Un paese in galera di Giuseppe Rizzo Internazionale, 19 settembre 2017 Nelle prigioni italiane ci sono più persone che a Sanremo, a Cuneo, ad Agrigento. Con più di 57mila detenuti e oltre 30mila agenti di Polizia penitenziaria, il carcere potrebbe essere una delle prime cinquanta città italiane per numero di abitanti. Come in ogni città, c’è chi la mattina si alza con qualche speranza e chi si ammala, chi vende antidepressivi e chi sesso, chi piange per i sogni tristi, chi lavora e chi prega, chi ama e chi sa soffocare un uomo senza fare rumore. Per quanto la si voglia cancellare dalla vista di tutti, questa città fa parte del panorama italiano tanto quanto L’Aquila (69mila abitanti) o Matera (60mila): è un pezzo del paesaggio, e il paesaggio siamo noi. Da quasi trent’anni cresce in maniera spaventosa e disordinata, i suoi confini toccano i nostri, ci riguardano molto più di quanto crediamo. Al carcere Due Palazzi di Padova, nel febbraio scorso, ho conosciuto una persona che ha messo piede per la prima volta in questa città quasi trent’anni fa e poi ci è ritornato più volte. Sette mesi dopo, parliamo al telefono del caldo di Roma e di quello di Padova. Saremmo nel banale se non fosse che lui fino a pochi attimi prima era in galera e ci doveva restare fino al 2037, condannato per decine di rapine in banca a 57 anni, poi ridotti a 30. Dopo avermi detto che si trova con un’assistente sociale, "il telefono è suo, non ho ancora niente"; che gli gira la testa perché s’è affacciato da una finestra, "una finestra vera"; e che è ancora sconvolto per quello che gli è successo; dopo, con voce un po’ più bassa, dice: "Mi dispiace". Si riferisce al fatto che il suo rilascio improvviso possa rallentare o far saltare la pubblicazione dell’articolo, e perciò se ne scusa, come chi ormai è abituato a pensare che qualunque cosa accada sia colpa sua. "È successo tutto così in fretta", dice. Il giudice di sorveglianza gli ha riconosciuto il reato continuato per 20 rapine su 22 e gli ha ricalcolato gli anni di prigione: da 30 a 19. Dieci li aveva appena scontati. Gli altri nove anni si riferivano a condanne ricevute in passato, e anche in questi casi le pene erano già state scontate. Così ora poteva dire al telefono: "Prima era una brutta storia, ora è una brutta storia con un finale meno triste". Il finale meno triste riguarda solo lui, ed è ancora aperto e sospeso e complicato. Ma la storia che c’è dietro è ancora utile a svelare un tabù che riguarda tutti: quello dell’incarcerazione di massa in Italia cominciata negli anni novanta e proseguita fino a oggi. Un processo che ha cambiato il paese e che allunga la sua ombra tanto su chi non ha mai conosciuto la galera quanto su chi la conosce fin troppo bene. L’uomo che al telefono mi ha raccontato come ne è uscito appartiene al secondo gruppo. Alto due metri, braccia lunghe e mani grandi, al Due Palazzi doveva piegarsi per sedersi al banco di scuola che le guardie ci avevano messo a disposizione all’ingresso della palestra. Dentro c’era un convegno sull’ergastolo organizzato dal giornale Ristretti Orizzonti. Ci aveva presentato Francesca Rapanà, ricercatrice e redattrice della rivista. Il quadro che aveva dipinto era più o meno questo: "Si chiama Lorenzo Sciacca, ha quarant’anni e ha passato metà della sua vita a rapinare banche e l’altra metà in galera". La sua storia corre parallela a quella della crescita mostruosa del carcere in Italia e dell’ossessione degli italiani per la sicurezza. Prologo Tutto comincia nel 1990 e per Sciacca si consuma nel giro di trenta secondi. "I più lunghi della mia vita", dice. "Ho quattordici anni e sono partito da Catania in macchina con altri compagni, mille chilometri senza mai smettere di pensare a quello che sarebbe successo una volta a Milano". È il più piccolo del gruppo, gli altri sono maggiorenni, è facile immaginarli nervosi e eccitati; Lorenzo ha anche paura, ma non lo dice perché non sa se è l’unico. I compagni gli hanno ripetuto cosa fare, come farlo, in quanto tempo. Trenta secondi, appunto. Un passo dietro l’altro, se li lascia alle spalle, raggiunge l’ingresso della banca davanti alla quale si sono fermati, dà un’occhiata alle telecamere, poi abbassa lo sguardo ed entra. Gli altri tre sono in auto, indossano i passamontagna, prendono le borse e corrono verso l’agenzia. "Urlo che quella è una rapina, che nessuno deve muoversi, che devono aprire le porte e che devono disattivare gli allarmi. È quello che succede, e il mio lavoro è finito". Comincia quello degli altri, che dietro agli sportelli svuotano le casse e riempiono i borsoni. Dura trenta secondi. Trenta secondi, 14 anni e un bottino di settanta milioni di lire. "Andiamo a casa di amici che ci devono ospitare per la notte, l’indomani saremmo ripartiti per Catania", racconta Sciacca. "Ci dividiamo i soldi, a me toccano gli spiccioli, un milione". Nel 1990, un milione è quanto viene pagato un operaio per un mese di lavoro in fabbrica; a Librino, il quartiere periferico di Catania dove il ragazzo vive con la famiglia e dove non ci sono né fabbriche né operai, è una cifra che avrebbe impiegato mesi a guadagnare facendo, come avrebbe fatto, l’elettricista. Se l’è guadagnata in trenta secondi: tanto, e non ancora abbastanza. "Non protesto, aspetto di ritornare a casa per organizzare un altro colpo e chiedere di più", ricorda. Ma dopo poche ore una squadra di carabinieri sfonda la porta dell’appartamento e lo arresta insieme agli altri. Trenta secondi anche questi, più o meno. "Trenta secondi la rapina, trenta secondi l’arresto e due anni di minorile come risultato". Quando lo portano al Beccaria, il carcere minorile di Milano, in Italia i detenuti sono 24.844. Una fotografia dettagliata di quegli anni l’ha scattata Christian G. De Vito in "Camosci e girachiavi", storia del carcere in Italia. Nel 1990 il tasso di detenzione in Italia era pari a 45 detenuti su 100mila abitanti, già nel 1992 raggiunse quota 89. Gli ingressi annuali in carcere passarono dalle 57.732 persone del 1990 alle oltre 100mila del 1994. Le presenze medie giornaliere negli istituti penitenziari, che nel 1991 divennero oltre 35mila, l’anno successivo erano già 47.316. Questo passaggio è molto utile per catturare i primi movimenti della città-carcere, vi si intravedono gli argini che cominciano a franare. Nel 1976, l’anno in cui Lorenzo è nato, i detenuti sono 28.577; dieci anno dopo sono 31.829. A parte un picco a metà degli anni ottanta, la media è attorno ai 30mila detenuti. Poi qualcosa è cambiato. "Dalla metà degli anni ottanta", scrive Remo Bassetti in Derelitti e delle pene, "il carcere ha modificato la composizione per categorie. Dal trentacinquenne-quarantenne meridionale e di provenienza contadina degli anni sessanta e settanta, il detenuto-tipo è ora appartenente al sottoproletariato metropolitano e la sua meridionalità si è ulteriormente meridionalizzata". Se suona familiare, è perché lo è: la storia di Lorenzo è la storia di questa "meridionalizzazione". Sono i maschi bianchi meridionali del sottoproletariato come lui i primi protagonisti dell’incarcerazione di massa in Italia. Gli anni del boom "Il Beccaria di Milano era un posto violentissimo, ma per me fu una nave scuola, è lì che imparo a odiare lo stato e decido cosa sarei diventato: avrei fatto il rapinatore di banche, come mio padre", racconta Sciacca. Il ragazzo si ritrova di nuovo a Milano, dove era nato e aveva vissuto fino a dieci anni. La madre si era trasferita da Catania perché il padre era stato arrestato e portato a San Vittore. "L’ho conosciuto in galera. Con mamma vivevamo in un palazzone in periferia abitato da piccoli delinquenti e mogli che aspettavano i mariti incarcerati". Nel 1986, il padre esce e la famiglia si ritrasferisce a Catania, a Librino. "Un quartiere povero e periferico ma io sono felice perché finalmente incontro la mia famiglia", ricorda. "Passo più tempo per strada rispetto a Milano, conosco anche i ragazzi con cui faccio i primi furtarelli e poi la prima rapina". Al minorile il padre non mette piede. "Per due anni ha accompagnato mia madre da Catania a Milano, quindici ore di macchina, per poi aspettare fuori e ritornarsene a casa". Quando esce, i genitori provano a mandarlo da un elettricista, ma non dura. "Farai la mia stessa fine, è questo quello che vuoi?", mi grida una sera papà. Allora ancora non lo sapevo, ma dopo l’ho capito: volevo diventare bravo come lui, se possibile superarlo, stupirlo". Perciò mette su una "batteria" di tre ragazzi e comincia a organizzare il suo primo vero colpo. "Saliamo di nuovo a Milano, la rapina va bene, solo che nella banca ci sono pochi soldi: ne facciamo altre tre in due settimane". Succede tutto velocemente, i soldi si moltiplicano così come le attenzioni della polizia. Li arrestano che Lorenzo ha da poco compiuto diciott’anni. "Mi portano a San Vittore, proprio dove avevo conosciuto mio padre", dice con un’ombra di amarezza negli occhi. È il 1994 e i detenuti in Italia sono 49.913. Da questo momento la crescita si fa inarrestabile e subisce un’accelerazione che è simile a quella che travolge la vita di Sciacca. Gli anni della vergogna "A San Vittore studio, frequento altri rapinatori, da loro imparo quali sono le banche con più soldi e come si preparano colpi più sofisticati", racconta Sciacca. "Volevo fare il miliardo, come dicevo allora, e per farlo bisogna rapinare banche più grandi, puntare ai caveau, un tipo di colpo diverso rispetto a quelli che avevo fatto prima", spiega. Quando esce ha poco più di vent’anni ed è pronto a fare il salto. "È tutta una questione di tempi. Con le buone o con le cattive si deve coinvolgere il direttore della banca, arrivare alla cassaforte, fargliela aprire, riempire i borsoni e nel frattempo mantenere il controllo di tutto quello che succede alle tue spalle. Impiegati e clienti possono reagire, la polizia può arrivare". Il tempo si dilata e servono armi più grosse. "Con la pistola in mano l’adrenalina cresce, così come la paura. Se qualcosa va storto e hai un’arma in mano, può essere che la usi", dice Sciacca. In quel periodo svaligia molte banche, ma lo prendono prima che spari un colpo. Dai 22 anni ai 31 ne passa otto in galera. Nei mesi in cui è fuori progetta altri "lavori", come chiama le rapine, e porta avanti la relazione che ha da anni con una ragazza. "Nasce il mio primo e unico figlio, e dove lo incontro per la prima volta? A San Vittore, la profezia di mio padre si era compiuta: mi aveva detto che avrei fatto la sua stessa fine e così era stato". In quegli anni comincia anche la sua odissea nelle galere italiane. Nella sua vita di detenuto, Sciacca racconta di essere stato in una trentina di istituti di pena. "Attaccavo briga e non ero visto di buon occhio dalle guardie. Mi è successo di fare a botte anche con loro e così, per punizione, a volte sono stato portato in quelle che vengono chiamate "celle lisce", dove non c’è niente salvo gli schizzi di sangue sulle pareti, perché è lì che le guardie puniscono le teste calde con pugni e calci, per poi lasciarle in isolamento". Nel carcere di Catania un giorno partecipa a una rivolta. "Ero giovane", dice, "ma la rabbia era così tanta che mi sono lasciato coinvolgere, con il risultato che mi hanno allontanato per sempre dalla Sicilia". Essere portato in un carcere lontano dalla città in cui si vive per un detenuto significa essere allontanato dalla propria famiglia, il che ha due effetti. Un sovrappiù di pena per lui, e una pena anche per la famiglia, che finisce per essere risucchiata in un vortice di viaggi faticosi e dolorosi. "È l’aspetto più doloroso delle galere, essere privati dei propri affetti e infliggere ai propri cari un dolore muto", dice Sciacca. Quando parla del figlio, le parole faticano ad arrivare alle labbra. "L’ho visto crescere mentre ero dentro. E anche quando ero libero, tra latitanze, rapine e galere, non lo vedevo quasi mai". L’ultimo periodo di libertà se lo ricorda bene. "Facevo avanti e indietro dalla Spagna, viaggiavo con documenti falsi e vivevo come ci si può aspettare che viva un rapinatore che riesce a mettere a segno qualche colpo buono: vestiti di lusso, moto e macchine sportive, cocaina". Nella testa però dice che gli si sbrogliava un ritornello: "Me lo ripetevo in continuazione: "A 33 dico basta, a 33 anni smetto". Bello o brutto, qualcosa sarebbe successo". Succede qualcosa di brutto: al figlio trovano un tumore. "Il mondo mi crolla addosso. La diagnosi, le cure, la sofferenza del bambino. Il 6 ottobre 2010 muore e io sono latitante in Spagna. Rientro a Catania, ma so che non posso presentarmi in chiesa perché ci sarebbero stati i carabinieri. Il 9 c’è il funerale e io sono costretto a guardare tutto da lontano". Pochi giorni dopo lo arrestano, il 12 ottobre compie 34 anni. Paranoie e ossessioni Nel 2010 i detenuti nelle carceri italiane sono 67.961, più del doppio rispetto a quando questa storia è cominciata. Il cambiamento ha la forma di un’onda che si ingrossa di anno in anno, e per coglierne la potenza vale la pena riavvolgere il nastro e guardare il film dall’inizio alla fine. Cos’è successo di tanto grave in questi anni da riempire le carceri italiane? Quale emergenza criminale c’è stata? "Nessuna, la crescita si deve sostanzialmente a tre-quattro leggi", spiega Stefano Anastasia, fondatore dell’associazione Antigone e garante dei detenuti della regione Lazio. "La Iervolino-Vassalli sulle droghe, a cui poi è seguita la Fini-Giovanardi; le leggi Martelli, Turco-Napolitano e Bossi-Fini sull’immigrazione; la Cirielli, che ha aggravato le pene e impedito l’accesso alle alternative al carcere ai condannati con precedenti specifici". L’incarcerazione di massa registra solo due battute d’arresto. Nel 2006, quando viene concesso l’indulto, l’unico negli ultimi 25 anni; e nel 2013, quando l’Italia è condannata dall’Europa per il sovraffollamento e approva una serie di misure per cercare di arginare il problema - oggi la situazione è tornata a livelli preoccupanti. Per il resto, "i testi sulla droga e sulla recidiva sono stati approvati con l’intento esplicito di criminalizzare i destinatari", dice Anastasia. Mentre quelli gli altri provvedimenti "hanno di fatto istituito un nuovo reato, l’immigrazione irregolare, e hanno buttato centinaia di migliaia di persone nell’illegalità, nel mercato del lavoro nero e persino nel mondo del crimine". Dunque, se negli anni ottanta il carcere era stato usato come strumento di pulizia sociale contro i giovani meridionali del sottoproletariato, negli anni novanta comincia la criminalizzazione di altre due figure: gli stranieri e i tossicodipendenti, come vengono definiti nei documenti ufficiali del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il fermo immagine di questo brutto film è questo: La storia di Sciacca è invece un esempio di pulizia sociale vecchia maniera. Prima di essere arrestato è un ragazzo povero di quattordici anni con idee sbagliate e violente; trenta secondi dopo è un ragazzo povero con idee sbagliate e violente a cui rispondere solo con la galera. "In tutti questi anni il carcere è cambiato", dice, "e io ho vissuto questo cambiamento in diretta, vedendo le celle affollarsi di persone che parlavano lingue che non erano la mia, che avevano abitudini e religioni diverse, persone che venivano arrestate perché si facevano e avevano fatto qualche cazzata, persone con dipendenze gravi in molti casi, o piccoli spacciatori". Negli anni novanta e duemila si registra lo slittamento dallo stato sociale basato sul principio di uguaglianza allo stato giudiziario basato sul principio della colpevolezza. La sicurezza diventa un’ossessione, come spiega l’antropologo francese Didier Fassin nel saggio "Punir": Le persone si dimostrano sempre meno tolleranti (…). Tutta una serie di conflitti interpersonali che prima potevano trovare soluzioni private ora passano per la polizia, spesso per i giudici, perfino per il carcere (…). La politica rinforza e anticipa l’ansia di sicurezza dei cittadini (…). Pensa davvero di poter trarre benefici elettorali dalla drammatizzazione delle situazioni e dalla messa in scena della propria autorità. Il rapporto tra l’ossessione per la sicurezza dei cittadini e il populismo penale dei politici ha generato dei mostri. Uno è la paranoia di vivere in un paese in perenne emergenza criminalità. Ma bastano pochi dati a smontare questa lettura: nel 2006 erano stati denunciati 2.771.490 delitti. Nel 2015 sono stati 2.687.249. Nel 1991 furono compiuti 1.773 omicidi, nel 2016 sono stati 245. Negli ultimi dieci anni le rapine in banca sono crollate del 90 per cento: nel 2007 erano state 2.972, nel 2016 sono state 360. Nel 1993 il 31,2 per cento delle famiglie italiane aveva la percezione di vivere in una zona a rischio criminalità. Nel 2015 la percentuale è salita al 38,9. Un altro degli abbagli causati dall’ossessione per la sicurezza è che il carcere sia efficace. Ancora una volta, i numeri fanno pensare che non è del tutto vero. Due, in particolare, certificano un bilancio disastroso. Il primo viene fuori da uno studio del 2007 dell’osservatorio delle misure alternative e svela la differenza abissale che corre tra lo scontare l’intera pena in carcere e il poter accedere a misure alterative, tipo l’affidamento ai servizi sociali. Nel 1998, furono scarcerate 5.772 persone; 3.951 di loro erano di nuovo dentro nel 2005. Significa che quasi il 70 per cento è diventato recidivo, una percentuale che invece scende al 19 per cento se si tiene conto dei detenuti che erano stati affidati in prova ai servizi sociali. Il secondo numero è il risultato di uno studio che ha calcolato che per ogni punto percentuale in meno corrisponde un risparmio di circa 51 milioni di euro all’anno, si capisce che dentro al buco nero della recidiva finiscono non solo la sicurezza tanto agognata dagli italiani, ma anche molti soldi. C’è finito anche Sciacca, naturalmente, che per quasi vent’anni è tornato in galera per aver compiuto lo stesso reato. "Non è neanche giusto autoassolversi, però. È vero che a me per anni non è stata offerta alcuna alternativa, ma è anche vero che probabilmente, se me l’avessero offerta a venti, non so se l’avrei accettata", dice. "Le cose per me sono cambiate quando sono arrivato a Padova, qualche anno fa. Grazie al gruppo di Ristretti Orizzonti ho cominciato a lavorare con gli altri e su me stesso. Per la prima volta ho smesso di cercare alibi per la mia storia e ho smesso di sfidare mio padre". Le letture simpatetiche delle storie dei carcerati, al pari di quelle che li condannano a prescindere, nascondono sempre qualcosa. Per ogni detenuto che comincia un percorso di recupero c’è dietro il lavoro sfiancante di volontari e associazioni. "È un’operazione complessa perché bisogna accompagnare i detenuti in un percorso in cui si rimette in discussione tutto, le scelte fatte e persino gli affetti", spiega Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. "Per farlo bisogna cancellare dal proprio vocabolario la parola ‘delusionè: l’idea che alle persone vada data una seconda possibilità in carcere è un’illusione: a volte bisogna dargliene una terza, una quarta, una quinta". Ha ragione però Lucia Castellano, l’ex direttrice del carcere di Bollate, quando dice che l’alternativa a tutto questo è un "cimitero dei vivi". Ci sono altre strade che si possono percorrere. Alcune, molto concrete, le elencano Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta nel libro "Abolire il carcere": Depenalizzare il più possibile, sostituendo le sanzioni penali con quelle amministrative o civili. Cancellare l’ergastolo e ridurre le pene. È quello che succede in Norvegia. Vietare l’incarcerazione prima del giudizio: un terzo dei detenuti italiani è in attesa di giudizio. Garantire il più possibile le misure alternative. Bandire il carcere per i minorenni. A chi obietta che il ripensamento del carcere è un modo irrealistico di affrontare la realtà, va ricordato che la galera come strumento di punizione non è sempre esistita, la sua storia è relativamente recente; e che altre storie che si davano per scontate, come quella della pena di morte e dei manicomi, sono state stracciate: le storie che le hanno sostituite sono tra le più belle mai immaginate e scritte in questo paese. Epilogo Quando era ancora in galera, ho spedito una lettera a Sciacca per chiedergli di descrivermi una giornata qualsiasi in carcere. Mi ha risposto con un racconto da cui emerge, senza mai essere nominata, una disperazione sconfinata: "C’è chi passeggia per ore lungo i corridoi e non parla con nessuno, imbottito di psicofarmaci. Chi fa mille addominali al giorno e chi non esce mai dalla cella. C’è anche chi studia e chi lavora, ma sono pochi e fortunati". La lettera si chiude con un’immagine che è difficile da dimenticare: "In carcere si aspetta sempre qualcosa, il medico, l’agente, l’educatore, il volontario, il pasto, la messa, una lettera. Nella mia sezione ci sono molte persone che passano le giornate seduti di fronte al cancello, se dovessi chiedergli cosa stanno aspettando mi risponderebbero che non lo sanno, oppure risponderebbero, "qualche novità". Voi lo sapete cosa farete tra un anno? Tra quattro mesi? Tra sette anni e un giorno? Non lo sapete. Io so cosa farò ogni giorno della mia vita, per i prossimi vent’anni". Sciacca si sbagliava. Ora è un uomo libero, in carcere è riuscito a diplomarsi e sta cercando di iscriversi all’università. Vuole diventare un mediatore e lavorare con i detenuti. Intanto ha trovato un lavoro part time. La notte si sveglia ancora in preda al panico e la prima volta che ha rivisto un bambino gli è sembrato un alieno. Quando beve mordicchia il bicchiere, dopo dieci anni di galera aveva dimenticato la sensazione del vetro sui denti. "La libertà è una cosa complicata", dice. Da sapere Fuori dell’Italia. Sono oltre dieci milioni i detenuti in tutto il mondo. Negli Stati Uniti sono 2.145.100, in Cina 1.649.804, in Brasile 657.680, in Russia 615.257. In Europa è il Regno Unito il paese con più persone in carcere (86.294), seguito dalla Polonia (73.736) e dalla Francia (70.018). Sovraffollamento. I detenuti nelle carceri italiane sono 57.393, mentre i posti regolamentari sono 50.501. Alla fine del 2015 il tasso di sovraffollamento in Puglia superava il 130 per cento. I posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadri per detenuto. Morire di carcere. Dal 2000 a oggi nelle galere italiane sono morte 2.695 persone: 974 si sono suicidate. Dall’inizio del 2017 i suicidi sono stati 41. Riflessioni sull’amnistia. Intervista a Paolo Persichetti di Giulio Petrilli* osservatoriorepressione.info, 19 settembre 2017 Pubblichiamo un’intervista di Giulio Petrilli a Paolo Persichetti, saggista, ricercatore indipendente, ha insegnato sociologia politica presso l’università di Paris VIII. Tra i suoi libri "La Révolution et l’Etat", "Il nemico inconfessabile", entrambi scritti con Oreste Scalzone, "Esilio e Castigo" scritto in carcere mentre scontava una condanna per l’appartenenza alle Br-UdCC e "Brigate Rosse dalle fabbriche alla campagna di primavera" scritto con Marco Clementi e Elisa Santalena. Cura il blog insorgenze.net Caro Paolo, penso tu abbia letto la mia lettera nella quale sollevo il tema della liberazione degli ultimi detenuti e detenute della storia della lotta armata in Italia! Ormai alcuni di loro hanno quasi raggiunto i quaranta anni di detenzione! Sì ho letto! In effetti Nicolò De Maria è prigioniero dal 1980, sta entrando nel suo trentottesimo anno di detenzione; Mario Moretti è in esecuzione pena dal 1981, Susanna Berardi e Cesare Di Lenardo dal 1982, e poi via via vengono tutti gli altri. Se quelli incarcerati per gli episodi del 1999 e del 2002 sono rinchiusi già da una quindicina di anni, trascorsi per tre di loro in 41 bis, tutti gli altri hanno alle spalle un periodo di detenzione che raggiunge o supera i trenta anni effettivi. E non sono i soli, perché molti di quelli che in questi ultimi anni sono riusciti ad avere un fine pena, hanno terminato la loro detenzione dopo aver superato ampiamente i 30 anni di prigionia. A questi vanno aggiunti gli esiliati, ormai da più decenni. Vorrei poi attirare l’attenzione su una circostanza mai sufficientemente sottolineata: alcuni di questi prigionieri ancora rinchiusi al momento del loro arresto hanno subito torture. Per uno di loro, Cesare Di Lenardo, il fatto è stato riconosciuto dalla magistratura. Oggi sappiamo che diverse decine di persone arrestate per banda armata vennero torturate, per quanto ne so, oltre a Di Lenardo, tra chi è ancora detenuto ci sono ancora due persone che subirono il "trattamento". Vi è un’ampia letteratura clinica che spiega come il misconoscimento della tortura e la mancata cura dei suoi effetti nella psiche produca sofferenze e inevitabili conseguenze sulla personalità di chi le ha subite, inquadrate in quelle che vengono definite sindromi da stress post-traumatico. Già questa semplice situazione imporrebbe la necessità di una loro immediata scarcerazione. Credo siano gli unici prigionieri politici ancora detenuti in Europa? Se ti riferisci alle insorgenze sociali e lotte armate di sinistra che si svilupparono a partire dagli anni 70, certamente sì. Fatta eccezione per il caso di Georges Ibrahim Abdallah, membro delle Farl libanesi, detenuto in Francia anche lui da oltre trent’anni, non ci sono più detenuti politici dell’epoca. La Germania ha chiuso il capitolo carcerario della Raf e così la Francia con Action Directe. Blair con un’amnistia ha messo fine anche alla guerra civile irlandese ed in Spagna, dove l’Eta ha deposto le armi da poco, paradossalmente non mi risulta che si siano mai raggiunte le nostre vette detentive. È passato talmente tanto tempo che nel frattempo nelle carceri sono comparsi un nuovo tipo di detenuti politici: se mettiamo da parte quelli di fede islamista, la riscoperta del reato di devastazione e saccheggio, risalente addirittura al vecchio codice Zanardelli e travasato nel codice Rocco, ha condotto in carcere con pene pesanti semplici partecipanti a manifestazioni di piazza; ad essi si sono aggiunti militanti di fede anarchico-insurrezionalista, il più delle volte rastrellati ricorrendo all’imputazione associativa. Ma non vorrei dimenticare anche un altro tipo di raffronto, secondo me molto significativo. Quale? Con il nostro passato recente, mi riferisco alle radici della storia repubblicana. Dopo solo cinque anni dalla fondazione della Repubblica con un’amnistia-indulto vennero scarcerati tutti i prigionieri fascisti che si erano macchiati di crimini durante la guerra civile. Gli errori contenuti in quel dispositivo che avvantaggiò gli ex repubblichini a scapito dei combattenti della Resistenza furono sanati nel corso degli anni successivi con ripetute amnistie e provvedimenti di grazia presidenziale. Togliatti allora Guardasigilli, con una scelta premonitrice di quella che sarà la politica del Pci negli ani 70, aveva lasciato alla magistratura il compito di qualificare la natura politica dei reati da amnistiare e indultare. La magistratura inevitabilmente interpretò l’amnistia in chiave antipartigiana. L’ultimo provvedimento di clemenza riguardò la grazia concessa nel 1965 da Giuseppe Saragat a Francesco Moranino, riparato per alcuni decenni in Cecoslovacchia. Venti anni dopo la fine della guerra civile, gli strascichi penali della guerra partigiana si chiudevano definitivamente. Il prossimo anno invece si celebrerà il quarantennale del sequestro Moro e saremo a quasi 50 anni dalla nascita della lotta armata. Mezzo secolo è un periodo immenso che dovrebbe consentire di guardare agli anni delle grandi lotte sociali che giunsero anche alle armi come un oggetto di storia, di disputa storica. Se ciò non avviene è perché quella materia porta con sé dei significati che non rendono tranquilli i poteri costituiti e obbligherebbero a scomodi bilanci. Accade così che quel periodo è ancora strumento di speculazione politica, sempre più becera, come dimostra la presenza di una ennesima commissione parlamentare d’inchiesta che si sta distinguendo per strumentalità, mistificazione e torsione dei fatti al servizio delle vulgate dietrologiche di ultima generazione. Descrivi una situazione inaccettabile. Non pensi si debba fare qualcosa? Insieme a Oreste Scalzone ed altre/i siete sempre stati attenti alla liberazione di tutti. Sempre capaci di far vivere un tema, quello della libertà per tutti, senza logiche di schieramenti, di storie pregresse, di settarismi! Veramente una battaglia di libertà, ma poi anche voi vi siete fermati! Non credi sia venuto il momento di rilanciare insieme questa battaglia? La battaglia per l’amnistia non ha avuto successo. Appartengono ad una scuola politica che degli insuccessi non ha paura ma sa prenderne atto. Ciò detto, per quanto mi riguarda non ho mai smesso di pensare a questo problema. Ho terminato la mia condanna solo tre anni fa, durante la semilibertà ho lavorato nella redazione di un quotidiano dove non ho perso occasione per affrontare il tema generale delle carceri e quello specifico della prigionia politica, dell’esilio, del 41 bis. Insomma, quando ho potuto, ho sempre cercato di tenere vivo l’argomento, al tempo stesso bisogna essere molto franchi e sapersi misurare con la realtà: sulla praticabilità attuale di una battaglia per l’amnistia sono molto perplesso. Certo, posso sbagliarmi, anzi questo è uno di quei casi dove sarei ben contento di essere smentito, ma non mi sembra proprio che esistano le condizioni oggettive e soggettive per avviare un percorso del genere. Come scriveva Victor Hugo, "amnistia" è una delle parole più belle, non vorrei che andasse sperperata, al di là delle buone intenzioni, per petizioni di principio o di bandiera. Non ho mai visto evasione più grande di un’amnistia. Vorrei che continuasse ad essere questo, un fatto reale, non un tema d’agitazione. Per me rilanciare questa battaglia è un problema di pelle! Dopo che all’età di vent’anni hai attraversato tanti carceri speciali, non dimentichi più! Poi t’accorgi che la lotta armata è finita da più decenni e allora ti chiedi perché c’è ancora qualcuno dentro, come è possibile? Per me non è un tema d’agitazione ma rompere un silenzio decennale. Questi compagni non vanno dimenticati! Capisco Giulio, ma la generosità non basta, le battaglie devono avere delle prospettive. Quando la questione dall’amnistia, o più in generale la questione della soluzione politica iniziò ad imporsi nella seconda metà degli anni 80, all’ordine del giorno c’era il superamento dell’emergenza giudiziaria. Dichiarato chiuso il ciclo politico della lotta armata che aveva avuto inizio negli anni 70 c’era l’idea, condivisa in diversi settori del ceto politico e della società, che bisognasse mettere fine anche alla stagione della legislazione speciale e ritornare ad una situazione di normalità giuridica. Questo voleva dire eliminare quei surplus di pena, introdotti con le leggi speciali, che erano stati inflitti nei maxi processi, ripristinare criteri erga omnes, validi per tutti e per ciascuno, mettendo fine alle pratiche differenziali e premiali istituite con le leggi sui pentiti e i dissociati. L’emergenza mafia e lo tsunami delle inchieste di "Mani pulite" che si abbatté sul sistema dei partiti della prima Repubblica chiuse bruscamente questa fase di apertura. Una nuova emergenza si sostituì alla prima e quei settori che nella fase emergenziale precedente si erano costruiti influenza e potere ripresero slancio. Quella funzione di supplenza che la magistratura si era vista delegare dal sistema politico per combattere la lotta armata aveva assunto sempre più autonomia. Le procure più forti arrivarono a teorizzare e mettere in pratica la supremazia della sfera giudiziaria su quella politica. Paradossalmente, in questa prima fase, si creò in un pezzo di ceto politico che vedeva rivolgersi contro il mostro emergenzialista a cui aveva dato vita la consapevolezza che forse lo strumento amnistiale avrebbe ripristinato un più corretto equilibrio dei poteri e delle sfere di competenza tipiche dei sistemi costituzionali moderni. In commissione giustizia della Camera venne votato l’indulto che riduceva di un terzo le pene e portava gli ergastoli a 21 anni… Poi tutto finì lì. La partita volse in favore degli imprenditori della nuova emergenza e di chi pensò, come l’ex Pci, di forzare la situazione arrivando al potere tramite la scorciatoia giudiziaria. Come andò a finire lo sappiamo: l’azione penale fece da trampolino di lancio alla discesa in campo e alla legittimazione elettorale e politica ultradecennale del Berlusconismo, oltre ad alimentare successive e ripetute ondate giustizialiste. In quella prima fase, la presenza ancora massiccia di prigionieri politici nelle carceri speciali divenne d’intralcio. La lotta armata era finita e le priorità repressive ormai erano altre, l’apparato penale e penitenziario andava riorientato. Sepolta l’ipotesi amnistiale si aprirono i rubinetti della Gozzini, senza tante complicazioni e senza chiedere abiure si aprì la strada al lavoro esterno e alla semilibertà, prima per piccoli gruppi e poi individualmente. I prigionieri soli e divisi al loro interno hanno affrontato disuniti questa situazione. Quel settore che aveva animato la battaglia per la soluzione politica e l’amnistia accettò la Gozzini, pensando che ciò avrebbe agevolato la possibilità di rinsaldare i rapporti con la società esterna, avere maggiore agibilità politica e rilanciare quindi l’ipotesi amnistiale. Una parte di quelli ostinatamente contrari all’amnistia poco più tardi approdò alla Gozzini. Un piccolo gruppo rimase chiuso a riccio. La situazione attuale non è altro che il sedimento residuale di quel che accadde negli anni 90. Nel frattempo la società è profondamente mutata, si è modificata l’antropologia sociale e politica del Paese, il giustizialismo ha cancellato la priorità dei temi sociali a vantaggio delle soluzioni penali, il populismo si è saldamente strutturato, l’iperlibersimo ha maciullato difese e tutele sociali del mondo del lavoro, è emersa la società del precariato, senza orizzonti emancipatori il razzismo alligna come soluzione offerta dall’alto per innescare una guerra tra poveri che non disturbi più i manovratori, il paradigma berlusconiano del partito azienda si è imposto come modello di riferimento, si è tornati a concezioni oligarchiche, plebiscitarie e cesariste della politica incarnate di volta in volta da tutte le nuove formazioni che si affacciano sulla scena, più sono nuove e più camuffano questa realtà dietro la loro demagogia, siamo approdati a quella che il filosofo Jacques Rancière ha per primo definito "democrazie senza popolo". Dulcis in fundo, all’interno di tutto questo abbiamo assistito alla fine di uno degli equivoci più grossi degli ultimi decenni: la morte della sinistra politica. Oggi non vedo sponde che potrebbero appoggiare un’amnistia. Proviamo a fare da soli! È il presupposto che nel 2013 ci ha spinto a lanciare l’amnistia per le lotte sociali. Di fronte alla massiccia ondata repressiva che si stava abbattendo sui movimenti che si erano distinti negli ultimi anni, da Genova, ai No Tav, alla lotta per la casa, alle condanne per devastazione e saccheggio durante le manifestazioni di piazza. Disinnescare quell’ondata repressiva, invertire la tendenza riaprendo le maglie dell’agibilità sociale, far riapprendere quella grammatica che ha sempre nutrito la sintassi delle lotte del movimento operaio: tutelare i cicli di lotta preservando la libertà dei militanti colpiti in modo da immagazzinare esperienza e sapere per quelli successivi. L’idea era quella di innescare un percorso virtuoso, che facesse da volano per riaprire a quel punto anche il tema della prigionia politica. L’iniziale accoglienza favorevole si è arenata quando i movimenti che in primis dovevano prendere sulle proprie spalle quella battaglia non hanno fatto nulla. Poi sono arrivate le condanne, le misure di polizia, i daspo, i decreti penali, le firme, le richieste di confino, quella gabbia di provvedimenti penali e amministrativi che stanno imbrigliando l’azione politica dei movimenti di lotta. Insomma il disastro attuale, l’accerchiamento politico, la criminalizzazione con accuse di racket, la strategia di depoliticizzazione di queste istanze sociali. Amnistia è una parola stregata! Perché? Penso che oltre ad un evidente problema d’analfabetismo politico e giuridico ci sia qualcosa di più profondo: l’immagine delle kefieh e delle bandiere rosse venute ad applaudire il pool guidato da Borelli davanti al tribunale di Milano negli anni ruggenti di "Mani pulite" dovrebbe far riflettere sulla sostanziale impreparazione e assenza di autonomia culturale di fronte ai temi del diritto e della giustizia. Non capire che l’amnistia sia una leva che può permettere di abbassare l’asticella della legalità, ovvero aumentare la liceità delle azioni possibili, cioè delle lotte, è come credere che il salario sia una mera concessione del padrone e non il risultato di diversi fattori tra cui il rapporto di forza prodotto dalle lotte. Insomma la strada è in salita. Dal bilancio che fai sembra di capire che i prigionieri politici rimasti ancora in carcere hanno solo perso l’occasione per uscire? La questione è più complessa, basti pensare che anche Mario Moretti, che pure fu tra quelli che nel marzo 1987 promosse la battaglia di libertà per una soluzione amnistiale, torna in carcere ogni sera a oltre settant’anni suonati. L’applicazione della Gozzini è diventata più tormentata dopo il 2000, proprio per quella sedimentazione del giustizialismo che accennavo in precedenza. Nel momento in cui viene meno una soluzione collettiva, uguale per tutti, i percorsi individuali sono soggetti a molteplici variabili e perturbazioni, fasi politiche, culture dei singoli magistrati, orientamenti dei diversi tribunali di sorveglianza che a parità di reato, pena scontata e percorso, possono applicare criteri di valutazioni diversi. Una specie di terno al lotto. Il vero nodo però è stata la liberazione finale dei prigionieri, quando si è posto i problema dell’ammissione alla liberazione condizionale degli ergastolani. Quando i giudici hanno capito che ormai, dopo decenni, i prigionieri erano arrivati alla soglia del fine pena sono stati introdotti progressivamente criteri sempre più restrittivi. Anche qui la solitudine dei prigionieri e la disunione non ha facilitato le cose ma alla fine, nel complesso, si è costituita una giurisprudenza favorevole: non premiale, non differenziale, che non chiede abiure. Sono state fatte battaglie, sollevate questioni giuridiche. Certo bisogna avere lo stomaco per affrontare in una sorta di corpo a corpo con i professionisti della punizione che stanno lì a misurati la coscienza, una sorta di judo. Tralascio la mia esperienza fatta dopo l’estradizione, in anni molto difficili. Quando ripenso allo scontro feroce che ho affrontato capisco quelli che non vogliono nemmeno iniziarlo. Ma io avevo comunque un fine pena, anche se lungo, prima o poi sarei uscito. Ciò detto, non va dimenticato, per esempio, che a Prospero Gallinari, morto in esecuzione pena ai domiciliari per i noti problemi cardiaci, non venne mai discussa la richiesta di liberazione condizionale che aveva presentato. Sì, ma resta il nodo dei compagni ancora rinchiusi. Diversi obiettano che i detenuti/e rimasti in carcere non sono interessati all’amnistia! Se non sbaglio i conti, fatta eccezione per due di loro, gli altri prigionieri hanno sempre mostrato indifferenza o un’opinione negativa verso l’amnistia. Posto che ogni posizione che mostra coerenza tra l’enunciato e il comportamento merita rispetto, questa situazione mi sembra essere un altro importante elemento di difficoltà che si aggiunge a quelli precedentemente citati. Che posso dirti? Ognuno sceglie sulla base della propria etica individuale, cultura, visione della politica, senso della propria esistenza. C’è chi ritiene doveroso per la propria storia rivoluzionaria cercare di non farla ammuffire in una cella e chi la pensa in altro modo. Gli unici che in questa vicenda non hanno titolo sono quelli che chiedono ad altri di sacrificarsi perché pensano che la rivoluzione abbia bisogno di un pantheon di martiri. Per il resto sono convinto che l’enormità degli anni di detenzione raggiunti costituisca un dato che esorbita le opinioni individuali, è un qualcosa di abnorme di per sé. Ciò detto resta difficile avviare una battaglia senza il consenso o il ruolo attivo di chi dovrebbe usufruirne, anche se l’amnistia ha una valenza politica che investe altri campi. Puoi fare qualche esempio? La legge Fornero sulle pensioni ha stabilito al comma 2 che ai condannati per mafia e terrorismo che hanno raggiunto l’età pensionabile e non abbiano un reddito sufficiente va sospesa l’erogazione dell’assegno sociale (la vecchia pensione sociale), o qualsiasi altra prestazione tipo la pensione di invalidità (intaccando così il diritto alla salute), durante l’esecuzione pena. Questa norma viola diversi articoli della costituzione ed estende lo stato di eccezione dal campo giudiziario (penale e carcerario) a quello amministrativo. Praticamente si istituzionalizza l’esistenza di una categoria di persone minus habens, si stabilisce un criterio di assegnazione tipologica delle prestazioni invece del vecchio criterio censitario. Nonostante ciò, nessuno ad oggi ha ancora sollevato il problema. Recentemente, dopo che l’Inps ha ricevuto dal ministero della Giustizia la lista delle persone condannate, sono state sospese le pensioni anche a chi aveva terminato la pena da diversi anni. Questo perché il ministero si è guardato bene dal segnalare quelli che avevano terminato nel frattempo di scontare le condanne, con un aggravio di burocrazia sulle altre amministrazioni (gli uffici esecuzione dei tribunali devo certificare il fine pena e l’Inps deve aprire delle procedure del tutto inutili dovendo prima sospendere e poi riattivare l’erogazione), mentre nel frattempo gli ex condannati restano senza quel misero reddito. In tutto questo ci sono persone che si sono viste comunque rifiutare l’erogazione dell’assegno nonostante avessero certificato il fine pena, perché ritenuta "illegittima". Se consideriamo che la conclusione della pena non mette fine nemmeno alle pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici, la perdita del diritto di voto attivo e passivo, sancendo in sostanza l’esclusione dalla cittadinanza piena, ci rendiamo conto come, in realtà, non vi sia mai stata nessuna conclusione vera di quella fase storica ma permangano forme di sanzione ed esclusione perenni, alle quali solo una logica amnistiale avrebbe potuto mettere fine. Un ragione ulteriore per riaprirla questa battaglia! Sì, ma il problema resta comunque. Per quel che può contare la mia opinione, penso che sarebbe un bene se i compagni incarcerati tornassero ad immergersi nella società attuale, invece che farsela raccontare in qualche lettera, facendo il passo della semilibertà. Quanto al che fare, bisogna agire secondo le priorità: la prima è il 41 bis. Si tratta di tortura. Anche con la normativa attuale, seppur restrittiva, esistono argomenti giuridici con cui motivare una uscita dal 41 bis senza abiura o collaborazione. C’è poi la questione dei prigionieri che hanno subito torture. Si può pensare ad una battaglia sull’articolo 176 cp, che preveda la liberazione condizionale in automatico per chi abbia raggiunto il trentesimo anno di detenzione effettivo e si ripristini l’originaria dizione che non prevedeva il "ravvedimento". L’amnistia richiede ancora la maggioranza qualificata a differenza di una normale modifica legislativa. Ci vogliono delle leve, anche piccole, da cui ripartire, poi… *Giulio Petrilli è stato arrestato all’età di diciannove anni con l’accusa di essere uno dei capi di Prima Linea. Viene assolto dopo sei anni di carceri speciali. Si è battuto per il risarcimento per ingiusta detenzione che non gli è stato mai concesso per un obbrobrio giuridico: quello di "aver avuto cattive frequentazioni" Polizia penitenziaria, una festa con protesta di Roberto Rotunno Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2017 Gli agenti in agitazione mentre si celebrano i 200 anni del Corpo: "Siamo pochi". Stamattina la Polizia penitenziaria celebrerà i 200 anni dalla sua fondazione. Sarà una festa del bicentenario con protesta incorporata: centinaia di agenti manifesteranno infatti a Roma per denunciare - tra le altre cose - la carenza di personale, le cattive condizioni di lavoro e le frequenti aggressioni subìte da parte dei detenuti. Vista la stagione contrattuale del pubblico impiego, sarà l’occasione per chiedere aumenti di stipendio più alti degli 85 euro medi mensili promessi dalla ministra Marianna Madia. In parallelo alla cerimonia delle Terme di Caracalla, con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, avverrà il sit-in dei poliziotti carcerari a Montecitorio. Una circostanza che poteva essere evitata? "Certo che avremmo preferito evitarla - spiega al Fatto Pompeo Mannone, responsabile Sicurezza della Cisl - ma la scorsa settimana il ministro della Giustizia Andrea Orlando ci ha ricevuti senza permetterci di esporre tutti i nostri problemi. Non ci resta che scendere in piazza". Al primo posto, come spesso segnalato, la necessità di rinforzare l’organico in servizio presso gli istituti detentivi. Servono almeno 8 mila nuovi agenti, secondo le stime di tutti i sindacati che aderiscono all’iniziativa. Oltre alle sigle di categoria di Cgil, Cisl e Uil, ci saranno Sappe, Osapp, Sinappe, Uspp ed Fsa-Cnpp. Attualmente - secondo i dati ufficiali dell’Amministrazione penitenziaria aggiornati a dicembre 2016 - il corpo può contare su 37.229 poliziotti, quasi tutti uomini (33.444 a fronte di 3.785 donne) e con un’età media di circa 45 anni. Non tutti però operano effettivamente presso i penitenziari: ci sono quelli impiegati negli uffici amministrativi, nei provveditorati e nei tribunali. Mentre i detenuti sono 57 mila. "Dovremmo arrivare ad almeno 45 mila unità - aggiunge Mannone - se consideriamo la dotazione organica, ma se ci riferiamo al vero e proprio fabbisogno sarebbero anche di più". Chi svolge questo lavoro passa almeno 40 ore alla settimana all’interno del carcere, nel quale in pochi si fa fatica a garantire la sicurezza. Il nuovo concetto di detenzione, inoltre, rende secondo i sindacati ancora più indispensabili le nuove assunzioni. Si tratta del cosiddetto "carcere aperto", il sistema di sorveglianza dinamica che rende i detenuti liberi di circolare nell’istituto per diverse ore della giornata, non costringendoli più a passare la maggior parte del tempo rinchiusi nelle celle. Un modo per rendere migliori le condizioni dei reclusi dopo che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo le aveva definite "disumane e degradanti". "L’innovazione - avverte Mannone - è positiva ma bisogna creare le condizioni per realizzarla, tanto che in alcune carceri non viene applicata. Capita che un solo agente si trovi a controllare 60 detenuti e assistiamo troppo spesso ad aggressioni. Alcune strutture poi sono vecchie, costruite prima del 1900, avevano un intento punitivo e non rieducativo, come ci impone la Costituzione". Giustizia, le favole di Salvini e la voglia di stato di polizia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 19 settembre 2017 Il capo della Lega, Matteo Salvini, domenica ha detto che lui, se vincerà le elezioni e diventerà premier, riformerà il sistema della sicurezza e la giustizia. Basandosi su due idee. La prima è un vecchio slogan di una quarantina d’anni fa: "mano libera alla polizia". La seconda è l’elezione popolare dei giudici. Non c’è molto da dire sulla proposta di dare mano libera ai poliziotti. Nel senso che si tratta di una pura e semplice battuta reazionaria, senza nessuna sostanza. Cosa vuol dire mano libera? Che le forze dell’ordine saranno collocate al di sopra della legge, gli sarà concessa licenza di violarla, potranno agire in modo discrezionale al di fuori del diritto? Probabilmente Salvini pensa a qualcosa di questo genere, ma non sarebbe certamente una riforma della sicurezza, semplicemente sarebbe la trasformazione dello Stato di diritto in Stato di polizia. Molto difficile da realizzare, per fortuna, perché prevede lo stravolgimento della Costituzione e una spallata politica abbastanza simile al colpo di stato. La seconda proposta di Salvini è meno autoritaria e più ragionevole, ma comunque al di fuori della realtà. Ci sono a questo proposito alcune osservazioni da fare. La prima riguarda il modello americano, al quale si ispira chiunque proponga l’elezione dei giudici. In America una parte della magistratura è elettiva. Non tutta. Ma il sistema della giustizia americano è completamente diverso dal nostro. Innanzitutto in America esistono due livelli di giurisdizione: quella federale e quella dei singoli Stati. La giurisdizione federale si occupa solo dei reati contro gli Stati Uniti (ma in senso lato, per esempio i delitti cosiddetti dell’odio, hate crimes, sono reati federali) e quindi anche di gran parte dei reati degli amministratori e dei politici. La giurisdizione federale è divisa in distretti e i capi dei distretti sono nominati dal presidente degli Stati Uniti, ratificati dal Senato e dipendono dal ministro della giustizia (che infatti si chiama attorney general). Anche negli Stati Uniti è prevista l’indipendenza della magistratura, ma questa indipendenza è relativa, non è affatto considerata "sacra". Nelle giurisdizioni statali invece i magistrati sono eletti. L’incarico però dura quattro o sei anni, poi o si vincono nuove elezioni o si smette. Generalmente i candidati all’incarico sono appoggiati da uno dei due partiti nazionali. I magistrati per essere eletti (o anche per essere nominati dal Presidente) devono avere svolto la professione di avvocato per un numero abbastanza alto di anni (da 10 in su, a seconda dell’incarico) e quando decadono dall’incarico tornano a fare gli avvocati. Possiamo dire che tutta la giurisdizione americana si fonda essenzialmente sull’avvocatura, e infatti gli avvocati sono moltissimi, quasi due milioni. La seconda osservazione da fare è sui vantaggi e gli svantaggi di questo sistema. Il vantaggio è chiarissimo: i magistrati americani non sono una casta né una corporazione. Rispondono alla politica e alla società. Il sistema si fonda sulla forza di una avvocatura molto estesa e molto forte. Anche lo svantaggio è chiaro. Talvolta la voglia di essere rieletto può spingere a scelte faziose che non hanno molto a che fare con la giustizia rigorosa. La necessità di vincere le elezioni può diventare la molla che spinge a trovare comunque un colpevole, per certi delitti impuniti, e naturalmente questo può produrre errori, voluti o no, clamorosi, o anche a vere e proprio persecuzioni. La terza osservazione riguarda la praticabilità della via americana. La praticabilità, in Italia, è più o meno pari a zero. Per avere una magistratura eletta, occorrerebbe non solo un vero e proprio ribaltamento della nostra giurisdizione, ma lo stravolgimento della Costituzione, che è saldamente legata a due idee: magistratura professionale e magistratura indipendente. Allora, due domande all’on. Salvini. La prima non riguarda solo lui: perché - mi chiedo - spesso i leader politici parlano e propongono senza conoscere la materia della quale parlano? La seconda domanda riguarda invece la giustizia. Esistono molte proposte di riforma della giustizia, avanzate da alcune forze politiche e dagli avvocati. Per esempio la separazione delle carriere dei magistrati, o la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, o l’inasprimento delle norme sulla responsabilità civile e tante altre. Anche alcune di queste proposte prevedono delle riforme costituzionali, ma sono riforme molto più limitate e assolutamente possibili. Non sarebbe più utile impegnarsi su queste proposte, anche sfidando l’impopolarità, invece di proporre una irrealizzabile repubblica degli sceriffi? Il cortocircuito giustizialista di fronte ai pm innocenti fino a prova contraria di Luciano Capone Il Foglio, 19 settembre 2017 È normale che un pm si occupi di un’inchiesta per cui è indagato? Il caso Consip e quel cortocircuito manettaro Roma. In questa storia non c’è nulla di normale. A partire da com’è nata, per i modi con cui è stata portata avanti e infine per il pantano da cui non si riesce a venire fuori. L’inchiesta Consip è nata con una spaccatura nella procura di Napoli, è andata avanti provocando più reati di quanti ne dovesse scoprire, è deflagrata in una guerra tra procure (Napoli e Roma) e prosegue con un pm, Henry John Woodcock, e un gruppo di polizia giudiziaria, il Noe, indagati per reati commessi nell’inchiesta che continuano a portare avanti. E nessuno tra quei giustizialisti che in genere pretendono dimissioni immediate per i politici indagati ha chiesto a questi inquirenti non le dimissioni, ma quantomeno di astenersi, di fare un passo di lato in questa inchiesta. L’unico che lo ha fatto è l’ormai celebre capitano Gianpaolo Scafarto. L’ufficiale del Noe accusato di rivelazione del segreto istruttorio e falso per aver manipolato le informative ai danni di Tiziano Renzi e inventato pedinamenti degli 007, infatti non è stato punito o messo da parte. Anzi, recentemente è stato anche promosso a maggiore. Se Scafarto non si occupa più dell’inchiesta Consip è solo perché si è autosospeso, altrimenti sarebbe rimasto a compilare informative al servizio di Woodcock. Ma la condizione di Scafarto è la stessa di Woodcock, anch’egli indagato per falso e rivelazione del segreto nella stessa inchiesta. Per un giustizialista, è normale che un pm continui a mantenere un fascicolo per la cui gestione è indagato da un’altra procura? Naturalmente per Scafarto come per Woodcock vale la presunzione d’innocenza, è possibile che fughe di notizie e manipolazioni non siano dolose ma siano il frutto di una grande incompetenza. Ma è possibile non farsi domande se un fascicolo così importante rimane in mano a queste persone? Si tratta di inquirenti che, comunque vada a finire, a causa di errori e fughe di notizie o hanno rovinato la vita a persone innocenti o hanno rovinato un’inchiesta ritenuta cruciale. Come sta emergendo dalle ricostruzioni raccolte dal Csm - in particolare quelle dell’allora procuratore facente funzioni Nunzio Fragliasso e del procuratore generale Luigi Riello - l’indagine sulla Consip presenta delle anomalie sin dalla sua genesi. La procura di Napoli era divisa. Il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino, coordinatore della sezione dei reati contro la Pubblica amministrazione, sentito ieri dal Csm insieme al collega Giuseppe Borrelli, riteneva che la titolarità dell’inchiesta spettasse al suo ufficio e non a Woodcock che dovrebbe occuparsi di antimafia. D’Avino scrisse una nota dura contro chi si muoveva "sistematicamente al di fuori della propria competenza". Il procuratore dell’epoca Giovanni Colangelo fece una mediazione, che però ha lasciato strascicai. Un problema che si era riscontrato già nell’inchiesta gemella di qualche anno prima su Cpl Concordia, che ha portato a sovrapposizioni con altri uffici. Qualcosa di analogo è accaduto poi con la procura di Roma, la stessa volontà di tenere in mano l’inchiesta. Anche a Roma ci fu un incontro per sciogliere il nodo della competenza, con il procuratore di Napoli Colangelo e i pm Woodcock e Celeste Carrano da un lato e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi dall’altro (gli stessi che ora indagano su Woodcock e Scafarto). Il tira e molla finì con una mediazione: i reati associativi restavano a Napoli e i cosiddetti reati-fine passavano a Roma. Oltre a essere disfunzionale, perché di fatto duplica l’indagine, la mediazione ha lasciato un’ampia zona grigia che è poi stato il terreno di scontro tra le due procure. Basti pensare che Woodcock ha intercettato Tiziano Renzi, non indagato a Napoli, mentre quest’ultimo era indagato a Roma, ma non intercettato dai magistrati capitolini. Si tratta delle conversazioni penalmente irrilevanti con il figlio Matteo e il suo avvocato poi finite sul Fatto. È anche per questo metodo d’indagine poco trasparente e per le ripetute fughe di notizie che la procura di Roma, prima ancora che le intercettazioni finiscano sui giornali, ritira con una mossa clamorosa la delega d’indagine al Noe. La procura di Napoli, su spinta di Woodcock, invece decide di confermare la delega al gruppo di carabinieri legato al capitano Ultimo con cui il pm napoletano lavora in sintonia da anni. Il problema è che Woodcock ha confermato fiducia ai carabinieri del Noe anche dopo che Scafarto è finito sotto indagine: si tratta di errori e non di falsificazioni, dice. E persino dopo che sono state pubblicate le intercettazioni di Renzi. In maniera del tutto speculare, quando è Woodcock a finire sotto indagine come Scafarto per fuga di notizie e falso i suoi superiori gli lasciano la titolarità dell’inchiesta. È vero che il nuovo procuratore capo di Napoli Gianni Melillo si è insediato da poche settimane. Ed è anche comprensibile che per opportunità "politica" si voglia evitare di fare scelte oggetto di contestazione. Ma forse la magistratura e il Csm, che tengono tanto all’autogoverno, dovrebbero rispondere a una domanda: è normale che un pm continui a occuparsi dell’inchiesta per cui è indagato? È opportuno sia rispetto alle possibili vittime sia per il bene e la credibilità dell’inchiesta? Mafia. Il 416 bis ha compiuto 35 anni, ecco tutti i numeri in Italia tp24.it, 19 settembre 2017 Ha compiuto 35 anni la legge n. 646, del 416 bis, più nota come legge "Rognoni-La Torre", sul reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. L’approvazione della legge avvenuta il 13 settembre del 1982, subì un’accelerazione dopo l’omicidio del segretario regionale siciliano del Partito Comunista Italiano, Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile, e del prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre sempre dello stesso anno. Il testo della legge: "Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da due o tre persone è punito con la reclusione da tre a sei anni. L’associazione è considerata di tipo mafioso quando chi ne fa parte si avvale della "forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva" per commettere delitti, acquisire attività economiche, concessioni, appalti pubblici o vantaggi, sia per sé che per altri". I numeri attuali - In Italia secondo gli ultimi dati Istat e della Direzione Investigativa Antimafia, non calano né denunce né arresti per l’associazione di stampo mafioso. In base ai dati il numero di denunce effettuato dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria per 416 bis è andato diminuendo tra il 2010 e il 2012, ma ha ricominciato a salire negli ultimi anni. Nel 2014 e nel 2015 si sono registrate rispettivamente 89 e 85 denunce, contro le 68 del 2012 e le 75 del 2013. Numeri comunque più bassi rispetto a un decennio fa: nel 2007 le denunce erano state infatti 140. Per la direzione investigativa antimafia nel 2016 le persone denunciate e arrestate per associazione a delinquere di stampo mafioso sono state 2.619. Se a questi si aggiungono i soggetti denunciati e arrestati per 416 ter (scambio politico-mafioso) e condannati con aggravante del metodo mafioso la cifra sale a 4.792. I detenuti - I detenuti presenti nelle carceri, condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, secondo i numeri dell’Istat, dicono che sono in netto peggioramento nel tempo. Se nel 2008 i detenuti per il reato del 416 bis erano 5.257, nel 2016 il numero è salito a 6.967 e, secondo i dati provvisori del 2017, aggiornati al 30 giugno, il numero arriva a 7.048. Processi - Il dato più aggiornato sul sito del Ministero della Giustizia in merito ai procedimenti penali per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso è invece del 2013: sono 5.967 i procedimenti giudiziari contro noti e ignoti. Tra le novità più recenti che riguardano le interpretazioni e l’applicazione della legge "Rognoni-La Torre", bisogna ricordare che ultimamente è stata allargata anche a forme non tradizionali di organizzazione mafiosa, ma che hanno il "vincolo associativo" e della condizione di "assoggettamento e omertà". Un esempio è quello della mafia rumena a Torino: a giugno la Cassazione ha annullato le assoluzioni dall’accusa di associazione di stampo mafioso per i soggetti coinvolti nell’omonimo processo e ha ordinato un nuovo processo in Corte d’appello, proprio tenendo conto della nuova interpretazione giurisprudenziale. Imputazione generica, il giudice restituisce gli atti al Pm di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 18 ottobre 2017 n. 42563. È legittimo il provvedimento con cui il Tribunale "in fase predibattimentale" dichiari la nullità del capo di imputazione formulato dal Pm e disponga direttamente la restituzione degli atti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 18 settembre 2017 n. 42563, dichiarando inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica del Tribunale di Trieste che aveva lamentato l’"abnormità" del provvedimento perché non preceduto dalla "sollecitazione ad integrare o precisare la contestazione". Che, sempre secondo la Procura, "si presentava agevolmente integrabile in dibattimento", trattandosi di supposta appropriazione indebita di denaro derivante da operazioni commerciali relative ad alcune fatture. Per la Suprema corte il principio che "più si attaglia alla fattispecie" è quello "recentemente" espresso dalla Corte (n. 34825/2016) secondo cui "non è abnorme il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiari la nullità del decreto di citazione a giudizio per l’indeterminatezza del contenuto descrittivo dell’imputazione e disponga la restituzione degli atti al P.m." perché "non determina alcuna stasi del procedimento". In linea, prosegue, anche la diversa pronuncia secondo cui "in caso di genericità o indeterminatezza del fatto descritto nel capo di imputazione, il giudice del dibattimento deve dichiarare la nullità del decreto che dispone il giudizio, ai sensi dell’art. 429, comma 2, c.p.p. (o del decreto di citazione a giudizio, ai sensi dell’art. 552, comma 2), senza alcuna previa sollecitazione, rivolta al P.m., ad integrare o precisare la contestazione, non essendo estensibile, alla fase dibattimentale, il meccanismo correttivo che consente al giudice dell’udienza preliminare di sollecitare il p.m. alle opportune precisazioni e integrazioni, indicandogli, con ordinanza interlocutoria, gli elementi di fatto e le ragioni giuridiche alla base del rilevato difetto dell’imputazione" (n. 23832/2016). L’opposto indirizzo di legittimità, invece, sostiene l’abnormità dell’ordinanza del giudice del dibattimento che restituisce gli atti al Pm (senza averlo preventivamente sollecitato) perché violerebbe il principio della ragionevole durata del processo. Tuttavia, spiega la decisione, tale principio è stato espresso dalle Sezioni Unite (n. 05307/2007) per la particolare "fluidità" dell’udienza preliminare, "finalizzata, da un lato, ad assicurare l’adeguamento dell’addebito a quanto emerge dagli atti, e, dall’altro, a condurre ad un’imputazione definitiva". Ma, ad avviso del Collegio, tali argomentazioni "non sono estensibili alla fase del dibattimento". È vero, infatti, prosegue il ragionamento, che anche in tale fase sono possibili modifiche o integrazioni dell’imputazione (artt. 516e 518 c.p.p.), con restituzione in termini per l’esercizio di alcune facoltà: "ma si tratta non di dare determinatezza a ciò che non l’aveva originariamente, bensì di situazioni di fatto ben delineate nella prospettazione originaria del proprio contenuto che risultano poi superate dagli accadimenti istruttori". Del resto, conclude la decisione, "quand’anche illegittimo, il provvedimento di cui si discute non può determinare alcuna stasi del procedimento, sicché esso non presenta i caratteri dell’abnormità". Il taglio delle ferie non allunga i tempi delle sentenze di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2017 Il taglio alle ferie dei magistrati non giustifica uno slittamento dei termini per la redazione delle sentenze. Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, con la sentenza 42361 depositata ieri, escludono che la sospensione feriale, concessa alle parti, possa riguardare anche i giudici. La risposta è in linea con l’orientamento già espresso dalle Sezioni unite, con la sentenza Giacomini (7478/1996), adottata per sciogliere un contrasto sempre in occasione di una prima riduzione del periodo di ferie dei magistrati(da 60 giorni a 45). Secondo il principio allora affermato, e consolidato nel tempo, la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale doveva essere considerata non operativa per il deposito della motivazione della sentenza. Principio che, secondo la sezione remittente (ordinanza 13843\ 2017), meritava di essere rivisto alla luce della legge 132/2014 con la quale le ferie delle toghe sono passate da 45 giorni a 30, in maniera "sensibile e incongrua". Una valutazione "imposta" anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) che hanno riconosciuto il diritto sociale fondamentale alle ferie annuali retribuite. Per il giudice nazionale era dunque necessaria una nuova verifica dell’interpretazione della disciplina tesa a garantirne l’effettività senza indebite compressioni. La decisione dalle Sezioni unite non va però nella direzione indicata e auspicata dalla sezione remittente. Con la sentenza di ieri, il Supremo collegio chiarisce, infatti, che la soluzione per rendere effettivo il diritto alla fruibilità delle ferie non sta nel sospendere la redazione delle sentenze nel periodo feriale, ma si trova nell’articolo 16, comma 4 della legge 132/2014 che impone di prevedere "misure organizzative con carattere di normazione secondaria". Il diritto alle ferie dei magistrati non può essere contrapposto ai diritti fondamentali dipendenti dal processo penale: dalla libertà personale dell’imputato alla ragionevole durata del processo. Il processo civile e quello amministrativo - precisano i giudici - restano poco sensibili al tema non essendo per questi previste immediate conseguenze in caso di mancato rispetto del termine in questione. Il Consiglio superiore della magistratura è già intervenuto per dettare misure organizzative per orientare i magistrati nella programmazione delle ferie. Varie le mosse dell’organo di autogoverno dei giudici per garantire sia il godimento del riposo sia l’attività richiesta: dalla possibilità di chiedere al dirigente di essere richiamato in servizio per gli atti urgenti, ai cosiddetti periodi di "distacco" e di "rientro", da un maggiore controllo sull’approvazione delle tabelle feriali adottate dai singoli uffici giudiziari alla modifica del parametro della "diligenza" che impone di considerare se la scadenza del termine cade nel periodo feriale. Informatori solo con l’anonimato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 42566/2017. Criteri rigidi sui confidenti della polizia. Con altrettanta rigidità nel delimitare il perimetro della categoria del segreto di polizia. E allora un’informazione fornita nel corso di una perquisizione può rappresentare un indizio di colpevolezza se resa da chi non era mai stato informatore e non aveva espresso la volontà di proteggere l’anonimato. Via libera allora all’utilizzo della notizia per corroborare il quadro dei gravi indizi di colpevolezza per effettuare le intercettazioni. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 42566 della sesta sezione penale depositata ieri. La pronuncia ricorda che devono essere considerati informatori di polizia, i confidenti e cioè chi, dietro compenso di denaro o comunque potendo contare su altri vantaggi, fornisce agli investigatori informazioni con sistematicità. Sono poi necessari due requisiti precisi, il primo rappresentato dal carattere di segretezza, frutto della volontà dell’interessato di rimanere nell’anonimato per opportunità o sicurezza personale; il secondo è rappresentato dal rapporto fiduciario del confidente con le forze di polizia e cioè tra chi fornisce e chi riceve una determinata notizia. "Il confidente - avverte la Cassazione - si identifica con chi ha un rapporto tendenzialmente stabile con la polizia giudiziaria, sinallagmatico, nel senso che, a fronte di informazioni ricevute, l’inquirente è in qualche modo tenuto al segreto sulla rivelazione dell’identità del delatore". Il divieto di utilizzo delle notizie acquisite da informatori per la valutazione del quadro indiziario non scatta poi quando la polizia giudiziaria ha indicato negli atti le generalità dell’informatore. Come pure non può essere considerata tecnicamente informatore una persona informata dei fatti che, avvicinata dagli investigatori, ha rilasciato dichiarazioni che poi si è rifiutata di sottoscrivere. Nel caso in esame, la notizia rilevante era stata acquisita dagli agenti nel corso di una perquisizione; a fornirla era poi stata una persona che non aveva precedenti rapporti di confidenza con la polizia e non aveva espresso la volontà di rimanere nell’ombra, autorizzando in questo modo il suo utilizzo per la richiesta di intercettazioni. La mancata contestazione del reato presupposto non esclude l’auto-riciclaggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 42561/2017. In punta di diritto: la mancata contestazione del reato presupposto non esclude i gravi indizi di colpevolezza per autoriciclaggio. In punta di fatto: il consulente contabile che non segnala all’Ufficio italiano cambio le operazioni sospette rischia di essere indagato proprio per autoriciclaggio. Queste le conclusioni che si possono trarre dalla sentenza della Seconda sezione penale della Corte di cassazione depositata ieri, la n. 42561. La pronuncia ha così accolto il ricorso presentato dalla Procura contro l’ordinanza del riesame che aveva annullato a sua volta la misura degli arresti domiciliari nei confronti di un professionista. Cosa emergeva a carico del professionista, stando alla lettura del capo d’imputazione provvisorio? Che, in veste di consulente delle scritture contabili di un gruppo societario, avrebbe tenuto in maniera confusa e irregolare la contabilità e che non avrebbe segnalato all’Uic, pur avendone l’obbligo sulla base dell’articolo 41 del decreto legislativo n. 231 del 2007, operazioni di interposizione societaria che avevano come obiettivo il reimpiego di somme di provenienza criminale. Per il tribunale del riesame tuttavia le conclusioni erano state diverse, visto che aveva annullato la misura cautelare, ritenendo invece che il complesso degli elementi raccolti non permetteva di affermare che l’indagato aveva piena consapevolezza che le somme investite provenissero da reati. Contro la pronuncia, l’impugnazione del Pm aveva invece sottolineato come il professionista non fosse neppure la "classica" testa di legno, punto già sufficiente a fondare gli arresti domiciliari, ma piuttosto un soggetto in possesso di competenze particolari in materia tributaria e contabile, dotato inoltre di un minimo di potere gestorio visto che aveva le password di accesso ai conti della società. È vero poi che al professionista non era stato contestato il reato presupposto e cioè la bancarotta, ma questo di per sé non poteva escludere l’esistenza di gravi indizi di autoriciclaggio: nel caso infatti si poteva profilare un’ipotesi di concorso dell’extraneus nel reato proprio. La Cassazione sottolinea innanzitutto che lo stesso Riesame dà conto dell’esistenza di rapporti opachi tra il professionista e l’imprenditore e tuttavia non ha poi tenuto conto del fatto che il professionista era l’uomo deputato alla redazione dei bilanci e alla tenuta delle scritture contabili sella società attraverso i cui conti transitava il denaro proveniente dalla bancarotte; inoltre, dato poi valorizzato in particolare dalla Corte, a mancare era stata la segnalazione di una specifica operazione sospetta, chiaro indizio della volontà di del professionista di favorire l’imprenditore. Pertanto, "la mancata contestazione in capo a X del reato presupposto (bancarotta) non può escludere la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in capo all’indagato del reato di autoriciclaggio, posto che nel caso in esame si sostiene la sussistenza di un’ipotesi di concorso dell’extraneus nel reato proprio". Patteggiamento: ricorso per cassazione solo per errore manifesto. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2017 Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Cd. patteggiamento - Art. 444 c.p.p. - Accordo sul reato - Inammissibilità - Errore manifesto valido motivo del ricorso per Cassazione. In tema di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., il ricorso per Cassazione fondato sull’erronea qualificazione giuridica del fatto contestato deve essere limitato al solo caso di "errore manifesto", ossia alle sole ipotesi in cui sussista l’eventualità che l’accordo sulla pena da applicare si trasformi in accordo sul reato: a evitare, infatti, che le parti travalichino i limiti propri dell’istituto in esame, un ruolo decisivo è svolto dal giudice che è chiamato a ratificare l’accordo, con una adeguata motivazione della relativa sentenza in punto di qualificazione giuridica dell’addebito. Al contrario, l’errore sulla qualificazione giuridica dell’illecito penale va escluso - quale valido motivo di impugnazione della sentenza di patteggiamento con ricorso per Cassazione - tutte le volte in cui presenti margine di opinabilità. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 25 agosto 2017 n. 39441. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Sentenza - Erronea qualificazione giuridica del fatto - Deducibilità come motivo di ricorso per cassazione - Condizioni. In tema di patteggiamento, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza è limitata ai casi in cui tale qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione, dovendo in particolare escludersi l’ammissibilità dell’impugnazione che richiami, quale necessario passaggio logico del motivo di ricorso, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza dalla contestazione. • Corte cassazione, sezione VII penale, ordinanza 1 ottobre 2015 n. 39600. Patteggiamento - Ricorso per cassazione - Denuncia di erronea qualificazione giuridica del fatto - Insussistente nel caso di specie. Per consolidato orientamento giurisprudenziale, in tema di patteggiamento, il ricorso per cassazione può denunciare anche l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo negoziale e recepita dal giudice, in quanto la qualificazione giuridica è materia sottratta alla disponibilità delle parti e l’errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera b). Nondimeno, l’errore sul nomen iuris deve essere manifesto, secondo il predetto orientamento, che ne ammette la deducibilità nei soli casi in cui sussista l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità. (Nel caso di specie, la deducibilità dell’invocato errore deve essere esclusa, non risultando prima facie erronea o strumentale la qualificazione giuridica dei fatti, così come proposta dalle parti e positivamente delibata dal giudice a quo). • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 4 marzo 2016 n. 8956. Patteggiamento - Sentenza - Ricorso per cassazione - Deduzione dell’erronea qualificazione giuridica del fatto - Ammissibilità - Ragioni - Limiti. Con il ricorso per Cassazione avverso la sentenza di patteggiamento può essere denunciata, per errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lettera b), solo l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo delle parti e recepita dal giudice, essendo materia sottratta alla disponibilità di parte. Il giudice ha dunque il dovere di verificare che il fatto contestato sia stato correttamente qualificato, non già in termini meramente formali, ma sostanziali e specifici, in ordine alla fattispecie concreta quale emerge dagli atti, essendo tale indagine necessaria per una corretta valutazione della congruità della pena. Ciò può ritenersi avvenuto allorquando il giudice non recepisce meramente quanto enunciato nei capi di incolpazione, ma evidenzia i fatti contestati sulla base degli atti di indagine. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 13 ottobre 2016 n. 43323. Benevento: detenuto di 40 anni ritrovato senza vita in cella di Palmina Varricchio tgnewstv.it, 19 settembre 2017 Tragica scoperta ieri mattina presso l’istituto penitenziario di Benevento: durante il normale controllo numerico è stato ritrovato senza vita un detenuto. Ad insospettire il personale penitenziario il fatto che l’uomo, di circa quarant’anni, non si alzasse e rimanesse immobile nel letto. Nonostante l’ immediato intervento da parte dei sanitari in un estremo tentativo di rianimazione, non c’è stato più nulla da fare. Da un primo esame esterno sembra che non siano state evidenziate tracce di violenza o di autolesionismo, pare che l’uomo avesse problemi di salute e che per tale motivo assumesse molti farmaci. Secondo indiscrezioni la salma sarà trasportata presso il locale ospedale civile per essere sottoposta ad autopsia, per stabilire l’esatta causa del decesso Catanzaro: la salute psico-fisica dei carcerati, l’impegno di Santi Consolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2017 Il Capo del Dap ha inaugurato a Catanzaro il servizio multi professionale integrato. La salvaguardia della salute fisica e psichica in carcere è uno dei maggiori problemi che colpisce la popolazione detenuta e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta cercando di porvi rimedio. Il 14 settembre scorso, il capo del Dap Santi Consolo ha inaugurato il servizio multi professionale integrato di assistenza intensiva, istituito presso la Casa circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro. Il centro, attivo dal 15 settembre, è destinato all’assistenza sanitaria specialistica delle persone detenute provenienti sia dagli istituti penitenziari della Regione Calabria che da altre regioni. L’iter per la sua costituzione ha preso avvio il 20 luglio 2013 con la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra il ministro della Giustizia e il presidente della giunta regionale della Calabria, definito il 31 maggio 2017 con la firma dell’accordo operativo tra il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Calabria, la direzione della Casa circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, il dipartimento Tutela della salute e Politiche sanitarie della Regione Calabria e la direzione dell’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro. Il centro eroga da subito i seguenti servizi sanitari: riabilitazione estensiva a ciclo continuativo per 11 posti letto; servizi sanitari generali dell’istituto penitenziario e servizi ambulatoriali per le branche specialistiche (15 branche specialistiche e di un’attività di riabilitazione attraverso un ampio servizio di fisioterapia); 6 posti di degenza. Al termine delle procedure di selezione del personale infermieristico da parte della Asp di Catanzaro saranno attivati anche i seguenti servizi di carattere psichiatrico i cui locali sono già attrezzati: una sezione di 8 posti di degenza per i servizi di tutela intramuraria della salute mentale; una sezione di 5 posti di degenza ai fini dell’accertamento delle infermità psichiche. L’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, ricordiamo, è di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Servizi sanitari regionali. Il trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali è stato definito con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ 1 aprile 2008. Con esso, assieme alle funzioni, sono state trasferite al fondo sanitario nazionale e ai fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Eppure l’emergenza sanitaria negli istituti penitenziari è all’ordine del giorno. Lo stato emergenziale della realtà carceraria italiana è noto: detenuti ben oltre il numero massimo ospitabile; agenti di custodia sott’organico; medici, psicologi e operatori sanitari in numero irrisorio. Non mancano casi di malasanità all’interno del carcere con la conseguenza di detenuti che sono morti senza aver avuto cure adeguate. Numerosi casi sono ancora pendenti e in altri casi, le indagini sono ancora in corso. L’ultimo caso riguarda Donato Cartelli, 58 anni di Uggiano La Chiesa, deceduto il 19 febbraio scorso, colpito probabilmente da un infarto durante la sua permanenza nel carcere pugliese di Borgo San Nicola. La tragedia colse di sorpresa i familiari della vittima che presentarono una denuncia sul tavolo della magistratura inquirente. L’uomo, a loro dire, non aveva mai lamentato alcun problema di salute se non un malanno legato ad una semplice influenza stagionale. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, il detenuto venne sottoposto ad un trattamento farmacologico consistito in quattro iniezioni. A distanza da un mese dalla cura è morto di infarto. Verrà effettuata una perizia che servirà per accertare se la diagnosi dei sanitari intervenuti nella vicenda, nonché le cure prescritte siano state appropriate. Oltre ai casi malasanità, però, come alcune vicende riportate da Il Dubbio, ci sono situazioni in cui i detenuti soffrono di patologie gravi e il carcere non è adeguato. Ma i magistrati di sorveglianza non dispongono i domiciliari o trasferimenti presso strutture adeguate per la cura. Livorno: modello Pianosa, detenuti in libertà nell’isola carcere di Letizia Cini La Nazione, 19 settembre 2017 Il direttore del penitenziario: "Essere qui è un privilegio. Poche regole da rispettare". "Odio la parola ergastolo. Cosa ci guadagna lo Stato a mettere al muro un uomo?". Ha lo sguardo lontano Gafon, 38 anni della Romania, in carcere fino al 2032 per "aver preso una vita". "A lungo mi sono dichiarato innocente - sospira serio, passandosi la mano abbronzata dal sole dei campi dietro la nuca -. Poi ho deciso di non mentire più né a me stesso né agli altri e di guardarmi nello specchio: oggi vedo un uomo migliore; se lo sono, il merito è anche di quest’isola". Alza gli occhi azzurri e accenna un sorriso, prima di tornare ai suoi sacchetti: pomodori, zucchine, basilico, melanzane - tutto rigorosamente bio - destinati agli ospiti di un hotel elbano a 5 stelle e ai turisti che a Pianosa sbarcano a frotte ogni giorno e con i quali Gafon condivide lo stesso cielo e gli stessi profumi. Un dettaglio fa la differenza: a fine giornata, loro possono ripartire. Con altri 22 detenuti Gafon fa parte del piccolo nucleo di reclusi rimasti sull’Isola del Diavolo in regime di "carcere aperto" che nei mesi estivi convive con il popolo dei vacanzieri (250 quelli in transito, oltre a una manciata di stanziali, ospitati nelle foresterie del ministero di Grazia e giustizia e del Parco dell’Arcipelago). Nessun problema per i detenuti, anzi sei di loro lavorano nel piccolo albergo "Marisa" gestito fra qualche critica dalla Cooperativa sociale l’Intreccio che ha preso in concessione fino al 31 dicembre le due attività: l’hotel praticamente completo fino agli inizi di settembre (130 euro a notte in agosto la richiesta per una matrimoniale, tutto compreso) e il bar tavola calda. I detenuti arrivano tutti da Porto Azzurro, penitenziario realizzato nella fortezza spagnola del XVII secolo all’Isola d’Elba, conosciuto dai vecchi elbani come l’ergastolo di Porto Longone: il "carcere chiuso". "Essere a Pianosa è un privilegio, ma bisogna conquistarselo" tentenna Vincenzo, nato 47 anni fa a Battipaglia, dentro fino al 2024 "per l’omicidio di uno spacciatore", confida. "E pensare che all’inizio non volevo venirci in questa sezione distaccata - riprende guardandosi le mani grandi. A Porto Azzurro frequento la scuola carceraria, voglio prendere la maturità, qui mi occupo delle pulizie, ma quando ero un uomo libero facevo l’idraulico. A casa, a Napoli, ho lasciato tre figli, la seconda aspetta (sorride accarezzandosi la pancia) e ho un sacco di motivi per comportarmi bene, il direttore lo sa. Per questo mi ha scelto, su consiglio del mio educatore". A decidere chi può essere trasferito a Pianosa è Francesco D’Anselmo, 60 anni, da due direttore della casa di reclusione di Forte San Giacomo (Porto Azzurro) al suo quindicesimo impegno. Napoletano, laurea in giurisprudenza, ha deciso di "puntare sulla massima sicurezza della struttura, potenziando però le chance di lavoro per i detenuti, con l’obiettivo di un miglior reinserimento nella società", come spiega lui stesso con una punta di orgoglio. "Ho diretto numerosi istituti di pena, tra gli altri, il carcere di Parma, Rimini, Castelfranco Emilia, Sassari e la Scuola di formazione della polizia penitenziaria di Monastir, a Cagliari", riprende D’Anselmo, che a Castelfranco Emilia ha sperimentato un progetto rivolto ai detenuti tossicodipendenti, "decidendo di farli lavorare nei campi - sottolinea -. Anche a Pianosa tutti i detenuti lavorano, alcuni con i turisti, con i quali possono rapportarsi senza eccedere: la condizione indispensabile è infatti il rispetto delle regole, poche ma insindacabili. Non per tutti il regime di carcere aperto è possibile, è indispensabile la massima affidabilità, altrimenti... si torna subito dietro le sbarre". A vigilare sulla piccola comunità che vive in un regime di autogestione controllata - camere a due letti dotate di tv e wi-fi, un piccolo appartamento per incontrarsi in intimità con la propria famiglia, computer on line e cellulari consentiti - quattro agenti di polizia penitenziaria. Michele ha lo sguardo da duro e 28 anni di esperienza a Pianosa, con una parentesi all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: "Volevo avvicinarmi a casa, ma è stato il periodo più brutto della mia vita - confida quest’uomo dagli occhi tristi: a Pianosa è un’altra realtà, un altro modo di vivere la pena. Esiste un’effettiva possibilità di riscatto per i detenuti, che passa attraverso il contatto con i compagni, la natura, la possibilità di riacquistare la propria dignità guadagnando qualcosa grazie a un lavoro vero e magari aiutare la propria famiglia". Hassen, tunisino, ne è la testimonianza: "Faccio il cuoco per gli altri detenuti e sono rinato", dice. "A 43 anni, dal 1974 a oggi di carceri ne ho visitati un bel po’ - racconta mentre gira il sugo: Foggia, Bari... 7, 8 uomini in una stanza senza fare niente, quello è l’inferno vero. Qui sono tornato a vivere: i turisti sono curiosi di vedere i carcerati, qualcuno ci viene apposta (ride, ndr). Ma anche noi abbiamo qualcosa in cambio da loro: osservare un bambino che gioca allarga il cuore, ti riporta indietro, alla normalità. Quando sono entrato in carcere mia figlia aveva 9 anni. Il giorno in cui la rivedrò, mi troverò davanti una donna". Padova: l’appello del professor Poli del Cpia "detenuti, più cultura per rieducarli" vvox.it, 19 settembre 2017 "Discutiamo pubblicamente su come recuperarli alla società. Lavorare non basta". I carcerati, questi invisibili che invece, secondo umanità, utilità e anche secondo Costituzione, potrebbero e dovrebbero essere recuperati al vivere civile. A Padova da vent’anni ci prova, e ci riesce pure, un professore appassionato che fa studiare i detenuti per far loro conquistare, o riconquistare, la dignità di cittadini. È Luciano Poli responsabile del Cpia, il centro di istruzione per adulti dei due carceri padovani, il penale per le lunghe condanne e il circondariale per i reati "minori". "Due realtà totalmente diverse", precisa lui, "che impongono a noi di operare in modo diverso: nel circondariale, per dire, c’è una andirivieni di persone che entrano ed escono, e questo influisce sull’insegnamento". Insegnamento che ultimamente, spiega sempre Poli, "è molto orientato al lavoro", a imparare un’attività da spendere poi sul mercato lavorativo una volta usciti dalla cella. Ed è nel merito di questo punto che Poli vuole entrare lanciando una sorta di pubblico appello: "siamo sicuri che basti solo lavorare durante la detenzione, per rieducare e far reinserire una persona in società? Mi scusi il bisticcio di parole, ma c’è tutto un lavoro da fare sui valori essenziali, sul senso critico, sulle capacità intellettuali ed etiche dei detenuti. Su questo manca un coordinamento fra le cooperative che gestiscono la parte diciamo lavorativa e noi della scuola". La domanda sorge lubranamente spontanea: e perché non vi parlate direttamente fra voi, all’interno? "Perché vorremmo che il dibattito fosse invece pubblico, alla luce del sole". Poli fa un piccolo esempio della dimensione di cui parla: "un detenuto ha fatto un corso di informatica, di cui prima sapeva poco o nulla, e gli viene in mente di regalare al figlio di otto anni una carta di credito elettronica. Alla fine, invece, dopo alcune lezioni di letteratura, gli ha regalato la storia di Pinocchio. È questo che vorremmo avesse più spazio: il senso dei valori. Oppure la cultura della responsabilità e della cittadinanza, come quel rapinatore che si credeva innocente solo perché non aveva ucciso nessuno, e invece alla fine capì il valore negativo del suo atto". Detta in termini correnti, Poli sembra suggerire di dare più risalto e importanza alla parte umanistica e civica del percorso rieducativo. "Sì, perché se diamo solo lavoro, che per carità va benissimo, ma non motiviamo all’esercizio del pensiero, non diamo loro la possibilità di elaborare e formulare idee proprie. Ed è questa parte che ci rende davvero umani". Ed è lo scambio di idee "fra tutti i soggetti che operano nel mondo delle carceri" che il docente di tecnologia auspica per uscire dall’aridità attuale. "E abbiamo cominciato a farlo, qui a Padova. Ma quel che chiedo è una discussione aperta. C’è bisogno di mettere i dubbi in piazza". Una "piazza", intesa come agorà politica, che degli individui dietro le sbarre parla solo quando scoppiano violenze o proteste dovute specialmente al sovraffollamento, piaga ormai endemica del sistema penitenziario italiano. Poli ovviamente non lo nega, ma aggiunge: "in Italia ci sono tanti problemi, perché non dovrebbero essercene anche in carcere? Ci sono anche però realtà che funzionano, come le scuole carcerarie, o fra gli agenti di polizia. Vedere solo quel che non va deriva forse anche dal fatto che il carcere è un luogo dove tutto è elementare, concreto, immediato, materiale. E invece bisogna sviluppare anche, se mi passa l’espressione, l’astratto e il simbolico. In questo senso, per esempio, ci sono compagnie teatrali che coinvolgono i carcerati". Inutile nascondere, tuttavia, che per quanto si debba tentare il recupero, alcuni restano irrecuperabili: "è un compito difficile, sì, ma indispensabile. È come per gli studenti: non bisogna generalizzare. Mi ricordo di uno che, nell’ora d’aria, lo sentii ripetere agli altri la mia lezione sul mito greco. Piccole soddisfazioni, ma che rendono la bellezza di insegnare". Anche agli allievi ritenuti a torto, in molti casi, impossibili da istruire ad essere fino in fondo umani. O, come diceva il vecchio Aristotele, "animali sociali". Venezia: Bottan "il carcere mi ha regalato una seconda chance, coi disabili" di Simone Fanti Corriere della Sera, 19 settembre 2017 Dopo 6 anni trascorsi in vari istituti carcerari del nord Italia per reati finanziari Claudio Bottan si dedica al giornalismo e "a realizzare piccoli e grandi sogni di persone con disabilità". "E per fortuna è arrivato il carcere...". Una frase pronunciata con lentezza, dando peso ad ogni parola. La voce è quella di Claudio Bottan, 58 anni, di Jesolo (Ve), fino ad ottobre in affidamento ai servizi sociali dopo 6 anni di carcere. Reati finanziari o come dice lui "delirio di onnipotenza da imprenditore con 12 società in giro per l’Europa e 5 macchine in garage", lo hanno condotto in prigione nel 2011, prima a Busto Arsizio (Va) poi in altri 5 penitenziari del nord Italia. "Ero una persona scomoda - racconta - in carcere, prima dell’introduzione della sorveglianza dinamica che consente di muoversi all’interno della sezione, avevo solo 2 ore d’aria. Si viveva per 22 ore in uno spazio angusto, sovraffollato, dove se scendevi dal letto calpestavi qualcuno. Io per sopravvivere all’annientamento della persona, ho iniziato ad aiutare gli altri carcerati, scrivendo lettere per chi aveva una bassa scolarità o petizioni e ricorsi per migliorare la vita carceraria o quella di qualche compagno di cella". Raccontare e descrivere è ormai la sua quotidianità, tanto da diventare - mentre era in carcere - una penna di Vocelibera, prima blog e poi periodico fondato da Fabrizio Corona e diretto da suo fratello Federico. Da quando è fuori dalle mura, ha iniziato invece a lavorare alla redazione di alcuni settimanali. "In quel luogo devi dare un senso al tempo - racconta Bottan - o forse trovare un senso: gli amici e gli affetti si volatilizzano quando entri in prigione, una "strage" di persone. Il senso delle cose, del possesso cambia: non hai più nulla se non pochi oggetti che potresti portare in tasca. Ti rendi conto che mentre tu sei congelato in quel luogo, il mondo va avanti: sono entrato in carcere che si iniziavano a vendere smartphone, sono uscito che non c’era un telefono che avesse ancora una tastiera". Fuori la vita continua - Mentre Claudio era dietro le sbarre è diventato nonno di "una bellissima bambina". Il figlio vive in Veneto e l’affidamento ai servizi sociali limita le sue possibilità di movimento. Può viaggiare entro i confini della Lombardia e può star fuori di casa dalla 6 di mattina fino alle 23. "Prima del carcere avevo una bulimia del possesso, non avevo mai abbastanza - prosegue il 58enne - oggi desidero cose piccole, giocare con mia nipote, o mettere i piedi in acqua al mare. Sono un uomo di mare, sono 7 anni che anelo il mare". Piccoli desideri che sono grandi sogni. Gli stessi sogni che condividono le persone con disabilità che ha conosciuto in questi anni. "Una delle prime interviste da "quasi libero" l’ho fatta a Simona Anedda, persona con sclerosi multipla e la passione per i viaggi. Ho letto un post di Simona - spiega - e mi sono ritrovato: ho captato che le persone con disabilità vivono gli stessi stereotipi e lo stesso pietismo che riscontravo in chi si interfacciava con me. Ma per loro la parola "fine pena" non verrà mai pronunciata". Da questi incontri è nata una profonda amicizia "che mi ha spinto ad approfondire le tematiche legate alla disabilità e occuparmi di storie di ordinario coraggio" L’impegno per le persone con disabilità - Simona Anedda ha fatto conoscere a Bottan sia Federico Villa (atleta paralimpico che si definisce "handbiker vagabondo" per la sua passione per i viaggi in luoghi "ostili: Vietnam e Argentina") che Antonio Spica (una persona in sedia a rotelle che lavora per la protezione civile). "Poi è stata la volta di Roxana, handkiker e modella "seduta", ma anche di Luca, Ivan, Ilaria e tante altre storie raccontate e da raccontare". Con tutti si è creato un rapporto di amicizia, e di supporto: "cerco di aiutarli a realizzare i piccoli e grandi desideri della vita". "Non si tratta di storie che si esauriscono con un articolo o qualche post, ma di incontri, chiacchierate, confidenze e - soprattutto - progetti". Progetti che presto diventeranno sempre più concreti con la creazione di un’associazione volta alla realizzazione dei "sogni delle persone con disabilità, che dovrebbe vedere la luce a cavallo di questo inverno" conclude Bottan. Messina: ex Opg Barcellona Pozzo di Gotto, Villarosa (M5S) interroga il Ministro di Serena Guzzone strettoweb.com, 19 settembre 2017 Villarosa M5SIl deputato Cinque Stelle Villarosa, continua a sollecitare provvedimenti per la trasformazione dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in carcere. Il deputato ha già incontrato più volte il Direttore dott. Rosania presentato diversi Atti Parlamentari per il completamento del percorso iniziato il 24 luglio 2014 con l’approvazione dell’Ordine del Giorno a firma Villarosa. "Il nuovo atto pone l’attenzione sull’evasione di tre detenuto avvenuta a luglio di quest’anno e sulla carenza di personale di Polizia penitenziaria realmente e concretamente operante con tali compiti che sarebbero circa 60 (cioè la metà di quelli in servizio) da dividere nei 3 turni - dichiara il deputato Cinque Stelle. Una situazione che necessita immediato intervento in modo da garantire il giusto grado di sicurezza ed anche la corretta alternanza di lavoro/pausa a quella parte di agenti di Polizia Penitenziaria che svolgono concretamente l’attività lavorativa con i detenuti. La trasformazione dell’OPG in carcere - conclude - è senza dubbio una risorsa preziosa ed importante per Barcellona Pozzo di Gotto, ma tale risorsa deve essere utilizzata al meglio, quindi con un adeguato numero di persone che lavorano attivamente per la sicurezza del carcere e dei detenuti stessi, con l’adeguamento della pianta organica considerando le nuove esigenze che la struttura carceraria complessa necessita". Rovigo: nuovo carcere, già ci sono problemi "sicurezza ridotta, rischi d’evasione" Corriere Veneto, 19 settembre 2017 Appello dei sindacati al sottosegretario Migliore, in visita alla struttura. Nel carcere di Rovigo, inaugurato a febbraio 2016 dopo nove anni di lavori e un costo di 29 milioni di euro, emergono preoccupanti problemi agli impianti di videosorveglianza e ai sistemi anti-scavalcamento, come riconosciuto da Gennaro Migliore, ieri in visita alla struttura. Carenze in tipi di settori che creano rischi di sicurezza e di possibili evasioni di detenuti. Il tema per i sindacati di polizia penitenziaria è serio e va affrontato con prontezza. "Sulla videosorveglianza - spiega Gianpietro Pegoraro, segretario regionale Fp Cgil di settore-è necessaria una costanza delle manutenzioni che al momento non c’è. Urgente individuare un’azienda che se ne occupi con una presenza permanente, proprio per evitare quelle situazioni di emergenza che non si sono fin qui verificate". "Ci sono misure da rafforzare, ma non pericoli di evasione - rassicura il sottosegretario alla Giustizia Migliore - c’è un’importante carenza di personale ma, ciò nonostante, i lavoratori in servizio hanno saputo prevenire eventuali criticità". Migliore assicura che la questione è nell’agenda del governo. "Ci impegniamo da subito per intervenire nei tempi più rapidi – rilancia. La videosorveglianza con le esigenze di manutenzione permanente è importante, ma non è il solo problema. C’è la necessità di rendere più agevole il lavoro nelle cabine di regia da cui dipende parte importante della sicurezza, dato che ci sono giunte segnalazioni di problemi di climatizzazione. O, ancora, gli ascensori che non vanno. Ma il tema prioritario resta quello dell’incremento del personale, con il Dipartimento chiamato a fare le verifiche sui numeri mancanti". E Diego Crivellari, deputato polesano del Pd, gli si affianca per "superare prima possibile questa transizione". Secondo i dati di Fp-Cgil, in servizio ci sono 65 poliziotti a fronte di un’esigenza minima di 77. La mancanza di personale non solo rende più difficile garantire la piena sicurezza nella struttura. "Gli investimenti per il personale - riprende Migliore - dovranno sostenere anche le iniziative per portare il lavoro dentro, come opportunità di riqualificazione e reinserimento per chi sta scontando la detenzione". In questo ambito era emersa la disponibilità del calzaturificio "Redmond" di Villanova del Ghebbo. Una lunga lista di questioni su cui Migliore si è confrontato col prefetto e i responsabili delle forze dell’ordine, ma anche con i sindacati e le associazioni di volontariato. Trento: "Out", un mercato con prodotti dal carcere Eventi a Trento trentotoday.it, 19 settembre 2017 Da venerdì 29 settembre a lunedì 2 ottobre, presso Impact Hub e il cinema Astra, si svolgerà Out, un market dedicato ai prodotti di qualità realizzati dai detenuti nelle carceri italiane con musica dal vivo, cultura e sport. Out è un momento di incontro e riflessione sulle sinergie che si possono creare tra il dentro e il fuori del carcere. Venerdì: Cinema Astra di Trento, ore 21.00, proiezione del film "Il più grande sogno" di Michele Vannucci. Sabato e domenica, a Impact Hub (via Sanseverino 95 - Trento) dalle 10.30 alle 19.00 mercatino di prodotti - abbigliamento, accessori, oggetti artigianali, prodotti alimentari - realizzati da detenuti di alcune carceri italiane. Lunedì: Campo di Cognola (Via Ponte Alto 79 - Trento), ore 15.00, partita di calcio tra l’AC Trento e un gruppo di detenuti appassionati di calcio. Il progetto nasce dalla collaborazione di La Sfera - cooperativa sociale che, a partire dal 2015, ha iniziato a lavorare all’interno della Casa Circondariale di Trento dando vita al progetto Galeorto - e Impact Hub Trentino - spazio di animazione imprenditoriale e innovazione sociale". Taranto: con il Coni lezioni di pallavolo e ginnastica per i detenuti e le detenute altervista.org, 19 settembre 2017 È partito ieri, lunedì 18 settembre, il progetto finanziato dal Coni denominato "Reinserimento… Attraverso lo Sport" e rivolto ai detenuti e alle detenute della locale Casa Circondariale. L’iniziativa, autorizzata dalla Magistratura di Sorveglianza di Taranto, ha trovato subito l’attenzione e la piena condivisione della Direzione dell’istituto penitenziario tarantino, per gli importanti aspetti di valenza educativa che essa propone. Un impegno convinto, pertanto, quello del Coni e della locale Casa Circondariale "C. Magli", finalizzato alla promozione dello sviluppo anche della persona detenuta, volto ad attuare quei principi sanciti dalla Legge, che vedono nell’attività sportiva un elemento importante del trattamento penitenziario, in grado di favorire percorsi di maturazione e crescita personale, nonché di supportare prospettive di cambiamento comportamentale e relazionale, per un più efficace reinserimento sociale. Anche per questa terza edizione il principale obiettivo dell’iniziativa non sarà, dunque, solo prevenire patologie legate ad uno stile di vita sedentario, ma soprattutto promuovere il recupero del detenuto, che nello Sport ha modo di sperimentare non solo una condizione di migliore benessere fisico, ma anche valori importanti come la lealtà, il rispetto delle regole e l’impegno teso al conseguimento di un risultato, fondamentali nel vivere civile. L’iniziativa- che rientra nel progetto di carattere regionale "Sport in Carcere" promosso dal Coni Puglia - vedrà coinvolti complessivamente una trentina fra detenuti e detenute: i primi svolgeranno attività di pallavolo mentre le seconde invece si cimenteranno nella disciplina della ginnastica. La novità di quest’anno, rispetto alle altre edizioni, è il coinvolgimento della sezione femminile della Casa Circondariale che anche in questo ha trovato il pieno sostegno da parte del Direttore, dott.ssa Stefania Baldassari, e del suo staff. Il progetto prevede, per entrambe le discipline, due allenamenti settimanali per la durata di tre mesi - con un evento finale dimostrativo - a cura di istruttori qualificati, rispettivamente, della Federazione Italiana Pallavolo e della Federazione Ginnastica d’Italia. Un ringraziamento particolare va anche al Presidente Provinciale della Fipav, dott. Cosimo Tarantino, e al Delegato Provinciale della Fgi Liliana Carrieri che hanno abbracciato sin da subito l’iniziativa. Roma: la moda incontra Rebibbia, l’Accademia Sartori lancia il corso per i detenuti affaritaliani.it, 19 settembre 2017 Lezioni di taglio e cucito per i 15 allievi più promettenti. Carcere e moda si incontrano per dare una seconda possibilità ai detenuti che stanno scontando la propria pena tra le mura di Rebibbia. L’Accademia Sartori ha lanciato il progetto "Made in Rebibbia", che prevede l’avvio di un corso triennale dedicato ai 15 detenuti più promettenti in materia di taglio e cucito. Al termine degli studi, i partecipanti saranno pronti ad affrontare il mondo del lavoro con un bagaglio di competenze specialistiche nel settore della moda. L’arte sartoriale diventa quindi strumento di rieducazione. Il corso prenderà il via il 25 settembre grazie alla Scuola dell’Accademia Sartoriale più antica d’Italia della quale fanno parte le grandi firme della sartoria su misura. Oltre a formare figure professionali in grado di rispondere alle richieste del mercato e ad incentivare un ricambio generazionale, l’Accademia si interessa al sociale con progetti di tipo diverso. L’attività didattica sarà curata da due maestri sarti con la supervisione del Presidente dell’Accademia Ilario Piscioneri che, settimanalmente, monitorerà il lavoro svolto dagli studenti. BMW Roma ha scelto di supportare il progetto finanziando l’acquisto di attrezzature come macchine da cucire, banchi di lavoro, ferri da stiro che sono strumenti essenziali per allestire le aule dove i detenuti inizieranno il loro percorso. Migranti. Il vecchio tentativo di farsi coprire dalla società civile di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 19 settembre 2017 Era il 28 marzo del 1999 quando alla riunione del Tavolo di Coordinamento governo associazioni per gli aiuti alla ex Jugoslavia, presenti l’attuale ministro Marco Minniti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Livia Turco, allora ministra del governo D’Alema, alle organizzazioni intervenute fu proposto - racconta Giulio Marcon nel suo libro "Le ambiguità degli aiuti umanitari: indagine critica sul terzo settore" - di partecipare al grande progetto italiano di assistenza ai profughi kosovari: Missione Arcobaleno. "Mentre bombardano, aiutano i profughi", scrive Giulio Marcon. Dopo quasi vent’anni il governo Gentiloni e il ministro Minniti propongono un metodo analogo. Lo stesso schema di allora. "Non staremo sotto il vostro elmetto". Questa fu la risposta di Raffaella Bolini, dirigente dell’Arci, per esprimere il dissenso del Consorzio Italiano di Solidarietà e di una parte delle organizzazioni presenti, che non partecipo’ alla Missione Arcobaleno. Anche oggi per noi dell’Arci, e non solo, la questione si pone negli stessi termini: non indosseremo la giacca del governo italiano e dell’Unione europea che hanno dichiarato guerra ai migranti. Fanno accordi con dittatori e governi fantoccio, con milizie criminali che torturano e stuprano, inviano strumenti e risorse per bloccare le persone in modo che nessuno possa arrivare alle nostre frontiere a chiedere protezione. Alle organizzazioni sociali, alle Ong che si occupano di progetti di cooperazione allo sviluppo, chiedono di collaborare per garantire servizi e i diritti umani delle persone che subiscono trattamenti disumani e violenti. Come con la missione Arcobaleno si mettono in campo risorse, pare 6 milioni di euro, per intervenire nei lager libici, aprire nuovi campi e gestirli, in collaborazione con le autorità libiche. Presentate progetti, diranno, come avrebbero detto da lì a poco, nel lontano 1999 per i profughi kosovari. Aiutiamoli in Libia, con progetti da finanziare alle Ong. Cioè aiutiamoli a casa di altri per non farli arrivare in Europa, a "casa nostra", e sentirci a posto con la coscienza. Un tentativo, come avvenne all’epoca, di avere una copertura dalla società civile, dal terzo settore, per un’operazione vergognosa, in questo caso di esternalizzazione delle frontiere, di guerra ai migranti, che ha trovato una forte opposizione sociale, nonostante l’ampio consenso pubblico. Il tentativo di dividere le organizzazioni tra buone e cattive, com’è stato fatto con il codice delle Ong. Chi collabora sarà premiato, sul piano della comunicazione pubblica e delle risorse. Chi dissente sarà criminalizzato e isolato. Si rilancerà l’insulto "buonista" per mettere all’indice chi non vuole arrendersi alle violazioni della nostra Costituzione (ex art.10), della legge e delle convenzioni internazionali. Si dirà, com’è stato detto con il Codice Minniti, che c’è chi vuole partecipare a risolvere i problemi e chi invece fa l’anima bella e non si preoccupa del crescente razzismo che deriverebbe dagli arrivi sulle nostre coste, come dicono i "razzisti democratici". La Missione Arcobaleno fu una brutta pagina della storia delle organizzazioni che svolgono attività di solidarietà internazionale e di tutela dei diritti. Un’iniziativa di un governo di centrosinistra per dividere e distrarre l’opinione pubblica, ricercando un consenso altrimenti difficile da ottenere. Oggi, protagonisti nuovi e vecchi, ripropongono quel tentativo. Speriamo che nessuno caschi in questo tranello, per soldi o per calcolo politico. Una risposta forte e chiara di dissenso dalla società è auspicabile. E proveremo insieme ad altri a metterla in campo in questo autunno. Nel frattempo, come in quella primavera del 1999, è bene far arrivare al governo un forte signornò! *Vicepresidente Arci Migranti. Rapporti tra Ong e scafisti, da foto e racconti un’altra verità di Stefania Maurizi La Repubblica, 19 settembre 2017 Dalle consegne dirette dei trafficanti alle barche restituite, una serie di testimonianze contestano la versione degli inquirenti sulle attività di Iuventa. Che adesso verranno discusse dai giudici del Riesame. Li hanno accusati di avere contatti con gli scafisti, favorendo l’immigrazione clandestina. Tutto e solo per fini umanitari: per salvare più vite umane possibile. Ma nel provvedimento giudiziario non ci sono prove di rapporti loschi con i trafficanti per trarne profitto. E tuttavia le accuse della Procura di Trapani contro l’Ong Jugend Rettet sono pesanti, tanto da aver portato al sequestro della sua nave Iuventa: una misura contro la quale è stato presentato ricorso, la cui discussione è in programma il 19 settembre da parte del Tribunale del Riesame. Ma l’analisi di una serie di scambi email dell’Ong, di fotografie e testimonianze, condotta da Repubblica, fa emergere una versione dei fatti diversa. La rotta del gommone - Tra le contestazioni più serie ci sono due fatti a cui un agente sotto copertura del Servizio centrale operativo della polizia (Sco) avrebbe assistito il 18 giugno scorso. Iuventa avrebbe consentito ai trafficanti di recuperare imbarcazioni di legno vuote da riutilizzare. L’undercover documenta l’episodio con alcune foto, tra cui due finite su tutti i media italiani: in una si vede un gommone di soccorso con motore (Rhib) situato vicino a due barche azzurre degli scafisti ed etichettato come di proprietà della Iuventa. Quel Rhib, però, è completamente diverso da quello dell’Ong tedesca. Nella seconda foto, invece, si vede un piccolo gommone con motore - effettivamente della Iuventa e ribattezzato Lilly - che traina un barcone dei trafficanti. Dove lo porta? Secondo l’agente dello Sco, si dirige verso la costa libica. Ma nessun’altra immagine, a oggi disponibile, lo conferma al di là di ogni dubbio. Del tutto diversa la versione dei fatti della Iuventa e di un testimone tedesco, Friedrich Kuechler, a bordo della nave Seefuchs dell’Ong SeeEye, che quella mattina si è recata sulla scena dei soccorsi per offrire aiuto a Iuventa e alla nave Vos Hestia dell’Ong Save The Children: la barca vuota è stata solo spostata dall’area dei soccorsi, dove era d’intralcio. "Prima che potessimo procedere alla distruzione delle imbarcazioni - dichiara Jugend Rettet - è stato avvistato un gommone con i rifugiati e al nostro Lilly è stato ordinato di fornire loro assistenza. Mentre i due nostri Rhib distribuivano i giubbotti di salvataggio, un altro scafo ha rubato le tre imbarcazioni di legno e le ha trainate verso la Libia". Jugend Rettet rigetta risolutamente l’accusa di avere rapporti con i trafficanti. L’enigma della consegna diretta - L’altra contestazione altrettanto grave si riferisce a un’operazione di soccorso avvenuta nella stessa area il 18 giugno intorno alle 11 di mattina. Secondo l’agente dello Sco, si sarebbe verificato "un vero e proprio rendez-vous tra operatori della Iuventa e presunti trafficanti finalizzato alla consegna di alcuni migranti". Lo scambio di email tra la nave della Jugend Rettet e la Guardia Costiera italiana documenta che Iuventa si trovava lì fin dal primo mattino di quel 18 giugno, perché la Guardia Costiera le aveva chiesto di andarci, con un’email inviata alle 4.41. Nessun accordo con gli scafisti, quindi, ma il rispetto delle regole del coordinamento. Lì intorno alle 11 avviene quella che gli agenti dello Sco ricostruiscono come una ‘consegna direttà di migranti dagli scafisti alla Iuventa. Ma l’Ong tedesca e il testimone Friedrich Kuechler, che precisa di aver assistito a questo secondo episodio servendosi di un binocolo, offrono una lettura molto diversa dei fatti. "L’equipaggio del nostro Rhib - spiega Kuechler - era molto più vicino e ci ha confermato che non c’è stata alcuna consegna diretta". La richiesta allo Sco della polizia di potere visionare un eventuale video integrale girato dall’undercover, che permetta di ricostruire i fatti del 18 giugno, e di chiarire le discrepanze, non ha ricevuto risposte. Rendez-vous col fantasma - L’inchiesta non manca di ipotesi sinistre sulla Iuventa. Tra il 4 e il 6 maggio scorso, la nave resiste agli ordini della Guardia Costiera italiana di recarsi a Lampedusa con a bordo solo 5 minorenni salvati, sospendendo quindi i soccorsi in un momento di emergenza. Le email della Iuventa alle autorità italiane espongono le sue motivazioni: l’Ong non capisce la logica, protesta, ma poi obbedisce. La Guardia Costiera sospetta che quel temporeggiamento fosse dovuto a un possibile rendez-vous tra Iuventa e una misteriosa nave fantasma: la Shada. In quel periodo sulla Iuventa viaggiava la documentarista tedesca, Nathalie Suthor, titolare della casa di produzione Benstar Media di Colonia: con il suo cameramen, girava un documentario sull’Ong, trasmesso dalla tv tedesca Zdf. Iuventa aveva un rendez-vous con un altro vascello? Suthor liquida la domanda come ridicola. "Quel giorno ho passato tanto tempo sul ponte della nave, perché eravamo tutti sconvolti per gli ordini della Guardia Costiera di Roma. Per me era intollerabile: eravamo costretti a sentire le chiamate di aiuto, senza poter fare nulla!". Migranti. "Criminalizzare le Ong ha portato al fenomeno delle barche fantasma" di Laura Anello La Stampa, 19 settembre 2017 "Le barche fantasma? Lo avevo previsto un mese fa, quando furono criminalizzate le navi delle Ong nel tentativo di chiudere la rotta libica. La Marina militare italiana, insieme con le associazioni umanitarie, garantiva un certo controllo delle rotte". Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo all’Università di Palermo, parla a Lampedusa alla platea di venticinque studenti della Scuola di alta Formazione di Sociologia del Territorio, promossa dall’associazione italiana di Sociologia per formare nuovi professionisti dell’accoglienza. Giovani laureati e dottorandi arrivati dalle università di tutta Italia e venuti a studiare il fenomeno sul campo. Qui rimbalza come oggetto di studio il tema del nuovo fenomeno arrivi dal Maghreb. Migranti destinati al rimpatrio, migranti "economici", come vengono chiamati in contrapposizione ai richiedenti asilo dell’Africa subsahariana. Migranti che nel 2011, con la Primavera araba, arrivarono a migliaia e che adesso sono tornati a sbarcare alla spicciolata, con barche medio-piccole. Perché? "Probabilmente il flusso è favorito dal fatto che i controlli ora si concentrano davanti alle coste libiche - spiega Vassallo Paleologo - e dunque lasciano spazi liberi di passaggio nella zona meridionale delle acque tunisine. Di certo questa gente non arriva in seguito a provvedimenti di amnistia adottati dal governo, ma dalla fame di lavoro che attanaglia anche chi ha perduto la possibilità di lavorare in Libia a causa della situazione di conflitto attorno agli insediamenti estrattivi. Ne è conferma la presenza, tra i migranti in fuga, di personale impiegato nei compound dove si estraevano gas e petroli". Carlo Colloca, docente di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Catania, consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti, nel comitato scientifico della Scuola di alta formazione, va ancora più in là. "Dobbiamo ancora capire - dice - se queste barche fantasma sono l’effetto del cambiamento delle rotte migratorie o se qualcosa di più strutturato, come avvenne per la Primavera araba. Quel che posso dire di certo è che la situazione di allarme sociale che era stata rappresentata dal sindaco qui sull’isola, con tunisini per strada ubriachi e molesti, non risponde assolutamente a verità. E già difficile incontrarli". Quanto al blocco dei flussi dalla Libia, esprime tutti i suoi dubbi: "Le Nazioni Unite ci dicono che fino al 2025 arriveranno tra cento e centoventimila migranti all’anno, ed è una stima al ribasso, che non tiene conto di eventuali disastri ambientali. Sempre all’Onu si discute della possibilità di estendere il diritto di asilo a chi fugge da grandi cambiamenti climatici, tali per esempio da rendere impossibile l’accesso all’acqua. Se la si guarda in questo modo, diventa più difficile distinguere con nettezza tra richiedenti asilo e migranti economici". Chi non ha dubbi è Fausto Melluso, responsabile migranti dell’Arci Palermo, intento ad attrezzare la sede con brande e materassi. "Ci sono appena stati due sbarchi - dice - uno a Trapani e uno a Palermo. E i nordafricani non sapranno dove andare. Migranti economici? E chi può affermare che nel Nord Africa non ci siano violazioni dei diritti umani?". Migranti. "Quella delle barche fantasma è una migrazione pericolosa" di Fabio Albanese La Stampa, 19 settembre 2017 L’allarme del procuratore di Agrigento: "Sfuggono ai radar, rischio terroristi". "Un’immigrazione pericolosa". Dice proprio così il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio quando parla degli "sbarchi fantasma" che vanno avanti da inizio estate sulle spiagge dell’Agrigentino e su quelle di Lampedusa e Linosa, e su cui ha aperto diverse inchieste. Migliaia di persone, quasi tutte tunisine, in piena notte o all’alba sbarcano da barche in legno o piccoli pescherecci e fanno perdere le loro tracce. Ne hanno contati circa cinquemila di questi "nuovi" migranti, 2.100 sulle coste dell’Agrigentino, 2.800 su quelle dell’isola di Lampedusa e perfino nella piccola e isolatissima Linosa. Di almeno la metà si sono perse le tracce, quelli finiti nelle isole delle Pelagie invece quasi sempre sono presi e accompagnati nell’hotspot di Lampedusa, quello che il sindaco Martello vorrebbe vedere chiuso, in attesa di essere rimpatriati. "Ma non è la nuova rotta dei migranti al posto di quella libica - avverte Patronaggio - anzi, sembra di essere tornati indietro di 10-15 anni, quando i migranti partivano dalle coste tunisine e venivano in Italia a cercar fortuna". Pericolo terroristi - Questi migranti, che la burocrazia ministeriale oggi definirebbe "economici", hanno un profilo più complesso: "Sono quasi tutti tunisini, più qualche maghrebino - dice il procuratore di Agrigento - ma i motivi per cui arrivano in Italia potrebbero non essere solo legati a bisogni economici. Tra loro ci sono persone che non vogliono farsi identificare, gente già espulsa in passato dall’Italia o appena liberata con l’amnistia dalle carceri tunisine o magari che ha preso parte alle rivolte del 2011". In mezzo alla grande cautela dettata dalle indagini in corso, condotte da polizia e carabinieri sulla terra e da Guardia di finanza e Guardia costiera in mare, il pm non può aggiungere molto ma identifica i timori: "Tra loro potrebbero esserci anche persone legate al terrorismo internazionale. Per questo penso che siamo di fronte a un’immigrazione pericolosa". C’è un particolare che ha fatto suonare un campanello d’allarme negli scorsi giorni: il 27 agosto, dopo uno dei tanti sbarchi su una delle spiagge agrigentine, quella di Torre Salsa, è stata trovata una felpa nera con la scritta "haters Paris" e un’immagine della Tour Eiffel rovesciata, assieme a un telefonino, dei vestiti inzuppati, un brick di latte. Sparire nel nulla - Quella dei vestiti inzuppati trovati dietro le dune delle spiagge è una costante di questi sbarchi. "Questi migranti - racconta Patronaggio - arrivano in gruppi di 30-40, quasi sempre su barche in legno o piccoli pescherecci di 10-12 metri che poi abbandonano arenandoli sulla spiaggia. Appena scendono dall’imbarcazione, si nascondono dietro le dune, cambiano gli abiti bagnati con altri puliti e fuggono via. Qualcuno lo intercettiamo sulla strada e lo blocchiamo, gli altri spariscono. Pensiamo a carichi misti sulle barche, di gente che paga e di altri che non lo fanno, guidati però da personale esperto che sa come manovrare una barca". Ma ci sono anche pescherecci più grossi con 50-60 persone. Testimoni degli sbarchi sulle spiagge agrigentine raccontano che i migranti raggiungono la statale 115 e chiedono dove sia la più vicina stazione ferroviaria. "Riteniamo che i più scaltri abbiano qualcuno che li attende e li porta via; è possibile che ci siano dei basisti a terra". Non tutti arrivano con i barchini da spiaggiare. E pare che altri gruppi siano portati fino a terra con altre barche o con gommoni che poi riprendono il largo. Particolare che fa pensare alla presenza di "navi madre" su cui viaggiano in centinaia, poi distribuiti in piccoli gruppi su diverse spiagge, quasi tutte poco accessibili. D’altronde, l’elenco di sbarchi è lungo: solo da metà agosto se ne contano almeno undici: uno il 17, uno il 25 e un altro il 27 agosto; in settembre il 5 a Siculiana, il 6 sulla spiaggia Giallonardo di Realmonte, il 7 uno sulla spiaggia di Saccagrande a Ribera e un altro tra Montallegro e Siculiana, il 14 a Licata, il 15 settembre ben tre, uno nella riserva di Torre Salsa, uno nella spettacolare spiaggia della Scala dei Turchi mentre il terzo gruppo di 95 persone è stato intercettato al largo di Realmonte da una motovedetta della Guardia di finanza. Le rotte dalla Tunisia - A Lampedusa come nell’Agrigentino, ciò che colpisce è il fatto che quasi sempre queste imbarcazioni sfuggono alla rete di controlli nel Mediterraneo del dispositivo Frontex o dell’operazione Sophia. Nessuno le vede fin quando non arrivano. "Se esiste una nave madre, questa potrebbe essere benissimo scambiata per una imbarcazione impegnata nella pesca con il cianciolo che prevede la presenza di quattro barche più piccole attorno a quella grande - ipotizza il procuratore - e dunque nessuno potrebbe sospettare". I tunisini seguirebbero due rotte: una partirebbe da Biserta e dirigerebbe verso la Sicilia, l’Agrigentino, l’altra da Sfax punterebbe su Lampedusa: "Ma è possibile che chi va verso Lampedusa in realtà abbia perso la rotta - dice il pm - perché sanno benissimo che a Lampedusa si resta bloccati e si viene rimpatriati. E di certo non è questo il loro obiettivo". Resta il perché solo adesso si sia messa in moto questa nuova migrazione: qualcuno ipotizza che sia una sorta di pressione indiretta delle autorità tunisine perché anche il loro Paese rientri nei piani europei per la lotta all’immigrazione. Questione di soldi. Germania. In carcere ad Amburgo, cresce la protesta per i cinque attivisti italiani di Beppe Caccia Il Manifesto, 19 settembre 2017 Per quattro di loro, a oltre settanta giorni dall’arresto, durante il G20 di luglio, è stato fissato il processo. Per Fabio Vettorel no. A oltre settanta giorni dal loro arresto, e dopo il rilascio avvenuto il 10 agosto di Maria Rocco, sono ancora in carcere ad Amburgo cinque dei sei italiani fermati durante le proteste contro il Vertice G20 del 6/8 luglio scorsi. Per quattro di loro, Alessandro Rapisarda e Orazio Sciuto del centro sociale "Liotru" di Catania, Emiliano Puleo attivista di Rifondazione di Partinico e Riccardo Lupano di Genova, è infine stata fissata la data dei processi, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre prossimi. Particolarmente grave e, per diversi aspetti, paradossale il caso del giovane Fabio Vettorel, studente diciannovenne, e pertanto considerato "minorenne" dal diritto tedesco, di Feltre (Belluno) totalmente incensurato, per il quale non è stato ancora deciso né il rinvio a giudizio né il giorno del dibattimento. Un fatto dai due possibili significati - come argomenta la madre Jamila Baroni, ad Amburgo per seguirne da vicino la situazione: "O intendono accanirsi, visto che la detenzione preventiva potrebbe durare fino a sei mesi, o potrebbero decidere il suo completo proscioglimento, ma non sanno più come venirne fuori". Come ricostruito infatti anche da un reportage di Panorama ARD (primo canale della tv pubblica tedesca) le prove raccolte a suo carico sono inconsistenti e contraddette dagli stessi video della polizia. Al tempo stesso proprio nei confronti di Fabio sono state applicate dal 6 agosto scorso misure duramente restrittive della possibilità di comunicare con l’esterno e appare inquietante il "profilo psicologico" negativo che di lui è stato tracciato dai periti del Tribunale. Alla condizione degli oltre trenta cittadini stranieri ancora detenuti è stato in parte dedicato, venerdì scorso ad Amburgo, l’incontro pubblico "G20: che cosa è stato nel racconto di chi c’era", organizzato dalla piattaforma Grenzenlos Solidarität statt G20 (Solidarietà senza confini contro i G20), promotrice della marcia conclusiva dell’8 luglio scorso con oltre ottantamila manifestanti, cui avevano aderito movimenti sociali, organizzazioni non governative, sindacati e partiti della sinistra come Die Linke. Presso la camera del lavoro Dgb, di fronte a oltre trecento persone, è stato documentato e denunciato il vero e proprio "stato di emergenza", costruito a luglio nella città anseatica dal governo conservatore federale e da quello locale a guida socialdemocratica. Sotto l’attenta lente d’ingrandimento di avvocati e giornalisti, attiviste e parlamentari della Sinistra, sono state denunciate le sistematiche violazioni dei diritti garantiti dalla Carta fondamentale dell’Unione Europea e dalla Costituzione tedesca - a partire dalla libertà di circolazione e dal diritto di espressione delle proprie idee - e i conseguenti innumerevoli abusi e violenze commessi dalle forze dell’ordine. È stato ricordato come, a conclusione della settimana di proteste, sia stata scatenata da parte della Polizia tedesca una mirata "caccia all’attivista straniero", individuato come facile "capro espiatorio" della brutale e fallimentare gestione dell’ordine pubblico in quei giorni. Nei confronti degli stranieri arrestati è stato applicato un trattamento evidentemente "discriminatorio e vendicativo", come attestato dalle prime sproporzionate condanne, fino a due anni e nove mesi di carcere, comminate nei tre processi fin qui giunti a sentenza. Dopo le prime interrogazioni parlamentari presentate dal gruppo di Sinistra Italiana, mobilitazioni di piazza in diverse città e gli altri atti ispettivi depositati anche dai senatori Pd Manconi e Puppato e dal 5S D’Incà, il vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, Erasmo Palazzotto (Si) cercherà nei prossimi giorni un’interlocuzione con la diplomazia tedesca a Roma "per fare quello che finora non ha voluto fare il governo italiano, ovvero chiedere che Fabio Vettorel e tutti gli altri prigionieri dei G20 siano subito liberati. Perché la libertà di movimento, il diritto a manifestare liberamente in tutta Europa devono essere tutelati, ieri ad Amburgo, domani ovunque". Egitto. L’odissea dell’avvocato Tarek Hussein, nell’inferno delle carceri di al-Sisi di Greta Marchesi Il Dubbio, 19 settembre 2017 La testimonianza agghiacciante del legale e attivista dei diritti umani arrestato senza prove dalla polizia arriva due giorni dopo il rapporto di Human Right Watch che parla di "torture e abusi sistematici nelle prigioni del Cairo". Il suo nome è Tarek "Tito" Hussein, ha 24 anni ed è un avvocato egiziano che si occupa di diritti umani. La sua è l’ultima testimonianza in ordine di tempo sulle torture e la negazione dei diritti umani fondamentali dei detenuti da parte degli apparati di sicurezza egiziani durante l’era Al Sisi, a pochi giorni dall’uscita di un report di Human Rights Watch in cui si mette in evidenza l’utilizzo sistematico di tortura e abusi in Egitto. Hussein è stato incarcerato senza capi d’accusa e detenuto per cinque settimane, raccontate da lui stesso al britannico Guardian. Il suo calvario inizia il 17 giugno scorso, nel quartiere di Kafr Hamza, nella zona settentrionale del Cairo. Alle prime luci della mattina la madre di Tarek va ad aprire alla porta dopo aver sentito bussare, e di fronte si trova una cinquantina di poliziotti armati fino ai denti. Tarek chiede che gli sia mostrato un mandato d’arresto, invano. Lo prelevano, senza comunicare alla madre su dove lo stessero portando. Nei successivi 42 giorni, viene spostato da una stazione della polizia all’altra: tentativi di estorcere falsa testimonianza con la violenza, negazione dell’accesso ad un avvocato e interrogatori via via sempre più brutali, con tanto di elettroshock. Non gli viene detto di cosa è accusato, finché non viene portato di fronte ad un giudice. Lì scopre di dover fare i conti con l’accusa di "incitamento contro lo Stato e appartenenza alla Fratellanza Musulmana". Accusa infondata visto che Hussein era stato uno dei più fermi oppositori del movimento islamista fondato, sopratutto durante l’anno in cui esso era stato al potere nel 2011. I militari non lo tengono solo in stazioni di polizia ma anche intere giornate chiuso in furgoni della polizia, in isolamento oppure in celle con altri 150 detenuti. Le sue condizioni peggiorano, e quando inizia a vomitare sangue nessuno gli offre assistenza medica. In compenso gli viene detto di essere stato condannato a un anno di prigione, ma non gli viene mai comunicato il capo d’accusa. Lo scorso anno Amnesty International aveva pubblicato un rapporto in cui si faceva luce sul vertiginoso aumento delle sparizioni forzate in Egitto a partire dal 2013: per un certo periodo, durante lo stato d’emergenza, le autorità egiziane sarebbero arrivate a rapire in media quattro cittadini al giorno, senza comunicar loro il motivo. Uno di loro è l’amico e collega di Hussein, l’avvocato Ibrahim Metwally Hegazy, fondatore dell’Associazione delle famiglie dei desaparecidos e condannato a 5 anni di prigione. Hegazy viene associato soprattutto all’indagine sull’assassinio di Giulio Regeni lo scorso anno. Libia. Sabha, la fortezza nel deserto degli schiavi di Alfredo Marsala Il Manifesto, 19 settembre 2017 Più di mille le persone arrestate nelle ultime ore dai guardacoste libici. Condizioni disumane nei campi, gli aguzzini sono milizie ora ‘regolarì. La denuncia di Medu, l’organizzazione dei medici per i diritti umani, che ha raccolto 2mila testimonianze. Torturati dai trafficanti di esseri umani e ora ridotti in schiavitù anche dai miliziani "regolari". L’accordo dell’Italia con la Libia, spinto dall’Ue, mostra il volto disumano di un occidente che come unico obiettivo ha quello di respingere, costi quel che costi. A denunciare quanto sta accadendo è Medu, l’organizzazione dei medici per i diritti umani, che ha raccolto 2mila testimonianze nei campi dove le milizie libiche rinchiudono i migranti che vengono fermati dalla guardia costiera nordafricana, al largo delle coste. Sono più di mille le persone arrestate nelle ultime ore dai guardacoste libici, secondo quanto riporta il sito Libya Herald. Otto imbarcazioni che trasportavano mille e 74 persone sono state intercettate in mare vicino a Sabratha. In totale i migranti bloccati dai libici in diverse operazioni sono circa tremila in una settimana, il numero più elevato da metà luglio, segnale che la rotta tra Libia e Italia non si è chiusa nonostante il calo dei flussi migratori verso il nostro Paese. Medu denuncia che i migranti soccorsi vengono poi richiusi in centri di detenzione dove vivono in condizioni spaventose. In particolare a Sabha, una sorta di fortezza nel deserto nel sud-est della Libia. Il campo, denuncia l’organizzazione, è circondato da filo spinato, con i miliziani armati di mitragliatrici lungo tutto il perimetro. All’interno ci sono due settori separati: uno per gli uomini, l’altro per donne e bambini. Qui, secondo Medu, si consumano le atrocità. I migranti vengono poi rimpatriati con l’aiuto dell’organizzazione internazionale delle migrazioni oppure liberati e lasciati nuovamente in balia dei trafficanti e delle milizie. Secondo i dati del Viminale, da metà luglio a oggi in Italia sono arrivare "soltanto" 6.500 persone, il 15 per cento della media del periodo dal 2014 al 2016. Un calo dovuto proprio all’accordo italo-libico sula gestione dei migranti, che però, in base alla denuncia di Medu, nasconde una realtà fatta di orrore e maltrattamenti di chi viene intercettato e spedito nei lager. Dall’inizio dell’anno gli sbarchi, in base ai dati del ministero degli interni, sono stati 100.541, il 22 per cento in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando sulle nostre coste arrivarono 129.225 persone. Numeri che dimostrano come migliaia di persone, subsahariani e non solo, rimangano intrappolate in Libia, in mano a trafficanti e milizie. Di atrocità nei confronti dei migranti parla anche Pietro Bartolo: viaggi di ritorno dall’inferno e testimonianze dell’orrore che il medico del documentario "Fuocoammare" ha raccolto dalle brandine del presidio sanitario di Lampedusa, dove più che le ferite nei corpi, Bartolo ha curato le anime dei sopravvissuti alla morte, ma non alle violenze che si portano dentro. Perché "non è vero che i migranti trasportano malattie gravi, la vera malattia che hanno è il disagio psicologico", denuncia il medico. "Subiscono violenze inaudite, mi risultano casi di persone che sono state torturate, sulla loro pelle i segni di scuoiamento". Bartolo insiste: tutte le donne che sbarcano a Lampedusa, provenienti dalla Libia, hanno subito violenza sessuale, alcune di loro riferiscono di essere state trattate con terapie ormonali per evitare che restassero incinta e per poter essere successivamente vendute come prostitute. "In Libia i neri non hanno lo status di essere umano, le donne vengono considerate una sottospecie", accusa il medico. In Libia sono decine i centri non ufficiali dove vengono rinchiusi i migranti che vengono torturati e umiliati quando non vengono barbaramente uccisi. Solo a Tripoli se ne contano tredici; bambini, donne e uomini vengono rinchiusi in contenitori di lamiera, stipati come bestie, dove lo spazio è talmente minimo che per sdraiarsi e dormire i migranti si alternano. Chi si ammala è destinato a morire perché in questi lager i medici non possono entrare. Gli accordi con la Libia tra l’altro vengono raggirati dai trafficanti che si spostano da un città all’altra. Se fino a poco tempo fa erano Zawhia, a circa 50 Km da Tripoli, o Sabratha gli avamposti dei lager messi in piedi dalle organizzazioni criminali, molti trafficanti si stanno spostando in altre zone, come quella di Garabulli, a un centinaio di chilometri più a est, sfruttando la confusione che regna nel paese nordafricano. Il ministero degli interni di Ankara ha reso noto che oltre 10 mila migranti e rifugiati sono stati fermati dalle autorità della Turchia nell’ultima settimana mentre tentavano di attraversare le frontiere con l’Unione europea o di entrare nel Paese. Su 10.071 persone bloccate, Ankara sostiene che 665 sono state intercettate in mare. Nello stesso periodo sarebbero stati fermati 93 presunti trafficanti di migranti. Le cifre sono in netto aumento rispetto agli ultimi mesi. In particolare, appare sempre più battuta la rotta del mar Nero, che dal nord della Turchia conduce sulle coste di Bulgaria e Romania. Turchia. Inizia il processo a 30 giornalisti dello Zaman di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 settembre 2017 Trenta ex giornalisti e amministratori del quotidiano turco Zaman sono comparsi oggi in tribunale per rispondere dall’accusa di far parte della presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Gli imputati rischiano l’ergastolo con accuse di "associazione terroristica" e di aver "tentato di rovesciare" l’ordine costituzionale. Tutti respingono ogni addebito. Dei 30 imputati, 22 si trovano in custodia cautelare in carcere, tra cui l’editorialista veterano Sahin Alpay, 73 anni. "Non avrei mai scritto per Zaman se avessi avuto anche il minimo sospetto che membri del movimento di Gulen avrebbero potuto tentare un colpo di Stato. Io condanno con fermezza il fallito golpe del 15 luglio 2016. Mi pento di aver scritto per Zaman, non ho visto il lato oscuro del movimento" ha detto Sahin Alpay alla Corte. Anche un altro editorialista Ali Bulaç ha detto di non aver mai sospettato che Hizmet, come si chiamava l’organizzazione di Gulen, potesse tentare un colpo di Stato e ha chiesto di essere rilasciato. "Capisco che sia un’organizzazione terroristica ma io non ne sono mai stato un membro - ha detto Bulaç -. Non ho visto il buco per terra perché stavo guardando le stelle ma chi se ne era accorto?". Il pubblico ministero, però, prosegue per la sua strada e chiede tre ergastoli a testa per ogni imputato. "Feto (come la Turchia chiama l’organizzazione di Gulen n.d.r.) ha usato i media come un’arma per manipolare la società e Zaman ha assunto persone con idee che avrebbero potuto essere di supporto all’organizzazione. Gli editorialisti hanno fatto osservazioni per sovvertire la pace sociale e l’ordine. Non hanno esitato a invocare un golpe militare e quindi hanno fatto il loro dovere all’interno dell’organizzazione con articoli in linea con i suoi obiettivi" si legge nell’atto di accusa. Al processo assistono diversi deputati e osservatori internazionali. Prima del commissariamento nel marzo 2016 e della successiva chiusura sotto lo stato d’emergenza dichiarato dopo il fallito putsch, Zaman era il quotidiano più diffuso in Turchia. Considerato il fiore all’occhiello dell’impero mediatico dei "gulenisti", dopo aver sostenuto per anni il presidente Recep Tayyip Erdogan era passato all’opposizione a seguito della rottura di quest’ultimo con Gulen. Dal 15 luglio 2016 sono state arrestate più di 50mila persone e 170mila sono state messe sotto inchiesta. Attualmente nelle carceri turche ci sono 160 giornalisti.