Con il suicidio di Ravenna siamo arrivati a quaranta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2017 Si è tolto la vita un detenuto italiano in attesa di giudizio per rapina. Ufficialmente quelli in cella sono 36, ma bisogna aggiungere quelli in esecuzione penale esterna, in Rems e in ospedale. La lista funebre dell’istituzione carceraria non si arresta. Ancora un altro suicidio in carcere e questa volta è accaduto nella notte tra mercoledì e giovedì nel penitenziario di Ravenna. Era un italiano di 51 anni ed era entrato in carcere il 21 agosto scorso in attesa di attendere il processo per rapina. A darne la notizia è stata la Uil-Pa Polizia Penitenziaria Emilia Romagna, con il coordinatore Domenico Maldarizzi: "Purtroppo - afferma - questa volta la Polizia Penitenziaria non è riuscita a salvare la vita del 40esimo detenuto suicida in un carcere dall’inizio dell’anno e questa volta è toccato ad un detenuto italiano imputato per rapina a cui il Gip pochi giorni fa aveva convalidato la misura cautelare della custodia in carcere. A rinvenire il corpo esanime continua Maldarizzi - è stato un agente di polizia penitenziaria durante un normale giro di controllo". Nel giro di pochi giorni si sono avvicendati 4 suicidi a distanza di poche ore l’uno dall’altro. I penultimi due hanno riguardato il carcere Don Bosco di Pisa - che ha anche dato seguito ad una rivolta poi sedata dal capo del Dap Santi Consolo in persona e quello di Torino. Qualche giorno prima era toccato al carcere di Monza con un detenuto marocchino che si è ammazzato inalandosi la bomboletta del gas. Ufficialmente i suicidi avvenuti all’interno del carcere sono 36, ma se aggiungiamo anche il suicidio avvenuto in esecuzione penale esterna, quello nella Residenza per l’esecuzione misure sicurezza (Rems) e i decessi in ospedale dopo dei tentati suicidi, arriviamo a 40 dall’inizio dell’anno. Aggiungendo le morti per cause naturali, abbiamo raggiunto quasi 80 decessi. Un numero abnorme che rischia di far diventare, questo anno 2017, l’annus horribilis per il sistema penitenziario. Un anno che potrebbe diventare simile a quello del 2009 quando si raggiunse il record dei suicidi in carcere (71 decessi) tanto da subire una condanna dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 della Convenzione, quello relativo alla tortura e ai trattamenti disumani. La lista sarebbe molto più lunga se gli agenti penitenziari non intervenissero, come hanno fatto finora, per sventare diversi tentati suicidi. Come gli ultimi due avvenuti nello stesso giorno e nello stesso carcere dei "Casetti" di Rimini. Intorno alle 22 di lunedì scorso un cittadino marocchino di 25 anni ha tentato di togliersi la vita impiccandosi con delle fettucce ricavate da un asciugamano e poi legate alla grata della finestra. Il ragazzo è stato soccorso da tre agenti della penitenziaria e rianimato dal personale del 118. Poco meno di un’ora dopo, intorno alle 23, e sempre nel carcere di Rimini, un detenuto di origine tunisina ha tentato di impiccarsi con la stessa modalità utilizzando però un lenzuolo. Di fronte all’escalation dei suicidi in carcere, il Partito Radicale torna con più forza a chiedere al ministro della Giustizia Andrea Orlando l’immediata approvazione del nuovo ordinamento penitenziario attraverso l’esercizio della delega conferita al governo dal parlamento con la legge n. 103 del 23 giugno scorso. Oltre 7.000 detenuti hanno aderito al Satyagraha indetto dal Partito Radicale per chiedere al governo di emanare entro l’estate i decreti delegati che servono ad attuare la riforma. "È bene ricordare - spiega l’esponente radicale Rita Bernardini - che anche nelle carceri lo Stato deve essere Stato di diritto, altrimenti non ha alcuna legittimazione di fronte ai suoi cittadini". La strage estiva nelle carceri italiane infoaut.org, 1 settembre 2017 Da maggio ad agosto il numero dei detenuti che morti suicidi in carcere è aumentato passando da 22 a 40: le istituzioni si ostinano a dichiarare la propria "preoccupazione" chiedendo una "soluzione repentina a tale situazione emergenziale". Come risulta drammaticamente evidente, non c’è alcuna "emergenza" da affrontare: sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie precarie ed inumane, violazione dei diritti, utilizzo massiccio di psicofarmaci unicamente con funzione di controllo e repressione, sfruttamento delle condizioni lavorative sono tratti permanenti del sistema carcerario italiano. Il Morandi di Saluzzo dove già a maggio un ragazzo di 33 anni si era tolto la vita mentre era costretto all’isolamento torna "stranamente" ancora una volta a veder morire un uomo di 46 anni. Fabio, che doveva ancora scontare sei anni di pena, negli ultimi due mesi si era visto negare dal magistrato il permesso di recarsi al funerale del padre e le istanze da lui presentate per accedere a percorsi lavorativi esterni. I familiari hanno appreso solo al momento del riconoscimento che Fabio era sottoposto ad Alta sorveglianza per il tentativo di atti anticonservativi (di cui lui stesso non aveva fatto alcun accenno nemmeno durante i recenti colloqui familiari). Secondo la versione ufficiale che fa acqua fin da subito, giovedì pomeriggio l’agente penitenziario destinato a piantonare in modo continuativo la cella di Fabio per evitare il ripetersi di atti autolesionistici si sarebbe accorto troppo tardi che Fabio aveva avuto il tempo di legare con un nodo stretto il laccio di un accappatoio (improvvisamente materializzatosi dentro la cella) con cui si è impiccato. Nonostante l’evidente ritardo che ha avuto l’agente nell’accorgersi che Fabio si stava impiccando, la versione ufficiale sostiene che repentinamente sia stato trasportato all’ospedale di Cuneo dove, dopo qualche giorno, è morto. I dieci minuti concessi ai familiari per salutare Fabio sono bastati per notare che attorno al collo non c’era alcuna tumefazione: alcune gravi lesioni interne riscontrate dai medici hanno invece fatto sì che il magistrato predisponesse il sequestro del corpo per procedere con l’autopsia. Qualche giorno dopo la morte di Fabio, nel carcere di Monza un ragazzo di 29 anni si è tolto la vita inalando il gas della bombola da cucina. Dopo Saluzzo e Monza mercoledì è il turno del Don Bosco di Pisa. Anche qui un ragazzo di soli vent’anni è stato trovato impiccato nella sua cella...le dinamiche del suicidio non devono essere sembrate molto chiare nemmeno agli altri detenuti che hanno dato inizio ad una rivolta che è stata repressa dopo circa tre ore. La rabbia che ha fatto esplodere la protesta trova un’ulteriore motivazione nel fatto che da tempo i detenuti del Don Bosco avevano denunciato le vergognose condizioni igienico sanitarie in cui sono costretti a vivere cosi come l’esasperante sovraffollamento. Sempre mercoledì a Lorusso-Cutugno di Torino un ragazzo di trentasette anni viene trovato impiccato nel bagno della sua cella all’interno del blocco C. Non soddisfatto della strage che sta avvenendo nelle carceri italiane, l’Osapp non si è lasciato sfuggire l’occasione per ricollegare tali morti alla carenza di organico dei sorveglianti e per recriminare sulle condizioni di lavoro degli agenti. I garanti dei diritti dei detenuti delle regioni interessate si sono detti tutti "preoccupati" e anche Orlando ha dichiarato che si sta "occupando dell’emergenza": peccato non ci sia alcuna "emergenza da risolvere" ma da destrutturare un sistema che si fonda e si alimenta proprio su quelle inumane condizioni di vita. Le stesse che portano chi è costretto in carcere a lottare contro il tentativo continuo di oppressione e annientamento. Il Partito Radicale chiede l’approvazione immediata del nuovo Ordinamento Penitenziario controlacrisi.org, 1 settembre 2017 "Di fronte all’escalation dei suicidi in carcere, il Partito Radicale torna a chiedere al Ministro della Giustizia Andrea Orlando l’immediata approvazione del nuovo Ordinamento Penitenziario attraverso l’esercizio della delega conferita al Governo dal Parlamento con la legge n. 103 del 23 giugno scorso". È quanto dichiara Rita Bernardini, Coordinatrice Presidenza del Partito Radicale. "Il Ministro Orlando sa benissimo - continua - che la Riforma dell’esecuzione penale deve trovare rapida approvazione e che i tempi dati alle Commissioni appositamente da lui istituite in luglio per scrivere le norme sono incompatibili sia con la situazione esplosiva delle carceri sia con i tempi della legislatura che, anche se dovesse concludersi alla sua scadenza naturale (e non è affatto detto), sono ravvicinatissimi. Il 31 dicembre prossimo - termine ultimo scelto per la redazione dei testi - cade in una finestra temporale pericolosissima per il varo di una normativa così importante. Lo stesso Ministro, quando nel luglio scorso finii in ospedale per un prolungato sciopero della fame, disse che i decreti sarebbero stati emanati entro agosto essendo i testi già pronti perché frutto del lavoro degli Stati Generali dell’esecuzione penale. Poi ci ripensò e istituì le 3 commissioni. Ora - insiste Bernardini - 6.817 detenuti hanno aderito al Satyagraha indetto dal Partito Radicale per chiedere al Governo di emanare entro l’estate i decreti delegati. Orlando si faccia forte di questa iniziativa nonviolenta che lo incoraggia a fare ciò che è più che mai obbligato se si tiene anche conto della preoccupante ripresa del sovraffollamento carcerario. È bene ricordare che - conclude Bernardini - anche nelle carceri lo Stato deve essere Stato di diritto, altrimenti non ha alcuna legittimazione di fronte ai suoi cittadini." Sul suicidio di un detenuto tunisino nel carcere di Pisa, Bernardini ricorda di aver presentato nell’autunno scorso un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa per denunciare - a seguito della visita ispettiva del 23 ottobre - una situazione esplosiva dal punto di vista della violazione dei diritti umani. Secondo le informazioni a disposizione dell’esponente radicale, l’esposto non ha avuto alcun seguito, tanto che la situazione di degrado del carcere di Pisa si è protratta fino alle gravissime tensioni di oggi che ha spinto alcune testate a parlare di rivolta dei detenuti. L’esponente del Partito Radicale preannuncia che tutta la documentazione, e in primo luogo l’esposto, verrà trasmessa al Procuratore Capo presso la Corte di Cassazione, al Csm e al Ministro della Giustizia. Carovana della giustizia. "In giro per l’Italia nel segno di Pannella" di Valentina Stella Il Dubbio, 1 settembre 2017 Se si chiede a Maurizio Turco, al vertice della Presidenza del Partito Radicale, di fare un bilancio della Carovana per la Giustizia in corso in Sardegna, preferisce parlare di racconto: "Quello iniziato lo scorso settembre con la mozione approvata dagli iscritti al Congresso di Rebibbia per riformare la giustizia, proseguendo la battaglia storica di Marco Pannella. Da allora abbiamo organizzato due marce per l’amnistia e l’indulto, abbiamo visitato oltre 200 carceri e abbiamo proseguito questo cammino ideale ma anche materiale, fatto di chilometri e chilometri in giro per l’Italia". Da giugno infatti il Partito Radicale è impegnato a girare in camper la penisola per raccogliere le firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Prima la Calabria, poi la Sicilia, ora la Sardegna fino al 3 settembre e poi la Puglia. "Siamo stati molto severi con noi stessi in questa Carovana sarda, - prosegue Turco - con un calendario molto stretto e faticoso, però ne vale davvero la pena quando nelle carceri c’è riscontro, non solo dei detenuti, ma anche degli agenti e dei direttori. Facendo sottoscrivere la proposta di legge ai detenuti vogliamo dare anche a loro il diritto di poter determinare la vita del Paese". E i numeri sono confortanti: sono oltre 6.000 le adesioni raccolte fino ad ora nei tre tour, contribuendo dunque in maniera significativa alle oltre 62.000 firme portate a casa dei penalisti. "Questa lotta, questo incontro con le Camere Penali - ci tiene a ribadire Turco - è qualcosa che va perseguito fino in fondo, e oltre. Per costruire insieme qualcosa di nuovo che vediamo già crescere". Tale sinergia tra Partito Radicale e avvocati si è tradotta anche in molte iscrizioni, come ha specificato Gian Domenico Caiazza, Responsabile dei Rapporti Istituzionali dell’Unione delle Camere Penali: "Voglio sottolineare la fecondità di questo incontro tra l’Ucpi e il Partito Radicale. Gli avvocati stanno iscrivendosi a centinaia perché hanno capito la natura transpartitica del Partito. La sopravvivenza del Partito Radicale è una garanzia per i diritti di tutti i cittadini". Ma per sopravvivere, il Partito, come deciso in mozione, deve raggiungere 3000 iscritti entro il 31 dicembre, da confermare anche nel 2018: ad oggi quelli totali sono 1710, a cui si aggiungono 500 parziali. Il problema però rimane l’informazione: "Due giorni fa nel carcere di Cagliari, dove siamo stati guidati dall’ex cappellano don Ettore Cannavera, abbiamo assistito ad un atto di autolesionismo di un detenuto di vent’anni che con una lametta si è fatto dei tagli ai polsi. Per non parlare del fatto che in quell’Istituto oltre la metà dei reclusi ha problemi psichiatrici o di tossicodipendenza. Questo è solo un esempio delle degradanti condizioni in cui versano le nostre carceri. La questione giustizia è stata tuttavia cancellata dall’informazione. Dove sono i dibattiti televisivi? Ci sono milioni di processi accumulati di cui nessuno parla e i primi a pagarne le conseguenze sono le vittime dei reati", conclude Turco. No, le toghe non fanno autocritica di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 1 settembre 2017 Questa volta non sono d’accordo con Piero Sansonetti. All’indomani dall’intervista rilasciata dalla dottoressa Maria Rosa Guglielmi, segretaria di Magistratura democratica, ha affermato: "Finalmente le toghe discutono". In realtà, il cuore della intervista sta nella necessità di privilegiare i "diritti sociali e umani rispetto a quelli di proprietà". È una tesi che fa parte del patrimonio ideologico di Md e che non ha certo spinto la stessa a reagire rispetto all’eccesso di giustizialismo. In realtà, il cuore della intervista della dottoressa Guglielmi sta nella necessità di privilegiare i "diritti sociali e umani rispetto a quelli di proprietà". È una tesi che fa parte del patrimonio ideologico di Magistratura democratica fin dalla sua istituzione e che non ha certo impedito alla stessa Magistratura democratica di non reagire rispetto all’eccesso di giustizialismo che, ormai da decenni, caratterizza la giurisdizione in Italia. Dopo la intervista a Guglielmi, Il Dubbio ha pubblicato le interviste al dottor Mauro Gallina di Magistratura Indipendente e al dottor Aldo Morgigni, consigliere del Csm, espresso dalla corrente fondata da Pier Camillo Davigo Autonomia & Indipendenza. Nella sostanza, i due intervistati hanno affermato che comunque va rispettata la legalità costituzionale, con la conseguenza che, pur essendo sacrosanto il diritto di asilo, lo sono anche gli altri diritti garantiti dalla Costituzione fra i quali vi è il diritto di proprietà. Anche in questo caso nulla di nuovo rispetto alle posizioni delle correnti di destra della Anm e, anche in questo caso, nulla che abbia indotto quelle correnti ad opporsi alla linea giustizialista che negli ultimi decenni ha segnato la giurisdizione in Italia. In realtà, se si guarda bene alle parole di tutti e tre gli intervistati, emerge in filigrana un unico comune denominatore: la prevalenza del ruolo della giurisdizione su ogni altro ruolo svolto dalle altre istituzioni democratiche. Si tratta di quella prospettiva di subordinazione delle altre istituzioni, che consentì a Magistratura indipendente ed a Magistratura democratica, nonostante la loro contrapposizione ideologica, di essere il cuore del governo dell’Associazione Nazionale Magistrati durante il periodo di Mani Pulite. Vi è, d’altra parte, un aspetto delle odierne vicende che conferma come, al di là delle contrapposizioni ideologiche, resti cristallizzata la prospettiva corporativa con cui la magistratura considera il proprio ruolo. È noto che in queste settimane è in corso la raccolta delle firme per una proposta di legge costituzionale, di iniziativa popolare, per la separazione delle carriere. Il Partito Radicale e l’Unione delle Camere Penali hanno messo in moto una carovana della giustizia, che sta attraversando le varie ragioni di Italia per promuovere la raccolta delle firme. Si tratta di un tema assolutamente delicato e centrale nella amministrazione della giustizia penale. Ciò tanto più che si deve registrare, da un lato, che la situazione italiana che vede far parte dello stesso ordine Giudici e Pubblici Ministeri non ha riscontro in nessun altro paese occidentale e, dall’altro, che la magistratura italiana si è sempre opposta con assoluta compattezza ed in modo molto duro alla divisione delle carriere. Si tratta, perciò, di un tema sul quale è inevitabile che qualsiasi operatore della giustizia debba prendere posizione. E si tratta, per di più, di un tema che è, oggi, all’attenzione di tutti proprio per la iniziativa del Partito Radicale e della Unione Camere Penali. Ebbene, la circostanza in nessuna delle tre interviste citate si faccia un qualsivoglia riferimento a quell’argomento è il segnale che, al di là del consueto dibattito interno su quale debba essere la direzione verso la quale indirizzare l’esercizio del potere giurisdizionale, resta ferma quella visione corporativa della magistratura, che ha finora impedito un effettivo salto di qualità nella amministrazione della giustizia. Cronaca nera. Raccontare un Paese peggiore di quello che è, in assenza di idee di Annalena Il Foglio, 1 settembre 2017 Niente di meglio della cronaca nera, sui giornali d’estate. Ma anche d’inverno, arriva come un’onda, riempie le pagine e apre i siti dei quotidiani. Omicidi, stupri, assalti, incidenti d’auto. I giornali erano nati per raccontare le idee e per dare battaglia politica e culturale, e la cronaca aveva un piccolo spazio. I fatti non raccontano il mondo se non c’è un’interpretazione, il dibattito ha molto bisogno di idee, ma gli esseri umani vogliono anche la catarsi, l’indignazione e il sollievo, vogliono sapere che in provincia di Vicenza c’è stata una rapina, e abbiamo bisogno anche del grande delitto efferato, del giallo, della tragedia e dell’ergastolo. Di stare in pena per la bambina scomparsa e scoprire se c’è un testimone. C’è stato un tempo in cui Benito Mussolini, che controllava i giornali convinto che avessero una fortissima influenza sui cittadini, odiava e vietava la cronaca nera. Diceva che i delitti infondono insicurezza, ansia, paura, e a lui interessava mostrare un’immagine edulcorata della società che stava costruendo: cercava di imporre la visione del mondo che credeva di creare. Per fortuna non ci è riuscito e in piena libertà un sacco di gente sceglie di leggere tutte le storie di pitbull esistenti, vuole conoscere la vita di tutte le sorelle fatte a pezzi e gettate nel cassonetto da fratelli umiliati, e sono stati fondati giornali appositi, pieni di storie e di fotografie e di retroscena con interviste ai vicini di casa e ai lontani parenti arcigni. Giornali semi scomparsi perché travolti dalla cronaca su internet, su carta e in prima serata. Ognuno sceglie che cosa leggere e guardare, ma ci sono anche gli eccessi, e l’eccesso di cronaca nera arriva quasi sempre dal vuoto delle idee, non solo d’estate. È un’altra specie di assolutismo, il più delle volte inconsapevole, a cui si lega il gusto di raccontare un paese più brutto di quello che è, il piacere del brivido e di far diventare ordinario un fatto eccezionale, di offrire una storia del mondo particolarmente caotica e catastrofica, senza necessità di pensiero critico, con un dibattito che non può andare oltre il momento del cappuccino al bar. Ci si indigna, ci si accende, si leggono i giornali come si leggerebbe un mattinale dei carabinieri. Ieri pomeriggio, sul tardi, tanto per fare un esempio qualunque, aprire l’home page di Repubblica significava leggere notizie sui due filoni principali di cronaca degli ultimi giorni: razzismo e stupro. Razzismo: richiedente asilo picchiato e ripreso con il telefonino. Fermati due adolescenti di Acqui Terme. Era la prima notizia, dunque la più importante, la più significativa. E poi: Stupro. Salento: una turista di ventinove anni stuprata nel villaggio vacanze. Fermato un ventisettenne. E poi ancora stupro: Turista chiama il 112: "Stanno violentando la mia compagna" (Rimini). Ancora: "Tenta di abusare di una donna in strada: fermato senzatetto" (Bologna). "Ottantenne violentata in pieno giorno" (Milano). "Violenze a diciassettenne: un arrestato e tre denunciati" (Desio). Tutta la home page era occupata dallo stupro o dal tentato stupro nelle sue sfaccettature. Spesso le notizie reggono il confronto con la realtà per poche ore, e le versioni vengono capovolte, oppure semplicemente sbiadiscono. Ma intanto si è riempito lo spazio, si è offerto un argomento sotto l’ombrellone o al ritorno in ufficio, e sempre c’è una cronaca da citare e da aggiornare, da sventolare per fare le raccomandazioni ai figli o per lamentarsi di questo brutto paese in cui tutto va malissimo e non si può camminare per strada. Cronaca nera, niente di meglio, soprattutto perché non si è pensato di meglio. Il (lento) recupero della giustizia civile in Italia di Fabrizio Massaro Corriere della Sera, 1 settembre 2017 Il rapporto "The European House Ambrosetti" sullo stato della giustizia in Italia che sarà presentato al forum di Cernobbio: pesa ancora l’arretrato ma le cause si riducono grazie anche al processo telematico e alla mediazione privata. Ma vi siete accorti che la giustizia in Italia sta migliorando? Forse no, se non avete avviato (o subito) cause civili o siete ancora impelagati in contenziosi vecchi di anni. Eppure - a leggere il rapporto sullo stato della giustizia in Italia che per il terzo anno viene presentato al Forum The European House Ambrosetti a Cernobbio - i segnali positivi ci sono: il numero di nuove cause (1,75 milioni) è in linea con gli altri Paesi Ue e i tribunali italiani sono tra i più efficienti in Europa nel rapporto tra cause avviate e risolte. Ma il miglioramento non si percepisce, perché avviene lentamente. Troppo. E rallenta di passo. In più continua a pesare la zavorra dell’enorme arretrato che i giudici riescono a smaltire in piccola parte. Il totale delle cause pendenti è sceso dai 5,9 milioni del 2009 ai 4,4 milioni del 2016. Ma non basta. In 82 tribunali su 140 una causa su cinque ha più di tre anni, oltre la "durata ragionevole" fissata dalla Legge Pinto. Ci vogliono ancora più di otto anni per avere una sentenza in Cassazione e ben 530 giorni per un giudizio civile in primo grado (dati al 2015). Sempre troppo ma un po’ meglio di prima: nel 2012 servivano ne 590. In tre anni il calo è stato del 10%. Ma la media Ue è 237 giorni, meno della metà. Tribunale ed efficienza - Naturalmente i tribunali non sono tutti uguali. Sottolinea Ambrosetti che non conta tanto la distribuzione geografica - anche se quelli del Nord sono mediamente più efficienti di quelli del Sud - quanto "l’adozione di modelli organizzativi e gestionali virtuosi che impatta sull’efficienza". Per esempio in Sicilia ci sono contemporaneamente tribunali dove una causa su due ha più di tre anni (Barcellona Pozzo di Gotto e Caltagirone) e altri dove le cause ultra-triennali sono meno del 10% (Marsala, Trapani, Sciacca) o meno del 15% (Palermo, Termini Imerese, Caltanissetta). È per questo motivo che servirebbero l’introduzione di un "court manager" per la gestione degli uffici e l’adozione di criteri di performance, trattando in sostanza i tribunali come se fossero aziende che devono ottimizzare un prodotto: l’applicazione della legge. Ambrosetti stima che la riduzione dei tempi di una causa civile di circa 5 giorni corrisponde a un aumento del pil pro-capite annuo dello 0,5%, pari a 135 euro per cittadino. L’imbuto delle sofferenze bancarie - In generale la giustizia diventa un po’ più efficiente. Perché, oltre alle leggi, è l’efficienza della magistratura che ha un impatto diretto sui cittadini. Prendiamo i famosi "crediti deteriorati" (in inglese "non performing loans", o Npl), cioè i prestiti che le banche non riescono a farsi pagare: quasi sempre a garanzia sono stati concessi beni immobili che devono essere oggetto di esecuzione, cioè messi all’asta e venduti per rimborsare il creditore, ma per un’esecuzione immobiliare ci vogliono anni. Così le banche soffrono, prestano meno e, quando prestano, lo fanno a tassi più alti. Un imprenditore farà quindi più fatica ad accedere al credito per nuovi investimenti che creano nuovi posti di lavoro. Ecco l’imbuto della giustizia. Il Csm - ricorda il rapporto - se ne sta occupando coinvolgendo tutti i soggetti coinvolti, dalle banche agli avvocati, per trovare il modo di accelerare le esecuzioni forzate, anche senza bisogno di interventi normativi. Che pure ci sono stati: a fine 2017 dovrebbe essere operativo e online il "portale delle vendite pubbliche", cioè un marketplace di tutte le aste giudiziarie in Italia, sia per beni immobili che mobili. Per Ambrosetti "lo strumento è altamente innovativo" perché consente di "andare oltre il tradizionale localismo delle singole procedure concorsuali" allargando la platea degli interessati. Computer e processi telematici - Il processo telematico è invece ormai una realtà. Oltre a quello civile, introdotto nel 2014, è partito quello presso la Cassazione e, a inizio 2017, quello amministrativo. Il semplice risparmio nel costo medio di 7 euro per comunicazione tramite ufficiale giudiziario, sostituito dalla comunicazione telematica - passate l’anno scorso a 19 milioni dai 17,8 milioni del 2015 - ha fatto risparmiare al ministero 66 milioni di euro (dai 60 milioni dell’anno prima). Solo nel 2016 il ministero ha investito 88 milioni di euro, usati (anche) per comprare 35 mila nuovi computer rinnovando il 40% delle dotazioni. È un altro imbuto che si allarga. Passa anche da qui - oltre che dalla formazione non solo dei giudici ma del resto del personale - l’efficienza dei tribunali. Addirittura il ministero è tornato ad assumere: a distanza di vent’anni a fine 2016 sono stati messi a concorso 800 posti da assistente giudiziario. Il successo della mediazione - Il corpaccione Giustizia insomma si è messo a dieta eppure ancora non smagrisce a sufficienza. I meccanismi di "degiurisdizzazione" (cioè ottenere giustizia fuori dai tribunali) come l’arbitrato e la "negoziazione assistita" adesso vengono spinti con incentivi fiscali ma è troppo presto per misurarne i risultati concreti. Lo sforzo comunque viene premiato: la mediazione civile, secondo Ambrosetti, "ha centrato gli obiettivi preposti e negli ultimi tre anni ha visto circa 186mila iscrizioni annue, alleggerendo il carico sui tribunali". Nel 2011 erano stati 60mila. Naturalmente non è risolutiva dei problemi dei tribunali, avendo ambiti limitati (fra questi, condominio, proprietà e altri diritti reali, successioni, assicurazioni, contratti bancari, affitto d’azienda). E poi comincia anch’essa mostra segni di fatica: l’aumento delle pendenze fa allungare i tempi delle decisioni, dagli 83 giorni del 2013 ai 115 del 2015. Salvare il corruttore, punire il corrotto - Resta il dramma della corruzione, con l’Italia ai primi posti nella maggior parte delle classifiche internazionali che misurano il livello di corruzione (o della sua percezione). Per combatterla la proposta di Ambrosetti è drastica: va spezzato il sodalizio tra corruttore privato e corrotto pubblico ufficiale. Dunque, meglio escludere il reato per il primo e punire solo il secondo: sarà eticamente discutibile ma per Ambrosetti porterà, pragmaticamente, più risultati. La litigiosità sui figli sfocia in stalking di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 31 agosto 2017 n. 39758. È stalking anche la forte litigiosità per la gestione dei figli se provoca nell’ex moglie uno stato di ansia e la induce a cambiare le sue abitudini di vita. La Corte di cassazione, con la sentenza 39758, respinge il ricorso dell’uomo secondo il quale le sue condotte non potevano rientrare nel reato di atti persecutori previsto dall’articolo 612-bis del Codice penale. Il ricorrente contestava anche la connessione con altri reati, come la violazione di domicilio e le lesioni perseguibili d’ufficio, che aveva consentito alla Corte d’Appello di perseguire l’ex marito anche per stalking in assenza di querela. Nel caso esaminato, precisa la Suprema corte, correttamente i giudici di seconda istanza hanno chiarito che la forte litigiosità per la gestione dei figli si trasformava in un comportamento tale da generare ansia nella vittima costringendola a cambiare abitudini. Anche le ingiustificate pretese dell’imputato, secondo il quale i ragazzi dovevano andare a scuola senza lo zaino con i libri di scuola nei giorni in cui stavano con lui, erano motivo di litigio con la ex moglie costretta a litigare ogni volta e a portare lei la mattina la borsa con i libri davanti all’istituto frequentato dai ragazzi. La Cassazione ha chiarito infine che l’intenzione dell’imputato di cercare di riprendere la figlia non esclude la volontarietà di colpire la parte offesa, afferrata per il collo e sbattuta contro un albero. Nessuna deroga per le norme antisismiche di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2017 La tragica serie di terremoti succedutisi nell’ultimo decennio hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla concreta applicazione delle norme edilizie ed antisismiche che, a seguito della recente riclassificazione del territorio, interessano quasi tutta l’Italia. Da sottolineare che dette norme sono sanzionate penalmente con la contravvenzione prevista dagli articoli 93,94,95 del Dpr n.380/2001 allorquando si eseguano interventi edilizi in zona sismica senza averne dato preventivo avviso scritto e senza l’autorizzazione del competente ufficio tecnico della regione. La violazione delle norme edilizie in zona sismiche inoltre è sanzionata penalmente dalle contravvenzioni previste dall’art. 44 lettera b) e lettera c) del D.P.R. n. 380/2001, allorché l’intervento edilizio avvenga in assenza di titolo abilitativo e inoltre la violazione delle norme edilizie ed antisismiche costituisce il presupposto della contestazione di colpa specifica nei delitti di omicidio e di disastro. Il problema sulla inderogabilità di tali norme è stato affrontato dalla Corte di Cassazione che con la sentenza n. 38953/2017 ha escluso nei loro confronti l’applicabilità della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131 bis del Codice penale) in quanto la stessa è esclusa dalla contestuale violazione di più disposizioni in conseguenza dell’intervento abusivo come avviene quando con la realizzazione dell’opera abusiva vengano violate altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi : norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell’ambiente, di fruizione delle aree demaniali. Tale orientamento è la conferma delle precedenti sentenze n. 47039/2015 e n. 19111/2016 la quale sostiene che elementi impeditivi dell’applicazione dell’articolo 131 bis del Cp sono: la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità della sanatoria, il mancato rispetto dei vincoli, il collegamento dell’opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza del titolo abilitativo, il rispetto dei provvedimenti dell’autorità amministrativa, la violazione contemporanea di più disposizioni di legge urbanistiche, antisismiche ed in materia di conglomerato di cemento armato. La sentenza della Cassazione n. 29579/2017 ha confermato la legittimità di un ordine di demolizione emesso dal giudice penale nei confronti di un immobile con ordine di riduzione in pristino del manufatto abusivamente realizzato a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna per i reati edilizi (articolo 44 lettera c), 71,72,93,95 del Dpr n. 380/2001). La Cassazione ha escluso che nei confronti dell’ordine di demolizione possa essere applicato l’indulto (legge n. 241/2006), poiché lo stesso non ha una funzione punitiva, bensì di ripristino del bene leso e configura un obbligo reale e produce effetti nei confronti del possessore anche se non è autore del reato. Non essendo una pena l’ordine di demolizione non può essere assoggettato alla pena individuata dalla giurisprudenza della Cedu e, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall’articolo 173 del Cp per le sanzioni penali e neppure alla prescrizione stabilita dall’articolo 28 della legge n. 689/1981 per le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva. L’ordine di demolizione può essere revocato dal giudice penale quando diventi incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore ed è impermeabile a tutte le vicende estintive del reato e/o della pena e ad esso non sono applicabile l’amnistia e l’indulto. Detenuti al lavoro. Chi ha fatto del male ripari facendo del bene di Carla Cordero Il Mattino di Padova, 1 settembre 2017 Leggo di grande scandalo per l’attività lavorativa che il signor Marino Occhipinti, condannato all’ergastolo quale componente della cosiddetta banda della Uno bianca, svolgerebbe presso il Centro Prenotazioni dell’Ospedale all’Angelo di Mestre. Sono madre di un giovane disabile, assunto a tempo indeterminato presso una Cooperativa Sociale che svolge lavoro vero, riuscendo a stare sul mercato dei servizi. Anche verso i nostri figli vengono mormorate le stesse obiezioni: tra tanti disoccupati che ci sono, perché far lavorare un disabile o un detenuto? Comprendo allora che cosa sia quella "cultura dello scarto" di cui parla Papa Francesco: il tentativo di negare che degli uomini possano essere tali, negando loro il lavoro. Perché è proprio attraverso il lavoro, il lavoro vero, che un uomo conosce se stesso e impara a rapportarsi con la realtà. Altrimenti tutto si riduce a una vita parallela. Certo il lavoro è un diritto di tutti, ma non esiste che si possa dire "prima i Veneti" piuttosto che "prima gli onesti", o "prima i normodotati": ciascuno deve poter fare la propria strada di espressione e di affermazione di sé, e chi è più fortunato, perché è cresciuto in una condizione di elevate opportunità, sarà più sollecito a rispondere o più "lanciato" nella carriera. Ma perché negare il lavoro a chi lo desidera ed è capace di affrontarlo? Prima che mio figlio incontrasse la Cooperativa che lo ha assunto, neppure l’Ente pubblico preposto agli inserimenti lavorativi dei disabili credeva che sarebbe stato possibile, perché siamo portati a partire da schemi che ci facciamo e da un "già saputo" che ci riduce. Invece lui ha avuto la fortuna di incontrare persone che lo hanno guardato per le sue specificità, direi per la sua unicità, e che hanno saputo valorizzarlo, ripeto, dentro un lavoro vero, non una attività occupazionale. Così è anche per i detenuti: sono ormai molte, anche se ancora troppo poche, le realtà carcerarie che offrono loro la possibilità di svolgere un lavoro mediato dalla gestione ci cooperative sociali. Il lavoro è infatti un elemento di grande efficacia proprio nel percorso trattamentale dei detenuti. Nei giorni scorsi a Rimini ho avuto l’occasione di visitare una mostra bellissima al Meeting, "Ognuno al suo lavoro", che ha espresso proprio il concetto di una partita con la vita giocata per sé. Ed ho avuto anche l’occasione di ascoltare testimonianze di ex magistrati a riguardo della "giustizia riparativa" e delle forme alternative della pena: non più una giustizia di carattere "vendicativo", per la quale chi ha commesso il Male deve subire il male, ma una giustizia "ribaltata", nella quale a chi ha commesso il Male venga chiesto di compiere il Bene per riparare a quel male. Tra le mie letture estive ho riaperto, 50 anni dopo, i Promessi Sposi. "Lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere " si schermisce l’Innominato di fronte all’abbraccio del Cardinal Federigo. Ma lui: "lasciate - disse prendendola con amorevole violenza - lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici". 390 anni dopo quella visione dell’uomo e del mondo è più attuale che mai. Toscana: Fullone nominato Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2017 Antonio Fullone è il nuovo Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana e Umbria: lo ha nominato il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Fullone, direttore del carcere di Poggioreale dal 2014 fino ad oggi, 51 anni, è nato a Taranto e ha svolto funzioni di direttore aggiunto negli istituti di Catanzaro, Taranto, Bari e Mamone: sostituisce Giuseppe Martone. È stato direttore degli istituti di Foggia, Perugia, Verona, Lecce e Poggioreale. Recentemente è stato nominato Dirigente generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. "La figura del provveditore - dice Franco Corleone, garante regionale per i detenuti - è fondamentale sia per coordinare le politiche carcerarie sia per prendere le decisioni che servono per esempio in materia di lavori da avviare e in materia di coordinamento: che senso ha oggi avere in Toscana alcuni istituti in cui i detenuti sono in regime aperto e altri in cui invece vengono tenuti tutto il giorno dentro le celle?". La nomina di Fullone arriva dopo che nei giorni scorsi ci sono stati disordini, con la Polizia penitenziaria che è dovuta intervenire nel carcere di Prato, a Pisa (un detenuto magrebino si è suicidato ed è scoppiata la protesta) e nel carcere di Firenze, a Sollicciano (feriti tre agenti della Polizia). "Basta insicurezza nelle carceri toscane" È l’appello di Fp-Cgil Toscana dopo le azioni portate avanti nei giorni scorsi dagli agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Prato, a Pisa (un detenuto magrebino si è suicidato ed è scoppiata la protesta) e nel carcere di Firenze, a Sollicciano (feriti tre agenti della Polizia). "Abbiamo più volte denunciato la poca sicurezza di questi luoghi, che necessitano di ristrutturazioni, in particolare a Pisa e Firenze - dicono i sindacati. Manca inoltre personale addetto alla sorveglianza. Nonostante le ripetute denunce, nulla di significativo è stato fatto. I lavoratori della Polizia penitenziaria hanno diritto a lavorare in sicurezza e tranquillità. La Toscana, da questo punto di vista, non è una isola felice: ognuno si deve prendere le proprie responsabilità, senza scaricarle sui lavoratori". Ravenna: detenuto di 51 anni si impicca in cella La Repubblica, 1 settembre 2017 Era imputato per rapina, dietro le sbarre come misura cautelare. Un detenuto 51enne di Cervia si è impiccato la scorsa notte legandosi alle grate del bagno della cella nel carcere di Ravenna. Lo ha reso noto la Uil-Pa. "La Polizia Penitenziaria - spiega il coordinatore Domenico Maldarizzi - non è riuscita a salvare la vita del 40° detenuto suicida dall’inizio dell’anno. Questa volta è toccato ad un italiano imputato per rapina, cui il Gip pochi giorni fa aveva convalidato la misura cautelare della custodia in carcere". A trovare il corpo esanime è stato un agente durante un giro di controllo. "Il mondo del carcere sta attraversando il periodo più buio degli ultimi anni anche per le condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria - aggiunge Maldarizzi. Tutte le organizzazioni sindacali da luglio hanno interrotto le trattative con il Dap. Non si possono escludere clamorose iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e protesta in concomitanza con le celebrazioni del Bicentenario del Corpo, che prevedono la presenza del Presidente della Repubblica". Pica: carcere Don Bosco, cronaca di una morte e di una protesta annunciata di Rifondazione Comunista unacittaincomune.it, 1 settembre 2017 Quanto accaduto nella drammatica e convulsa giornata del 30 agosto chiama in causa tutta la comunità. Il suicidio di un ragazzo di appena 21 anni, a cui è seguita la pesantissima e drammatica rivolta nelle mura del carcere Don Bosco occuperà le prime pagine della cronaca locale. E poi come è avvenuto anche in passato, il carcere continuerà ad essere un luogo separato, invisibile, dimenticato. Gli esperti leggono questi atti drammatici come un estremo, doloroso tentativo di stabilire una comunicazione, una relazione con il mondo esterno, e di uscire dalla condizione di invisibilità. Sono un atto di denuncia per le condizioni di invivibilità della struttura, per la restrizione degli spazi di libertà interni, per la pesante riduzione di attività di socializzazione, imposte durante l’estate per questioni di sicurezza. A coloro che stanno pensando che in fin dei conti la popolazione carceraria "se lo merita" ricordiamo che questi ambienti disumani non sono solo spazi di pena ma anche luogo di lavoro per molti uomini e donne. Operatori e operatrici, polizia penitenziaria, addetti ai servizi, personale sanitario come coloro che scontano la pena - prima di tutto poveri - sono costretti a svolgere il loro lavoro in assenza di qualsiasi minima garanzia di sicurezza, al caldo torrido, spesso senza acqua o con inquinamenti di qualsiasi tipo. Non a caso gli interventi dei vari sindacati - di cui alcuni non condividiamo toni e proposte - oggi come in passato si accavallano. Denunce che il Garante dei diritti delle persone private dalla libertà nel suo ultimo rapporto ha ben evidenziato, puntando il dito, tra l’altro, sull’urgenza della attuazione di almeno sessanta interventi manutentivi all’interno dell’istituto pisano. Ma nulla è stato fatto. I problemi strutturali, le carenze di servizi il sovraffollamento sono ormai diventati a Pisa come nella maggior parte delle carceri italiane la drammatica normalità nell’assenza di qualsiasi politica nazionale. Da anni, in innumerevoli occasioni, abbiamo chiesto a tutte le istituzioni preposte e in particolare al Comune di Pisa che si adottassero misure concrete per superare la distanza tra il territorio e il carcere e la stessa richiesta è stata rivolta da associazioni, operatori, altre forze politiche. Per ben due volte il Consiglio Comunale ha impegnato la Giunta ad adoperarsi per assicurare interventi concreti e praticabili per migliorare a condizione estrema di vita dei detenuti. Riteniamo che mai come adesso sia urgente e prioritario non dimenticare: pur con un ritardo inaccettabile, chiediamo che il Sindaco dia un segnale forte e risponda con atti concreti alla richiesta di diritti e visibilità di un ragazzo suicida. Avellino: "un kit d’uscita", il primo aiuto dopo la detenzione Il Mattino, 1 settembre 2017 La Casa circondariale di Bellizzi Irpino: dal Garante un kit d’uscita per i detenuti. La proposta del Garante accolta dalla Provincia: la prima in Campania Mele: un sostegno per il post carcere. Si chiama "Un kit di uscita". È il progetto del Garante per i diritti dei detenuti della Provincia di Avellino che è stato promosso con un provvedimento del presidente di Palazzo Caracciolo, Domenico Gambacorta. L’iniziativa è unica nel suo genere in Campania e ha l’obiettivo di assistere le persone in uscita dal carcere che versano in condizioni di indigenza o in assenza di rete familiare di supporto. "Sono soprattutto gli immigrati e i senza fissa dimora, anche se non mancano tanti altri casi, a trovarsi in questa condizione - dice il Garante per i diritti dei detenuti, Carlo Mele. Quando tornano in libertà non hanno dove andare o a chi appoggiarsi. Si trovano fuori dai penitenziari, ma di fronte a non pochi problemi". Nel provvedimento di Gambacorta si evidenzia che "con la consegna del kit si fornisce ai beneficiari il necessario per rispondere ad esigenze primarie (pasti, mobilità, necessità di comunicazione), consentendo la sopravvivenza dignitosa per i primi giorni susseguenti la scarcerazione". I detenuti in uscita avranno, dunque, biglietti per i trasporti regionali, buoni per l’acquisto di alimentari e beni di prima necessità, una scheda telefonica. "Il territorio di riferimento per l’attuazione delle azioni previste nel progetto coincide con la provincia di Avellino e, nello specifico, con i tre istituti penitenziari di Ariano Irpino, Avellino - Bellizzi e Sant’Angelo dei Lombardi", spiega il provvedimento approvato dal presidente di Palazzo Caracciolo. L’investimento complessivo previsto è pari a 7.000 euro. Questa è una delle iniziative che sta portando avanti il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Avellino per l’assistenza ai reclusi ospitati nelle Case circondariali irpine. Le visite continue presso gli istituti del territorio hanno permesso a Mele di redigere un quadro dettagliato della condizione che vivono i detenuti. Il garante irpino ha pubblicato "L’indagine conoscitiva sul sistema carcerario della provincia di Avellino - Stato dell’arte e prospettive", realizzata in collaborazione con la "Fondazione Giacomo Brodolini". Una fotografia sullo stato del sistema penitenziario in Irpinia, mettendo in evidenza le criticità ma anche i punti di forza. Il lavoro di indagine si è focalizzato su tre aspetti fondamentali: la giustizia, la salute e il trattamento. Trento: "carcere, l’accordo non si tocca" di Marika Damaggio Corriere del Trentino, 1 settembre 2017 Il governatore Rossi: "Ho scritto a Orlando". Civico: "Pronti a trattare in cambio di competenze". La nomina sarà formalizzata con la ripresa dei lavori d’Aula. "Già nelle prime sedute, in ottobre", rimarca Mattia Civico. Il Garante dei detenuti, spiega il consigliere provinciale del Pd, sarà la congiunzione oggi mancante tra Provincia, Stato e amministrazione della casa circondariale di Spini di Gardolo. Ancora: la figura giusta che potrà riunire le anime che nel 2008 diedero vita all’accordo sul nuovo carcere. Sul mancato rispetto della capacità detentiva definita in origine, anche il governatore Ugo Rossi attende risposte: "Ho chiesto un incontro con il ministro Andrea Orlando - spiega - Per me l’accordo è ancora valido: i numeri sono superiori a quanto stabilito". La dicotomia, tra le premesse originarie e l’aumento successivo della capacità detentiva, da tempo preoccupa il direttore del carcere di Spini, Valerio Pappalardo (Corriere del Trentino di ieri). La capienza iniziale, 240 persone, negli anni è stata aggiornata unilateralmente dal ministero della giustizia, arrivando a 320 ospiti attuali. Un problema che Piazza Dante sta cercando di risolvere: "Ci rendiamo conto che la situazione carceraria in Italia è complessa, ma i numeri dell’accordo sono e devono restare quelli stabiliti, altrimenti mettiamo a rischio le attività di formazione previste". Per ora il dicastero ha evaso le aspettative della Provincia. "Attendiamo perché non abbiamo avuto risposte convincenti". "Con la nomina del garante, nelle primissime sedute dell’autunno, finalmente avremo tutti gli elementi per ricostituire il tavolo tra Stato e Provincia e analizzare la situazione", fa eco Civico. Sia chiaro: non è questione di sovraffollamento. "A Spini i metri quadrati a disposizione sono negli standard ma siamo comunque davanti a un oggettivo sovrannumero rispetto all’accordo del 2008" ribadisce. C’è un ulteriore aspetto che Civico sottolinea: "Ciò che dobbiamo garantire è il pieno recupero delle persone detenute, attraverso attività trattamentali efficaci". Quali i margini di manovra in un contesto rigidamente normato dal ministero? "Nell’ottica di una revisione dei rapporti tra Stato e Provincia, si può implementare il nostro impegno finanziario, assumendo nuove competenze, anche nelle attività trattamentali". Oggi, per capirci, l’assistenza sanitaria è già a carico dell’unità di emergenza del Santa Chiara, anziché con figure interne. "Con un contributo aggiuntivo, ancorandoci alle realtà locali, si potrebbe così aumentare l’inserimento lavorativo ed educativo". Tutto ciò, chiaramente, per amplificare il recupero. Cagliari: in carcere tantissimi malati psichiatrici. Don Cannavera "situazione pesante" sardegnaoggi.it, 1 settembre 2017 "La situazione dei detenuti è molto sofferente: oltre la metà sono casi psichiatrici, i detenuti con cui abbiamo parlato si sono lamentati di stare sempre chiusi, di non svolgere attività, insomma una situazione pesante". Sono le parole di Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità La Collina, che ieri ha visitato il carcere di Uta assieme a una delegazione del Partito Radicale italiano: "Siamo appena usciti e abbiamo visto scene abbastanza dolorose, un detenuto si è sentito male. Qui abbiamo trovato una buona accoglienza e professionalità degli operatori, sia polizia penitenziaria che il direttore. Ma la situazione dei detenuti - afferma Cannavera - è molto sofferente: oltre la metà sono casi psichiatrici, i detenuti con cui abbiamo parlato si sono lamentati di stare sempre chiusi, di non svolgere attività, insomma una situazione pesante. Ci sono molti detenuti, 615, manca personale della polizia penitenziaria, gli educatori sono solo 9. Qualcuno definisce questa situazione una discarica sociale". Una situazione confermata da Irene Testa (Partito Radicale): "Quello di Uta più che un carcere è un ospedale psichiatrico. Su 600 detenuti più della metà sono malati psichiatrici e tossicodipendenti. Nel corso della visita c’è stato un tentativo di autolesionismo di un ragazzo che soffre di una patologia psichiatrica". Rovigo: il calzaturiero sbarca in carcere, presto un lavoro per i detenuti rovigooggi.it, 1 settembre 2017 L’idea di due imprenditori artigiani del settore di Villanova del Ghebbo che hanno proposto un percorso di formazione e pratica per i carcerati. Grandi spazi inutilizzati e poche imprese che hanno intenzione di investire ma una ipotesi c’è ed anche abbastanza concreta. Parliamo del carcere di Rovigo e della proposta di due imprenditori artigiani di Villanova del Ghebbo che hanno proposto all’istituto carcerario una convenzione per insegnare ai carcerati a lavorare nel settore calzaturiero, fuori e dentro il penitenziario. Si chiamano Grazia Sterza e Antonio Chiggio e sono due imprenditori artigiani dell’azienda Redmond di Villanova del Ghebbo e hanno avuto un’idea: investire su un programma di formazione e pratica in carcere. "Stiamo mettendo a punto come portare dei materiali, magari quelli più piccoli, direttamente in carcere – spiegano.Ma vorremmo consentire anche il lavoro direttamente nella nostra azienda". "Si tratta di un lavoro dove la manodopera si sta esaurendo e imparare il lavoro non è facile, ci vuole tempo - continuano i due imprenditori. Abbiamo pensato che potrebbe essere una buona opportunità per i carcerati". Una idea che è piaciuta molto alla direzione dell’istituto carcerario, così come alle associazioni che da sempre spingono per fornire ai carcerati attività lavorativa. Un modo per favorire il reinserimento dei carcerati una volta scontata la pena e allontanarli dalla possibilità di tornare a commettere reati. Rovigo: non solo un carcere, c’è gente che lavora e con tante idee per il futuro rovigooggi.it, 1 settembre 2017 Nasce un tavolo di confronto tra associazioni e amministrazione carceraria organizzato dalla Cgil-Fp Polizia penitenziaria. "Alziamo la testa contro le difficoltà". I problemi al nuovo carcere, ormai inaugurato da un anno, sono sempre gli stessi. Ma per chi ci lavora o ci entra in contatto non ci sono solo cose negative da segnalare, come la mancanza di personale, ma molto di positivo da rendere noto ed implementare. Per questo nasce un tavolo di confronto permanente che raggruppa tutte le realtà che ruotano intorno all’istituto carcerario che avrà il compito di continuare a combattere per ottenere ciò che il carcere necessita ed allo stesso tempo trovare idee soluzioni e proposte di crescita Rovigo - Le criticità sono ben note ma associazioni, sindacati e polizia penitenziaria hanno voglia di far conoscere alla città tutto il loro impegno, i progetti in cantiere e la volontà di rendere un carcere con un potenziale incredibile finalmente degno di note positive. Per fare questo, nel pomeriggio di giovedì 31 agosto, su proposta della Cgil regionale fp polizia penitenziaria è stato dato avvio ad un tavolo di lavoro che comprende tutte le associazioni che ruotano intorno al carcere aperto alla politica e a chi abbia idee propositive per il carcere di Rovigo. Ad aprire l’incontro, il direttore dell’istituto carcerario Paolo Malato: "Ormai tutti lo sappiamo il carcere è stato inaugurato da un anno e siamo in carenza di personale ma non posso che dare atto alla polizia penitenziaria in servizio perché stanno facendo un grande sforzo e lavorano con impegno a fronte delle numerose difficoltà. Abbiamo un sacco di spazi inutilizzati, poche possibilità di utilizzarli e nessuno che ci vuole investire. Oggi siamo qui anche per questo. Per trovare idee e soluzioni, con l’idea di questo tavolo che accolgo molto volentieri". "Se non leggete sul giornale di morti in carcere o eventi gravi è solo grazie al lavoro che svolge il personale, un grandissimo sforzo visti i numeri ridotti il personale stanco da turni troppo lunghi e straordinari ed un conseguente abbassamento dei livelli di sicurezza. Siamo una quarantina di poliziotti per 132 detenuti - spiega il comandante della polizia penitenziaria Sandra Milani. Ma vogliamo parlare anche di cose belle: questo è un istituto che offre grandi possibilità, nel futuro vorremmo tanto creare polo lavorativo, portare le aziende all’interno ma serve che vanga aperto anche il terzo piano dove sarebbero ospitati detenuti con pene più lunghe e la possibilità quindi di intraprendere un percorso lavorativo, ma anche per quello serve più personale". Presente, a fianco del comandante, anche l’atleta campionessa italiana di canoa, Francesca Zanirato, che rappresenta la polizia penitenziaria nel suo sport in giro per l’Italia e per il mondo. La richiesta dell’incontro e la nascita del tavolo arriva grazie al segretario regionale Cgil fp polizia penitenziaria Giampietro Pegoraro. "Oggi siamo qua per lanciare ed accogliere proposte grazie anche alla collaborazione con le associazioni e l’unione camere penali, sempre presenti - spiega Pegoraro - La proposta è quella di istituire con l’amministrazione dell’istituto un tavolo di confronto permanente. Anche noi come sindacato abbiamo denunciato i problemi ma la parte più difficile ora è proporre soluzioni: ecco a cosa serve il tavolo. Chiaramente ci serviremo anche dell’onorevole Diego Crivellari - che era presente all’incontro - per incontrare il ministro Andrea Orlando e il sottosegretario Gennaro Migliore per spiegare cosa facciamo di buono e cosa ci serve". Interviene poi, durante l’incontro, anche Livio Ferrari, per il Centro Francescano di ascolto: "Questa mattina abbiamo gettato le basi per una convenzione con il conservatorio che permetta l’attività musicale in carcere dove ci sono tantissimi strumenti, 12 chitarre e persino un bassotuba nuovo di zecca". Presenti anche il presidente del Csi, Andrea Denti, che opera all’interno del carcere con attività sportive come calcetto, corso per arbitri e corsi di scacchi, la presidente dell’Avis Barbara Garbellini, il referente di unione camere penali Michele de Bellis e il responsabile dell’osservatorio del carcere di Rovigo Marco Casellato. A chiudere l’incontro l’onorevole Diego Crivellari: "Sono venuto ad ascoltare, apprendere e supportare - spiega - comunque è evidente la necessita di sfruttare le potenzialità e continuare a sollevare il problema della carenza di personale. Non possiamo abbassare la guardia continueremo a fare tutte le pressioni a Roma. Il 18 settembre in visita al carcere di Rovigo arriverà il sottosegretario Gennaro Migliore". Avezzano (Aq): la nuova commedia de "Je Concentraménte" in scena nel carcere avezzanoinforma.it, 1 settembre 2017 Domenica 3 settembre la compagnia teatrale "Je Concentraménte" dell’associazione culturale Parrocchia Madonna del Passo porterà in scena, nel carcere "San Nicola" di Avezzano, l’opera inedita in 2 atti, scritta e diretta da Raffaele Donatelli dal titolo "Je diàvele che te se ‘ngolla". L’associazione opera, ormai da tempo, all’interno della struttura con laboratori teatrali con detenuti, educatori e polizia penitenziaria, coinvolgendo altre associazioni di volontariato come l’Unitalsi. Il teatro in carcere è un forte strumento di cambiamento per gli attori-detenuti, ma è anche un mutamento del mondo carcerario a sostegno della legislazione più avanzata, che persegue l’obiettivo del reinserimento in società di chi vive l’esperienza del carcere. Obiettivo pienamente condiviso e sostenuto da tutto il personale dell’istituto. Domenica 3 settembre i detenuti saranno spettatori dell’ultima commedia scritta e diretta da Donatelli, nella speranza che quell’amplificatore emotivo che è il teatro possa portare con delle sane risate due ore di evasione a chi è stato più sfortunato e vive un periodo di disagio. Interpreti della commedia saranno Stefania Antidormi, Giulia Antonini, Nice Appugliese, Sergio Berardi, Roberta Biagiotti, Edda Comegna, Raffaele Donatelli, Lillina Franchi, Piergiorgio Iannuzzi, Piero Iannuzzi, Fabio Leone, Fabrizio Lustri, Danilo Mandato, Maurizio Pelliccione, Massimo Petrini, Serena Pisotta, Gisella Venditti, Orlando Viscogliosi. Tecnici: Gianni De Amicis, Enrico Graziani, Valerio Iacobucci. Pubbliche relazioni: Teresa Maceroni, Silvio Di Loreto. Disegni: Antonio Del Rosso. Musiche originali: Giuliano Graziani. Venezia: migranti, carcere, giustizia nella Mostra degli outsider di A.B. giustizia.it, 1 settembre 2017 Fra star hollywoodiane e produzioni milionarie, è il cinema italiano alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, a distinguersi per affrontare, spesso con pochi mezzi, i più scomodi temi del presente: migranti, criminalità, carcere e giustizia (anche sociale). Accade soprattutto nelle sezioni riservate agli autori e ai nuovi linguaggi - Settimana della critica, Orizzonti, Giornate degli Autori, Cinema nel giardino - dove tuttavia non troviamo altrettanto interesse alla realtà in opere di altri Paesi. Le tensioni delle ondate migratorie e la crisi d’identità culturale che ne derivano sono al centro dell’Ordine delle cose di Andrea Segre (Proiezioni speciali - 31 agosto). Nel film, a dover scegliere tra legalità e umanità non è un cooperante o un’attivista sociale, ma un alto funzionario del Ministero dell’Interno specializzato in missioni internazionali contro l’immigrazione irregolare che, dopo l’incontro con una donna somala in Libia, deve rivedere convinzioni e valori. Sempre in tema di fenomeni migratori e della loro portata planetaria, presentazione stasera anche del documentario; Human Flow per realizzare il quale il regista cinese dissidente Ai Weiwe ha visitato 40 campi migranti in 23 Paesi. Un’opera che è doveroso citare, anche se non italiana, perché è una delle poche in concorso che affronti argomenti di rilevanza epocale senza ricorrere a fantascienza, western e musical. Problemi e vitalità di un ambiente multietnico sono raccontati infine da Abel Ferrara in Piazza Vittorio (Fuori concorso, 7 - 8 settembre), documentario girato dal regista de Il cattivo tenente nel quartiere romano in cui si è trasferito da anni. Tra gli intervistati appare un altro "immigrato" illustre: Willem Dafoe. Almeno quattro i film che parlano, in maniera più o meno diretta, di carcere e di lotta ai grandi poteri criminali. La legge del numero uno di Alessandro D’Alatri (Giornate degli Autori, Evento speciale, 5 settembre) segue l’attesa di un colloquio con il magistrato di sorveglianza di tre detenuti, diversi per estrazione sociale e reati, ma tutti convinti che solo chi riuscirà ad entrare per primo otterrà il permesso premio. Il cortometraggio è il terzo tratto dai Racconti dal carcere del premio Goliarda Sapienza con il quale il regista collabora da anni (con i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile "C. Beccaria" ha diretto la web serie di Rai Fiction La scuola della notte). Nella Vita in comune di Edoardo Winspeare (Orizzonti, 2 settembre), la poesia e la bellezza sono gli strumenti con; i quali il malinconico sindaco di un piccolo centro del Sud più remoto, l’immaginario Disperata (in fondo solo un "peggiorativo" del reale Depressa dove è nato l’autore), converte all’arte e a nuovi valori due detenuti il cui sogno era diventare dei boss. Un cambiamento che sembrava impossibile e che innesca una rinascita di tutto il paese. Con Manuel (Cinema nel Giardino, 8 settembre) Dario Albertini sceglie per il suo primo lungometraggio di finzione un racconto di formazione, avvalendosi dell’esperienza del documentario La città dei ragazzi. Il protagonista, ormai diciottenne, viene dimesso dalla struttura per minori privi di riferimenti familiari e si confronta con una libertà difficile che non gli restituisce l’affetto della madre detenuta. Ambientato a Civitavecchia e Tarquinia, il film è stato sostenuto dalla Civita Film Commission. Nel cortometraggio di Elio Di Pace Le visite (Settimana della critica, 2 settembre) sono i "colloqui",in lessico penitenziario, che ogni lunedì un giovane detenuto "effettua" con la madre e la zia. In realtà il film racconta il rituale della preparazione di alimenti e indumenti che le due donne porteranno al detenuto. Una specie di equilibrio, rotto dalla decisione del padre del ragazzo di collaborare con la giustizia. Corruzione degli uomini e dell’ambiente, lotta ai grandi poteri criminali condotta dai singoli più che dalle istituzioni, sono il temi comuni a due film diretti da altrettanti registi campani, Vincenzo Marra e Diego Olivares. In Equilibrio Marra racconta due sacerdoti della "Terra dei fuochi" che lavorano per il bene affrontando il male in maniera diversa, uno accettando compromessi, l’altro procedendo in piena coerenza con i suoi principi. Nel casertano devastato da esalazioni e corruzione; è ambientato anche Veleno di Diego Olivares (Settimana della critica - Evento Speciale di chiusura, 9 settembre). A resistere contro intimidazioni e subdole mediazioni con la camorra, nonostante i problemi economici e un cancro causato dal veleno degli smaltimenti abusivi, è un piccolo allevatore di bufale che rifiuta di consegnare la propria terra a un destino di contaminazione. l film è prodotto da Minerva film e da Gaetano Di Vaio con I figli del Bronx, oggi tra le più importanti produzioni indipendenti del cinema italiano con all’attivo documentari, corti e lungometraggi che affrontano il degrado delle periferie sociali, fra criminalità, tossicodipendenza e carcere. Di Vaio, anche scrittore (Non mi avrete mai ed. Einaudi) ed attore (è stato Il baroncino nella serie Gomorra) ha conosciuto il riformatorio, la tossicodipendenza e anche sette anni di carcere (è uscito nel 1998), utilizzati per studiare, documentarsi e porre le basi per un futuro diverso. Un passato che, una volta tanto, è utile ricordare perché è una sfida vinta su un destino segnato, una storia non solo di riscatto ma anche di realizzazione personale. Un percorso duro ma possibile anche per i figli i tutti i bronx. Il virus dell’odio e i falsi terapeuti di Massimo Giannini La Repubblica, 1 settembre 2017 Ora sappiamo di cosa parla Marco Minniti, che di fronte "all’ondata migratoria" dice di aver temuto "per la tenuta sociale e democratica del Paese". Se ci guardiamo intorno, in questo desolato panorama italiano, vediamo moltiplicarsi i focolai di un ordinario odio razziale. Latente, e al tempo stesso terrificante. Tiburtino III, disperata periferia romana trasfigurata per un pomeriggio in una banlieue di Parigi o in un ghetto di Los Angeles, è solo l’ultimo di una lunga teoria di violenze covate, compresse ma pronte a esplodere. Dobbiamo dirlo, con la drammatica consapevolezza che impone la fase. In questo esausto lembo di Occidente, il discorso social-xenofobo rischia davvero di vincere la partita del consenso. "Noi", i "forgotten men" vittime dell’impoverimento globale e dello smarrimento identitario, contro "loro", i disperati senza patria che rubano la nostra terra, la nostra casa, il nostro lavoro. Uno schema ideologico costruito sull’incrocio fatale tra disagio economico e malessere identitario, e dunque di sicura presa psicologica e mediatica in questa Europa sempre più svuotata di senso. È questo il virus che gli impresari della paura, politicanti travestiti da falsi terapeuti, inoculano nelle vene di un Paese già provato dalla crisi. Ed è questo il messaggio che arriva e fa breccia non più solo nella testa e nel cuore degli italiani che, ai margini dei centri metropolitani e dei servizi residui del Welfare, vivono la prossimità sulla propria pelle, come "penultimi" assediati dagli "ultimi". Ma anche in quel che resta dei ceti medi, desertificati da una disoccupazione spietata e bombardati da una "narrazione" avvelenata. Come scriveva Zygmunt Bauman, lo "straniero alla nostra porta" è la costruzione di un capro espiatorio utile a distrarre il popolo dalle vere emergenze. A ingenerare il "panico morale", cioè quella forma di risentimento spaurito che ti fa guardare a chiunque sia diverso da te con gli occhi del nemico. Tutto questo sta accadendo, qui ed ora. Intendiamoci. Non saremo mai noi a negare che i flussi migratori vadano assolutamente gestiti, e nei limiti del possibile controllati insieme a un’Unione europea che finora ha voltato altrove il suo cinico sguardo. Non saremo mai noi a negare che il sistema in questi anni non ha funzionato, alimentando un circuito nel quale i richiedenti asilo sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo e abbandonati a se stessi negli Sprar o nei Cie hanno ingrossato le file della disperazione e ingrassato le casse della criminalità. Non saremo mai noi a negare che il problema non si risolve evocando genericamente il dogma dell’accoglienza, declinata quasi come un esorcismo. Ma mentre ribadiamo tutto questo, non possiamo non vedere l’orrore di quello che accade ed è accaduto intorno a noi, in questo infuocato agosto italiano. Non possiamo non vedere che al Tiburtino III, qualunque cosa sia successa in quel centro della Croce Rossa e qualunque sasso abbia brandito quel profugo eritreo, un gruppo di romani ha provato a farsi giustizia da sé, con un raid punitivo. Non possiamo non vedere che dopo gli stupri di Rimini, per i quali sono sospettati profughi magrebini, gli odiatori del web e i volenterosi carnefici della Lega si sono scatenati contro Boldrini e le donne del Pd, augurando loro un "trattamento" analogo. Non possiamo non vedere che a Pistoia don Massimo Biancalani è stato "crocifisso" dalla Rete e "processato" da Salvini e da Forza Nuova per aver postato su Facebook una foto in cui una quindicina di profughi ghanesi affidati alla sua parrocchia facevano il bagno in piscina. E avevano persino l’impudenza non solo di esistere, ma persino di "sorridere". Non possiamo non vedere che a Cagliari un venditore ambulante senegalese ha rischiato di essere linciato da un gruppo di villeggianti campani, che rivendicavano il diritto di prendersi la sua merce senza pagarla. Non possiamo non vedere che a Margherita di Savoia due turisti cubani che avevano prenotato un soggiorno in un bed & breakfast sono stati rifiutati dal gestore "perché neri". Sono frammenti di intolleranza, ai quali ci siamo tragicamente assuefatti. Ricordano Crash, il capolavoro cinematografico di Paul Haggis, il cui sottotitolo (non per caso) era "Contatto fisico", e in cui ogni scena nella quale i bianchi e i neri condividevano un luogo o un diritto era l’occasione potenziale di un conflitto, materiale o verbale. Il film di questa brutta estate tricolore evoca quasi le stesse atmosfere. La destra di piazza impone la sua egemonia, e la sinistra da salotto non è più capace di spiegare, a se stessa e all’opinione pubblica, che c’è ancora un modo per coniugare diversità e solidarietà, legalità e civiltà. È un problema di valori, è un problema di linguaggi. Se il tema migranti si affronta sempre e solo nei termini di un’Apocalisse, le risposte del senso comune saranno sempre e solo apocalittiche. Il governo sta tentando di offrire soluzioni. Il ministro dell’Interno sta provando a elaborare una strategia. Per evitare che salti "la tenuta sociale e democratica del Paese" non bastano interventi "esemplari", come il codice per le Ong o gli sgomberi con i manganelli. Servono la fatica e la responsabilità di una politica che sappia discernere, spiegare, e poi decidere. Una politica che abbia un orizzonte vasto, molto più lontano delle prossime elezioni. Altrimenti, nella condizione fragile e spaurita in cui viviamo, il timore di Minniti rischia di diventare altro: una profezia che si auto-avvera. L’odio? È sempre esistito, ma ora è stato sdoganato di Savino Pezzotta Il Dubbio, 1 settembre 2017 Come sono cadute le barriere che arginavano l’intolleranza. L’odio è un sentimento che da sempre appartiene alla dimensione umana. La consapevolezza che non tutti i sentimenti umani tendono al positivo non ci esime dal verificare come questi vengono declinati nella realtà in cui viviamo. Anche su questo terreno ci troviamo a fare i conti con profondi cambiamenti e in particolare sono venute meno quelle forme di controllo e di orientamento morale che trattenevano l’insofferenza e la trasformazione del rancore e del risentimento in odio. Un tempo l’odio era bandito o per lo meno tenuto nascosto, oggi lo si può manifestare liberamente. Viene indirizzato verso i politici che sono indicati come tutti corrotti e inadeguati, i sindacati come incapaci di tutelare il lavoro e poi in modo sempre più esteso verso gli immigrati accusati di rubarci la casa, il lavoro e di occupare i nostri spazi vitali e sociali. Sì, odiamo gli altri, i diversi per cultura, aspetto e stili di vita: l’odio e la sua figlia primogenita l’intolleranza si riversa sulle donne (cosa vogliono ancora?); sugli ebrei (basta con questa storia del genocidio); sui Rom e i nomadi (tutti ladri e irregolari); sugli omosessuali (ma che non si facciano vedere) e ora, sull’onda dell’immigrazione, verso gli islamici che dovrebbero andarsene anche se vivono in Italia da molto tempo e parlano la nostra lingua (il terrorismo non è forse islamico?). Certamente alcuni atteggiamenti di intolleranza sono sempre esistiti, ma ora non si teme nel manifestarli e a urlarli. A volte, a essere in difficoltà sono le persone tolleranti e aperte che spregiativamente vengono definite buoniste. Mentre chi insulta, diffonde semi di odio e di intolleranza si gonfia il petto e trova udienza da parte di politici che propongono di usare la ruspa e che non perdono occasione per alimentare dubbi, sospetti e pregiudizi. La questione di fondo è che non c’è più riguardo nell’esternare disprezzo e ostilità verso le persone più deboli e diverse. Purtroppo oggi, l’odio viene sposato da politici in cerca di consenso elettorale. C’è una sorta di irresponsabilità che porta a non imputare il pensiero negativo che si semina o si lascia circolare. Si consente, per una manciata di voti, che il corpo sociale sia contaminato e pervertito. Quando si parla di odio e della diffusione del suo linguaggio, solitamente, facciamo riferimento al lessico e alle frasi che corrono sulla rete. Troppe volte ci si dimentica che la genealogia dell’odio sta dentro anche la politica. Per troppo tempo abbiamo pensato, con Carl Schmitt, che la sostanza della politica moderna risiedesse nella dialettica amico/ nemico. È sembrato normale assumere l’idea di nemico per indicare il competitore politico, senza pensare che la costruzione del nemico evoca la sua sconfitta e il suo annientamento. Ma chi è oggi il nemico? In ogni caso è sempre il diverso da noi, è colui che non si lascia assimilare, omologare e che pratica stili di vita che non condividiamo. Dalla politica la dimensione del nemico tende inevitabilmente ad estendersi alla società: è l’immigrato perché mi "ruba" il lavoro, perché penetra nel mio spazio e introduce dubbi nelle mie certezze, perché ha una religione e una pelle diversa dalla mia e idee diverse dalle mie. Ho l’impressione che, complessivamente, ci si sia tutti rassegnati all’idea che un mondo più umano non sia possibile e che tutti devono competere con tutti e che l’economico sia l’unico terreno su cui agire, e che non si possa esercitare un controllo umano sulla storia e sul futuro. Al venire meno delle proposte politiche di orientamento social- solidale di matrice socialista e cristiana e con il trionfo dell’ideologia liberista che ha teso ad annullare le differenze e la dialettica, si è venuto a formare un vuoto sociale e politico che si cerca di riempire con forme e modelli di ideologia identitaria e securitaria: il nemico va fermato e respinto e se questo non è possibile circoscritto. Si viene così a formare un modo di pensare e di agire che potremmo definire come una nuova forma della banalità del male che non rifiuta di odiare. Si è inoculato un virus che rischia, se non mettiamo in campo i vaccini necessari, di infestare le relazioni sociali. Trovo che i sintomi della malattia si possano vedere nel dibattito sullo ius soli, dove, senza vergogna, vediamo propagandare la necessità una cittadinanza di seconda classe. Chi ama la libertà deve contrastare l’odio e l’intolleranza, il fanatismo identitario e ogni forma di integralismo. La democrazia è un sistema aperto che si fonda sulla legittimità delle differenze e che fa del pluralismo un terreno di vita e di arricchimento. Mi rendo conto che l’incertezza del lavoro, nelle relazioni sociali, il permanere e il generarsi di risentimenti provocati dalle disuguaglianze, come la terribile insicurezza che agita il nostro inconscio con la presenza permanente del terrorismo, possono generare dei mostri. Mai come ora il termine resistenza assume un nuovo e particolare significato. Migranti. "Lezioni d’italiano e corsi professionali per tutti i rifugiati" di Francesco Grignetti La Stampa, 1 settembre 2017 Il progetto del Viminale affida il compito alle Regioni. "Solo così i profughi cammineranno sulle loro gambe". Oltre che accogliere, integrare. È il mantra del ministro Marco Minniti da mesi. Lo ripete ad ogni occasione pubblica. "Porre l’accento solo sull’accoglienza - diceva recentemente a una Festa dell’Unità - non significa fare una buona politica. Le politiche dell’accoglienza hanno un limite oggettivo che è la capacità di integrazione. Se vogliamo difendere la nostra democrazia, l’accoglienza deve avere il limite nella capacità dell’integrazione". Ecco, è l’integrazione la nuova frontiera del Viminale. In questo senso, ad esempio, Minniti sostiene la legge sullo "Ius soli". Ma non basta. Il ministero dell’Interno si prepara a lanciare un nuovo grande piano per l’integrazione di chi è stato accolto come rifugiato. Integrazione: ovvero accompagnare lo straniero regolarizzato, quello che s’è visto accogliere la domanda di asilo politico o asilo umanitario, ad accettare le regole e la cultura del Paese che lo ospita. Allo stesso tempo insegnargli a camminare sulle proprie gambe. E perciò, primo, occorrono corsi di lingua perché se lo straniero non parla italiano non potrà mai trovare un lavoro. Secondo, il rifugiato deve essere formato e avviato al lavoro. Al riguardo c’è un piano in preparazione al Viminale. Se il 2016 è stato segnato da un accordo con l’Anci per coinvolgere il maggior numero possibile di Comuni affinché si allargasse il sistema Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati), ora è tempo di stringere un altro accordo con le Regioni perché la formazione professionale e l’avviamento al lavoro è innanzitutto una competenza loro. "Occorre una seconda gamba al sistema dello Sprar", riconosce il sottosegretario Domenico Manzione, che al ministero dell’Interno da diversi anni segue la problematica dell’immigrazione. "Era una falla nel sistema prevedere soltanto l’accoglienza, il vitto e l’alloggio, ma ben poco per l’integrazione". Non siamo all’anno zero. Qualche esperienza pilota c’è e funziona. A Bologna, per dire. Ci sono accordi con Confcommercio e Confindustria. È in vigore una convenzione con il Coni. Se però si vuole far funzionare sul serio lo Sprar, di cui sono protagonisti circa 1100 Comuni che hanno aderito volontariamente al progetto, è indispensabile che anche le Regioni facciano la loro parte e che lo facciano in maniera integrata, senza interventi spot. Con il calo drastico dei numeri negli sbarchi, peraltro, tutto diventa più maneggiabile. Come si articolerà il piano, si vedrà. C’è tutto l’autunno per definirlo nei dettagli. Già oggi, comunque, le Regioni incamerano importanti finanziamenti europei per la formazione, il che significa un’infinità di corsi sia di base che di aggiornamento. Si fa formazione nelle aree pesca-agricoltura, costruzioni, chimico, sanitario. Ma su tanto altro: macchine movimento terra, ristorazione, comunicazione e marketing digitale, allevamento animali produttivi, cuoco di bordo, tecnico dei giardini, programmatore di computer. E si potrebbe continuare all’infinito. Per attivare nuovi corsi finalizzati all’integrazione dei rifugiati, a cui potrebbero partecipare anche i Comuni e le associazioni del Terzo settore, peraltro, c’è a Bruxelles uno specifico Fondo Asilo Migrazione e Integrazione. Ma occorrono idee chiare e progetti finanziabili. Ora, non che al ministero dell’Interno si illudano che questa dei corsi di formazione sia la bacchetta magica. "Con la crisi che c’è... Ma l’alternativa non può essere l’attuale, di lasciarli ai giardinetti oppure a chiedere la carità per le strade", sospira Manzione. Nè si nascondono che molti corsi regionali sono una burla. Indimenticabili i corsi da maestro di sci che qualche anno fa furono organizzati dalla Regione Campania, messi alla berlina da Gian Antonio Stella. È però matura la convinzione che si deve pur cominciare a istituzionalizzare i percorsi di integrazione. Altrimenti i rifugiati saranno inesorabilmente destinati alla marginalità e all’illegalità. Non a caso, ieri, il Capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, diceva: "L’integrazione è una opportunità da utilizzare per salvaguardarci dalla criminalità e dal terrorismo.... L’illegalità porta a commettere reati, diventa terreno di reclutamento per le organizzazioni criminali ma anche per il terrorismo di matrice religiosa". Le scene dei rifugiati somali e eritrei (non immigrati clandestini) che a Roma sostano sotto il palazzo di piazza Indipendenza e che tutt’oggi, a otto giorni dallo sgombero, non sanno dove andare e perciò trascorrono la notte all’addiaccio, sono esattamente quello che al Viminale vogliono scongiurare. La mancata integrazione che diventa tensione, chiusura, scontro di piazza, odio e può diventare persino terreno fertile per la radicalizzazione islamista. Migranti. In fuga attraversando il Mar Nero, ora i profughi sbarcano in Romania di Niccolò Zancan La Stampa, 1 settembre 2017 Siriani e iracheni, chiusa la rotta balcanica, cercano nuove vie per l’Europa. Le autorità romene hanno allestito dei tendoni per offrire pasti ai profughi siriani e iracheni. Il peschereccio Emek 1 è ancora ormeggiato al porto, sotto al diluvio, poco lontano dal "Maritimo Lounge Bar". Potrebbe trasportare al massimo dieci persone. Ma l’11 di agosto da lì sono sbarcati in 69: trenta uomini, dieci donne, ventinove bambini. Tutti migranti siriani e iracheni. È stato quello il momento in cui in Romania hanno capito che stava succedendo qualcosa di nuovo. Il Mar Nero deve il suo nome alla pericolosità. È squassato da rovesci improvvisi e tempeste. Gli antichi greci lo chiamavo "mare inospitale". Non è mai stato facile attraversarlo. E invece, stanno arrivando. Dalle coste della Turchia ci vogliono quasi due giorni di navigazione. Il secondo barcone è stato intercettato il 20 agosto, quando ormai era già in vista a occhio nudo dalle spiagge. A bordo portava altri settanta migranti. Quasi tutti siriani. "Erano affamati, sofferenti, stravolti da un viaggio molto duro", racconta Claudia-Andreea Corbu, reporter del giornale locale Replica de Costanza. "Sono stati soccorsi, alcuni hanno avuto bisogno di cure mediche. Ma non sappiamo dove siano stati portati. La Romania non è un Paese ricco che può farsi carico da solo di questa situazione. La gente incomincia ad essere impaurita". Da allora è successo ancora, con barche persino più piccole. Tre giorni fa è stata soccorsa una donna di Aleppo incinta all’ottavo mese. Nessuno conosce la contabilità esatta degli sbarchi. Non è facile ottenere informazioni dalla guardia costiera. Ma sono già sette i trafficanti di uomini finiti a processo davanti al tribunale di Costanza durante l’estate. Gli ultimi due si chiamano Petros Petridis e Peter Spasov, un cipriota e un bulgaro. Questa è la zona più ricca della Romania, l’estremo est. Il porto di Costanza è collegato a Bucarest attraverso una autostrada moderna lunga 200 chilometri. Passano le merci, arrivano i turisti. Ovunque puoi vedere cliniche dentistiche che offrono prestazioni a basso costo. Casinò. Nuovi palazzi in costruzione davanti al mare rigonfio di pioggia. Dopo altri quaranta chilometri di costa, si raggiunge Mangalia, l’ultima città romena prima del confine bulgaro. "Il fatto è che noi abbiamo sette resort di proprietà comunale", dice il sindaco Christian Radu. Ed elenca i nomi: Saturn, Jupiter, Neptune… "Proprio qui sgorgano acque termali. La gente viene a riposarsi. Abbiamo 40 mila residenti e 200 mila turisti all’anno. Non eravamo preparati". Nel suo piccolo ufficio al primo piano del "Municipiului", apre la mappa sul telefonino per spiegare la situazione: "Dalla Grecia non si passa più. La Bulgaria ha muri e militari schierati al confine, così come ha fatto l’Ungheria, lungo le frontiere con la Serbia e la Croazia. E quindi, l’unico passaggio per tentare di raggiungere il Nord Europa, siamo noi. Ci stanno provando". Quest’anno sono già 2600 i migranti fermati in Romania perché cercavano di attraversare illegalmente il confine. Domenica notte, la polizia ha aperto il fuoco contro un’auto che ha tentato di forzare un posto di blocco nella città di Moravica, al confine occidentale: due migranti e un agente sono rimasti feriti. Lunedì è stato bloccato un camion che trasportava vestiti dalla Turchia alla Germania, 42 profughi erano nascosti fra gli scatoloni. È una nuova rotta. L’effetto domino di altre decisioni. Nel 2016, secondo i dati di Frontex, solo un migrante aveva tentato la via del Mar Nero. Il governo romeno è preoccupato. Laurentiu Regeba, membro del Parlamento Europeo, ha dichiarato: "Quest’estate, mentre i romeni erano presi dalle diatribe politiche e scendevano in piazza per esasperazione, nel silenzio è accaduto qualcosa di nuovo. Un fatto ignorato da molti, ma grave. I migranti in Romania si sono moltiplicati. La rotta balcanica è stata chiusa. La pressione si è quindi spostata sul Mediterraneo centrale. Ma adesso anche l’Italia è riuscita a contenere i flussi. Ed ecco che gli sbarchi sono quadruplicati in Spagna, così come da noi. È chiaro che il fenomeno sta diventando cronico". Proprio ieri, sull’altra sponda del Mar Nero, la scena è stata questa. Nel villaggio di pescatori di Cide, nel distretto turco di Kostamonu, all’alba hanno visto arrivare tre pullman carichi di persone. Troppe per passare inosservate. Qualcuno ha chiamato la polizia. Quando gli agenti sono arrivati, 146 migranti erano già per mare, molti di loro erano bambini, sono stati inseguiti e bloccati dalla guardia costiera turca. Altri 82 profughi erano ancora sulla spiaggia, in attesa di partire. Nessuno conosce il loro destino, dove siano adesso esattamente. In quali condizioni. Quello che sappiamo è che scappavano dalla Siria. Come molti altri che hanno provato ad attraversare "il mare inospitale". Questa è una cronaca senza facce. Senza voci. Senza nomi. Una cronaca di tentativi invisibili. Secondo i ricercatori di Verisk Maplecroft, che tracciano un report annuale sulle moderne schiavitù nel mondo, la Romania è un Paese "ad alto rischio". Quello con il maggior incremento di sfruttamento del lavoro in condizioni miserabili nel 2017, davanti alla Turchia. Gli unici altri Paesi della zona europea citati sono Italia, Cipro e Bulgaria. Cosa succede a chi non riesce a passare la frontiera? Dove finiscono questi uomini, queste donne e i loro bambini? Qui a Mangalia non si vede niente. Continua a piovere. Il sindaco Radu ci tiene a tranquillizzare tutti. "Gli abbiamo dato da mangiare, certo. Ma poi sono stati trasferiti verso un centro per migranti, forse quello di Galati. Non sono rimasti qui per più di due ore". Tutti parlano di loro. Dei migranti. Eppure non sono mai stati così rimossi come nell’estate del 2017. Stati Uniti. I due psicologi delle torture Cia di Giuliano Battiston Il Manifesto, 1 settembre 2017 Scomparsi nei "buchi neri" dei servizi, appesi, incatenati, isolati, privati del sonno. Ma ora gli ex prigionieri Usa in Afghanistan saranno risarciti. Pagheranno gli ideologi della "guerra al terrore", vittoria senza precedenti. E stavolta il Dipartimento di Stato non muove obiezioni. Nel novembre 2002 Gul Rahman, cittadino afghano rifugiato in Pakistan, è morto assiderato in un "buco nero", una delle carceri segrete gestite dalla Cia in Afghanistan. Nell’agosto 2017 due psicologi assoldati dalla Cia sono stati costretti a risarcire i famigliari. Il risarcimento da parte degli psicologi, chiamati dalla Cia a ideare, modellare e perfezionare il sistema di interrogatori e torture dopo l’11 settembre, è una novità assoluta, nota Kate Clark sul sito dell’Afghanistan Analysts Network. E apre le porte a possibili, nuove cause legali. Che potrebbero coinvolgere, dopo molti anni di impunità, anche i funzionari governativi responsabili di abusi e torture. Che a volte hanno condotto alla morte. Come nel caso di Gul Rahman. La sua storia prende una svolta improvvisa e drammatica il 29 ottobre del 2002. Fuggito in Pakistan dopo l’invasione americana con la moglie e le quattro figlie per sfuggire alla guerra, quel giorno Gul Rahman raggiunge Islamabad per un controllo medico. Lì incontra Ghairat Bahir, genero di Gulbuddin Hekmatyar, il leader dell’Hezb-e-Islami, il gruppo armato che, fino a pochi mesi fa, ha condotto una guerriglia contro il governo di Kabul. Entrambi vengono sequestrati da agenti americani e pachistani e poi trasferiti in Afghanistan. Finiscono in uno dei tanti "buchi neri" della guerra al terrore. Luoghi occulti, gestiti dai servizi segreti, dove gli interrogatori diventano abusi e torture. A loro capita un carcere poco distante dalla capitale Kabul, in seguito noto come "Cobalt". Subiscono una serie di torture. Il genero di Hekmatyar sopravvive. Gul Rahman rimane stecchito sul pavimento di una cella, dopo due settimane di abusi da parte di un team che include anche uno psicologo, John "Bruce" Jessen. L’autopsia e il rapporto interno della Cia dicono che sia morto probabilmente per ipotermia, "in parte causata dall’essere stato costretto a stare sul nudo pavimento di cemento senza pantaloni", oltre che per "disidratazione, mancanza di cibo, immobilità" dovuta a catene troppo corte. Nessuno ritiene di avvertire la famiglia. Che lo cerca dappertutto. Invano. A lungo. Fino a quando, nel 2010, arriva un’inchiesta dell’Associated Press: è stato ucciso in Afghanistan, dopo essere finito nelle mani Cia. Gul Rahman è rimasto vittima delle tecniche di interrogatorio messe a punto da due psicologi, James Mitchell e John "Bruce" Jessen. Assoldati dalla Cia, i due hanno messo le loro competenze medico-professionali al servizio della "guerra al terrore". Un paradigma politico-militare in cui siamo ancora immersi. Dal raggio globale: intentata nell’ottobre 2015 dall’American Civil Liberties Union (Aclu), la causa contro gli psicologi oltre ai famigliari di Gul Rahman riguarda due sopravvissuti alle torture. Hanno condotto vite molto diverse, in luoghi molto distanti tra loro, prima di finire nello stesso buco nero afghano. Si tratta di Suleiman Abdullah Salim e Mohamed Ahmed Ben Soud. Il primo, pescatore, è nato a Zanzibar, in Tanzania. Sequestrato dalle forze di sicurezza keniane e dalla Cia nel marzo 2003 a Mogadiscio, in Somalia, dove lavorava e si era sposato, sottoposto a interrogatori feroci in Kenya, è finito poi nella stessa prigione di Gul Rahman, Cobalt, nei pressi di Kabul. Come lui, è stato brutalmente torturato. Trasferito nel maggio 2003 in un altro buco nero della Cia in Afghanistan, Salt Pit, vi è rimasto per 14 mesi, in isolamento. Nel luglio 2004 è stato condotto nel carcere interno alla base aerea di Bagram, 40 km a nord di Kabul, gestita dalle forze americane. È stato rilasciato soltanto il 17 agosto 2008, quando è stato accertato che "non pone alcun pericolo alle forze armate americane o ai loro interessi in Afghanistan". Per la Cia era pericoloso anche Mohammed Ahmed Ben Soud, un dissidente libico trasferitosi in Pakistan, dove è stato sequestrato dalla Cia nell’aprile 2003, su suggerimento di Gheddafi. Finito nello stesso buco nero fuori Kabul, Cobalt, è stato torturato per un anno, nudo, incatenato al muro, in isolamento, in una cella sotterranea, ficcato in una scatola ampia meno di mezzo metro, appeso a una sbarra, immerso nell’acqua gelida, privato del sonno. Nell’aprile 2004 è stato portato in un’altra prigione segreta afghana gestita dalla Cia. Mai incriminato formalmente, nell’agosto 2005 è stato spedito in Libia e imprigionato per altri cinque anni, fino al rovesciamento del regime di Gheddafi. Oggi Mohammed Ahmed Ben Soud vive con la famiglia a Misurata. Suleiman Abdullah Salim vive a Zanzibar. Gul Rahman è morto. Sono soltanto 3 dei 119 nomi inclusi in un rapporto sul programma di tortura e rendition (trasferimenti forzati) della Cia, redatto dal Comitato sull’Intelligence del Senato statunitense e pubblicato nel dicembre 2014. Di questi, almeno 59 avrebbero subito torture. Qualcuno, come Mohammed Ahmed Ben Soud e Suleiman Abdullah Salim, ha deciso di chiedere conto delle sofferenze fisiche e psicologiche subite. Con i famigliari di Gul Rahman e con l’aiuto dell’Aclu i due hanno chiamato in causa gli psicologi responsabili delle tecniche di interrogatorio. Finora, come spiega in modo dettagliato Kate Clark, simili tentativi erano finiti nel vuoto, a causa della necessità di proteggere la "sicurezza nazionale" e i "segreti di Stato". Ma la pubblicazione del rapporto del Senato americano, in cui sono elencate nero su bianco alcune delle torture della Cia, ha fatto venire meno quel pretesto. Secondo quanto riportato dall’Aclu, a differenza che in passato questa volta il Dipartimento di giustizia americano non ha ostacolato la causa. E gli psicologi, dopo aver opposto obiezioni su obiezioni, hanno preferito trovare un accordo, prima che il processo, previsto per il 5 settembre, avesse inizio. La somma concordata per il risarcimento è segreta. A ben vedere è poco importante. Quel che conta è il cambiamento significativo, celebrato dall’Aclu. L’esito della causa, ha sostenuto Laden Dror, avvocato dell’American Civil Liberties Union, "è un ammonimento per chiunque pensi di poter torturare impunemente". Perfino nei buchi neri della Cia in Afghanistan. Le loro "tecniche" approvate dal Dipartimenti di giustizia di Bush - Secondo quanto scrive l’Aclu sulla base del decisivo rapporto sulle torture della Cia redatto dal Comitato sull’intelligence del Senato americano, James Mitchell e John "Bruce" Jessen, "basandosi sulla loro esperienza come psicologi e su esperimenti condotti sui cani negli anni Sessanta…", "hanno suggerito che i prigionieri della Cia dovessero essere psicologicamente distrutti infliggendo loro acuti dolori e sofferenze mentali e fisiche". Per i due psicologi, indurre uno stato di "inutilità acquisita" avrebbe eliminato ogni resistenza nei detenuti. Il loro programma, nota l’Aclu, "non prevedeva soltanto la tortura sui prigionieri, ma esperimenti su di loro". Mitchell e Jessen non si sono limitati a teorizzare l’utilità della tortura, ma l’hanno anche praticata: oltre ai tanti successivi, hanno personalmente condotto il primo interrogatorio della Cia che seguiva le loro "tecniche di interrogatorio avanzate", contro Abu Zubaydah. Nessuno dei due "aveva alcuna esperienza negli interrogatori, né una conoscenza specialistica su al-Qaeda, sul terrorismo, o alcuna rilevante conoscenza regionale, culturale o linguistica". Eppure, le loro tecniche di interrogatorio sono state approvate dal Dipartimento di Giustizia, sotto la presidenza Bush. Per mettere in pratica e ridefinire il programma di interrogatori, per ben otto anni la Cia "ha pagato i due psicologi, e l’azienda da loro fondata, decine di milioni di dollari". La loro responsabilità è enorme: Mitchell and Jessen "hanno definito le violente procedure, le condizioni e il trattamento crudele imposto sui prigionieri durante il loro trasferimento e nella successiva detenzione, e orchestrato gli strumenti di tortura e i relativi protocolli, hanno personalmente torturato i detenuti e addestrato il personale della Cia nel gestire le tecniche di torture". In evidente conflitto di interessi, avevano inoltre il compito "di valutare l’efficacia del programma da cui traevano enormi profitti". Il Pentagono si accorge di avere 2.600 soldati in più nella guerra afghana di Emanuele Giordana Il Manifesto, 1 settembre 2017 Il piano di Trump. Non sono 8.400 come sempre dichiarato, ma 11mila. Approssimativamente, dice il generale McKenzie. Intanto riprendono i raid e aumentano i morti tra i civili. I talebani: l’ostacolo alla pace sono le truppe straniere. A partire dal 22 agosto, a far data dall’esposizione del nebuloso piano per l’Afghanistan da parte del presidente Donald Trump, la strategia americana è diventata ogni giorno più chiara con raid assai meno mirati che in passato e con minor attenzione alle vittime civili. Nel contempo il balletto sull’aumento delle truppe è diventato ieri una realtà che sembra una presa in giro. A dimostrazione di un’amministrazione più "trasparente", il generale Kenneth McKenzie, direttore del joint staff al Pentagono, ha spiegato ai giornalisti che i soldati americani in Afghanistan non sono 8.400 come si è sempre detto ma 11mila. Solo… 2.600 soldati in più di quel che si è sempre saputo. Bizzarria contabile o tassello della "nebulosa Trump", quella che McKenzie ha definito una "nuova semplificazione metodologica di conteggio" traccia un bilancio di "approssimativamente" 11mila soldati, cosa che "non include altri futuri aggiustamenti che la Difesa potrà fare per adempiere alla nuova strategia del presidente per l’Asia del Sud". Insomma, di stivali sul terreno ne potremo vedere di più. Cosa faranno? Subito dopo il discorso del presidente gli aerei americani hanno iniziato a riscaldare i motori. Non è una novità: almeno dall’agosto 2015 le missioni si sono intensificate ma adesso si va ancor meno per il sottile. Lunedì 28 agosto un raid aereo nel distretto di Zerkoh (Herat, zona sotto giurisdizione italiana) ha ucciso almeno 13 civili. I dettagli sono vaghi: gli aerei colpiscono una base talebana e la guerriglia si rifugia nelle abitazioni civili poco lontano. Ripartono i raid uccidendo, alla fine, un numero quasi uguale di guerriglieri e civili. Lo stesso mercoledì 30 a Pul-e-Alam, capitale della provincia di Logar: sul terreno ci sono talebani, morti o feriti, ma anche 11 civili uccisi con altri feriti. La Nato conferma le "potenziali vittime civili" e apre un’inchiesta. Non è la prima e non sarà l’ultima. Ufficialmente i bombardamenti li fanno solo aerei americani ma la prudenza è d’obbligo. Le forze Nato, Italia compresa, hanno in dotazione aerei ed elicotteri che possono sia sganciare bombe sia utilizzare salve micidiali di proiettili. Gli americani del resto non nascondono il fatto che l’attività muscolare sarà in aumento, soprattutto dal cielo, strategia inaugurata con Obama e ora proseguita da Trump. La stampa locale dà intanto notizia del messaggio augurale di mullah Hebatullah Akhundzada, a capo della guerriglia talebana, in occasione di Eid ("festa del sacrificio" iniziata ieri sera). Nel messaggio reso noto mercoledì Akhundzada sostiene che "il maggior ostacolo per la pace è l’occupazione straniera" e puntualizza che i talebani hanno in mano ormai metà del Paese. Il mullah capo contesta dunque le affermazioni di John Nicholson, il comandante americano delle truppe Usa e Nato, secondo cui Kabul controllerebbe il 62% del territorio e i talebani solo il 10%: il resto sarebbero zone "contese". Ognuno fa la sua propaganda. Il governo di Kabul invece tace. Non ha preso le posizioni forti che Karzai, il predecessore del governo Ghani-Abdullah, era solito reiterare quando c’era una strage di civili. A Kabul sono troppo contenti che Trump non abbia mollato e che dunque denaro fresco sia per ora garantito all’asfittico governo afghano i cui consensi sono al lumicino. Viene da chiedersi quanto questi consensi aumenteranno con quella che si annuncia una stagione di nuove vittime tra la popolazione civile. Ogni anno la percentuale aumenta e con Trump non decrescerà nella guerra più lunga che gli americani (e noi con loro) combattono nel Paese dell’Hindukush. Argentina. Che fine ha fatto Santiago, "desaparecido" 30 giorni fa? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 settembre 2017 In Argentina si continua a sparire. Oggi sono 30 giorni che non si hanno notizie di Santiago Maldonado, 28 anni, "desaparecido" il 1° agosto nel sud del paese. Quel giorno una trentina di soldati della Gendarmeria nazionale ha fatto irruzione nel territorio della comunità mapuche Pu Lof en Resistencia, nella provincia del Chubut. I soldati hanno iniziato a sparare proiettili di gomma e i membri della comunità sono fuggiti verso un fiume. Alcuni sono riusciti ad attraversarlo e a disperdersi. Santiago Maldonado era arrivato il giorno prima per dare una mano alla comunità a presentare un esposto per recuperare le sue terre. Alcuni testimoni lo hanno notato correre verso il fiume, altri hanno sentito i gendarmi dire "Ne abbiamo preso uno" e "Lo abbiamo arrestato". Una persona ha dichiarato di aver visto un gruppo di militari picchiare un giovane dopo averlo fermato. Un’altra ancora ha osservato dei soldati disposti in fila per coprire la visuale nel momento in cui una persona veniva obbligata a salire a bordo di una camionetta. Nonostante le ricerche effettuate dalla comunità e una serie di richieste di "habeas corpus" al giudice federale Guido Otranto, le autorità non hanno ancora fornito informazioni su Santiago Maldonado. Le ha chieste, da ultimo, anche il Comitato delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate. Amnesty International ha lanciato un appello alle autorità argentine affinché rendano noto dove si trova Santiago Maldonado e qual è il suo status giuridico, svolgano indagini approfondite su quanto accaduto il 1° di agosto nella comunità Pu Lof en Resistencia e contribuiscano a trovare una soluzione ai reclami della comunità su quello che considera territorio mapuche.