altra raccolta firme in corso da parte di Radicali Italiani sul tema dell’accoglienza ai migranti denominata "Ero straniero", promossa tra gli altri da Emma Bonino: "Entrare in carcere a raccogliere le firme dei detenuti - ha dichiarato Minieri - ha un altissimo valore simbolico. Non dobbiamo dimenticarci che i detenuti sono cittadini e quindi devono poter esercitare i loro diritti. Le raccolte firme per le leggi d’iniziativa popolare "Ero straniero" e "Separare le carriere" rappresentano una battaglia di civiltà". Tali campagne dunque, secondo l’esponente di Radicali Italiani: "Non sono né di proprietà di qualcuno né contro qualcuno ma sono per tutti. Radicali Italiani non vuole rinunciare a dare il proprio contributo umano e di idee alle sfide storiche che sono sottese a queste raccolte". Terni: carcere, 130 bambini vedranno i loro papà nella nuova sala d’ascolto di Luca Biribanti tuttoggi.info, 20 settembre 2017 "Lo chiamiamo granello di sabbia. Ma lui non chiama se stesso né granello né sabbia", sono i versi della poetessa Premio Nobel Wyslawa Szymborska, con i quali esprime la relatività di un punto di vista. Come le cose, così gli spazi, nel mondo affettivo, assumono un significato in relazione a quello che contengono; umanità, affettività, relazione genitoriale, riempiranno la nuova stanza di ascolto che il carcere di Terni ha dedicato ai bambini che incontrano i papà detenuti. "Non è un mio errore, ma una mia condanna" - è la campagna europea a sostegno della "Carta dei diritti dei figli dei detenuti (firmata nel 2014), sostenuta dall’associazione "Bambinisenzasbarre", e la creazione di spazi idonei, dove i bambini possano mantenere l’affettività genitoriale, è tra le priorità di questo progetto. Ogni anno, in Italia, 100mila bambini entrano in carcere, a Terni, il prossimo 30 settembre saranno 130 i piccoli che potranno riabbracciare i propri papà. Il progetto, presentato ieri e fortemente voluto dalla dottoressa Chiara Pellegrini, direttrice dell’istituto di pena e promosso dall’associazione Soroptimist International, sezione di Terni, ha permesso di potenziare gli spazi della casa circondariale di Vocabolo Sabbione con una stanza pensata e realizzata a misura di bambini, grazie alla progettazione dell’architetto Claudia Grisogli. "Quando si parla di carceri - sottolinea la direttrice del carcere Chiara Pellegrini - si pensa sempre agli spazi detentivi. Ma gli spazi, di per sé, non significano nulla; assumono importanza in relazione a ciò che vi accade. In questa stanza - prosegue - si coltivano la relazione genitoriale e il rapporto affettivo". Relazioni e affetti; alla presenza di alcuni detenuti e di alcuni loro famigliari presenti all’inaugurazione della nuova stanza di ascolto, si è davvero respirato un clima di grande commozione e umanità. Il rapporto tra la direttrice, i detenuti e le guardie penitenziarie ha chiaramente svelato un aspetto che non è generalmente conosciuto all’esterno, dove le problematiche legate alle carenze di personale e gli avvenimenti di cronaca hanno il predominio su quello che invece è un micro-cosmo complesso, dove le relazioni umane hanno un peso specifico diverso, e profondo, spesso basato anche su linguaggi poco convenzionali; come quello delle fiabe. Lo scorso anno i detenuti hanno partecipato a un laboratorio di scrittura di fiabe; tra di loro, uno in particolare, non aveva mai scritto nulla in vita sua. Grazie a questo laboratorio, il detenuto ha iniziato a scrivere fiabe da inviare a sua figlia, a casa. La piccola si è talmente appassionata alle fiabe del papà che ha iniziato, a sua volta, a scriverne, realizzando così una corrispondenza, dove papà e figlia si ‘parlanò attraverso una ‘fiabà. Il momento dell’incontro con il papà, per i bambini è un momento delicato, per questo, i piccoli, non devono essere distratti dalla realtà in cui si trovano, senza compromettere la spensieratezza della loro età. L’obiettivo è proprio quello di aiutare i papà a spiegare ai propri figli gli errori commessi: "Quando i bambini escono da un colloquio - ricorda la direttrice - sono sempre tutti in silenzio, perché la loro testa è ancora nella stanza. I bambini vanno ascoltati, soprattutto nei loro silenzi". La nuova stanza del carcere di Terni, pensata per questa finalità, è tutta allestita intorno ai due temi centrali; quelli della famiglia e della casa. Un luogo accogliente, sicuro, protetto, con una grande casa-libreria, spazi per il gioco per quello che è stato definito dalla Pellegrini un "progetto magico. Ci sono alcuni progetti che si realizzano senza intoppi e in anticipo sui tempi. Questo è uno di quelli, grazie alla preziosa collaborazione dell’associazione Soroptimist", rappresentate da Maria Rita Manuali, presidente della sezione di Terni e dalla vice presidente nazionale, Anna Edy Pacini. L’associazione delle "sorae optimae" ha fornito materiali riciclati da imballaggi per la costruzione di tavoli e altre suppellettili per arredare e rendere accogliente la stanza dei colloqui e, con l’aiuto dei detenuti, ha costruito mobili e decorato le pareti. Particolarmente toccante il momento in cui alcuni papà detenuti sono saliti sul palco del ‘teatrò del carcere per leggere una fiaba scritta collettivamente durante il laboratorio di scrittura. "Aspettando il suo papà" il titolo, dedicata a tutti quei bambini che aspettano di riabbracciare il proprio. Come ricordato dalla presidente Manuali (che a breve lascerà l’incarico dopo aver portato a termine anche il progetto della sala di ascolto dedicata alle donne vittime di violenza): "Il papà non deve essere identificato con il reato commesso; il rapporto di affettività genitoriale deve essere protetto e tutelato". Tornare a casa (e agli affetti) dopo il carcere: nelle sale "Ombre della sera" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 20 settembre 2017 L’opera prima di Valentina Esposito, interpretata da detenuti in misura alternativa ed ex detenuti del carcere di Rebibbia, ha già ottenuto riconoscimenti internazionali. Sarà presentata domani alla Commissione Diritti Umani del Senato e poi diffusa nelle sale con una distribuzione indipendente. "La prima cosa che capisci entrando in carcere è che queste persone, che per la maggior parte sono senza istruzione e arrivano da realtà periferiche, non hanno le parole: non hanno il linguaggio per elaborare il dolore ed entrare in contatto con gli altri. E il primo obiettivo della nostra attività fatta di teatro, scrittura e cinema è restituirgliele. Se poi questo linguaggio si appoggia a una biografia tormentata, come questa, a livello cinematografico il prodotto diventa esplosivo". Una candidatura ai Nastri D’Argento 2017 nella sezione Docu-Film, Menzione Speciale al Bafici Film Festival di Buenos Aires e la partecipazione al Sofia International Film Festival (Fuori Concorso), al RIFF - Rome Independent Film Festival e al Cairo International Women Film Festival, il docu-film "Ombre della Sera", interpretata da detenuti in misura alternativa ed ex detenuti, sarà presentato domani mercoledì 20 settembre in Senato in una serata istituzionale presieduta dal Presidente della Commissione Diritti Umani, Luigi Manconi. Opera prima della regista Valentina Esposito, con l’amichevole partecipazione di Pippo Delbono, unico attore professionista del cast, è prodotto da Simonfilm e Lupin Film, con il patrocinio del ministero della Giustizia, del Consiglio regionale del Lazio, riconosciuto di interesse culturale dal Mibact Direzione Cinema, sostenuto dal Fondo Cinema e Audiovisivo della Regione Lazio e sarà presto nelle sale con una distribuzione indipendente che toccherà carceri, università e mondo associazionistico. Interpretato da detenuti in misura alternativa e da ex detenuti attori del Carcere di Rebibbia (oggi attori della compagnia Fort Apache), trae ispirazione dalla biografia dei protagonisti e delle loro famiglie per svelare l’aspetto più intimo e delicato del percorso di reinserimento dopo anni di lontananza. "Storie intrecciate, attraverso i complessi e sconosciuti labirinti della libertà. Uomini condannati e afflitti, nel tentativo di espiare i propri peccati e di ricostruire le proprie vite". "Ombre della Sera - spiega la regista - è un film sul ritorno: il ritorno a casa e agli affetti dopo anni di lontananza e separazione". Quindici anni di lavoro teatrale a Rebibbia, Valentina Esposito ha iniziato a maturare l’idea del film proprio dietro le quinte dell’istituto di pena romano. "Ho cominciato a pensare a questo film nel 2014 - racconta - quando alcuni degli attori che avevo formato professionalmente stavano per tornare fuori. Li vedevo terrorizzati da questo passaggio: un momento molto delicato soprattutto per il ritorno a casa. L’aspetto più struggente è questo: la parte del lavoro, del reinserimento sociale, per molti detenuti viene dopo: prima di tutto c’è il rapporto con la famiglia. Tornare a casa è il momento più difficile da affrontare. Sono stati lontani per molto tempo, alcuni anche per 30, 35 anni e ricucire i legami è difficilissimo". "Una delle cose di cui si parlerà nella serata al Senato è proprio il diritto all’affettività - sottolinea Valentina Esposito -, la possibilità di non spezzare completamente i legami. Io che li ho seguiti nel percorso teatrale, e il teatro arriva in profondità, ho cercato di aiutarli in questo passaggio e ho scritto una sceneggiatura basata sulla loro esperienza reale, coinvolgendo anche i familiari, come attori. Ho parlato con gli attori che erano ancora reclusi e con i familiari che erano all’esterno. Poi loro si sono confrontati sul set per la prima volta, cercando di affrontare le difficolta proprio attraverso la sceneggiatura che è diventata uno strumento per elaborare i nodi irrisolti fatti di silenzi, incomprensioni, senso di colpa. La pena in carcere, fossero anche 30 anni di reclusione, può forse liberarti dal senso di colpa nei confronti del tuo reato ma non dal senso di colpa nei confronti dei figli. Questo i detenuti se lo portano sulle spalle per tutta la vita". "È complicato tornare a casa - spiega la regista -. Dall’altra parte ci sono persone che ti hanno amato tantissimo ma anche odiato perché li hai lasciati soli, a volte anche in condizioni economiche disastrose. Per questo il set è stato pieno di ferite aperte. Tante volte ho dovuto reinventarmi le scene sul momento, riscrivere, rincorrere gli attori: c’erano cose che non si riuscivano proprio a superare. Questa "palestra" però per loro è stata utilissima perché lavorare per la prima volta a un progetto comune li ha aiutati a superare in qualche modo il primo scalino, restituendo loro anche un ruolo, un’immagine". "Ero molto interessata a questo aspetto - sottolinea la regista -: non volevo il solito documentario sulla condizione dei detenuti, ma un film in cui il tema non fosse il carcere, che ho deciso di non rappresentare - non esiste il carcere in questo film, non lo vedi mai - ma la relazione tra padri e figli in un senso universale. Dietro quel tipo di distanza fisica, inequivocabile, c’è la metafora delle nostre lontananze, dei nostri problemi relazionali. Diventa quindi un film sulla relazione, anche indipendentemente dal carcere. Piuttosto, il carcere in qualche modo illumina questa relazione e in questo lo spettatore si può anche identificare. Ci sono stati momenti, ad esempio al Festival di Buenos Aires, in cui ho visto padri che piangevano, semplicemente perché erano separati e vedevano i figli una volta a settimana esattamente come il detenuto del film. Questa produzione ha dato agli attori la possibilità di ricostruire la propria identità non solo agli occhi del altri ma anche delle loro famiglie: li hanno visti diversi, capaci di parlare, interpretare un ruolo, di usare le parole per rientrare in contatto. E tutto questo non è affatto scontato". "Danze orientali all’interno del carcere": il libro di Virgili e d’Anna Corriere del Mezzogiorno, 20 settembre 2017 La prefazione è dello scrittore Maurizio de Giovanni. La presentazione il 20 settembre. Cosa vuol dire, per una donna, essere "libera"? E cosa accade alle "diversamente libere" che si trovano, all’improvviso, rinchiuse in una casa circondariale? A queste, e altre domande, tenta di dare una risposta il volume "Danze Orientali dall’interno del carcere. Cinque anni nell’Harem di Pozzuoli". Curato da Annalisa Virgili e Ornella d’Anna, con prefazione dello scrittore Maurizio de Giovanni e postfazione di Piero Avallone, magistrato del Tribunale per i Minorenni di Napoli, il docu-libro sarà presentato nel corso di un evento che si terrà presso l’Atelier Antonelli a Palazzo Leonetti (Via dei Mille 40, Napoli) il 20 settembre dalle ore 18.00. Durante la serata, oltre al volume, saranno messi in vendita dei preziosi foulard dipinti a mano, creati appositamente per l’occasione da Raffaela D’Onofrio: in questo modo, gli ospiti potranno portare a casa manufatti unici, in edizione limitata. I proventi delle vendite - dei foulard e del libro - saranno interamente destinati a realizzare un’area verde per i bambini delle detenute all’interno della casa circondariale femminile di Pozzuoli. Interverranno, oltre alle autrici: Severino Nappi, consigliere regionale della Campania; Girolamo Pettrone, presidente Camera di Commercio di Napoli; Piero Avallone, giudice del Tribunale per i Minori - autore della postfazione; Maurizio Pirolo, artista; Maurizio Cozzolino, responsabile dell’Area Trattamentale; Loredana Vilmi, partecipante al progetto di danze orientali; Irma Ruggiero, artista - autrice dell’opera di locandina; Lello Antonelli, sartoria Antonelli; Vittoria Pappalardo, Vittorio Pappalardo Vip; Sara Lubrano, Sara Lubrano Gioielli Artigianali; Susi Sposito, Atelier Albachiara. Nuove dottrine di difesa nell’era dei cyber-attacchi di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 20 settembre 2017 Siamo in ritardo nel comprendere quanto la rivoluzione tecnologica possa trasformare, in modo ancora imprevedibile, parametri e criteri sui quali si è fondata, nel XX secolo, la sicurezza del pianeta. Sono occorsi anni e anni per farci rendere conto di quanto i telefonini in grado di scattare fotografie e girare video, sommati a Internet, avrebbero cambiato le nostre vite e le nostre forme di comunicazione, dalla sfera lavorativa a quella affettiva. Siamo in ritardo nel comprendere quanto la rivoluzione tecnologica possa trasformare, in modo ancora imprevedibile, parametri e criteri sui quali si è fondata, nel XX secolo, la sicurezza del pianeta. Le dottrine strategiche sono invecchiate. Dal punto di vista teorico, i rischi di accelerazioni verso il baratro delle guerre peggiori sono aumentati. L’attivismo della Corea del Nord è appariscente, e per certi versi ha dato origine finora a un modello di tensioni classico, ma non è l’unica insidia per la pace. Il professor Julian Lindley-French, vice presidente dell’Associazione del Trattato atlantico e decano a Londra di The Institute for Statecraft ha ricordato di recente quanto risultino. Lindley-French si riferiva alle scale elaborate da Herman Kahn, studioso di strategia della guerra nucleare. Queste partivano dal gradino basso della tensione tra due Paesi, proseguivano con i tentativi diplomatici di gestione di una crisi, con l’azione militare e poi culminavano nell’eventuale ricorso ad armi di distruzione di massa. "Lo sviluppo dell’informazione e la guerra informatica rappresentano nella mia mente nuovi gradini nella scala dell’escalation", ha scritto il professore. La differenza rispetto al succedersi delle fasi di contrasto descritte da Kahn, secondo Lindley- French, è che adesso queste possono essere non più separate, e dunque adatte a graduare l’intensità distruttiva delle risposte ad aggressioni. A suo avviso i diversi stadi del confronto sono ormai esposti al pericolo di essere privi delle pause necessarie per riflettere: "Oggi c’è una chiara continuità stabilita tra una distruzione di massa che potrebbe innescare un concertato cyber-attacco su infrastrutture di importanza vitale e la distruzione di massa considerata da Kahn. Quella continuità richiede ai leader e a quanti prendono decisioni politiche una comprensione di gran lunga migliore della messaggistica implicita in quegli attacchi, su quale raggio di risposte ed escalation rendere disponibile, e le forze e le risorse necessarie per dotarsi di una deterrenza credibile e una difesa valida". Insomma, quando ne esistono le premesse la velocità della comunicazione (e degli attacchi informatici) rischia di accelerare il precipitare verso una guerra capace di distruggere il pianeta. E questo in un campo quasi inesplorato dal diritto internazionale. "Il cyber è un insieme di cose che vengono utilizzate da tutti, ma non sono proprietà di tutti. Oggi dal punto di vista normativo è un’anarchia", osserva Stefano Silvestri, già presidente dell’Istituto affari internazionali. Per via informatica, criminali o Stati potrebbero bloccare le forniture di energia elettrica in un Paese al freddo, determinare la morte di ricoverati e incidenti vari. "Sull’escalation e la proporzionalità delle risposte esiste tutta una letteratura. Ma adesso un cyber-attacco come lo inseriamo nell’escalation? Se uno paralizza il sistema delle reti elettriche e telefoniche, uno Stato deve considerare una risposta. La dà solo a livello cyber?", si domanda Silvestri. Teniamo conto di alcuni aspetti. Primo: il crimine informatico esiste già. Secondo: delle incursioni informatiche è difficile individuare gli autori. Ancora Silvestri: "Nella dottrina della Nato è bandito l’uso di armi chimiche e batteriologiche. Se attaccati con quelle armi, gli Stati Uniti però hanno concepito l’ipotesi di rispondere con armi nucleari. Vale anche per il cyber? In più, importante nelle guerre aeree è la ricognizione che serve a conoscere i danni inflitti. Sulla guerra informatica quelli come si valutano? Ci si fida di ciò che dice il nemico?". A preoccupare Lindley-French è soprattutto la Russia di Vladimir Putin. Tutto questo rende di attualità revisioni delle dottrine strategiche e di contromisure delle quali nel nostro Paese si parla poco. Dal 2018 a Helsinki funzionerà a pieno ritmo il "Centro europeo di eccellenza per contrastare le minacce ibride" proposto dalla Finlandia. Alla sua fondazione hanno aderito finora dodici Stati, compresi Francia, Germania. L’Italia non ancora. "Minacce ibride" sono le offensive condotte con mezzi diversi, non solo militari. Il ministro finlandese degli Esteri Timo Soini in primavera le ha descritte così: "In Europa sono state usate come mezzo sia in conflitti di potere politico sia militari. Sono aumentate attività coercitive e sovversive volte a confondere, complicare e ostacolare i processi decisionali. Durante le crisi migratorie, abbiamo visto elementi di influenza ibrida da attori sia statali sia non. Pilotare i flussi migratori può essere un metodo di pressione politica, e gli organizzatori di attacchi ibridi cercano di radicalizzare i membri deboli della società come loro agenti". Materia sulla quale ragionare. Per innovare dottrine datate. L’acqua val bene una cyberguerra di Gabriele Beccaria La Stampa, 20 settembre 2017 A Tel Aviv un summit di matematici, imprenditori e specialisti di intelligence: "Ecco come difenderemo l’oro blu". Oren Segev è un matematico e gli algoritmi lo accompagnano da sempre. Quando era ufficiale dell’esercito israeliano e anche adesso, ricercatore per la società high-tech IoSight. Qui l’oggetto dei suoi studi teorici e delle sue applicazioni è la realtà più universale che c’è, apparentemente banale eppure straordinariamente complessa: l’acqua. Gli algoritmi sono i gangli nervosi di una serie di sensori che la IoSight ha installato lungo il fiume Giordano, una delle fonti idriche di Israele. E quella intelligenza offre qualcosa che - spiegata con pazienza da Segev - spalanca un modo di sorprese, tra opportunità inattese e impensabili terrori. "Si tratta di nuove soluzioni per affrontare nuove sfide", sintetizza in forma di slogan, evocando subito dopo il paziente lavoro per educare i software a leggere e interpretare l’"oro blu", a partire dal Big Data, gonfio di masse di dati in evoluzione, fino al "machine learning", il processo cognitivo che dà forma all’Intelligenza Artificiale. Il problema è ancora al di là del senso comune, ma - sottolinea Segev - l’acqua è uno degli obiettivi del cuore di tenebra che incombe sulle società ipertecnologiche: la cyberguerra. È lì che dimensione fisica e dimensione virtuale si scontrano, generando le prossime emergenze. Che cosa accadrebbe se i sistemi computerizzati di una diga o di un acquedotto finissero sotto attacco informatico e un hacker - in forma di lupo solitario o con le sembianze di un gruppo cybercriminale o cyberterrositico - mandasse tutto in tilt? Potrebbe contaminare ogni goccia che scende dai rubinetti di milioni di abitazioni o bloccarle, seminando un panico difficilmente controllabile. Sembra un’opzione fantahorror, da aggiungere alle troppe ansie che ci attanagliano, ma non è affatto così. Ecco perché Segev è al lavoro e si racconta volentieri: se l’identità del nemico resta avvolta in una nube che ne confonde le sembianze, l’allarme è chiaro nei suoi mutevoli aspetti, nella vita civile e nelle attività industriali. "I sensori identificano velocità e qualità dei flussi del fiume, li valutano secondo una scala da 1 a 10, e poi elaborano i rapporti in tempo reale - spiega -. Online e in laboratorio". Così Mekorot - la società numero 1 in Israele per le forniture idriche - può disporre delle informazioni con cui parare subito il colpo. In caso di blitz che dai malware - i software "cattivi" - si diffondono nelle profondità del Giordano scattano quindi le contromisure. Il più rapidamente possibile e, almeno al momento, le più efficaci. "Ingegneria e matematica - aggiunge con orgoglio - si combinano". È una coppia solida che fa il paio con un’altra e che il chairman di IoSight, Yoav Navon, esemplifica così: "Sicurezza e business". E non è un caso che l’intreccio di elementi eterogenei come acqua, cyberguerra e start-up siano diventati protagonisti dell’evento "Watec 2017" di Tel Aviv: qui, in una delle capitali mondiali dell’innovazione, si è dato appuntamento, dal 12 al 14 settembre, il meglio dell’high tech dell’acqua. Ricercatori e accademici, aziende e investitori, "venture capitalists" accanto a specialisti e amministratori (quelli che amano definirsi "decision makers"), hanno messo insieme idee e competenze, oltre che prodotti, per espandere il raggio d’azione di un settore cruciale: nel XXI secolo l’acqua sarà ancora più essenziale di ciò che è stato il petrolio nel XX. Una linfa da utilizzare senza abbandonarsi agli eccessi dell’oro nero, ma con le logiche eco e bio che innervano oggi le strategie globali. A esserne convinto è anche Yair Cohen. Ex comandante dell’Unità 8200, il corpo d’élite dell’esercito israeliano specializzato in intelligence e - non potrebbe essere altrimenti, vista la vocazione visionaria - negli inediti scenari della cyberguerra, accenna alla natura ibrida di molti compagni d’armi. Matematici e "computer scientists", prima di tutto, stanno creando un numero crescente di aziende avanzate. "L’85% dei "tech people" - le super-menti - proviene dalla nostra unità", dice Cohen e cita l’icona di questo trend: è Elbit, gigante del settore. Se la cybersicurezza è il cuore delle nuove attività, dalle consulenze ai prodotti, le infrastrutture sono uno dei punti nodali da proteggere. E quelle legate all’acqua salgono in primo piano. "Come accade con i trasporti e l’energia si tratta di sistemi ad alta criticità. Perlopiù funzionano con protocolli superati, degli Anni 60, e rappresentano perciò un obiettivo attraente per i cybercriminali". Tra difesa e attacco si estende un vasto fossato, con i terroristi in vantaggio. Molto dev’essere fatto, osserva Cohen, inventando forme inedite di spionaggio e protezione, sia dei software sia delle macchine. "Barack Obama ideò un "ordine" sulla cybersecurity, enfatizzandone l’importanza per la sicurezza nazionale, e tuttavia il ruolo dei governi resta poco definito". E intanto non c’è Paese che possa dirsi al sicuro (il blitz contro l’Ucraina è solo il caso più eclatante), "mentre i civili diventano il bersaglio principale". D’ora in poi, ogni volta che apriremo il rubinetto, l’acqua ci stupirà con le sue metamorfosi, in cui miracoli di sostenibilità e minacce terroristiche si specchiano senza sosta. Migranti. Ius soli, ora il Pd ci prova davvero di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 settembre 2017 Pressing del Vaticano e dei senatori dem. Al voto solo dopo il sì al Def. Se Ap accetterà di uscire dall’aula il governo metterà la fiducia. Stavolta il dado sembra davvero tratto: il Pd ha deciso di andare avanti con lo Ius soli al Senato fino all’approvazione. Merito forse più di San Pietro che del Nazareno. Il Vaticano sta esercitando da giorni pressioni massicce sui centristi di Ap per spingerli se non ad approvare la legge almeno a non affossarla ma, anche se nessuno nel Pd lo ammetterebbe, è probabile che anche il primo partito di governo sia stato pungolato a dovere dalla Santa Sede. Il repentino abbassamento di toni sul fronte libico, in realtà, sembra indicare una vera e propria trattativa, con lo Ius soli come prezzo della fine del cannonegiamento vaticano sulle scelte di Minniti. Ma anche palazzo Madama, in concreto il gruppo dei senatori del Pd, ci ha messo del suo, insistendo per affrontare sia i rischi dell’aula che quelli di un’opinione pubblica ostile. La legge sulla cittadinanza dunque arriverà al voto. Non subito però. Il 4 ottobre dovrà essere approvato dall’aula di palazzo Madama il Def ed è uno dei passaggi più delicati perché servono 161 voti, l’effettiva maggioranza assoluta. Quella relativa non basterebbe. Di conseguenza è fondamentale evitare screzi seri nella maggioranza sino a quel momento, anche se Forza Italia sta già offrendo un discreto ma efficace appoggio. Ai senatori di Ap che bussano alla porta di Arcore, che non sono pochi, il capogruppo azzurro Romani ha risposto con l’ordine di rinviare tutto a dopo l’approvazione del Documento. L’ora dello Ius soli arriverà nella finestra tra il voto sul Def e l’avvio del percorso della legge di stabilità, un paio di settimane più tardi. Sul come muoversi, però, governo e Pd non hanno ancora preso una decisione definitiva. Resta in campo l’idea, sponsorizzata dai renziani di palazzo Madama, di modificare la legge per renderla meno indigesta ai centristi, tanto più che Alfano ha un po’ abbassato la guardia e ha detto che la decisione sulla legge più sofferta dai tempi delle unioni civili verrà presa solo nella Direzione convocata per il 26 settembre. La modifica sarebbe il cosiddetto Ius culturae: la cittadinanza verrebbe cioè riconosciuta al termine del percorso di studi, indipendentemente dalla nascita o meno su suolo italiano. È un’idea che convince pochissimo il capogruppo dem Luigi Zanda e i suoi senatori. Non solo e forse non tanto perché la legge dovrebbe poi tornare alla Camera ma perché, una volta aperti i cancelli agli emendamenti, nessuno può dire con certezza come il testo arriverà al voto finale. Solo la Lega ha messo sul tavolo 48mila emendamenti e non si può pensare di evitare ogni scoglio a salti da canguro. L’alternativa è giocarsi il tutto per tutto e mettere la fiducia sul testo così com’è. La condizione essenziale per questo è che Ap accetti di uscire dall’aula. È su questo tasto che il Vaticano sta martellando ed è probabile che un Alfano a dir poco indebolito dai sondaggi devastanti che piombano su Roma dalla Sicilia finisca in un modo o nell’altro per accettare. Anche così i numeri del Pd e di Mdp non basterebbero. Però Sinistra italiana si è già detta pronta a votare una "fiducia di scopo", una decina almeno di altri senatori del gruppo misto dovrebbero fare la stessa scelta e sei senatori di Ap risponderanno all’appello del papa votando a favore. Fi, dal canto suo, non ha alcun interesse a provocare una crisi a finanziaria aperta proprio ora che incassa i riconoscimenti del Ppe e di Angela Merkel. Dunque qualche uscita strategica va messa nel conto. L’approvazione non è certa ma decisamente probabile. Non sarà comunque una passeggiata, con la Lega che già minaccia di paralizzare il Parlamento pur di sbarrare la strada all’odiata legge e un’opinione pubblica che, drogata da continue campagne allarmiste, resta in buona parte contraria. Se riuscirà a mettere in buca la palla più difficile, Renzi considererà la legislatura conclusa, legge di stabilità a parte. Ha già detto ai suoi che le Camere vanno sciolte entro la fine dell’anno e stavolta potrebbe non incontrare troppe resistenze. Sempre che non si riapra uno spiraglio sulla legge elettorale, il che rinvierebbe di almeno un mese lo scioglimento rimettendo così in campo altre due leggi nevralgiche: quella sui vitalizi e quella sul bio-testamento. Nuove droghe, vecchia proibizione di Grazia Zuffa Il Manifesto, 20 settembre 2017 Nuove sostanze psicoattive (Nps): l’ultimo allarme droga? Sembra di sì, a giudicare dal sensazionalismo mediatico: basti pensare alla "droga-zombie", additata nel 2016 nel Regno Unito come responsabile di cannibalismo. L’edizione 2017 della Summer School di Forum Droghe e Cnca, appena conclusa, ha cercato di offrire innanzitutto uno sguardo critico alla rappresentazione del fenomeno, per come condiziona le scelte politiche. Poiché l’allarmismo richiama la proibizione, finora l’unica risposta politica, quanto mai inefficace. La stessa definizione di Nps fa riferimento al regime legale: sono sostanze "nuove", nel senso di non inserite, o meglio non ancora inserite, nelle tabelle delle droghe proibite dalle Convenzioni Onu. Il che dice poco dei loro effetti, ma molto delle strategie di contrasto. Finora il "sistema di allerta rapido", a livello europeo e dei singoli stati, ha funzionato al fine di "tabellare" il più rapidamente possibile le nuove sostanze. Più corretta la definizione di designer drugs, disegnate come varianti chimiche delle principali sostanze proibite, di cui mimano gli effetti: non a caso le Nps sono anche chiamate legal highs. La produzione pressoché inesauribile di designer drugs (ben 620 nuove sostanze segnalate in Europa solo nel 2016) richiama il gioco del gatto che dà la caccia al topo, poiché la risposta proibizionista innesca la rincorsa verso sempre nuovi composti (non ancora illegali). In altre parole, lo strumento penale, lungi dall’essere la soluzione, è esso stesso una delle cause del fiorire delle Nps. C’è un altro modo per inquadrare e meglio comprendere il fenomeno. Evitando la concentrazione esclusiva sulle sostanze, bensì alzando lo sguardo agli orizzonti della modernità: in specie, allo sviluppo tecnologico e all’ascesa repentina dei mercati via web. Il progresso tecnologico è ormai rapidissimo anche in campo biomedico: si pensi alla stampa molecolare in 3d che in un futuro non lontano potrebbe farci avere direttamente a casa i farmaci di cui abbiamo bisogno. E che dunque potrebbe essere usata anche per le droghe, spingendo verso l’ideazione "personalizzata" della sostanza e il "fai da te" domestico. Quanto ai nuovi mercati, il virtual dealer che opera sul dark web è già una realtà per le droghe: sull’esempio dei tanti venditori on line delle più svariate merci, cerca di conquistare la fiducia del cliente nella competizione virtuale, tramite un’offerta "di qualità" garantita dai giudizi degli altri compratori. È vero che il più famoso mercato web delle droghe (SilkRoad) è stato chiuso, ma altri l’hanno sostituito e il gatto Silvestro della proibizione ha poche chance di sbarazzarsi del topo virtuale. Invertire la rotta sbagliata si può. Più che rincorrere la chimica, in continua evoluzione, è opportuno guardare ai contesti di consumo delle sostanze, per rafforzare la conoscenza delle regole d’uso più sicuro a protezione dei consumatori. Molti dei quali utilizzano già forum on line per scambiarsi informazioni sulle droghe, i loro effetti, i comportamenti rischiosi da evitare. Il sistema di allerta rapida andrebbe ridisegnato per indirizzarlo a finalità di salute pubblica, includendo nella rete di rilevazione gli interventi di riduzione del danno, in specie i servizi di drug checking. Nei paesi europei dove il drug checking esiste, si è dimostrato efficace per stabilire una nuova fiducia fra le istituzioni sanitarie e i consumatori, ma anche per controllare i mercati: lì circolano meno sostanze adulterate. C’è da sperare che si possa trarre qualche lezione anche per l’Italia, dove il drug checking non esiste come pratica riconosciuta e da sette anni non si discute di politica delle droghe nella sede della Conferenza Nazionale. Droghe. Se nell’ecstasy si nascondono altre sostanze di Maurizio Paganelli La Repubblica, 20 settembre 2017 Lo rivela uno studio pubblicato in questi giorni sull’International Journal of Drug Policy a firma di ricercatori statunitensi ed italiani. Appare sempre più frequente il consumo inconsapevole di nuove sostanze psicoattive mischiate o vendute al posto di acidi, ecstasy o eroina nei rave party oppure acquistati tramite internet. Un ultimo squarcio su una realtà sotterranea e poco indagata arriva dallo studio pubblicato in questi giorni sull’ International Journal of Drug Policy a firma di ricercatori statunitensi ed italiani (la New York University e il Centro Regionale Antidoping e di Tossicologia "A. Bertinaria" di Orbassano, Torino). Estasy e Mdma. "Consumatori di ecstasy o "molly" (il nome di strada della Mdma, ndr) negli Stati Uniti sono ad alto rischio per l’uso di droghe che contengono contaminazioni come i cosiddetti "sali da bagno" o metamfetamine - ha segnalato Joseph Palamar della New York University Rory Meyers College of Nursing Center for Drug Use and HIV Research (Nyu Cduhr) e primo firmatario della ricerca dal lungo titolo "Hair Testing to Assess Both Known and Unknown Use of Drugs Amongst Ecstasy Users in the Electronic Music Dance Scene". "Servono più informazioni sul fenomeno dell’uso non conosciuto e non intenzionale di queste nuove sostanze pericolose per la salute". Mentre negli anni passati i consumatori di ecstasy risultavano positivi all’Mdma, ora metà di chi crede di consumare ecstasy risulta positivo a nuove droghe come i catinoni sintetici, i cosiddetti "sali da bagno" (bath salts, chiamati un tempo così perché simili ai sali da bagno e venduti come tali prima di essere vietati). "Tra coloro che usano Molly e risultano positivi, circa 7 su 10 sono risultati positivi a "bath salts", metamfetamine e/o altri nuovi psicostimolanti", ha raccontato Palamar. Il test del capello. Gran parte delle analisi per individuare le droghe sono stati condotti con il test del capello, importante perché con questo esame rispetto a quello sul sangue, della saliva o sull’urina, rimane traccia delle sostanze nel tempo. "Più lunghi sono i campioni del capello, più si può risalire indietro - afferma uno dei coautori italiani della ricerca, Alberto Salomone del Centro di Tossicologia di Orbassano (gli altri autori italiani, anche dell’università di Torino, sono Enrico Gerace, Daniele Di Corcia, Marco Vincenti) - Noi calcoliamo che un centimetro di capello corrisponde più o meno ad un mese. Questo test biologico ci permette di individuare l’uso di droghe a distanza di mesi e soprattutto di capire il tipo di droga anche se il consumatore era non consapevole di stare utilizzando una nuova sostanza". Pillole, polvere, cristalli sono le forme di queste nuove molecole chimiche assai pericolose come quella chiamata Flakka che ha provocato anche vari decessi negli Stati Uniti. Cosa accade in Italia. "Lo studio negli Usa ci permette di vedere prima certi fenomeni che poi arrivano anche in Europa e in Italia - racconta Salomone - Ci anticipano, come in molte altre cose. In Italia abbiamo avuto un morto per una sostanza acquistata via Internet che era diversa e molto più potente di quella che l’acquirente pensava di consumare. È accaduto a luglio qui a Torino: si trattava di un giovane adulto, lavoratore, uno a cui piaceva sperimentare gli effetti di droghe su di sè. Abbiamo ricostruito attraverso le testimonianze delle persone a lui vicino, che l’uomo aveva acquistato una sostanza sul web risultata, dopo le analisi sui capelli che abbiamo fatto, diversa e assai più potente. Esistono, soprattutto in Oriente, enormi laboratori chimici che sfornano nuove pericolose molecole chimiche e le mettono in commercio sotto il nome di altre più conosciute e smerciabili, come ecstasy o anche eroina". Lo studio su 679 giovani. Nella ricerca appena pubblicata (90 persone e test realizzati) che si lega ad una del 2016 (aveva riguardato 679 giovani frequentatori di club e festival newyorkesi, apparso su Drug and Alcohol Dependence dal titolo "Detection of "bath salts" and other novel psychoactive substances in hair samples of ecstasy/MDMA/"Molly" users") ha confermato che il 51% di consumatori sono risultati positivi a droghe che dicevano di non aver mai provato, soprattutto catinoni sintetici, metamfetamine, altri nuovi psicostimolanti e nuove droghe dissociative come il fortissimo anestetico metoxetamina, più potente della ketamina, o una vecchia droga come la difenidina. Il progetto drug-checking. Già nel 2016 le conclusioni della ricerca newyorkese indicavano il bisogno di "prevenzione e riduzione del danno attraverso l’educazione e il "drug checking", come il test delle pillole, per coloro che rifiutavano l’astinenza alla droga". Gli italiani hanno fatto di più: con un progetto finanziato dall’Unione Europea hanno messo in pratica nei rave party un drug-checking per individuare attraverso una analisi di superficie della sostanza (che non è mai passata di mano dal consumatore al tecnico di laboratorio sul campo per evitare di incorrere in problemi legali) il vero contenuto della droga. Viene utilizzato il TruNarc- RAMAN Spectroscopy, strumento che permette di individuare la sostanza prevalente in un dato campione, grazie all’analisi dello spettro RAMAN emesso dalla molecola eventualmente presente e riconosciuta perché presente nella library di RAMAN. Nella droga, altre sostanze. "Ebbene - racconta sempre Salomone - in circa un anno e mezzo di test e 400 campioni analizzati, si è visto che un terzo della droga non corrispondeva alla sostanza che si pensava di aver acquistato". Una dato che conferma l’alterazione delle sostanze nella completa ingnoranza del consumatore. Ora, sempre con i ricercatori statunitensi, il gruppo italiano sta lavorando su un campione di 60 consumatori di eroina di New York per analizzare anche lì la commistione/sostituzione con nuove sostanze, ed un progetto analogo si dovrebbe realizzare da noi con fondi europei. Il convegno. Intanto l’11ottobre a Roma è previsto il convegno sul progetto europeo del drug cheching "Be Aware on Night Pleasure Safety (B.A.O.N.P.S)" (iniziato nel febbraio 2016) durante il quale sarà fatto il punto e forniti ulteriori dati. Mentre sono otto anni che la Conferenza nazionale sulle droghe non viene convocata, sebbene la legge ne preveda una ogni 3 (e per questo 5 associazioni hanno diffidato a luglio il Governo Gentiloni accusato di inadempienza), a Lisbona a fine ottobre, dal 24 al 26, si terrà la conferenza europea sulle dipendenze ed i comportamenti ad esse connessi. L’appello. Europa, poni fine al dramma degli eritrei di Emilia Benghi La Repubblica, 20 settembre 2017 Bisogna porre fine all’oppressione del popolo eritreo. Un sistema totalitario, oppressione generalizzata della popolazione, servizio militare a tempo indeterminato, totale assenza di libertà, penuria di mezzi di comunicazione, nessun futuro che non sia schiavitù: è questo l’inferno in cui vivono gli eritrei, l’inferno da cui alcuni cercano di fuggire. Issayas Afeworki, eroe della trentennale guerra d’indipendenza contro l’Etiopia, è diventato l’aguzzino del suo popolo. Governa con il terrore in assenza di una costituzione, di un Parlamento, di un’opposizione, di elezioni, di una stampa libera. Il 18 settembre 2001 ha fatto arrestare e incarcerare i suoi principali oppositori. Sono passati sedici anni senza un processo, un’imputazione, le famiglie non hanno mai ricevuto notizie dei detenuti. Non si sa neppure se siano ancora vivi. A prezzo di sforzi titanici alcuni coraggiosi sono riusciti a fuggire, eludendo il sadico controllo degli apparati di sicurezza dello stato. Dopo aver vagato mesi, talvolta anni, a piedi, su camion e imbarcazioni, hanno raggiunto l’Europa. Molti hanno subito torture, rapimenti, sequestri o rapine. Tutti hanno visto morire amici e compagni di viaggio. Che accoglienza trovano in Europa questi coraggiosi sopravvissuti? Secondo il più comune senso morale e il diritto internazionale dovrebbero essere accolti dignitosamente e ottenere subito lo status di rifugiati. Ma seppure le domande di asilo siano accolte nella quasi totalità dei casi, molti posticipano l’avvio della procedura per mancanza di informazioni e di consulenza e sostegno da parte delle autorità. Inoltre la procedura di naturalizzazione nel paese ospite prevede che i richiedenti siano dotati di passaporto. Per ottenerlo sono costretti a recarsi all’ambasciata del paese da cui sono fuggiti e ad autodenunciarsi per la fuga, dichiarando di accettare qualunque pena essa comporti. Molti rinunciano per non esporre i propri familiari in patria a gravi ritorsioni. Che atteggiamento ha l’Europa nei confronti dell’Eritrea? Ossessionati dal timore che i profughi raggiungano il continente, gli stati europei versano all’Eritrea milioni di euro nella speranza di evitare l’esodo. Inoltre consentono che lo stato eritreo estorca una tassa del 2% sulle rimesse degli eritrei della diaspora, nonostante la condanna dell’Onu. Stringono inoltre accordi con il regime criminale del Sudan, che affida il controllo di alcune porzioni del confine con la Libia alle milizie a suo tempo responsabili di crimini contro l’umanità nel Darfur, le quali talvolta collaborano con soggetti discutibili che sfruttano e bistrattano i profughi. Sbagliando, gli europei prendono a modello il disastroso accordo Ue-Turchia sui migranti, con effetti devastanti sulla democrazia e i diritti umani. Questa politica ha conseguenze opposte agli auspici e contrarie ai valori fondamentali dell’Unione Europea: il regime di Asmara si è rafforzato, invece di diventare meno totalitario, aumentando la spinta all’esodo e aggravandone i rischi. Il numero degli aspiranti profughi non diminuisce e quello dei morti e degli oppressi aumenta. Per aiutare gli eritrei a costruire un futuro che non sia di sofferenza, schiavitù ed esilio, ma di libertà e prosperità, bastano poche semplici iniziative. Innanzitutto le autorità dei paesi europei devono fornire prontamente informazioni agli eritrei entrati nel continente con l’obiettivo di concedere loro lo stato di rifugiati il prima possibile. Occorre poi modificare la procedura di naturalizzazione in modo che gli eritrei non siano costretti a scegliere tra la cittadinanza del paese ospite e la sicurezza dei loro familiari. In secondo luogo vanno cambiate radicalmente le politiche europee riferite all’Eritrea, la tassa del 2% non può essere più tollerata, bisogna smettere di contribuire a rafforzare il regime totalitario e l’oppressione degli eritrei, in particolare di coloro che cercano di fuggire dal paese. A questo fine non dobbiamo più essere paralizzati dal terrore di vedere i dannati della terra arrivare in Europa, e bisogna rendersi conto che l’accordo Ue-Turchia sui profughi non è un esempio da seguire, ma da evitare. Infine occorre aiutare le famiglie degli oppositori del regime che sono in carcere, principalmente ad avere notizie dei loro cari, ad esempio grazie all’appoggio di personaggi pubblici. Bisogna sostenere anche gli oppositori, gli attivisti e i giornalisti in esilio, in modo da ricostituire una società pluralistica, vitale e libera. Esiste la giustificazione morale e l’urgenza politica ad agire per porre fine all’oppressione degli eritrei. L’appello è sottoscritto da Benjamin Abtan, presidente del Movimento europeo antirazzista Egam, e da altre 25 personalità tra cui l’italiano Oliviero Toscani. Myanmar. Aung San Suu Kyi minimizza la pulizia etnica ai danni dei rohingya di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 settembre 2017 Alla fine, ha parlato, intorno alle 5 di questa mattina. Un discorso deludente, quello della leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Un mix di mezze ammissioni, affermazioni non veritiere e persino di accuse ai rohingya, la minoranza che sta subendo una vera e propria pulizia etnica. Dalla negazione alla minimizzazione, il passo avanti è davvero scarso. Silenzio sulla campagna di terra bruciata che le forze di sicurezza di Myanmar stanno portando avanti nello stato di Rakhine. Dichiarazioni baldanzose secondo cui il governo di Myanmar non ha nulla da temere dallo scrutinio internazionale, mentre lo stesso governo ha ripetutamente detto che non coopererà con la Missione di accertamento dei fatti istituita quest’anno dalle Nazioni Unite. Sulla questione dei rifugiati fuggiti in Bangladesh (in meno di un anno più di quanti ne sono arrivati in Europa nel 2016), Aung San Suu Kyi ha dichiarato la disponibilità del governo a organizzarne il rientro. Ma dove, se le loro terre e le loro case sono state saccheggiate e date alle fiamme? E con quali prospettive, in un paese che non li riconosce come cittadini e che ostacola l’accesso dei rohingya alle cure mediche e ad altri servizi essenziali? In definitiva, di fronte a una delle più virulente campagne militari contemporanee e a una crisi umanitaria tra le più gravi al mondo, Aung San Suu Kyi continua a nascondere la testa sotto la sabbia. Da una Nobel per la pace privata per quasi 20 anni della libertà personale sarebbe stato lecito attendersi, anziché l’esercizio della politica dello struzzo, parole convinte in difesa dei diritti umani.