Il lato oscuro delle Rems: metà dei pazienti rinchiusi prima ancora del giudizio di Carola Frediani La Stampa, 18 settembre 2017 A solo sei mesi dalla abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari il sistema rischia di scaricare sulle nuove residenze i limiti delle carceri. L’ultimo "internato" degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) è uscito a maggio. Gli eredi dei manicomi criminali sono stati chiusi, ma non ancora del tutto sconfitti. Aboliti nel 2014 per fare spazio alle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Strutture più piccole, di massimo 20 persone, distribuite sul territorio, pensate come luoghi di cura e reinserimento. Posti che dovrebbero accogliere solo autori di reati giudicati infermi o semi-infermi di mente, ma anche socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni meno restrittive. Insomma una extrema ratio, pensata per chi sia stato giudicato in via definitiva, come ha auspicato il Commissario unico per il superamento degli Opg, Franco Corleone, nella sua relazione dello scorso febbraio. Con ricoveri limitati nel tempo. Con il progressivo abbandono della contenzione, cioè dell’uso di mezzi fisici e chimici per limitare i movimenti di un paziente. Dall’orrore di certi manicomi si è passati dunque a una eccellenza italiana, una rivoluzione in corso. Che però rischia di affondare. Non per suoi demeriti e neanche per colpa di ospiti dipinti caricaturalmente come tanti Hannibal Lecter, ma trascinata dalle questioni irrisolte della giustizia e della burocrazia italiane. Ne sanno qualcosa a Bra, Piemonte, dove la Rems, provvisoria, come gran parte delle trenta residenze oggi sparse per l’Italia, è nata da una convenzione con una clinica privata, la casa di cura San Michele, dopo molte resistenze della amministrazione locale. Dopo un lungo braccio di ferro ci si è accordati su 18 posti, col paradosso che ce ne sarebbero ancora un paio a disposizione che non sono stati attivati per l’opposizione del territorio. E ci sono almeno sei persone in lista di attesa in carcere che avrebbero diritto a entrare. "La Procura tutti i giorni ci chiede disponibilità di posti letto, e noi rispondiamo che non ne abbiamo. Tonnellate di comunicazione tra noi, loro e i carabinieri", ci raccontano alla clinica. La Rems di Bra è simile a un ospedale, più colorato e ricco di attività, con aree per i laboratori, una minuscola palestra. La sorveglianza esiste, ma discreta: videocamere, porte multiple, vetri infrangibili. Dentro si respira un’aria serena: educatori giocano a carte con i pazienti, molti maschi fra i 20 e i 40 anni, nel piccolo cortile. "Sappiamo di avere poco spazio, e cerchiamo di fare tante attività all’aperto", spiega lo psichiatra Luca Patria. Uscite controllate e autorizzate, naturalmente. Per 596 ospiti delle Rems in Italia - cifra che corrisponde alla loro capienza massima - ce ne sono 289 in lista di attesa per entrare. Di questi, 205 sono però destinatari di misure provvisorie (l’analogo della custodia cautelare in carcere). Allo stesso modo, su 596 ospiti delle Rems ben 215 sono "provvisori". Una deriva rispetto alle intenzioni originarie delle Rems che rischia di farle saltare, facendo rientrare dalla finestra la logica degli ex- Opg. E il trend, sulla base delle interviste e dei dati raccolti da La Stampa, è in crescita nel 2017. A inizio agosto, in Campania, i pazienti in Rems con misure provvisorie erano 38 su 63; in Piemonte 12 su 37; in Lombardia 49 su 133. Ma se guardiamo ai nuovi ingressi avvenuti solo nel 2017, assistiamo a una crescita: in Campania 31 ingressi su 36 sono provvisori; in Lombardia 43 su 59; in Abruzzo 8 su 8; in Piemonte 5 su 11. Numeri raccolti da Giuseppe Nese, il coordinatore per il superamento degli Opg in Campania, che ha lanciato da tempo un sistema di raccolta informazioni, Smop, poi adottato anche da altre 14 regioni. Quelle citate hanno finora i dati più attendibili. Ma perché l’arrivo di persone con misure provvisorie è un problema? "In molti casi si tratta di detenuti che manifestano comportamenti disturbanti, etichettati come psichiatrici, e poi mandati in Rems", commenta Nese. "Una volta a giudizio molte di queste valutazioni vengono meno. Ma intanto le Rems sono messe in crisi dall’invio inappropriato di persone che dovrebbero essere trattate in altro modo". Concorda con questa analisi Massimo Rosa, referente per il superamento degli Opg in Piemonte. "Oggi le Rems sono un contenitore che va dalla schizofrenia ai disturbi di personalità, comprendendo persone con cultura carceraria che hanno sintomi psichiatrici. Basta uno di loro per sconvolgere tutti gli equilibri", commenta Rosa. "E la situazione potrebbe anche peggiorare visto che ad agosto è entrata in vigore la legge 103". Si tratta della riforma Orlando che potrebbe consentire l’invio anche di chi sia stato giudicato infermo di mente dopo il reato, in carcere, o chi debba essere ancora valutato nelle sue condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari non siano idonee. Da lì a ritornare agli Opg, a riavvicinarsi più alla logica della prigione che a quella della cura, il passo potrebbe essere breve. A impedirlo finora c’è solo un fragile ordine del giorno approvato dalla Camera che impegna il governo a non sovraccaricare le residenze di detenuti. Oltre alla resistenza passiva opposta da molti operatori delle Rems. "Molti magistrati di sorveglianza e gip non hanno fatto proprio il principio della riforma e si comportano come se le Rems fossero illimitate", commenta Michele Miravalle, ricercatore e attivista dell’associazione Antigone e della campagna StopOpg. "Certo che le patologie psichiatriche negli istituti di pena stanno montando, con detenuti che sviluppano scompensi o hanno problemi pregressi che non sono curati in carcere. Ma sono le Asl che dovrebbero occuparsi di queste persone". Le Rems vivono su equilibri delicati. "Sono un osservatorio sulla fragilità nella nostra società", commenta Maria Grazia Gandellini, direttrice delle Rems di Castiglione delle Stiviere, un simbolo della lunga marcia della riforma. Isolata nel verde, a pochi km da Desenzano del Garda, non ci sono quasi autobus per arrivare a quello che tutti ancora chiamano l’Opg. La struttura imponente, con prati, panchine e pure una piscina, chiusi però con recinzioni sormontate da filo spinato, fino a pochi mesi fa era sovraffollata, dovendo accogliere pazienti di più regioni, in attesa che nascessero le residenze locali. E oggi conta comunque fra i 140-160 ospiti, un numero ancora lontano dalla logica delle Rems. Anche se nei prossimi anni qui dovrebbero costruire delle strutture nuove, più piccole, e ridisegnare sei unità da 20. Intanto non mancano le preoccupazioni. Ad esempio, il cambio nella tipologia di pazienti. "Negli ultimi 6-7 anni sono aumentati i giovani con storie di problemi scolastici, abusi di sostanze, smart drugs, amfetamine", spiega Stefano Pellizzardi, direttore del sistema polimodulare delle Rems all’Asst di Mantova. "Ma anche 30-40enni, adulti con alle spalle molti fallimenti". Poi immigrati, per cui a Castiglione delle Stiviere servono anche di mediatori culturali. Pazienti con bisogni complessi, in carico a più servizi, dai dipartimenti di salute mentale ai Sert, in cui le Rems fanno da anello di congiunzione. "Arrivano da noi perché spesso è mancata l’integrazione prima fra i vari servizi", specifica Gandellini. Alcune regioni si stanno muovendo per cercare di seguire queste persone attraverso unità territoriali, con competenze miste, che facciano da coordinamento. In un certo senso le Rems mettono in luce l’assenza di sostegno per chi sta fuori. Il punto è sviluppare progetti riabilitativi assieme ai servizi territoriali. "Il problema non sono le Rems, che finora funzionano e lo si vede dai numeri: è sceso il numero di ricoverati rispetto agli Opg, e non si sono registrati problemi di sicurezza", commenta Miravalle. "Il problema è semmai: quanto sono seguite le persone fuori dalle Rems che avrebbero bisogno di cura?". Rems di Ceccano (Frosinone). "Qui dentro i più calmi sono gli assassini" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 18 settembre 2017 Dentro il recinto c’è un fazzoletto di terra, ma per fare due passi lì serve il permesso del magistrato. Così gli ospiti deambulano come zombie nei corridoi interni e si accalcano nella saletta fumatori. Solo il campo da calcetto e l’orto alleggeriscono un’architettura da caserma e la noia di giornate sempre uguali. Dentro la palazzina di due piani le tragedie personali e scarsità di mezzi uniscono i loro effetti deleteri. Qui uno degli ospiti ha dato fuoco alla propria stanza e un altro, con una testata, ha rotto il setto nasale a un operatore. La vigilanza interna è affidata a un servizio di portierato e tocca agli operatori tenere sotto controllo la situazione. Non viene trascurato alcun dettaglio e si susseguono attività riabilitative. Si è appena concluso il corso per pizzaioli (in quattro hanno conseguito l’attestato) e poi uscite di gruppo nei centri commerciali, nei paesi e nei parchi della Ciociaria, i pomeriggi al cinema a Frosinone, la pesca sportiva al laghetto, il laboratorio teatrale, i corsi di spiritualità (ci sono stati anche battesimi e conversioni). "Tutto ciò serve ad allentare la tensione interna, provocata dall’obbligo di restare nella struttura", spiega Luciano Pozzuoli, responsabile della Rems. Per ciascuno dei venti ospiti c’è un progetto di recupero terapeutico riabilitativo. "La permanenza non è detenzione ma percorso personalizzato", precisa lo psichiatra Pozzuoli che non ci sta a ridurre il suo ruolo a quello di carceriere e gira tutto il giorno per le stanze e le sale comuni. "Anche il modo in cui si risponde a un saluto conta", spiega. Paradossalmente quelli che creano minori difficoltà sono gli autori di omicidi. "Sono già abituati a stare in istituto, sono i più tranquilli". I guai maggiori li crea chi ha disturbi della personalità. "In genere hanno commesso reati di poco conto, come la resistenza a pubblico ufficiale, ma non accettano di restare, soffrono spesso di dipendenza da alcol o droghe, talvolta sono violenti con il personale e con gli altri ospiti", osserva Pozzuoli. Alcuni hanno gravi deficit cognitivi e vengono accuditi come bambini. Arrivano dagli Opg chiusi, fuori non hanno famiglie in grado di accoglierli. In lista di attesa decine di casi che cercano un sostegno in una vita devastata, non soltanto un posto letto. Prima dell’apertura si era sparso il panico tra i cittadini. Qui, però, "non ci sono mostri, ma malati che hanno bisogno di cure". Rems di Calvi Risorta (Caserta). "Molti pazienti Asl vengono deportati inutilmente da noi" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 18 settembre 2017 In Campania il paradosso è che sono definitive le strutture, mentre chi ci sta dentro non è chiaro chi debba restarci. Nell’unica regione ad aver reso stabili le Rems, su 59 persone lì ospitate 36 sono in attesa di giudizio. E cioè non è dimostrato né che abbiano commesso un reato né che soffrano di una malattia psichiatrica né che siano socialmente pericolose. Per 25 di loro i dipartimenti di salute mentale che li hanno in carico aspettano ancora che venga autorizzata dalla magistratura una misura alternativa. Emblematici i casi di un malato costretto a letto da un tumore incurabile che solo dopo un anno dalla richiesta ha ottenuto di essere dimesso dalla Rems e ricoverato in una struttura specializzata. E quello di un ex internato all’Opg di Napoli che dal 2011 ha una misura detentiva provvisoria che viene rinnovata ogni sei mesi malgrado la Asl da anni chieda di farlo uscire dalla Rems e di curarlo in una comunità terapeutica. Da un anno a Calvi la Rems è in pieno centro, in una residenza per anziani per quasi un decennio inutilizzata. "In Campania abbiamo realizzato tutte le Rems definitive e programmato il riutilizzo di quelle provvisorie - spiega lo psichiatra Giuseppe Nese, coordinatore regionale per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Con alcuni comuni della provincia di Caserta, tra cui quelli di Calvi e Mondragone, è stato siglato un protocollo. Alla riabilitazione e al reinserimento dei pazienti della Rems si sono resi disponibili famiglie e istituzioni. Offrono occasioni e luoghi reali di socializzazione, ricreazione, attività lavorative, come la piscina comunale, la ditta di catering, il laboratorio di ceramica e ciò apre le Rems al territorio e ne fa occasione di sviluppo invece che di allarme". A Calvi il tasso di dimissioni è tra i più alti in Italia, il turnover è continuo: da gennaio sono uscite 18 persone e altre 8 sono in attesa di essere dimesse. Il problema sono quelli che non dovrebbe stare lì, inclusi i pochi che scappano. "Non sono malati psichiatri, sono persone capaci di intendere e di volere che cercano di tornare a una vita ai margini della legalità e che hanno alcun bisogno di interventi sanitari", osserva Nese. In lista di attesa per entrare in una Rems ci sono 29 persone, 21 delle quali già in cura nei servizi sanitari della Campania. "Potrebbero continuare quel percorso terapeutico restando nello propria comunità senza essere "deportati" in una Rems come succedeva coi manicomi", garantisce Nese. Rems di Genova Prà. "Una fuga ha rovinato il rapporto con la città, ora serve un progetto" di Matteo Indice La Stampa, 18 settembre 2017 La data che ha fatto da spartiacque è stata domenica 22 aprile. Quando dalla Rems di Genova Prà, l’unica della Liguria, è scappato l’ex capo ultrà del Genoa Pietro Bottino: condannato per aver lanciato la fidanzata dalla finestra nel 1998 (tentato omicidio) e per una strage sfiorata in autostrada nel 2006, quando si mise a sparare a caso sulle auto dopo che aveva gambizzato un tifoso rivale in un club. Su di lui s’era scatenata per mezza giornata una specie di caccia all’uomo, ma Bottino si schiantò in moto in autostrada, morendo sul colpo. Il suo caso aveva (definitivamente) rinfocolato le polemiche su una struttura che gli abitanti del quartiere avevano accolto con freddezza, da cui s’erano registrate altre due evasioni nello spazio di poche settimane. E però i rivolgimenti dei mesi successivi dimostrano che è utile sia lanciare l’allarme, sia usare il buon senso per drenarlo. "Ci sono stati momenti critici - spiega oggi il direttore sanitario Giuseppe Berruti. Abbiamo adottato i doverosi correttivi prima della demonizzazione. Sono state rinforzate le protezioni, è stato perfezionato il collegamento in tempo reale con le forze dell’ordine. Ciò non significa che la possibilità d’una fuga sia esclusa a priori, poiché queste sono strutture sanitarie e non carceri. Ma da aprile in avanti non se ne sono più registrate e si è normalizzato pure il rapporto con la cittadinanza". La Rems di Genova, come le altre, è al top della capienza con 20 ospiti, 15 italiani e 5 stranieri, tra loro soltanto una donna fino a poche settimane fa. Dodici operatori, quattro i medici, si alternano su vari turni, l’intero servizio è gestito dal consorzio "Il Fiocco" del gruppo Fides su accreditamento della Regione e la pittura è uno dei mezzi più usati in funzione rieducativa. Soprattutto: doveva (dovrebbe) essere il supporto d’una struttura più attrezzata a Calice al Cornoviglio (provincia della Spezia), che però non si è ancora concretizzata ed ecco che a Prà hanno dovuto stringere i tempi e gestire pressione doppia. Berruti non lo nasconde eppure ci crede: "Partenza difficile, ma il rodaggio è servito eccome. Siamo in contatto con altri centri, specie quello di Parma, tra gli operatori c’è la volontà di non mollare. Se s’investe in progetti e li si pianifica senza drammatizzare le prime difficoltà, possono rappresentare una vera svolta". Rems di Casale di Mezzani (Parma). "Ogni caso è diverso, non c’è una cura unica" di Giacomo Galeazzi La Stampa, 18 settembre 2017 Un giovane africano dai capelli rasta fissa la campagna l’intero pomeriggio. Si rianima solo per fuggire l’obiettivo. "No foto", si copre il volto. In Italia ci sono 600 ospiti nelle Rems e 300 in lista d’attesa. Quanto sia complicato occuparsi di loro lo dimostra questa ex scuola alle porte di Parma riconvertita nel 1999 in residenza per patologie psichiatriche croniche e poi ristrutturata e divenuta nell’aprile 2015 una delle prime Rems istituite dalla legge 81 del 2014 che ha chiuso gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Vetri antisfondamento alle finestre, una recinzione perimetrale ed impianti di videosorveglianza lungo la recinzione e negli spazi comuni interni, 23 operatori che si alternano in un programma personale di cura e di riabilitazione che dura in media un anno. La responsabile Giuseppina Paulillo ha sulla scrivania il piano delle attività interne, delle uscite di gruppo e delle licenze individuali degli ospiti autorizzate dalla magistratura. Cinque cooperative sociali alternano attività di escursionismo, shiatsu, laboratori teatrali, informatici e sportivi. Attorno villette monofamiliari e campi di mais. Davanti al municipio e al bar-ritrovo dei tifosi del Parma, poca voglia di parlare della Rems. Un anno e mezzo fa un tunisino arrivato qui dalla casa di reclusione di Piacenza ha scavalcato la recinzione e nessuno lo ha più ritrovato. Il vicinato si è allarmato, molti hanno protestato. Per lo psichiatra Giovanni Francesco Frivoli e lo psicoterapeuta Pietro Domiano, nessuno dei 26 malati psichiatrici è finito tra queste mura per un crimine commesso nel raptus di un istante. "Hanno tutti un vissuto doloroso che li ha portati qui", chiariscono Ivana Molinaro e Sandra Grignaffini rispettivamente tecnico della riabilitazione e coordinatrice infermieristica. In una stanza un sacco da boxe, nel giardino l’orto e un biliardino. Qui c’è chi ha commesso un omicidio o uno stupro, chi ha indirizzato la violenza verso i propri familiari. "Siamo un luogo di cura più che di detenzione- spiega Paulillo. Collaboriamo con i servizi sociali per i progetti riabilitativi, il sostegno socioeconomico e la reinclusione sociale". Ridurre l’uso di psicofarmaci e non far ricorso alla contenzione sono scelte che richiedono un’attenzione continua al singolo. "Ci affidano persone sole e prive di mezzi, non esistono percorsi validi per tutti, ognuno ha bisogni e disagi differenti", allarga le braccia Frivoli. L’etica della Repubblica nel caso Consip di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 18 settembre 2017 L’indagine della Procura napoletana su possibili fatti di corruzione nella attività di Consip ha da tempo ormai rivelato gravi deviazioni da correttezza e capacità professionali, le quali sono state scoperte dallo scrupolo dei magistrati della Procura di Roma. Invenzione di interferenze dei servizi segreti, creazione di una prova a carico di un indagato (il padre dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi) con la alterazione del risultato di una intercettazione telefonica. Ciò ad opera di personale del reparto dei Carabinieri incaricato dalla Procura di Napoli, senza che i magistrati delegati per la conduzione dell’indagine esercitassero il controllo di cui poi furono capaci i magistrati romani. Per vedere la estrema gravità dell’accaduto non c’è nemmeno bisogno di pensare ad un complotto politico per disarcionare il presidente del Consiglio, così dando ai protagonisti della vicenda la dignità politica dei golpisti. Le dichiarazioni della dirigente della Procura di Modena al Csm sull’atteggiamento degli ufficiali dei Carabinieri - che aveva ricevuto in una indagine collegata a quella napoletana - offrono una chiave di lettura più semplice, che basterebbe però per allarmare e chiedersi quale controllo abbiano esercitato i magistrati napoletani sugli ufficiali di polizia giudiziaria che avevano delegato per l’indagine. E interrogarsi sul senso della conferma della delega a quel reparto di Carabinieri anche quando la Procura di Roma l’aveva esautorato. Ogni ipotesi è ormai legittima: fiducia mantenuta, condivisione di metodi e risultati, stretta collaborazione non ostanti le deviazioni? C’è da augurarsi che chiarezza venga fatta e che nell’indagine penale e in quella aperta dal Csm non venga meno la obbligatoria lealtà tra deleganti e delegati e la regola per cui in ogni caso chi dirige è responsabile della condotta dei subordinati. La direzione dell’indagine spetta per legge ai magistrati della Procura della Repubblica, la responsabilità dell’accaduto anche. L’episodio, per il contesto e i protagonisti, ha un evidente carattere politico e come tale viene discusso. Ma bisognerebbe anche cercare di capire come una simile vicenda sia potuta accadere e come le varie istituzioni siano coinvolte ed abbiano reagito. Purtroppo il quadro è negativo e, se non corretto, promette repliche nel futuro dando anche spazio a inquietudini per il passato. Ciò che è stato qui possibile potrebbe già essersi verificato altre volte. In ogni caso produce devastanti dubbi, lesivi della fiducia da cui dipende l’efficacia delle istituzioni. Ora divengono noti contrasti interni alla Procura della Repubblica di Napoli sulla conduzione di quell’indagine ed anche sui criteri seguiti per la sua assegnazione a questo o quel magistrato. Conflitti e violazioni di regole interne nei rapporti con i superiori sono emersi nell’ambito dell’Arma dei Carabinieri. La prima domanda che si pone riguarda la condotta dei responsabili dei vari uffici. Nelle Procure c’è un titolare dell’ufficio, responsabile della sua organizzazione. Visto quel che ora si viene a sapere c’è da chiedersi come sia stato possibile il mantenimento della designazione dei sostituti. Si può però capire: il fiancheggiamento di cui essi godevano da parte di organi di stampa avrebbe sollevato l’accusa di voler impedire l’emergere di verità scomode per il potere. È questo un ricatto cui i dirigenti degli uffici sono soggetti. Il risultato è di assegnare ai sostituti una posizione di potere insuperabile. Ma ciò è contro le norme che regolano il funzionamento delle Procure, che sono uffici unitari sotto la direzione del titolare: norme chiare anche se da molti anni svuotate da interpretazioni del Csm attente ai desideri dei (molti) sostituti piuttosto che alle prerogative dei (pochi) dirigenti. Altrettanto sconcertante è la mancanza di controlli e la esistenza di lotte e conflitti interne ad un corpo militare come i Carabinieri, cui non hanno fatto seguito in questo caso misure di cautela amministrativa. L’eco amplificato da parte della stampa, questa volta chiaramente orchestrato, aumenta il potere interno di chi dovrebbe agire sotto la direzione dei titolari degli uffici. Non si tratta qui di mettere in discussione la pubblicazione di notizie comunque di interesse pubblico da parte della stampa che le ottiene, ma di segnalare che il passaggio alla stampa di notizie riservate non è solo illegale; esso può stravolgere le posizioni di forza interne agli uffici, rendendoli ingovernabili. Più volte si è avuta l’impressione di timidezze e di sottovalutazione dei doveri direttivi da parte di dirigenti di Procure della Repubblica. Talora tentativi di Procuratori di esercitare i loro poteri (e doveri) per correggere disfunzioni non sono stati sostenuti dal Consiglio superiore della magistratura. È ben chiaro che ogni potere discrezionale consente abusi, ma la attuale tendenza ad enfatizzare automatismi e a nascondere il potere sotto l’ipocrita etichetta dell’atto dovuto (o, per le Procure, dell’obbligo dell’azione penale), non impedisce gli abusi e però non permette di riconoscerne i responsabili. Si tratta di una tendenza anche prodotta dalle leggi: l’incredibile promozione di un ufficiale dei Carabinieri indagato per fatti gravissimi è stata spiegata come effetto automatico di una legge. La fuga dalle responsabilità e il rinvio ad atti di altri o ad eventi automatici è generale. Anche a livello politico ove, strumentalizzando il principio di presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, si evita di valutare le accuse sulla base dei fatti emersi e di prendere misure politiche di allontanamento o sospensione per compagni di partito o componenti di organi politici. Ci si sottrae così al dovere di scelte di etica politica e ci si assoggetta (poi lamentandosene) allo sviluppo di procedure giudiziarie. Il filo che lega e spiega tutto questo è la fuga dalle responsabilità e l’ossessiva ricerca di criteri oggettivi, automatici, nelle mani di altri, che consentano di allontanare da sé l’onere e la responsabilità delle scelte. Le anomalie giudiziarie alibi per una politica fragile di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 18 settembre 2017 Più si scava, più il caso Consip svela contorni inquietanti per la nostra democrazia. Che serva maggior rigore nella gestione delle indagini è la richiesta minima da rivolgere tanto alla magistratura inquirente quanto agli organi di polizia giudiziaria ad essa collegati con criteri non sempre lineari. Fascicoli trattenuti indebitamente, flussi informativi non dovuti, intercettazioni "border line", bersagli politici che diventano target investigativi, falsificazioni: il catalogo degli errori e degli orrori, agli atti del Csm, ha finito per vestire da indagato un pm famoso come il napoletano Woodcock e sta sporcando l’immagine di un onorato reparto dei carabinieri, il Noe (con un ufficiale inquisito e il suo comandante, il leggendario Ultimo, sospettato di manovrarlo in modo opaco). Un quadro tale da giustificare l’allarme a prescindere dal fatto che sotto tiro qui ci siano politici o loro familiari: nessun cittadino può sentirsi tranquillo se le regole del gioco vengono alterate. La campana Consip suona per tutti. La politica però nel suo insieme commetterebbe un errore se schermasse i propri fallimenti dietro le anomalie delle indagini, come è già accaduto. È umano che chi è legato a Renzi gridi al complotto. Ma è ragionevole sostenere che l’eventuale complotto abbia abbattuto il governo? Fu così nel 1994 con Berlusconi? E nel 2008 con Prodi? Vediamo. Berlusconi nel 1994 non cadde per il discusso invito a comparire ricevuto a Napoli: vi sarebbe politicamente sopravvissuto se avesse avuto una maggioranza coesa. Quel primo centrodestra teneva insieme ancora a fatica postfascisti e aspiranti secessionisti; non era amalgamato come poi fu, per merito di Berlusconi stesso: era nato caoticamente sul bisogno di impedire la vittoria alla "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. Umberto Bossi si sfilò per problemi di tenuta nella sua base ancora pregna di giustizialismo e per l’incolmabile distanza da Fini. Così Prodi nel 2008 non cadde davvero per il colpo dei magistrati contro Clemente Mastella, allora suo Guardasigilli. Cadde perché aveva una maggioranza fragile, con ministri comunisti che manifestavano contro il loro stesso governo. E, soprattutto, perché il profilo di un esecutivo composto da 13 sigle politiche (!) era in contrasto con quello del suo principale dante causa, il neonato Pd di Veltroni, a vocazione maggioritaria. Il calendario ci dice che Renzi non è caduto sulla Consip: l’inchiesta deflagra dopo il referendum del 4 dicembre. L’ex enfant prodige del Partito democratico cade per l’allergia anche caratteriale al gioco di squadra e perché non riesce a spiegare agli italiani il senso vero di quel referendum. Abbagliato dalla propria hybris. E certo danneggiato, sul piano dell’immagine, da un babbo perlomeno ipercinetico. Intendiamoci: sarebbe da ingenui sostenere che le vicissitudini penali non abbiano pesato. Il caso Consip è quel verminaio investigativo di cui ancora stiamo definendo i contorni; l’inchiesta su Mastella fu una cantonata presa confondendo una trattativa politica con una concussione; e l’invito a comparire a Berlusconi (mentre rappresentava l’Italia a una conferenza internazionale) fu perlomeno un errore di tempistica così grave da sollevare il sospetto, crediamo ingiusto, che si volesse screditare il premier. E tuttavia è una politica debole o inadeguata quella che tende, nelle ore amare, a strillare all’attacco giudiziario: facendosene scudo davanti all’opinione pubblica e dimenticando che i magistrati, quasi tutti, fanno solo il loro mestiere e semmai sbagliano in buona fede. Errori o attacchi che siano, gli effetti sarebbero comunque ridotti se il quadro politico fosse più solido. Dopo Consip, sarebbe ragionevole ad esempio rivedere in via normativa i legami tra pubblici ministeri e polizia giudiziaria, per evitare che una sana fiducia professionale diventi un patto di fedeltà perlomeno "praeter legem". Ma quale politico avrebbe l’autorevolezza di proporlo senza essere sospettato di tirare la volata a ladri e grassatori? Il fantasma del "giusto processo" di Luigi Labruna La Repubblica, 18 settembre 2017 Dopo quasi dieci anni (!) Clemente Mastella, la moglie Sandra Lonardo e i coimputati sono stati assolti in primo grado. L’inchiesta e gli arresti indussero nel 2008 l’allora guardasigilli a dimettersi, avviando una crisi che travolse il governo di Romano Prodi, al quale successe il IV governo di Silvio Berlusconi, che a sua volta era stato raggiunto, nel 1994, durante il vertice del G7 a Napoli, da un "invito a comparire" che aveva causato la fine del suo primo governo. È l’"ennesima" condanna "definitiva" della nostra disastrata giustizia. Una giustizia ogni giorno sotto scacco. Una giustizia "apparente" Priva di "effettività". E "ingiusta". Soprattutto per la lentezza con cui viene resa, violando principi costituzionali come quello del "giusto processo" che impone, anche per la Corte di Strasburgo, una "durata ragionevole" al suo svolgimento. Nessun paese può dirsi "civile" con una giustizia che funziona così. E che non di rado distrugge la vita e sconvolge il destino di innocenti. Di politici, amministratori (mentre scrivo assolto dopo anni il sindaco Orsoni…), professionisti, funzionari, generali, semplici cittadini, moralmente pessimi o buoni, accusati di reati ma poi riconosciuti, dopo lustri, innocenti per non aver commesso niente di illecito sul piano giuridico, l’unico che ai magistrati compete considerare. Contrariamente a quanto affermato a Dario Del Porto dal dottor Mariano Maffei, già capo della Procura di Santa Maria Capua Vetere che avviò l’inchiesta, in non pochi casi "la normale dialettica processuale" non c’entra. E mai, comunque, il giudice "è sovrano". I magistrati "sono soggetti alla legge". La magistratura costituisce un ordine "autonomo e indipendente". Autonomia, indipendenza e "sovranità" sono cose diverse. La terza appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Innanzi tutto eleggendo un parlamento (che dovrebbe essere di "non nominati") in grado di legiferare decentemente anche sulla Giustizia. Senza cedere a indebiti corporativismi o a populismi di qualsiasi genere. Perché è franata la nostra giustizia di Massimo Krogh La Repubblica, 18 settembre 2017 Nei giorni scorsi si è molto parlato dell’assoluzione tardiva di Clemente Mastella, giunta quando tutto il male possibile si era ormai compiuto, e non più riparabile. Si è scritto che questa sentenza suona come una condanna della giustizia; verissimo, ma occorre notare che nel complesso il perdurante crollo della giustizia, vera e propria frana, è risalente nel tempo. Nella classifica mondiale della materia, verificabile sui competenti siti, il sistema giudiziario italiano risulta al penultimo posto. Ci salva dalla coda estrema dell’inefficienza l’isola di Cipro, che occupa l’ultimo posto. Proviamo a capire perché. Il rito accusatorio adottato nell’88 dovrebbe avere una struttura orizzontale, corrispondente alla posizione di parità delle parti davanti a un giudice terzo. Da noi, invece, vi è un "pasticcio" che abbiamo sotto gli occhi: le parti non sono pari non essendosi separata la carriera del pm da quella del giudice, dunque non vi è un giudice che possa ritenersi né apparentemente né sostanzialmente terzo. Si prova a rimediare con un garantismo verticale che con plurimi e a volte poco comprensibili gravami allunga la durata del processo verso tempi indefinibili. Si è travolta la stessa essenza del rito accusatorio, realizzando una struttura verticistica incompatibile con questo rito. Il punto centrale, che non si vuol rimuovere, è che l’ufficio d’accusa ha un potere enorme, dominando la fase delle indagini con gli strumenti funzionali nascenti dalla legge ed i maggiori mezzi di cui dispone rispetto agli avvocati. Un potere usato con grande solerzia nell’esercizio dell’azione penale, mentre le indagini si allungano in tempi ingiustificabili, che portano spesso alla prescrizione dei processi. Il vuoto è di cultura, le differenze che attraversano il rapporto pubblico/privato non si colmano con le modifiche di legge. Si è creato un processo penale costretto in un garantismo formale che piuttosto che garantire efficienza produce una giustizia malata. Penso che sul tema vi sia un vuoto di cultura riferibile all’intero Paese. Ad ogni modo, forse andrebbe attenuato il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che provoca un intasamento proibitivo dei tribunali. La Corte Costituzionale ha definito tale principio il "punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale" (legalità, uguaglianza, indipendenza del pubblico ministero). Non può viversi di principi. Questa è la vera astrazione che troppo spesso e non solo nella giustizia ci manda fra le nuvole. In realtà, vi è stata una delega in bianco all’ordine giudiziario, che attraverso l’applicazione, è arrivata ad esiti inaspettati eppure prevedibili. La capacità di intervento sul sociale della giustizia penale è divenuta inarrestabile, e nella forza costrittiva del diritto emerge l’attitudine a incidere in modo diretto sul collettivo; era ed è così, da noi niente cambia. In Italia, abbiamo pubblici ministeri che agiscono sentendosi giudici, gli effetti si vedono ma le carriere non si separano, e poco conta che l’unità di carriera giudici/pm sia un unicum del nostro Paese, non esistendo in nessuna democrazia. Anche in Francia, dove la carriera è unitaria, l’ufficio del pubblico ministero è peraltro coordinato dal ministro della giustizia. Insomma, sembra che da noi di giustizia non si possa fare a meno e quindi la si voglia e chieda dovunque. Che poi non funzioni, poco importa! Reato di tortura: due nuove norme e pene più pesanti se è coinvolto un pubblico ufficiale di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2017 La legge n. 110/2017 giunge alla sua approvazione dopo un nugolo di letture parlamentari e di polemiche da ricondurre, in gran parte, al dibattito che ha fatto seguito ad alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sui cosiddetti fatti di Genova e della Diaz in particolare (affaire Cestaro v. Italia, 7 aprile 2015 e, di recente, affaire Bartesaghi Gallo e altri contro Italia, 22 giugno 2017). Appare infatti significativo lo stesso titolo della legge 110/2017: "Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano" e la funzione "riparatrice" cui le norme intendono assolvere rispetto ai rilievi della giurisdizione europea. Reati di tortura e istigazione del pubblico ufficiale alla tortura - L’articolo 1 infatti prevede l’inserzione nel codice penale di due nuove norme incriminatrici relative ai reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale alla tortura. L’articolo 613-bis del Cp ("Tortura") persegue l’intento di dare attuazione ai parametri indicati dalla Cedu nelle pronunce ora ricordate e stabilisce che "chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Com’è dato a tutta prima constatare la nomografia appare approssimativa ed è prevedibile che l’applicazione del nuovo reato darà luogo a non poche incertezze interpretative. I soggetti coinvolti nel delitto: attivi e passivi - Iniziamo dal soggetto attivo del reato. Non si è presenza di un delitto connotato da una particolare qualificazione giuridica della persona del reo. Quel "chiunque" rinvia ovviamente a una platea illimitata di soggetti. Anche se, a ben guardare, dalla descrizione del soggetto passivo della condotta ricaviamo indicazioni non univoche e non perfettamente coerenti con questo assunto. Si deve trattare 1) di "una persona privata della libertà personale" ovvero 2) di una persona "affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza" oppure ancora 3) "che si trovi in condizioni di minorata difesa". L’ipotesi sub 2) - con la sua nozione di affidamento - rimanda chiaramente a uno status giuridicamente formalizzato in cui l’autore della tortura è tenuto a garantire la neutralità dello stato di soggezione della parte offesa. Ossia l’affidamento deve prevedere la protezione dell’incolumità fisica e psichica di colui il quale è sottoposto a una qualche forma di auctoritas o potestas altrui. In questa accezione l’articolo 613-bis del codice penale delinea ambiti di applicazione particolarmente dilatati. Scuole, ospedali, case di cura e riposo, famiglie, caserme, fabbriche, aziende agricole e quant’altro sono il luogo in cui possono commettersi prevaricazioni e violenze tali da assumere le connotazioni della vera e propria tortura. Ovviamente, e il tema in questa sede può essere solo accennato, si pongono delicate questioni in materia di concorso, apparente o reale, di questa fattispecie rispetto ad altri reati. Basti pensare ai delitti di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del Cp), di stalking (articolo 612-bis del Cp), di caporalato (articolo 603-bis del Cp), di abuso di mezzi di correzione (articolo 571 del Cp), solo per citare i casi più rilevanti i quali presentano elementi costitutivi contigui alla nuova fattispecie in esame. Le ipotesi sub 1) e sub 3) richiamano, invece, presupposti dell’abuso di diversa consistenza in cui, cioè, la posizione di supremazia esercitata dal colpevole sulla parte offesa può derivare anche da mere condizioni di fatto: 1) "una persona privata della libertà personale" 3) "persona che si trovi in condizioni di minorata difesa". Nel primo caso rientrano sia l’arresto illegale (articolo 606 del Cp) che il sequestro di persona (articolo 605 del Cp) - in ordine alla cui distinzione si rinvia a Cassazione sezione V, 25 luglio 2017 n. 26885 - quanto la correlativa aggravante per i reati di rapina ed estorsione (articolo 628, comma 3, n.2 del Cp). Se, nel primo caso, la privazione della libertà personale deriva dall’uso di un potere legittimo (quello d’arresto) esercitato fuori dei casi consentiti dalla legge, negli altri, la privazione della libertà discende da una illecita coercizione personale che si specifica nelle modalità descritte dall’articolo 613-bis del Cp. In questi casi le questioni inerenti il concorso o meno dei reati appaiono di più agevole soluzione stante l’assenza di più puntuali e sovrapponibili scenari normativi nel previgente ordinamento penale. Alla definizione, invece, del caso di cui al punto 3) - "persona che si trovi in condizioni di minorata difesa" - concorre la giurisprudenza di legittimità che ha, da tempo, chiarito che "La valutazione della sussistenza della circostanza aggravante della minorata difesa per approfittamento delle condizioni del soggetto passivo va operata dal giudice valorizzando situazioni che, nel singolo caso, abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato. Fattispecie in tema di truffe commesse ai danni di giovani disoccupati nella quale la S.C. ha ritenuto non sufficiente il riferimento, operato dai giudici di merito, alla generale crisi economica ed occupazionale che investe il settore giovanile, ed alla generica aspirazione di un posto di lavoro" (Cassazione, sezione II, 11 maggio 2016 n. 28795, m. 26749601) ovvero "Le circostanze di persona che, ai sensi dell’articolo 61 n. 5 c.p. aggravano il reato quando l’agente ne approfitti possono consistere in uno stato di debolezza fisica o psichica in cui la vittima del reato si trovi per qualsiasi motivo; ne consegue che esse devono essere conosciute dall’agente e tali da ostacolare, in relazione alla situazione fattuale concretamente esistente, la reazione dell’Autorità pubblica o delle persone offese, agevolando la commissione del reato. Fattispecie, nella quale la Corte ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante in relazione ad una serie di truffe, connesse all’abusivo esercizio delle professioni di psicologo, psicoterapeuta e medico psichiatra, poste in essere dall’imputato in danno dei pazienti" (Cassazione, sezione II, 7 gennaio 2015 n. 13933, m. 26329301). Non è del tutto evidente se questo plesso ermeneutico sia interamente e appropriatamente riferibile al nuovo delitto di tortura o se quest’ultimo, in realtà, non voglia prendere in esame una diversa menomazione della capacità di difesa fisica e psichica in relazione alle violenze e agli abusi subiti. Allo stato, a prima lettura, un’interpretazione uniforme pare preferibile anche alla luce dell’ampio spettro di situazioni "di diritto" prese in esame dal caso sub 2) e della necessità di assicurare un’unica ermeneusi di clausole lessicalmente equivalenti. Le problematiche del concorso della nuova fattispecie con il delitto di lesioni e di omicidio sono, invece, espressamente regolate dagli ultimi commi dalla norma secondo cui "Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo". La condotta - La nuova fattispecie descrive la condotta di tortura valendosi di formule molto ampie ai limiti di tolleranza del principio di tipicità e, quindi, di legalità. L’agente deve cagionare "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico" avvalendosi di "violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà". Le nozioni di "acute sofferenze" e quella di "violenze o minacce gravi" o di "crudeltà" sono traslate nel corpo dell’articolo 613-bis del Cp direttamente dalla giurisprudenza della Cedu e, in particolare, dalle sentenze Cestaro e Bartesaghi Gallo. In quest’ultima, in particolare, si legge: "la Corte è convinta che gli atti di violenza commessi nei confronti dei ricorrenti abbiano provocato sofferenze fisiche e psicologiche "acute", e che gli stessi siano di natura particolarmente grave e crudele (Cestaro, sopra citata, §§ 177-190)" (§ 119). La nozione di "acute sofferenze fisiche" consegna un margine all’apprezzamento giudiziario davvero notevole, posto che le stesse devono essere state cagionate con "violenze" (non si intende, invero, se il predicato di "gravi" si riferisca alle sole minacce o anche a queste modalità dell’azione di tortura), per cui pare evidente che la misurazione della loro gravità debba avvenire innanzitutto secondo il parametro di intensità previsto per le lesioni ex articoli 582 e seguenti del Cp. Concluso questo primo passaggio il giudice dovrebbe accertare se le violenze abbiano o meno prodotto "acute sofferenze fisiche" alla vittima. La nozione di "sofferenze", infatti, è strettamente collegata alle modalità della violenza, ben potendo darsi casi di lesioni lievi capaci tuttavia di indurre grande sofferenza nella parte offesa (ad esempio una serie di microscosse elettriche o di micro tagli in parti ad alta concentrazione di nocicettori). Molto è rimesso alla narrazione della parte offesa e all’esito degli inevitabili accertamenti medico-legali sulla correlazione tra violenze e sofferenze. In questo senso si dirige anche il secondo degli eventi lesivi descritti dalla norma ("un verificabile trauma psichico") il quale rimanda, ancor di più, a riscontri specialistici circa la sussistenza del shock e per la dimostrazione della correlazione causale, questa volta, con le violenze o con le minacce gravi. Dovrebbe essere esclusa la sussistenza del reato in caso di traumi psichici verificati e accertati che derivino da minacce (o anche violenze?) non gravi. È una conclusione abbastanza discutibile, posto che l’incidenza dell’azione violenta o minacciosa (già plurima per espressa previsione normativa) sulla psiche della vittima ben può dipendere da evidenti condizioni di impressionabilità, timore, suggestionabilità che possono essere anche attivate da reiterate minacce non gravi (articolo 612, comma 1, del Cp). Molto potrebbe dipendere dalle circostanze di tempo (ad esempio in piena notte) o di luogo (una cella o uno stanzino) o dal numero degli agenti da cui la condotta viene posta in essere, per cui il predicato di gravità appare ingiustificato se letto, come dovrebbe essere, alla strega dei parametri di cui all’articolo 612, comma 2, del Cp ("La gravità della minaccia va accertata avendo riguardo, in particolare, al tenore delle eventuali espressioni verbali ed al contesto nel quale esse si collocano, onde verificare se, ed in quale grado, la condotta minatoria abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non integrassero l’ipotesi di minaccia grave frasi quali "ti ammazzo, ti sgozzo, ti spacco la faccia, ti sparo in testa" e simili, pronunciate dall’imputato all’interno di un ospedale mentre versava in un forte stato di turbamento emotivo dovuto alla presenza di sintomi che in passato avevano preceduto un infarto" così Cassazione sezione VI, 16 giugno 2015 n. 35593, m. 26434101). Ultima modalità della condotta di tortura, alternativa alle precedenti, è quella dell’avere agito con "crudeltà". Sul punto occorre necessariamente richiamarsi all’interpretazione accordata dalle Sezioni unite alla nozione di "crudeltà" laddove hanno stabilito che "la circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, di cui all’articolo 61, primo comma, n. 4, del Cp, è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole. Nell’affermare il principio, la S.C. ha precisato che la sussistenza di tale atteggiamento interiore deve essere accertata alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo" (Cassazione, sezioni Unite, 23 giugno 2016 n. 40516, m. 26762901 e si veda anche la Relazione dell’Ufficio del massimario sul contrasto n. 56/16 del 4 novembre 2016, estensore Pazienza). L’aggravante - Il comma successivo dell’articolo 613-bis del codice penale stabilisce che "Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni". Il riferimento all’"abuso dei poteri" e alla "violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio" è particolarmente rilevante giacché circoscrive l’ipotesi aggravata di tortura ai soli casi in cui l’agente si trovi a operare nelle qualità che gli sono assegnate. È un reato proprio o, per così dire, funzionale che chiaramente prende in esame tipologie di fatti che si verificano in contesti assimilabili a quelli di Genova. Il dato è reso ancora più esplicito dal penultimo capoverso dell’articolo in commento secondo cui "il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti". La scriminante di natura funzionale è ovviamente circoscritta alle misure esecutive di provvedimenti legittimi. La questione è tanto rilevante quanto delicata poiché sospinge il giudice verso una verifica della legittimità degli ordini di servizio che appare particolarmente complesso ricostruire ex post, soprattutto sul versante della necessità e proporzionalità. Si tenga anche conto che, spesso, l’intervento coercitivo delle forze di polizia è disposto in contingenze convulse e disordinate e secondo metodologie non sempre univoche di consegna delle disposizioni per via gerarchica (si pensi alle polemiche recenti sull’ordine di carica nel corso delle operazioni di sgombero dell’immobile di via Curtatone a Roma). L’istigazione alla tortura - L’articolo 613-ter del codice penale("Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura") - a ben vedere - dilata le problematiche da ultimo citate, giacché pone in evidenza la delicata delimitazione tra l’attività di coazione legittima che sfocia in scontri di piazza anche duri e violenti e l’istigazione alla tortura vera e propria. La fattispecie di nuovo conio si limita a stabilire che "il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni". Appare abbastanza evidente, sebbene il tenore letterale della disposizione non lo preveda, che si intendano sanzionare quelle attività di direzione delle operazioni di polizia (soprattutto, ma non solo) di piazza che comportino la consumazione delle condotte di cui all’articolo 613-bis del Cp. È vero che può darsi un’istigazione anche di tipo "orizzontale" tra gli operanti, ma in genere (si veda il citato caso dello sgombero degli immigrati di via Curtatone a Roma) le disposizioni sono impartite dal responsabile del servizio d’ordine pubblico. Tanto per restare nel perimetro comprensibile dei fatti della Diaz. Anche questa volta il sindacato giurisdizionale si trova a dover fare i conti con una ricostruzione particolarmente complessa della vicenda. Le fasi convulse e disordinate dell’azione di ordine pubblico non si prestano, certo, alle minute misurazioni che la disposizione impone. L’ordine impartito dal superiore gerarchico può certo assumere i connotati dell’istigazione alla tortura (ad esempio nel caso controverso: "spezzategli il braccio"), ma certo potrebbe anche conservare i connotati dell’ordine legittimo in presenza di condotte oppositive particolarmente violente e aggressive che mettano in serio pericolo l’incolumità pubblica o degli operanti (si veda scriminati ex articoli 51, 52 e 53 del Cp). In questo caso, deve ritenersi, soccorra in sovrappiù la medesima scriminante di cui al penultimo capoverso dell’articolo 613-bis del Cp sopra menzionata ("il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti"). Un contributo significativo all’interpretazione dell’articolo 613-ter del Cp potrebbe comunque provenire dalla molto più ampia previsione dell’articolo 16 della citata Convenzione Onu del 1984 secondo cui "ogni Stato Parte si impegna a proibire in ogni territorio sotto la sua giurisdizione altri atti costitutivi di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che non siano atti di tortura quale definita all’articolo 1, qualora siano compiuti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisce a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito". Una distinzione, questa, che la legge in esame non ha recepito e che la Convenzione aveva dettato proprio al fine di inibire in qualunque modo azioni pubbliche che, pur non varcando la soglia della tortura, si concretassero in "trattamenti crudeli, inumani o degradanti" indipendentemente dal perimetro delle sanzioni detentive o carcerarie. Emanuela Orlandi: "Il Vaticano spese 500 milioni per lei fino al 1997", giallo sul dossier di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 18 settembre 2017 Verifiche sull’autenticità di un carteggio che circola nella Santa Sede. Un nuovo, inquietante mistero segna la ricerca della verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983. E avvalora l’ipotesi che i "corvi" siano tornati in Vaticano. Perché un dossier che circola negli uffici della Santa Sede chiama in causa le gerarchie ecclesiastiche sulla fine della giovane sparita a 15 anni nel 1983 e sembra voler accreditare la possibilità che sia morta nel 1997. Elenca le spese che sarebbero state sostenute Oltretevere proprio per gestire la vicenda. L’esame del carteggio non fornisce alcun riscontro che si tratti di un documento originale perché non contiene timbri ufficiali, ma appare verosimile che venga utilizzato nell’ambito dei ricatti incrociati che hanno segnato la vicenda Vatileaks ed evidentemente non sono ancora terminati. Per questo la famiglia Orlandi torna a chiedere alla Segreteria di Stato di "sgomberare il campo da ogni dubbio" e attraverso le avvocatesse Annamaria Bernardini De Pace e Laura Sgrò insiste "per avere accesso a tutti i documenti e comunque poter incontrare il segretario di Stato Pietro Parolin: il caso non è e non può essere chiuso". Si torna alla notte tra il 29 e il 30 marzo 2014 quando viene scassinata la cassaforte che si trova nella Prefettura vaticana e contiene l’archivio della commissione Cosea, della quale facevano parte monsignor Balda e Francesca Chaouqui, entrambi finiti sotto processo con l’accusa di aver divulgato documenti segreti relativi alle finanze vaticane. Nel libro Via Crucis di Gianluigi Nuzzi, che svela una parte di quelle carte segrete, vengono pubblicate le fotografie della misteriosa irruzione. Durante le indagini su Vatileaks il promotore di giustizia della Santa Sede interroga il capo ufficio monsignor Alfredo Abondi che a verbale dichiara: "Nella sezione riservata della Prefettura venivano conservati i documenti sulla sicurezza e sulle situazioni rilevanti relative all’Amministrazione. Nei giorni successivi al furto nel dicastero ci fu recapitato un plico con i documenti sottratti". Non entra nel dettaglio ma specifica che "si tratta di materiale che riguarda pratiche risalenti a 10 o anche 20 anni fa". Poco dopo comincia a circolare l’indiscrezione che tra quei dossier ce ne sia anche uno sulla scomparsa della ragazza. Sei mesi fa Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, rilancia questa possibilità, entra nel dettaglio parlando di "cinque fogli, mostrati anche a Papa Francesco che proverebbero che non sarebbe morta subito, perché datati fino al 1997". È il plico che viene adesso fatto circolare. Si intitola "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi". È datato 28 marzo 1998, firmato dal cardinale Lorenzo Antonetti, all’epoca presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della sede Apostolica, e indirizzato al sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato il cardinale Giovanni Battista Re e al sottosegretario Jean Louis Tauran. Elenca spese per circa 500 milioni di lire sostenute tra gennaio 1983 e luglio 1997. Si chiude con il pagamento di 21 milioni di lire per "attività generale e trasferimento presso città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali". Le "voci" e i relativi pagamenti accreditano la possibilità che la giovane sia stata ospitata in alcuni conventi e appartamenti in Italia e all’estero, ricoverata in almeno due strutture sanitarie in Gran Bretagna, trasferita più volte. Specifica che una parte dei soldi è stata versata a "fonti investigative", e cita il pagamento per l’attività relativa a un episodio di "depistaggio". Il documento - dattiloscritto con un carattere risalente a vent’anni fa - contiene nomi e luoghi realmente esistenti, parla dell’attività investigativa svolta anche dall’allora responsabile della gendarmeria, si riferisce ad "allegati" su "quantità di denaro autorizzate e prelevate per spese non fatturate". Il fatto che la prima data sia gennaio 1983, cioè sei mesi prima della sparizione, sembra voler avvalorare la possibilità che Emanuela fosse sotto il controllo di autorità vaticane già da quel periodo. Potrebbe trattarsi di un documento che contiene circostanze vere, fatto circolare proprio da chi continua ad esercitare il proprio potere di ricatto contro le gerarchie ecclesiastiche, visto che mai è stato fugato il sospetto sul loro ruolo in questa vicenda. Oppure un depistaggio. "In ogni caso - chiariscono le due avvocatesse - la famiglia ha diritto a ottenere chiarimenti e per questo torniamo ad appellarci direttamente a papa Francesco affinché voglia ascoltare la loro supplica. Lui stesso ha detto che "la verità non si negozia". Nuovi documenti in appello: via libera della Consulta di Fabrizio Cancelliere e Gabriele Ferlito Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2017 La Consulta, con la sentenza 199/2017 depositata il 14 luglio scorso, conferma la costituzionalità dell’articolo 58, comma 2, del Dlgs 546/92, in materia di processo tributario, laddove consente che la parte possa produrre in appello qualsiasi documento, anche se non già presentato in primo grado oppure prodotto ma non esaminato dal giudice, in quanto tardivo. Con l’ordinanza 943/32/2016, la Ctr Napoli aveva sollevato la questione di costituzionalità perché - come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (tra le altre, le sentenze 21909/15, 12783/15, 665/14 e 16959/12) - il comma 2 consentirebbe alle parti di produrre in appello nuovi documenti, indipendentemente dall’impossibilità dell’interessato di presentarli in primo grado per causa a sé non imputabile (requisito invece richiesto nel processo civile, articolo 345, comma 3, del Codice di procedura civile). Secondo la Ctr, un sistema così delineato favorirebbe la parte che, magari per negligenza, non ha prodotto i documenti in primo grado, con conseguente violazione di diversi principi tutelati dalla Costituzione. Tra questi il diritto di difesa della controparte (articolo 24), cui verrebbe impedito di produrre motivi aggiunti in primo grado e che, quindi, verrebbe privato di un grado di giudizio, nonché il principio di uguaglianza (articolo 3) e il diritto ad un processo equo (articolo 117). La sentenza - In via preliminare, la Corte afferma l’inammissibilità di tale ultima censura, in quanto il giudice remittente non avrebbe sufficientemente argomentato le ragioni di non manifesta infondatezza della questione sollevata. Le altre due censure vengono, invece, esaminate nel merito e dichiarate infondate. Anzitutto, secondo la Consulta non è fondata la censura di disparità di trattamento tra le parti del giudizio, per il semplice fatto che la facoltà di produrre per la prima volta documenti in appello è riconosciuta a entrambe le parti del giudizio, cosicché non sussiste alcuno "sbilanciamento" processuale. Passando alla lamentata compressione del diritto di difesa, la Corte ricorda anzitutto che non esiste un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i diversi tipi di processo (nel caso di specie, tra quello civile e quello tributario), essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la disciplina dei singoli istituti processuali, nei limiti della ragionevolezza. Ciò che conta è che non vengano imposti oneri tali (o non vengano prescritte modalità tali) da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale. Nel caso di specie, la Consulta non ravvisa profili di irragionevolezza nella possibilità di produrre per la prima volta documenti in appello. Inoltre, non sussiste il rischio di compressione del diritto di difesa della controparte legato alla potenziale perdita di un grado di giudizio: per giurisprudenza pacifica, il doppio grado non gode nel nostro ordinamento di copertura costituzionale (si vedano la sentenza 243/2014 e l’ordinanza 42/2014). È corruzione elettorale promettere un posto di lavoro in cambio del sostegno di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 10 agosto 2017 n. 39064. Correttamente è ravvisato il reato di corruzione elettorale a carico di chi, in cambio del sostegno elettorale e del voto in favore di un candidato alle elezioni del consiglio comunale, abbia promesso a un elettore, che aveva accettato, l’assunzione della moglie e del fratello, poi finanche effettivamente avvenuta. Così ha deciso la Cassazione con la sentenza 10 agosto 2017 n. 39064. La disciplina sanzionatoria del voto di scambio - La Corte, in parte motiva, ricostruisce la disciplina sanzionatoria del cosiddetto voto di scambio nelle competizioni elettorali per l’elezione dei consigli comunali, prevista dall’articolo 86 del Dpr 16 maggio 1960 n. 570. La norma punisce, al comma 1, chiunque, per ottenere, a proprio o altrui vantaggio, la firma per una dichiarazione di presentazione di candidatura, il voto elettorale o l’astensione, dà, offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori, o, per accordo con essi, ad altre persone anche quando l’utilità promessa sia stata dissimulata sotto il titolo di indennità pecuniaria data all’elettore per spese di viaggio o di soggiorno o di pagamento di cibi e bevande o rimunerazione sotto pretesto di spese o servizi elettorali. Al comma 2, la norma punisce l’elettore che, per dare o negare la firma o il voto, ha accettato offerte o promesse o ha ricevuto denaro o altra utilità. Si tratta, secondo la Corte, di titoli di reato autonomi, di cui il primo (quello di chi dà, offre o promette) è sganciato dal secondo (cioè dal fatto commesso da chi accetta offerte o promesse o riceve denaro o altra utilità) e solo eventualmente concorrente con esso. Infatti, il fatto di reato di chi offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori per ottenerne il voto partecipa alla classe dei reati di "corruzione atipici", perché non è un reato a concorso necessario, ma soltanto eventuale, in quanto per la sua configurabilità è sufficiente la sola promessa di utilità da parte del corruttore, la quale si atteggia come promessa del fatto del terzo e, conseguentemente, impegna solo chi la effettua (Sezione I, 4 giugno 2014, Scaramuzzino), con la conseguenza che il reato, di cui al comma 1, si consuma già al momento dell’offerta o della promessa, individuandosi la ratio dell’incriminazione nell’esigenza di "blindare", anticipando la soglia di tutela, i meccanismi democratici elettivi, in quanto massime espressioni della democrazia diretta, attraverso un apparato sanzionatorio finalizzato a garantire, nella maggiore estensione possibile, la regolarità e la correttezza della consultazione elettorale, preservando l’elettore da ogni condizionamento e tutelando la libertà del diritto elettorale. Il reato di cui al comma 2, invece, si consuma al momento dell’accettazione dell’offerta o della promessa o della ricezione del denaro o altra utilità e non è necessario, per la sua integrazione, il conseguimento delle provvidenze, purché offerte o promesse e accettate in funzione del voto da esprimere in una determinata e prossima competizione elettorale, consistendo in ciò l’accordo illecito tra l’elettore e il candidato (Sezione VI, 20 luglio 2016, Di Puppo). Per la consumazione di entrambi i reati, conclude la Corte, è sufficiente il compimento della condotta illecita descritta nel modello legale di reato per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, essendo la soglia di punibilità anticipata alla previsione della semplice promessa o alla sua accettazione, condotte ampiamente sufficienti per porre in pericolo il bene giuridico protetto dall’incriminazione (trattasi di reato plurioffensivo perché la norma incriminatrice appresta tutela sia all’interesse dello Stato al libero e corretto svolgimento delle consultazioni elettorali, che il diritto politico di ogni elettore alla libera determinazione ed espressione della propria propensione elettorale). Per la Corte Ue consumatori senza avvocato di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2017 Il sistema di Adr per i consumatori crea taluni dubbi interpretativi circa la compatibilità tra le norme introdotte nel Codice del consumo in attuazione della direttiva 2013/11/Ue e quelle previste per la mediazione obbligatoria ex lege di recepimento della direttiva 2008/52/Ue. Con l’ordinanza del 28 gennaio 2016, il Tribunale di Verona (estensore Vaccari), nel sospendere un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo tra due consumatori e una banca, anziché rimettere le parti in mediazione (in virtù dell’obbligo di legge), ha trasmesso gli atti alla Corte Ue ponendo alcune questioni interpretative. In particolare il tribunale scaligero ha interrogato la Corte sulla delimitazione dei rispettivi ambiti di applicazione delle due direttive citate. Ha poi domandato se le disposizioni della direttiva 2013/11 ostino a che la ricevibilità di una domanda giudiziale, proposta da un consumatore nei confronti di un professionista e vertente su un contratto di prestazione di servizi, sia subordinata al previo esperimento, da parte del consumatore, di un procedimento di mediazione. Infine, il giudice del rinvio ha chiesto se le modalità della mediazione italiana, in quanto obbligano il consumatore a farsi assistere da un avvocato e prevedono sanzioni in caso di ritiro senza giustificato motivo, siano conformi alla direttiva 2013/11. All’udienza del 16 febbraio 2017 dinanzi alla Corte Ue che a breve depositerà la sentenza, l’avvocato generale Henrik Saugmandsgaard Øe (Danimarca) ha presentato le sue conclusioni (causa C-75/16). L’avvocato generale rileva, anzitutto, che la direttiva del 2013 per i consumatori ha vocazione ad applicarsi a tutti i tipi di mediazione, compresi quelli di cui alla direttiva del 2008. Peraltro, quest’ultima si applica solo a cause transfrontaliere, mentre nel caso di specie le parti hanno tutte sede o domicilio in Italia. Inoltre, l’estensione alle liti interne facoltativamente prevista dalla direttiva della quale l’Italia si è avvalsa non equivale a dire che nella fattispecie entrambe le direttive siano applicabili: nel caso specifico, deve applicarsi soltanto quella del 2013. Secondo l’avvocato generale, gli Stati membri, anche al fine di decongestionare i tribunali, ben possono rendere obbligatoria una fase stragiudiziale di composizione amichevole della lite prima dell’inizio della causa (anche tra professionisti e consumatori) purché ciò non impedisca o pregiudichi il successivo accesso alla giustizia, nel rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. L’avvocato generale rileva poi che la direttiva del 2013 esclude che gli Stati possano obbligare le parti a farsi assistere da un avvocato nel corso di una mediazione, quando questa sia insorta tra professionisti e consumatori. In tal senso, la normativa italiana (Dlgs 28/2010) è incompatibile con il diritto dell’Unione. Infine, l’avvocato generale sottolinea che è consacrata nella direttiva la libertà totale di ciascuna delle parti (quantomeno del consumatore) di ritirarsi dalla mediazione per motivi anche puramente soggettivi (ad esempio, perché insoddisfatta dello sviluppo di tale procedura). Sul punto la legge italiana, nella misura in cui ricollega effetti negativi al ritiro dalla mediazione per motivi puramente soggettivi (ma ciò dovrà essere verificato dal giudice italiano), è incompatibile con il diritto dell’Unione. Riforma dell’ordinamento penitenziario: l’elefante sta partorendo un topolino di Associazione Yairaiha Onlus osservatoriorepressione.info, 18 settembre 2017 Il lungo dibattito che ha preceduto l’approvazione della legge delega per la riforma della giustizia e le modifiche all’ordinamento penitenziario aveva lasciato ben sperare per un superamento del 4bis e degli automatismi che determinano l’impossibilità di accedere a qualsivoglia beneficio penitenziario. Dagli Stati generali dell’esecuzione penale erano uscite indicazioni precise che andavano verso quell’umanizzazione della pena già prevista dalla Gozzini e richiamata in diverse circolari. Tra i punti qualificanti dei lavori svolti, a nostro avviso, vi era certamente l’abolizione dell’ergastolo ostativo e la revisione del 4bis liberandolo, finalmente, dalla natura emergenziale e vendicativa con cui era stato concepito. Emergenzialità che oggi non ha più ragione di esistere ma che si continua ad agitare ad ogni minimo segno di cambiamento cedendo ai forcaioli di questo paese che, con la complicità di certa stampa, spingono la società a chiedere l’inasprimento delle pene e la moltiplicazione delle condotte da sanzionare. Attualmente sono circa 1600 i condannati all’ergastolo, tra cui 1174 ostativi, molti dei quali detenuti da oltre 25-30 anni (alcuni dei quali continuativamente in regime di 41), sopravvissuti alla tortura del 41 bis ed alle pene disumane e vendicative inflittegli, che stanno pagando il prezzo penale ma anche quello politico della necessità storica dell’emergenza criminale e del pentitismo. Uomini oggi, diversi, profondamente cambiati che ieri erano quasi tutti poco più che ragazzini vissuti ai margini in un Sud che ai più lasciava e lascia, ancora oggi, poche alternative tra l’essere risucchiati nella fabbrica criminale, la fame/l’emigrazione o il clientelismo. Eppure, nonostante questi uomini oggi non abbiano più legami con le consorterie criminali di appartenenza oppure queste non esistano più, nonostante la chiusura col proprio passato e l’altissimo prezzo pagato con diversi decenni di carcere non potranno mai dimostrare alla società questo cambiamento, sono condannati a morire in carcere, una pena di morte in vita, per tutta la vita, fino alla morte. Si ha motivo di pensare che tali persone risultino essere come inghiottite - ancora prima che dal sistema penale e dai concernenti e specifici procedimenti - da modelli di vero e proprio etichettamento, capace di costruire e imporre sulle loro esistenze marchi definitori identificanti una categoria antropologica a perdere, poiché considerata strutturalmente e inesorabilmente deviata e deviante. Si tratta, a un’attenta osservazione, di un processo che si espone alle ambivalenti e persistenti sollecitazioni di certe condizioni politico - istituzionali. In questa direzione di senso, il rafforzamento delle ragioni della pena dell’ergastolo appare come lo strumentale tentativo di catalizzare forme di solidarietà interne al Paese, intercettando - e alimentando - il collettivo sociale quasi esclusivamente nell’enfasi circostanziale dei suoi umori. Sembra evidente che in questo modo si mortifica - fino a sopprimere - la possibilità che i soggetti interessati possano affacciarsi criticamente sul proprio passato, riuscendo a ricostruirlo e a dotarlo di senso non solo per il presente, ma anche per il futuro. Al contempo si tende a infragilire i principi sottintesi alla realtà carceraria, che dovrebbero essere volti non solo a proteggere la comunità, ma anche la promozione dell’individuo, da collocare a centro dell’attivazione di dignitosi e riabilitativi percorsi. Con l’approvazione della legge delega sono passati alcuni assunti che sembravano andare nella direzione indicata dai tavoli degli Stati generali e dalle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo se non fosse per alcune eccezioni che, di fatto, lasciano immutati alcuni dispositivi tra i quali appunto l’ostatività per i condannati all’ergastolo per i quali l’unico spiraglio resta la collaborazione con la giustizia o, di contro, la possibilità di dimostrare l’inesigibilità della collaborazione ma anche quest’ultima è stritolata tra le relazioni di polizia risalenti all’epoca dell’arresto, il potere discrezionale dei magistrati e la volontà politica del momento. Probabilmente mai come in quest’ultima legislatura si è dibattuto di ergastolo ostativo, mentre fino a qualche anno fa si parlava solo di ergastolo e di abolizione dello stesso -l’ultima proposta di riforma abolizionista del carcere a vita risale a quella elaborata dalla commissione Pisapia-, ampie convergenze per il superamento dell’ergastolo ostativo sono state espresse al punto che si dava già per scontato: dal ministro Orlando al capo del Dap Santi Consolo e con la benedizione del Papa (che, lo ricordiamo, tra i primi atti del suo mandato ha abolito la condanna a vita nello Stato Vaticano e fu l’unico ad inviare un messaggio di solidarietà allo sciopero solitario ed indipendente degli ergastolani lo scorso anno, partito dal carcere di Siano, durato oltre un mese, e diffuso in decine di carceri lungo tutto lo stivale dalla nostra associazione con la partecipazione attiva di circa 6.000 detenuti ed al quale aderirono, con raccolta firme, oltre 35.0000 persone tra familiari, intellettuali, associazioni, camere penali e singoli esponenti politici ma nessun partito aldilà del Prc) erano tutti favorevoli all’abolizione dell’ostativo perché effettivamente è una pena disumana e disumanizzante, fuori da qualsiasi logica rieducativa. È solo vendetta e tortura. Invece di accelerare l’iter per l’attuazione delle deleghe, Orlando ha pensato bene di istituire una ulteriore commissione per elaborare la riforma affidandone la presidenza a Glauco Giostra (il quale, lo ricordiamo, aveva già presieduto gli stati generali e raccolto in un testo la riforma possibile con contributi di vari giuristi, magistrati, ecc.). Il rischio concreto, visto anche l’attuale quadro politico, è che questa riforma non vedrà mai la luce perché dopo che verrà elaborata dovrà passare al vaglio della commissione giustizia e intanto arriveranno le elezioni e dei detenuti, che non votano, della mancata riforma (che non fa il gioco del governo della paura anzi, in questa fase il garantismo fa perdere voti) e dei suicidi non importerà più a nessuno eccetto ai detenuti ostativi, ai familiari e a coloro i quali hanno abbracciato la lotta per l’abolizione dell’ergastolo per motivazioni etiche ed ideali genuine e non per secondi fini. L’auspicata e promessa revisione del 4bis dovrebbe essere destinata soprattutto agli ergastolani per restituirgli almeno la possibilità di sperare nel futuro e di poter dimostrare il proprio cambiamento nella società. Ma invece viene posta l’eccezione, c’è quell’"escluso gli ergastolani" che discrimina chi è già discriminato violando Costituzione e direttive europee. Il nostro appello va al Ministro e alla commissione affinché non siano i sentimenti di vendetta a, la pancia mediatica dell’Italia, l’avvicinarsi delle elezioni o la paura dell’impopolarità a decidere e vincere sul Diritto. Trieste: magistratura, il Coroneo "vota" le carriere separate di Ludovico Armenio Il Piccolo, 18 settembre 2017 La proposta di legge radicale ha ottenuto l’80% delle firme dei detenuti e degli operatori penitenziari. Alcuni avvocati della Camera Penale di Trieste ed esponenti del Partito Radicale si sono recati ieri mattina al carcere del Coroneo per presentare ai detenuti e al personale "detenente" la proposta di legge di iniziativa popolare (Lip) sulla separazione delle carriere in magistratura. Partita a livello nazionale nel maggio scorso e sostenuta a oggi da oltre 65.000 persone, la Lip prevede la separazione delle carriere tra magistrato e pubblico ministero, con lo scopo dichiarato di rendere più equo il processo penale, assegnandolo a un giudice terzo. Il numero minimo di 50.000 firme, necessario a portare la proposta di legge all’attenzione del parlamento, è stato raggiunto con ampio anticipo il 3 luglio scorso. Nell’istituto di detenzione triestino la raccolta delle adesioni si è svolta dalle ore 9 alle 12. Arco di tempo in cui sono state raggiunte circa 75 firme - l’80% degli aventi diritto nella struttura carceraria - che si aggiungono alle oltre novecento raccolte in città a partire da giugno. Il numero di sostenitori potrebbe aumentare ancora, visto che il termine ultimo per firmare è il 29 ottobre. L’iniziativa è collegata alla campagna di iscrizioni al Partito Radicale, che necessita di almeno 3.001 iscritti in tutta Italia per evitare la chiusura. A Trieste la sezione locale conta 30 persone. "La nostra proposta si basa su quanto affermato nell’articolo 111 della Costituzione - ha detto l’avvocato Andrea Frassini, presidente della Camera Penale di Trieste - Questo garantisce a tutti i cittadini il giusto processo, basato sul contraddittorio tra le parti, la parità nelle condizioni di partenza e, appunto, la presenza di un giudice terzo e imparziale". Per Marco Gentili, esponente regionale del Partito Radicale, il tema della separazione delle carriere a Trieste è stato accolto positivamente dalla politica e dall’opinione pubblica: "Trieste è una città con una coscienza politica profonda e radicata, la proposta è stata sottoscritta da molti operatori di giustizia che l’hanno accolta favorevolmente - ha detto. Per quanto riguarda il Coroneo, le adesioni sono state numerose visto che i contenuti della Lip sono legati a situazioni che in molti hanno vissuto sulla propria pelle". Tra i politici che hanno firmato la proposta, Gentili ha citato Roberto Cosolini e Alessia Rosolen, a dimostrare l’eterogeneità degli schieramenti favorevoli alla legge. Così Sergio Keller, esponente triestino dei radicali: "Non è un tema facile né di immediata comprensione, ma nonostante la difficoltà iniziale nel diffonderlo abbiamo riscontrato delle ottime risposte da parte degli addetti ai lavori e della cittadinanza". Per Frassini l’obiettivo è chiaro: "Puntiamo a superare le mille adesioni a Trieste, possiamo chiudere arrivando intorno alle milleduecento". Sondrio: quant’è buona la pasta prodotta dai detenuti di Mariarosaria Marchesano Tempi, 18 settembre 2017 Il progetto, partito nel carcere di Sondrio lo scorso marzo, è stata possibile grazie alla cooperativa sociale Ippogrifo. "Il nostro obiettivo era fornire ai detenuti competenze che siano spendibili all’esterno". E se i detenuti imparassero a produrre pasta, il prodotto agroalimentare italiano più apprezzato nel mondo? È la domanda che si è posta la direttrice della casa circondariale di Sondrio, Stefania Mussio, nota anche per essere donna inflessibile nella gestione della struttura, ma evidentemente convinta della necessità di reinserimento nel mondo del lavoro degli ex carcerati. Così ha dato il via ad un esperimento che si sta rivelando un piccolo successo con oltre 100 chilogrammi di pasta prodotti alla settimana e l’ambizione di crescere sul mercato travalicando i confini della Valtellina. La realizzazione di questo progetto, partito nel carcere di Sondrio lo scorso marzo, è stata possibile grazie alla cooperativa sociale Ippogrifo - nata nel 1993 da un gruppo di volontari, oggi conta 30 soci e 80 dipendenti - che ha un’esperienza consolidata nella progettazione e realizzazione di iniziative in favore dell’infanzia e di soggetti svantaggiati. "Il nostro obiettivo era quello di fornire ai detenuti competenze che siano spendibili all’esterno attraverso un’opportunità di formazione e inclusione sociale", spiega Elisa D’Anza che della coop cura la direzione e lo sviluppo. "Così è nato Pastificio 1908 che produce pasta artigianale di qualità rigorosamente senza glutine". Testimonial del progetto è lo chef Marcello Ferrarini che del gluten free ha fatto una bandiera. "Puntiamo ad aumentare la produzione fino a 100 chilogrammi al giorno, facendo leva sul successo che il prodotto sta riscuotendo in ristoranti e botteghe della provincia", conclude D’Anza. "Ippogrifo ha una forte tradizione di tipo sociale ma questo non significa non essere orientati al mercato e aperti a contaminazioni esterne di cui potranno beneficiare tutti i soggetti coinvolti". Livorno: il vino dei detenuti a Gorgona e le altre "Buone notizie" di Ivana Zuliani Corriere Fiorentino, 18 settembre 2017 Mondo del volontariato e no-profit nel nuovo settimanale del "Corriere della Sera". A Gorgona tutto è pronto per la vendemmia. Ma qui a cogliere l’uva e a fare il vino sono i detenuti. Nell’isola penitenziario si producono un bianco e un rosso che profumano di mare, ma hanno anche il sapore del riscatto e della solidarietà: 15 detenuti scontano la loro pena e imparano un mestiere mettendo le mani nella terra e nel mosto, grazie a un progetto realizzato dai marchesi Frescobaldi in collaborazione con la Direzione della colonia penale. Quando nel 2012 l’allora direttrice Maria Grazia Giampiccolo chiese ad alcune cantine di sbarcare sull’isola a rispondere fu solo Lamberto Frescobaldi. "I miei colleghi - ricorda il marchese - dicevano che ero matto, che avrei sprecato tempo e soldi. Non ho guadagnato denaro, è vero. Ma ho capito cosa significa dare una mano a chi ne ha bisogno". Il progetto "Frescobaldi per il sociale", unico in Italia, è una delle good news che saranno raccontate nel primo numero del nuovo inserto settimanale gratuito del Corriere della Sera, in edicola ogni martedì dal 19 settembre: Buone Notizie, la sfida editoriale dedicata alla forza, l’energia, la creatività, la professionalità del no profit. Ogni settimana Buone Notizie "vuole raccontare buone pratiche e storie positive di impegno e solidarietà, per dare voce all’Italia che non si arrende, ai singoli volontari, ai giovani che fanno impresa sociale. Su questo mondo c’è tanto da dire" annuncia Luciano Fontana, direttore del Corriere. Elisabetta Soglio, responsabile della nuova testata spiega: "Attraverso le storie, i volti, i problemi dei volontari d’Italia, Buone Notizie racconterà anche le storie, i volti, i problemi delle persone raggiunte da questo esercito del bene". Partendo anche da quelli che si incrociano in un vitigno sulla più piccola isola dell’arcipelago toscano. Agrigento: "Spes contra Spem - Liberi Dentro", per ricordare il giudice Livatino agrigentoweb.it, 18 settembre 2017 A ventisette anni dalla morte del giudice Rosario Livatino, il comune di Palma di Montechiaro ha scelto il film "Spes contra Spem - Liberi Dentro" di Ambrogio Crespi prodotto da Index Production in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino, per ricordare la figura del "giudice ragazzino" ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990. Un film che raccoglie le testimonianze di nove detenuti condannati all’ergastolo ostativo, persone che hanno riconosciuto le loro terribili colpe e hanno manifestato con forza il definitivo ripudio di ogni scelta criminale. Tra i protagonisti del film, girato nel cercare di Opera a Milano, c’è anche Gaetano Puzzangaro, cittadino di Palma, che fece parte del commando che tolse la vita al magistrato. La proiezione del docufilm, giovedì 21 settembre alle ore 19.30, si terrà nel cortile del palazzo comunale e sarà anticipata da proiezioni in tutte le scuole medie e superiori del comune. All’incontro partecipa Monsignor Giuseppe Livatino, postulatore della causa di beatificazione del magistrato ucciso, che da tempo sta seguendo il percorso di riconciliazione di Gaetano Puzzangaro intrapreso durante il periodo di espiazione della pena. L’evento è stato particolarmente voluto dal sindaco di Palma di Montechiaro, lui stesso colpito dalla mafia che gli ha strappato lo zio. "Spes Contra Spem, liberi dentro" è stato proiettato in Italia ed Europa all’interno delle carceri, nelle aule dei Tribunali, in alcune delle più importanti sedi istituzionali del Paese, nelle scuole, nei cinema e nei teatro. Da autorevoli personaggi è stato definito "un film contro la criminalità organizzata, un messaggio contro la mafia, un lenzuolo bianco. Un film che parla del cambiamento e del mutamento dell’uomo". Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha scritto: "Questo documentario fa riflettere. Credo che il suo primo significato sia proprio questo: un invito alla riflessione sul significato della pena più gravosa. Il documentario non discute le questioni di diritto: ne mostra però il senso, per nulla astratto, ma in grado di incidere sulle vite di coloro che, per dirla con i versetto paolino citato da Pannella e scelto come titolo del film, "sperano contro ogni speranza". Intervengono: Stefano Castellino, Sindaco di Palma di Montechiaro; Letizia Pace, Presidente del Consiglio Comunale di Palma di Montechiaro; Andrea Orlando, Ministro della Giustizia; Santi Consolo, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Giacinto Siciliano, Direttore del carcere di Opera; Ambrogio Crespi, regista; Giuseppe Levatino, postulatore della causa di beatificazione di Rosario Livatino; Rita Bernardini, Presidente d’onore Nessuno Tocchi Caino; Elisabetta Zamparuti, Comitato Europeo Prevenzione Tortura; Sergio D’Elia, Segretario Nessuno Tocchi Caino; Maria Brucale, Consiglio direttivo Nessuno Tocchi Caino. La scheda - Speranza contro ogni speranza. È la sfida di chi è condannato all’ergastolo ostativo, quello del "fine pena mai", che nega al detenuto ogni beneficio penitenziario e non lascia prospettive di una vita fuori dal carcere. Per la regia di Ambrogio Crespi, "Spes contra Spem - liberi dentro", è un viaggio guidato da Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, attraverso la voce di chi lo vive sulla propria pelle. Detenuti, ma anche agenti e operatori dell’amministrazione penitenziaria, che, grazie ai programmi di recupero dei condannati, provano a restituire a queste persone un’aspettativa per il futuro. Le parole chiave della narrazione sono "colpa" ed "espiazione", ma anche, appunto, "speranza" e "cambiamento". Di particolare rilievo l’intervento del carcere di Opera, Giacinto Siciliano, e quello di Santi Consolo, Direttore del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria. "Spes contra Spem - liberi dentro" è prodotto da Index Production in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino e Radio Radicale. Presentato alla 73esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica La Biennale di Venezia e alla Festa del Cinama di Roma 2016, è andato in onda su Sky Atlantic in prima serata, su Sky Cinema e Sky on demand. Il film vuole essere un manifesto contro la criminalità: attraverso le parole di chi ha commesso reati gravi, "Spes contra Spem - liberi dentro" sgretola il mito del criminale stesso, senza nessuna clemenza, nessun buonismo e nessuna posizione ideologica preconcetta. Roma: "Ombre della Sera", docu-film interpreto da detenuti, presentato in Senato di Giulio Cicala cinetvlandia.it, 18 settembre 2017 Il docu-film "Ombre della Sera", opera prima di Valentina Esposito interpretata da detenuti in misura alternativa ed ex detenuti, sarà presentata alla Commissione Diritti Umani del Senato. Sarà presentato Mercoledì 20 Settembre, presso il Senato della Repubblica, in una serata istituzionale presieduta dal Senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione Diritti Umani, il docu-film Ombre della Sera, opera prima di Valentina Esposito, prodotto da Simonfilm e Lupin Film, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, del Consiglio Regionale del Lazio, riconosciuto di interesse culturale dal Mibact Direzione Cinema, sostenuto dal Fondo Cinema e Audiovisivo della Regione Lazio. Ombre della Sera sarà presto nelle sale con una distribuzione indipendente che toccherà carceri, università e mondo associazionistico. Il film, che vede l’amichevole partecipazione di Pippo Delbono, è stato candidato ai Nastri D’Argento 2017 nella sezione Docu-Film, ha ottenuto la Menzione Speciale al Bafici Film Festival di Buenos Aires e partecipato al Sofia International Film Festival (Fuori Concorso), al RIFF - Rome Independent Film Festival e al Cairo International Women Film Festival. Interpretato da detenuti in misura alternativa e da ex detenuti attori del Carcere di Rebibbia (oggi attori della compagnia Fort Apache), trae ispirazione dalla biografia dei protagonisti e delle loro famiglie per svelare allo spettatore l’aspetto più intimo e delicato del percorso di reinserimento che intraprendono i "liberanti" tornando nel mondo esterno dopo anni di lontananza. Storie intrecciate, attraverso i complessi e sconosciuti labirinti della libertà. Uomini condannati e afflitti, nel tentativo di espiare i propri peccati e di ricostruire le proprie vite. "Ombre della Sera" - sottolinea la regista - è un film sul ritorno: il ritorno a casa e agli affetti dopo anni di lontananza e separazione. Mi sono mossa con discrezione tra la verità e la ricostruzione cinematografica per raccontare la condizione emotiva di chi è condannato per sempre a vivere tra la vita dentro e quella fuori dal carcere, tra le ombre del passato e il bisogno disperato di ritrovarsi nel presente". Migranti. Minniti e Ravasi: "Sì allo ius soli entro la legislatura" di Valeria Piccolillo Corriere della Sera, 18 settembre 2017 Il responsabile del Viminale: "Esiste un limite all’accoglienza, la capacità di integrare". Il cardinale: "Realtà complessa, non accumulo di genti". "Ci sono due diritti fondamentali: quello di chi è accolto e quello di chi accoglie. Una democrazia che ascolta solo l’uno o l’altro non sta in un giusto equilibrio". Nel "Cortile di San Francesco" il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha difeso ieri la sua linea dura contro gli sbarchi. E, in un confronto con il cardinal Ravasi, ha auspicato una rapida approvazione dello ius soli: "Bisogna fare ogni sforzo per approvarlo entro la legislatura". Ma, ha precisato Minniti, "gli sbarchi sono cosa ben diversa". Di fronte alla provocazione di Corrado Formigli ("Ha dimenticato il sentimento umanitario patrimonio della sinistra?") Minniti ha rivendicato: "Sono il ministro dell’Interno, non posso lasciare le chiavi della nostra democrazia ai trafficanti di uomini. Il 97% dei migranti viene dalla Libia, ma non c’è un libico negli sbarchi. Vuol dire che c’è una gestione criminale che devo sconfiggere. E devo tener presente che esiste un limite all’accoglienza: la capacità di integrare". Idea sulla quale è intervenuto Ravasi: "L’accoglienza è una realtà complessa e delicata, non è l’accumulo di persone. Deve assicurare all’altro la possibilità di conservare le sue memorie. Dobbiamo abbandonare il luogo comune, lo stereotipo, della volgarità del populismo e avere una comprensione dei problemi. I problemi complessi non possono essere risolti con una battuta estremamente buonista e neppure con vacuità e brutalità delle risposte". A Formigli, che chiedeva dei campi in Libia dove i migranti vengono bloccati in condizioni disumane, Minniti ha risposto: "Per 66 anni nessuno ha visto che la Libia non applicava la Convenzione di Ginevra. Io ho riportato lì l’Unhcr che ha selezionato bambini, donne e anziani da ricollocare. Sono già stati fatti rimpatri assistiti dando un budget a chi voleva ricostruirsi una vita nel suo Paese. Se funziona saremo presi a modello". Soddisfatto padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa di Assisi: "L’auspicio di voler "intelligere", comprendere, di monsignor Ravasi, condiviso dal ministro Minniti, è quello che vuole la gente. Qui l’ha avuto". Migranti. L’invito a Haftar irrita Sabratha. Le milizie inondano il mare di barconi di Francesco Semprini La Stampa, 18 settembre 2017 La risposta del clan Dabbashi alla mossa italiana. Sabratha non ci sta e i barconi riprendono il mare. Il consiglio militare della città della Tripolitania condanna l’invito dell’Italia a Khalifa Haftar, per il quale il generale è atteso a Roma il 26 settembre per incontrare il ministro della Difesa Roberta Pinotti, e alcuni alti ufficiali dello Stato maggiore. "Denunciamo l’invito giunto specie perché la Corte penale internazionale ha chiesto ripetutamente l’arresto degli affiliati (del generale) colpevoli di aver commesso crimini di guerra", spiega in una nota il Consiglio militare di Sabratha. Questa la reazione ufficiale di Sabratha. Venerdì intanto, il Mediterraneo centrale si affollava di gommoni come non accadeva da tempo: 15 interventi di salvataggio in poche ore, cui si devono aggiungere alcuni del giorno precedente e altri di ieri: circa 1800 persone salvate nel fine settimana, con l’aiuto delle navi militari e di quelle delle poche Ong rimaste davanti al mare della Libia e il coordinamento della Guardia costiera italiana. Oltre agli "sbarchi fantasma". "I due accadimenti non sono affatto slegati", spiegano fonti libiche a La Stampa secondo cui questa è la reazione "non ufficiale" di Sabratha alla notizia del "peggiore degli sbarchi" quello di Haftar a Roma, trapelata ad arte già prima del fine settimana da Bengasi. La città costiera è considerata l’hub per eccellenza del traffico dei migranti diretti in Italia, da qui sono partite le decine di migliaia di persone in fuga dal "serbatoio africano". Poi, a un tratto, il flusso è stato interrotto, in parte con la nuova missione italiana a sostegno della Guardia costiera libica. In parte con gli accordi "sotto traccia" tra italiani e figure di spicco che controllano quel tratto di costa (e di conseguenze i traffici che ospitano). "I Dabbashi hanno riaperto i rubinetti dopo aver saputo dell’invito", ci spiegano in riferimento alla "famiglia" che controlla Sabratha. Rispondono ad Ahmed Al Dabbashi, detto Al Amnu (lo zio), a cui sono legate la Brigata Anas Al Dabbashi (nome di martire di famiglia) che fa capo al ministero della Difesa, e la Brigata 48 che fa capo agli Interni. Da loro dipende anche la sicurezza esterna dell’impianto libico dell’Eni di Mellita. Sono loro a fare il bello e il cattivo tempo a Sabratha come La Stampa ebbe modo di constatare, nell’aprile del 2016, incontrando proprio a Sabratha Fitouri El-Dabbashi, nipote dello zio che ebbe ruolo attivo nelle operazioni contro i rapitori dei quattro dipendenti italiani della Bonatti sequestrati dall’Isis. "È chiaro che la ripresa dei flussi è stata agevolata da loro, e potrebbe non essere finita qui", spiegano fonti libiche secondo cui già la missione lampo di Marco Minniti a Bengasi da Haftar aveva creato irritazione a Tripoli e Sabratha. Da Roma giungono rassicurazioni: per l’unità della Libia si dialoga con tutti, ma il Gna resta il governo riconosciuto e con cui il governo dialoga. Ma anche in seno all’esecutivo c’è maretta: "L’invito ha spiazzato qualche ministro". Per di più alla vigilia dei lavori dell’Assemblea generale, dove la Libia rimane il primo dei dossier portati dall’Italia all’Onu. Migranti. In poche ore salvati 1.800 profughi. Ricominciano gli sbarchi in Sicilia di Fabio Albanese La Stampa, 18 settembre 2017 Quindici interventi di Ong e Guardia costiera. Msf: In Libia violenze e soprusi. Le prime avvisaglie c’erano già state nei primi giorni di settembre. Poi, venerdì, il Mediterraneo centrale si è nuovamente affollato di gommoni e barchini come non accadeva da tempo: 15 interventi di salvataggio in poche ore, cui si devono aggiungere alcuni del giorno precedente e altri di ieri: circa 1.800 persone salvate nel fine settimana, con l’aiuto delle navi militari e di quelle delle poche Ong rimaste davanti al mare della Libia e il coordinamento della Guardia costiera italiana. A questi, si devono aggiungere i migranti degli "sbarchi fantasma" sulle coste dell’Agrigentino e pure a Lampedusa, poco meno di duecento solo negli ultimi giorni. I primi 371 sono sbarcati ieri a Trapani dalla "Aquarius", la nave di Sos Méditerranée su cui opera anche il team sanitario di Medici senza Frontiere, la Ong che ha invece interrotto l’attività della propria nave dopo aver deciso di non firmare il codice di comportamento del Viminale. Altri 589, a bordo della "Vos Hestia" di Save the Children, sbarcheranno stamattina a Catania: "Sono stati recuperati tra 30 e 50 miglia dalla Libia - spiega la portavoce di StC, Giovanna Di Benedetto -. Questa è la zona dove noi e le altre Ong stiamo operando adesso in sicurezza, dopo che è stata istituita la Sar libica che riteniamo pericolosa". La nave militare irlandese "Yeats" ha preso a bordo altri 552 migranti e tre cadaveri, e arriverà oggi ad Augusta. Altri 120 migranti sono su una nave della Marina che dovrebbe attraccare a Messina o a Pozzallo. Drammatici, ancora una volta, i racconti di chi è arrivato in Sicilia, come i 371 di ieri a Trapani che la "Aquarius" ha soccorso con tre differenti interventi: 142 nel primo salvataggio, 120 nel secondo e altri 109 trasferiti da un’altra nave e da una motovedetta libica. Arrivano da Marocco, Nigeria, Camerun, Gambia, Senegal, Sierra Leone, Guinea, Mali e dalla Siria. Tra loro, dieci bambini sotto i 5 anni, 54 minori non accompagnati e cinque donne incinta. I volontari di Medici senza Frontiere hanno riferito un terribile elenco di violenze e soprusi subiti dai migranti in Libia. Una donna nigeriana ha raccontato di avere tentato il viaggio per raggiungere il marito che è in Italia dal 2014 ma di cui non ha notizie da un anno; in Nigeria ha lasciato i suoi due figli. Per due mesi è rimasta a Tripoli in un campo profughi dove è stata violentata due volte e picchiata ripetutamente: "In Libia ti addormenti con un fucile puntato e ti svegli con un fucile puntato, pure quando mangi ti possono sparare - ha raccontato -. Se vai a prendere l’acqua, gli uomini cercano di catturare le ragazze per farle prostituire. Ti vendono e ti chiudono in una connection house ma noi siamo scappate". C’è poi un ragazzo che arriva dall’Africa occidentale, ha entrambe la gambe fasciate e profonde ferite ai piedi. Ha raccontato di essere stato rapito e rivenduto due volte, in Libia, e di essere stato torturato e pure colpito con un’ascia. Un’altra donna, del Camerun, ha cercato di fuggire dalla Libia due mesi fa ma durante la traversata è finita in mare con i suoi tre figli di 1, 3 e 5 anni. Lei si è salvata ma i bambini sono annegati. La donna e gli altri sopravvissuti - racconta ancora Msf - sono stati riportati in Libia e rinchiusi in una prigione. Ora, al suo secondo tentativo, è salva a Trapani: "Ma ho perso i miei bambini e faceva male vedere gli altri bambini che giocavano sulla nave". Ieri mattina la nave "Open Arms" della omonima Ong spagnola ha soccorso in mare 120 migranti poi trasferiti su una nave militare: "Dopo che dalla zona a est di Tripoli, Sabratha, Zawiya, le milizie impediscono le partenze - spiega Riccardo Gatti, capo missione di Proactiva Open Arms - le navi delle Ong si sono spostate a ovest e lì stiamo facendo i salvataggi. Ma ultimamente ci sono molte navi militari, italiane e di EunavforMed, che navigano in quell’area e da ovest le chiamate di soccorso sono molto diminuite". Migranti. La rotta segreta degli scafisti italiani: "Con loro non rischi di affondare in mare" di Fabio Tonacci La Repubblica, 18 settembre 2017 Sari racconta il suo viaggio verso la Sicilia: "Le bande di trafficanti in Tunisia sono molte". Gli scafisti italiani sono una garanzia. "Con loro non rischi di affondare in mezzo al mare ". Gli scafisti italiani puntano sulla qualità. "Il gommone è nuovo, dentro è fatto di legno e ha un motore potente". Gli scafisti italiani viaggiano con un coltello lungo un braccio, e si sono messi in affari con criminali tunisini a cui non frega niente di chi portano in Sicilia. "Se fossi un jihadista ", osserva Sari, involontariamente lanciando un monito a chi si occupa di Antiterrorismo, "userei questa rotta per penetrare in Europa". Il contatto coi trafficanti - Sari, per fortuna, un jihadista non è. È un quarantenne tunisino, intelligente e dai modi cortesi, che dopo la Primavera Araba si è convinto che l’unica soluzione sia lavorare in Italia, dove ha già vissuto negli anni Novanta. Parla bene la nostra lingua, ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca e non disdegna l’alcool: con calma ordina un paio di birre, al bancone di un bar di una cittadina del Basso Lazio, prima di attaccare il suo racconto. "All’inizio dell’anno una mia conoscenza di Tunisi mi dice che ci sono italiani che stanno facendo le traversate fino in Sicilia con i motoscafi ". È la rotta tunisina, la storica via dei contrabbandieri di sigarette e dei latitanti in fuga. E, da qualche tempo, anche la rotta di migranti irregolari come Sari. "Trovo il contatto giusto, un mio connazionale che mi spiega come funziona: il viaggio costa 7.000 dinari (circa 2.400 euro, ndr) e i soldi li vogliono in anticipo. Se accetto, entro una settimana riceverò una telefonata e da quel momento avrò un’ora di tempo per presentarmi in un luogo prestabilito dove incontrerò l’italiano. Di lui non mi viene spiegato niente, solo che è un siciliano di poche parole ". L’italiano taciturno - Il cellulare di Sari squilla alle 18 di una serata tiepida della scorsa Primavera. "Mi precipito all’appuntamento, portando uno zainetto con dentro il salvagente giocattolo di mia figlia. Appena mi vede l’italiano, un uomo grosso che avrà avuto 35-40 anni, si incazza per lo zaino... ma che ci posso fare, non so nuotare! ". Si ritrova in un gruppo di otto passeggeri, tutti tunisini: la comitiva vale quasi 20.000 euro. Un furgone senza finestrini li scarica su una spiaggia deserta, a un’ora di macchina da Tunisi. "Credo fosse la zona di Plage Ejjehmi, perché vedevo una collinetta con delle antenne. Il gommone era già lì, smontato, nascosto nelle sterpaglie". Sari e gli altri, al buio, seguono gli ordini dello scafista italiano che ora è accompagnato da un tunisino che funge da traduttore: prima trasporteranno le taniche di benzina per una cinquantina di metri fin sulla battigia, poi il gommone, infine il motore. Insieme a loro, viaggeranno dodici scatoloni di sigarette di contrabbando che i due scafisti sistemano a prua. Il viaggio fino a Marsala - "Ci impongono di spegnere i cellulari e poco prima di mezzanotte partiamo. Il mare è piatto, neanche una motovedetta della guardia costiera mentre lasciamo la Tunisia". È l’italiano a pilotare il gommone. Davanti a sé ha messo una borsa frigo di plastica blu, il cui contenuto non è sfuggito a Sari: "Bottiglie d’acqua e un grosso coltello, forse un machete". Il gommone accelera e rallenta di continuo. "L’italiano si orienta seguendo tre stelle ", intuisce Sari. La notte sul Mediterraneo sembra non passare mai, gli otto passeggeri muti e intabarrati nei giacconi, i borbottii in dialetto siciliano dello scafista, il rumore del motore, il vento. "All’alba scopriamo che c’è una nave militare in lontananza, e per fortuna non ci avvista. L’italiano appoggia sulla borsa frigo una tavoletta di legno, con una bussola: l’ago punta tra i 58 e i 59 gradi. Il motore spinge al massimo, arriviamo nelle acque italiane che sono le 17, ma non attracchiamo: rimaniamo a largo, a motore spento, fino a dopo il tramonto. Con l’oscurità appaiono le luci delle automobili, sbarchiamo su una spiaggia dove ci sono delle persone. In un attimo i due scafisti riprendono il mare, io mi incammino solo tra gli alberi. Dopo qualche ora ho capito dov’ero: a nord di una città chiamata Marsala. In Italia. In Europa". La rotta dei jihadisti? - Chi fossero i due scafisti, e chi tra loro comandasse, Sari non l’ha capito. "Ma a Tunisi di bande di trafficanti formati da italiani e tunisini ce ne sono molte", giura. Chi sono? Hanno legami con la Mafia? Trasportano terroristi? Una prima risposta l’ha data a giugno l’operazione della finanza "Scorpion Fish", e non sono buone notizie. L’inchiesta del pool di pm palermitani Gery Ferrara, Claudia Ferrari e Francesca La Chioma ha portato all’arresto di 15 persone, tra cui diversi italiani, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contrabbando di tabacchi. "Nella banda, che ha organizzato almeno cinque viaggi dalla Tunisia, gli italiani erano in posizione subordinata: pescatori, piccoli criminali non legati a Cosa Nostra", sostengono gli inquirenti. I gommoni usati, al massimo della velocità, potevano coprire la tratta anche in meno di quattro ore. I vertici del gruppo, invece, avevano legami con sospetti jihadisti. Forse a qualcuno hanno anche fornito un passaggio. La rotta scoperta era esattamente la stessa percorsa da Sari. Ce ne sono almeno altre due utilizzate, che partono dalle spiagge tunisine e arrivano a Mazara Del Vallo o più a est, nell’Agrigentino. Percorribili in poche ore. Sari mostra sul telefonino filmati di suoi amici tunisini arrivati in tutta sicurezza, a bordo di questi gommoni moderni che non sono le carrette che partono dalla Libia, sono mezzi sicuri. Sembrano turisti, bivaccano e sorridono. "Se fossi un terrorista - ribadisce Sari - utilizzerei questa rotta". Egitto. L’epidemia della tortura di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2017 "Nelle prigioni e nei centri di detenzione dell’Egitto non si pratica la tortura". Lo ha dichiarato di recente al quotidiano cairota "Youm7" Mohamed Faek, direttore del Consiglio nazionale per i diritti umani. In poco più di un anno sono stati pubblicati almeno tre rapporti che descrivono la tortura in Egitto come un’epidemia. Liquidati come falsi. Nel luglio 2016, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che parla di un sistema di violazione dei diritti umani basato sulle sparizioni, sulle torture praticate durante il periodo di scomparsa e sulla complicità della magistratura egiziana che non indaga sulle denunce di tortura negando persino la sparizione dei detenuti. Poi, due settimane fa, è arrivato il rapporto di Human Rights Watch che è costato all’organizzazione per i diritti umani l’oscuramento del sito in Egitto. La stessa sorte è capitata pochi giorni dopo al sito della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, un cui collaboratore - l’avvocato Ibrahim Metwally - scomparso per oltre 48 ore dopo l’arresto dovrà rispondere di imputazioni gravissime. Da ultimo, è arrivato il rapporto annuale del Comitato delle Nazioni unite contro la tortura, che verrà presto presentato all’Assemblea generale. Dell’Egitto si parla a partire dal paragrafo 58. Nel rapporto si legge che "la tortura è praticata dai servizi militari, da quelli civili e dal personale delle carceri allo scopo di punire chi protesta - compresi dal 2013 membri e simpatizzanti della Fratellanza musulmana, per obbligare a rilasciare confessioni e a fare i nomi di altre persone coinvolte nei reati". "L’impunità" - continua il rapporto - è diffusa e facilitata dall’assenza di un’autorità indipendente che indaghi sulle denunce di tortura, dal ricorso eccessivo ai tribunali militari, dalla mancanza di un organismo indipendente di monitoraggio dei luoghi di detenzione e sull’inadeguata indipendenza e competenza del Consiglio nazionale dei diritti umani" (l’ente citato all’inizio di questo articolo). Proprio al Comitato Onu contro la tortura avrebbe dovuto rivolgersi l’Italia, tra le tante iniziative adottabili sul piano internazionale e mai assunte, per rafforzare la ricerca della verità sulla sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni. Carceri latinoamericane: scuole del crimine di Amanda Marton Ramaciotti El Nuevo Dia, 18 settembre 2017 L’America Latina è la regione più violenta del Pianeta Terra, tra quelle che sono fuori da una guerra convenzionale. Secondo stime del Banco Interamericano di Sviluppo, la regione ha il 9% della popolazione mondiale, ma registra un terzo delle vittime di omicidio a livello globale e 6 ogni 10 furti vi sono commessi con l’uso di violenza. La giustizia non è riuscita a far fronte al problema. Il 90% degli assassini non vengono perseguiti e le carceri, che dovrebbero offrire alternative perché i reclusi abbandonino il crimine, hanno fallito la loro missione. Uno ogni tre delinquenti latinoamericani è recidivo, la maggior parte per crimini più gravi rispetto a quelli per cui era entrato in carcere la prima volta. Molte delle prigioni più emblematiche dei Paesi della regione sono diventate delle vere e proprie scuole del crimine. Scuole in cui si sviluppa una società parallela, senza controllo da parte dello Stato, e che sono uno dei fattori che contribuiscono alla crisi di sicurezza pubblica che si vive nei vari luoghi dell’America Latina. In Brasile, per esempio, i gruppi del crimine organizzato, come Primero Comando de la Capital (PCC) e Comando Vermelho, nascono nelle carceri e da lì coordinano ed espandono le proprie attività, fino ad aver messo su una industria transfrontaliera che si estende in Bolivia e Paraguay. I suoi leader, Marcola e Fernandinho Beira-Mar, rispettivamente, non hanno mai avuto nessun ostacolo per portare avanti i propri piani. E quando le loro forze e i loro alleati si scontrano, il saldo è monumentale, obbligando il governo federale ad intervenire con i soldati. Come quella volta, ad inizio di quest’anno, che hanno provocato 140 morti tra i prigionieri, molti dei quali mutilati. Le molteplici fughe dal carcere del capo del cartello di Sinaloa, Joaquin "el Chapo", hanno da sole contribuito ad alimentare la sua leggenda, inclusi i tunnel, inganni e tangenti che gli hanno fatto superare le restrizioni più severe. In attesa di sottoporsi ad altre vicende simili, il governo messicano si è sentito sollevato quando el Chapo è stato estradato in Usa. Per i capi delle organizzazioni criminali, a volte è ancora meglio essere nelle sale dietro i bar che per le strade. Per loro è più sicuro perché lì ricevono protezione contro i propri rivali. È il caso, per esempio, dei leader delle pandilla Mara Salvatrucha 13 (MS-13) e el Barrio 18 in El Salvador. Le carceri hanno acquisito un nuovo significato nelal regione. Mentre i membri più giovani delle pandilla possono salire di rango con rapidità quando sono dentro piuttosto che fuori, i più vecchi possono approfittare della propria condanna per pensare ed incrementare meglio le loro strategie. Talvolta ci sono prigioni dove le bande interne sono diventate delle vere e proprie istituzioni, con regole e la propria versione della storia. A Puerto Rico, ci sono almeno sette gruppi carcerari che si distinguono: 27, Jibaritos, 25, Huevo, Bacalao, 31 e Neta. Quest’ultimo ha quasi quaranta anni. Le sue regole includono il non rubare, non considerare il proprio compagno come oggetto sessuale e non umiliare i nuovi internati. Tra coloro che vengono accettati come membri ci sono persone addestrate, nell’ambito della tradizione dell’organizzazione, durante gli anni da parte di "maestri". L’insicurezza è uno dei principali argomenti tra le preoccupazioni urbanaìe, parti fondamentali nelle spese pubbliche dei governi e attrattivi argomenti di campagna elettorale per i candidati, da rio Grande fino alla Tierra del Fuego. I governi latinoamericani hanno implementato una serie di politiche molto severe per catturare e portare in giudizio i delinquenti. Secondo un confronto tra statistiche, realizzato dal Grupo de Diarios América (Gda), i primo motivi che portano le persone in carcere nella maggior parte degli 11 Paesi monitorati è il furto, il tentato furto e alcune infrazione alle leggi sulle droghe. Gli altri motivi, più distaccati, sono: estorsioni (El Salvador), omicidi (Argentina, Colombia, Costa Rica, El Salvador e Venezuela) e violenza sessuale (Perù). Secondo Marcelo Bergman, direttore del Centro de Estudios Latinoamericanos sobre Inseguridad y Violencia, con sede in Argentina, il problema delle politiche attivate dai governi latinoamericani è che quando arrestano un delinquente, lo stesso viene rapidamente rimpiazzato da un altro. "Il risultato è che si riempiono le carceri senza risolvere il problema dei crimini". Questo duplice sforzo per catturare e denunciare, opzione preferita per far fronte al crimine e alla insicurezza, non va di pari passo con un miglioramento delle condizioni di detenzione, assicurano gli esperti. Ad eccezione di Puerto Rico, tutti i Paesi dell’America Latina hanno un tasso di affollamento superiore al 100%. Nel caso del Venezuela, la quantità di reclusi è di quattro volte superiore al numero di posti di tutto il sistema carcerario. Secondo la Comisión Interamericana de Derechos Humanos, questi livelli di affollamento generano un "massacro silenzioso" e aggravano i problemi, con malattie ed esposizione dei delinquenti minori a nuovi e maggiori livelli di criminalità. Per l’affollamento c’è difficoltà a separare i reclusi in base alla gravità del loro reato e, quanta più gente è incarcerata, più difficile è per gli agenti mantenere controllo ed ordine. Dopo un incendio di un carcere in Cile nel 2010, dove morirono più di 80 reclusi, ci si rese conto che negli stessi padiglioni convivevano persone che erano incarcerate per aver venduto film piratati per strade ed ad assassini. La sovrappopolazione è spesso connessa anche al carcere preventivo. Le cause giudiziarie dei vari casi possono durare anni e le carceri si riempiono poco a poco di persone che non sono state condannate. Mediamente, il 33,4% dei reclusi della regione sono in carcerazione preventiva. "Nel fondo del mio cuore, se dovessi andare a scontare una condanna in qualcuna delle nostre carceri, preferirei morire", ha detto una volta il ministro della Giustizia del Brasile, José Eduardo Cardozo. Myanmar. La tattica degli incendi per cacciare i rohingya oltre confine di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 settembre 2017 Dal 25 agosto, dopo gli attacchi del gruppo armato Esercito di salvezza dei rohingya dell’Arakan (Asra) contro una serie di posti di blocco della polizia, la violenza della rappresaglia dell’esercito di Myanmar ha costretto 379.000 persone a lasciare lo stato di Rakhine per cercare riparo nel vicino Bangladesh. Si tratta, in quasi tutti i casi, di appartenenti alla perseguitata minoranza rohingya. Da quel giorno, nei villaggi abitati dai rohingya, sono stati appiccati oltre 80 incendi. Il governo si difende sostenendo che - non si capisce per quale motivo - sarebbero stati i rohingya stessi a dare fuoco all’unico tetto sopra la loro testa. E, magari, anche a spararsi gli uni contro gli altri. Analizzando i dati forniti dai satelliti, le riprese fotografiche e video dal terreno, così come decine di testimonianze oculari tanto in Myanmar quanto in Bangladesh, Amnesty International è giunta alla conclusione che da tre settimane è in corso una campagna coordinata e sistematica di incendi dei villaggi rohingya. Il modello si presenta costantemente: le forze di sicurezza e i vigilantes circondano un villaggio, sparano alle persone in fuga e in preda al panico e poi danno alle fiamme le abitazioni, usando benzina o lanciarazzi a spalla. A volte, a testimonianza della pianificazione degli attacchi, le autorità locali hanno avvisato i villaggi che le loro case sarebbero state date alle fiamme. A Kyein Chaung, nei pressi di Maungdaw, secondo il racconto di un uomo di 47 anni, l’amministratore del villaggio ha radunato i rohingya e li ha informati che l’esercito avrebbe potuto di lì a poco dare fuoco alle loro abitazioni, incoraggiandoli a cercare riparo fuori dal villaggio lungo la riva del fiume. Il giorno dopo, 50 soldati hanno circondato il villaggio e sono entrati, dirigendosi verso i rohingya sulla banchina e sparando contro di loro. Per chi non sapeva nuotare non sono rimaste alternative di fuga. I soldati si sono accaniti contro gli uomini, aprendo il fuoco da distanza ravvicinata e accoltellando chi non era riuscito a fuggire. Un uomo del villaggio di Pan Kyiang nella zona di Rathedaung ha raccontato la stessa scena. La mattina del 4 settembre i soldati sono arrivati insieme all’amministratore del villaggio: "Ci ha detto che sarebbe stato meglio andar via entro le 10 del mattino poiché dopo sarebbe stato incendiato tutto". Mentre i suoi familiari si preparavano a lasciare il villaggio, ha visto quella che ha descritto come "una palla di fuoco" incendiare la sua abitazione. Altri abitanti che si erano nascosti in una risaia hanno visto i soldati dare fuoco alle case usando probabilmente dei lanciarazzi. Gli incendi sono mirati. Le immagini dal satellite del villaggio di Inn Din, in una zona etnicamente mista a sud di Maungdaw, mostrano chiaramente che nella zona abitata dai rohingya le abitazioni sono state incendiate e che altrove sono rimaste intatte. Nella stessa Maungdaw, i quartieri abitati prevalentemente dai rohingya sono stati dati alle fiamme, diversamente da quanto accaduto in altre zone della città che non sono abitate dai rohingya. Per dare un’idea della dimensione dell’esodo, il numero dei rifugiati rohingya che ha lasciato Myanmar è superiore a quello degli arrivi via mare in Europa nel 2016. Considerando che tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, a seguito di una precedente offensiva militare, erano fuggite in Bangladesh circa 87.000 persone, non è esagerato affermare che in meno di un anno quasi mezzo milione di rohingya si è rifugiato in Bangladesh. In tutto i rohingya sono poco più di un milione. Se non è pulizia etnica questa.