Perché è in galera se ha solo 3 anni? di Roberto Saviano L’Espresso, 17 settembre 2017 A Messina una bambina nigeriana ha rischiato di morire avvelenata. La sua sola colpa è essere figlia di un’immigrata. Siamo reduci, nostro malgrado, dalla stagione che ci hanno raccontato come "l’estate degli stupri", poco importa che le denunce siano in calo. Stampa e politica hanno utilizzato dati e statistiche per raccontare un Paese invaso da immigrati che arrivano nel nostro Paese per violentare le nostre donne. "Nostro" è l’aggettivo che più di ogni altro ci assilla, che inquina tutto fino a fiaccare anche la capacità di fare calcoli elementari. E così, giusto per riportare i fatti ai numeri: degli abusi sessuali che avvengono in Italia solo il 7 per cento viene denunciato. Le motivazioni sono le più disparate, la gogna mediatica che hanno subito le studentesse americane a Firenze a causa delle presunte assicurazioni anti-stupro può farci comprendere che ci sono reati che forse non conviene denunciare perché da vittime si diventa, se tutto va bene, corresponsabili. I servizi televisivi su quanto accaduto a Firenze hanno poi incredibilmente alternato immagini di auto dei Carabinieri a filmati di ragazze in short e minigonne a passeggio. Il messaggio sotteso è chiaro a tutti, immagino. Ma partiamo da quel 7 per cento di abusi sessuali denunciati e approfondiamo. Secondo uno studio presentato da Demoskopika alla fine del 2016 (come mai questo studio sia stato ripreso e manipolato nelle scorse settimane resterà un mistero) il 61 per cento di chi compie abusi sessuali in Italia è italiano. Da ciò, facendo un calcolo veloce, si è desunto che il 39 per cento di chi abusa deve essere composto da cittadini non italiani. Demoskopica scrive che il 61 per cento di italiani è seguito dall’8,6 per cento di romeni, dal 6 per cento di marocchini, dall’1,9 per cento di albanesi e dall’1,3 per cento di tunisini. Da questo calcolo resta fuori un buon 21,2 per cento. Stranieri anche loro? Di dove? Nel mondo non sono solo í migranti a viaggiare... ma che importa, quello che doveva passare è che vengono dal mare a prendere il nostro lavoro e a violentare le nostre donne. Le nostre donne, appunto, di cui nessuno parla. Mi sarei aspettato che fossero loro al centro del dibattito e invece sono state le grandi assenti. Eppure l’Istat avverte che le denunce sono il risultato di una maggiore consapevolezza da parte delle donne, di maggiore informazione. Insomma, tutto il contrario di ciò che è avvenuto in queste settimane in cui nessuna informazione è stata data, ma solo becera disinformazione. Poi però, Massimiliano Coccia, giornalista di Radio Radicale, diffonde su Facebook una notizia che è stato quasi impossibile verificare per ore. A Messina nel carcere Gazzi una bambina nigeriana di tre anni, che con la madre condivideva la detenzione, pareva avesse ingerito un potente veleno per topi che provoca emorragie. La bambina ha lottato tra la vita e la morte e si è salvata solo perché, a quanto pare, avendo avvertito il cattivo sapore del veleno non lo ha inghiottito del tutto. La donna nigeriana è in carcere perché accusata di immigrazione clandestina. Avrebbe potuto essere accolta dalla Comunità di Sant’Egidio, ma (ancora) pare che non sia mai arrivata la richiesta da parte del legale. In Italia sono poche decine i bambini che si trovano in carcere con le madri, la stragrande maggioranza è costituita da bimbi stranieri che non hanno parenti che possano prendersene cura eppure, nonostante siano solo sessanta e nonostante le promesse, non si è potuto trovare per loro una soluzione più umana. A fronte di quanto accaduto mi domando: possibile che le notizie che riguardano gli stranieri ci interessino e diventino argomenti di discussione solo quando avallano la teoria della progressiva invasione? Possibile che di una bambina di tre anni che, in carcere con sua madre, rischia la vita ai media non importi nulla? Fa eccezione Radio Radicale che con Radio Carcere si occupa degli ultimi tra noi, e lo fa come se fossero i primi. Se ci saranno, nei prossimi giorni, dettagli su questa vicenda terribile e disumana sarà grazie a loro. Grazie a chi se non fa informazione vera perde il sonno. Grazie, ancora una volta, a Radio Radicale. Bambini in carcere. Il Dap: "favorire gli ingressi negli Icam per le mamme detenute" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 17 settembre 2017 Da Dap e magistratura di sorveglianza una marcia in più per far viaggiare a pieno regime gli istituti a custodia attenuata. Gli Icam in Italia sono cinque: la disponibilità nazionale complessiva è pari a 73 unità, sufficienti ad ospitare tutte le detenute madri con al seguito figli minori sotto i 6 anni. Due giorni di incontri, confronto e dialogo aperto per eliminare le contraddizioni e le zone d’ombra della legge, con l’obiettivo comune di favorire l’accesso delle detenute con bambini al seguito negli Icam, gli istituti a custodia attenuata per le madri con figli sotto i 6 anni, e di far viaggiare questi reparti a pieno regime. Ai lati opposti dei tavoli, i vertici del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e i presidenti della Magistratura di sorveglianza, riuniti a Roma nella sede di Casal del Marmo. "Nel corso del dibattito - scrive il Dipartimento in una nota - sono state raggiunte soluzioni condivise e intese operative che presto daranno frutti visibili. A conclusione di un proficuo dibattito, nel rispetto delle prerogative e competenze di ciascuno, è stata auspicata la valorizzazione degli Icam al fine della migliore allocazione delle detenute madri, a tutela dell’interesse superiore dei minori e a garanzia della sicurezza pubblica". Sono 60, al 31 agosto 2017, i bambini rinchiusi in carcere insieme alle madri detenute (52, di cui 31 straniere e 21 italiane). 35 i piccoli delle donne straniere e 25 quelli italiani. Numeri ridottissimi, rispetto a quelli dell’intera popolazione carceraria (57.393, in preoccupante aumento). Ma non per questo meno importanti. Secondo i dati del ministero della Giustizia, i bambini sono ospitati in parte negli asili nido creati all’interno degli istituti di pena (per minori fino a 3 anni) e in parte negli Icam, gli Istituti a custodia attenuta per madri detenute con figli al seguito di età non superiore ai 6 anni. L’ultimo rilevamento registra 13 bambini in Piemonte, 4 in Campania (3 nell’Icam di Lauro e 1 nel nido di Avellino), 3 in Emilia Romagna, 16 nel Lazio (nel femminile di Rebibbia), 13 in Lombardia (4 a Bollate e 9 all’Icam di San Vittore), 1 in Puglia, 2 in Sicilia e 8 nel Veneto. Dopo Milano (San Vittore), Torino, Senorbì Cagliari e Venezia, a giugno è stato inaugurato il quinto Icam, quello di Lauro, in provincia di Avellino, che con i suoi 35 posti ha proiettato la disponibilità nazionale complessiva a 73 unità, allo stato sufficienti ad ospitare tutte le detenute madri con al seguito figli minori sotto i 6 anni. "L’incontro di Roma - spiega il Presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna, Antonietta Fiorillo - ci ha consentito di chiarire una serie di aspetti su una normativa che non è limpidissima. Come, ad esempio, sull’inserimento negli Icam, tra la competenza della magistratura di sorveglianza e la possibilità per il dipartimento di assegnare. Abbiamo concordato che ci sono le due possibilità concorrenti ma che, al tempo stesso, non si sovrappongono. I posti negli Icam ci sono e questi istituti hanno senza dubbio una modalità di esecuzione della pena enormemente migliore rispetto agli altri, anche se esistono esempi di nidi in carcere che funzionano benissimo. Ma le modalità con cui è organizzato un Icam restano profondamente diverse. Per questo è necessario favorire l’accesso dei bambini in queste strutture". "Il senso dei due giorni di incontro è stato questo - racconta il Presidente Fiorillo: un confronto che ci ha chiarito una serie di aspetti nel rispetto delle competenze, della professionalità e dei campi di intervento di ciascuno. L’obiettivo raggiunto è stato quello di eliminare le contraddizioni che ci potevano essere, per far sì che questi istituti vadano a pieno regime, sia perché sono state impegnate risorse importanti, sia perché tra l’eseguire la pena negli Icam ed eseguirla da un’altra parte, c’è una differenza notevole, soprattutto, naturalmente, nell’interesse primario del minore". Dall’esperienza detentiva negli Icam, la ricaduta che si registra nei confronti dei minori è esigua. "Per fortuna i numeri sono molto bassi - commenta il magistrato -, anche perché sono molte meno le donne detenute rispetto agli uomini. Ma si registra certamente una ricaduta positiva: laddove ci sono, è tutta un’altra cosa, l’ambiente è tutt’altro. Oltre al fatto che negli Icam non ci sono le divise, che ci sono sistemi di sicurezza non invasivi e che il bambino non si rende conto, o almeno non dovrebbe rendersi conto, della restrizione, se non in maniera molto limitata, ci sono numeri molto contenuti. Ed è naturale che davanti a numeri così ridotti, tutto quello che si può fare, si fa meglio: tutto ciò che aiuta a far sentire il bambino in una comunità anziché in un carcere è molto più semplice da organizzare in un istituto con piccoli numeri che in un istituto più grande, dove magari c’è anche il nido. Vediamo se si riesce, con questo nuovo impulso, a favorire gli ingressi. Che poi è il punto centrale". "Ci siamo lasciati con l’idea di ritrovarci, anche perché sono tantissime le situazioni su cui è bene confrontarsi - continua -. Sono stati due giorni intensi in cui abbiamo davvero ragionato a tutto campo. Ed è importante. Stiamo provando ad avere una comunicazione più fluida, più diretta. Ragioniamo da due punti di vista, ma l’obiettivo è comune. E, oggettivamente, in una situazione in cui spesso la legislazione è molto frammentata e magmatica, e ha sofferto in questi anni di sovra-strutturazioni e di inserimenti spesso non coordinati, parlarsi ha sempre un valore. Non si risolve tutto, ma sono i piccoli passi che poi fanno il risultato finale". "Ora bisognerà anche aspettare i decreti attuativi della delega: le commissioni stanno lavorando in tempi veloci, come ci è stato chiesto dal ministro, e c’è molto fermento. È necessario aspettare un attimo per capire cosa succederà, perché alcune cose su cui stiamo ragionando oggi, potrebbero essere superate. Resta il valore dell’incontro e dell’essersi dati appuntamento, anche se non a scadenza fissa. Parlarsi e confrontarsi con l’amministrazione per noi è assolutamente fondamentale perché abbiamo lo stesso obiettivo: garantire un’esecuzione della pena più coerente possibile con i dettami costituzionali". Social impact bond per la riduzione della recidiva, la fiducia c’è di Mario Calderini Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2017 Il successo di Peterborough segna la strada per progetti in fase di avvio come il carcere di Torino. Il Social Impact Bond di Peterborough sembra proprio aver funzionato. La notizia è stata presa con entusiasmo misto a sollievo dai tanti cantori dei Social Impact Bond in tutto il mondo che potranno smettere di tremare di fronte alla richiesta di evidenze concrete sulla effettiva capacità di questi strumenti di favorire la soluzione di problemi sociali ancora irrisolti. Il primo Social Impact Bond, realizzato nel Regno Unito e destinato al contenimento del fenomeno delle recidive tra i detenuti condannati a pene brevi nel carcere di Peterborough, non solo ha raggiunto l’obiettivo sociale oggetto dell’intervento ma ha anche consentito la restituzione per intero del capitale investito e la distribuzione agli investitori di un rendimento finanziario non del tutto trascurabile. Le aspettative erano particolarmente elevate perché il fratellastro del Sib di Peterborough, il programma legato al Sib della prigione di Riker’s Island negli Stati Uniti, era stato interrotto prematuramente per manifesta impossibilità di raggiungere l’obiettivo sociale prefissato. Vero è che tale fallimento non era direttamente attribuibile allo strumento finanziario ma al modello di intervento, tuttavia il mancato successo aveva dato fiato ai molti scettici che ritengono i Sib uno strumento nella migliore delle ipotesi difficilmente realizzabile ovvero addirittura inutile. Quel quasi 3% annuo di rendimento restituisce invece fiducia alla grande corte di entusiasti estimatori dei Sib, benché anche su questo presunto successo non manchino scetticismo e dubbi, come vedremo. Il Social Impact Bond di Peterborough fu lanciato nel 2010, quando vennero raccolti da un’organizzazione chiamata Social Finance, 10 milioni di euro provenienti da organizzazioni filantropiche e investitori di varia natura, per fornire le risorse finanziarie a una coalizione di diverse imprese e organizzazioni sociali chiamata One Service. Questa coalizione aveva come obiettivo la riduzione del tasso di recidiva entro dodici mesi dal momento del ritorno in libertà tra la popolazione di detenuti maschi che avevano scontato pene brevi. Nel giro di cinque anni sono stati trattati circa mille soggetti che erano in buona parte dei casi incorsi in recidive e con storie di detenzione particolarmente complesse, spesso caratterizzate da situazioni di infermità mentale o dipendenze acute. Lo schema base del finanziamento prevedeva che Social Finance, l’intermediario dell’operazione, raccogliesse il capitale e lo investisse nelle imprese sociali che potevano contribuire alla soluzione del problema, promettendo agli investitori la restituzione del capitale e un rendimento proporzionato ad un obiettivo di impatto sociale da raggiungere, misurato da un valutatore indipendente in termini di riduzione del tasso di recideva nella popolazione di riferimento. Il contratto con Big Lottery Fund e Ministero della Giustizia prevedeva un pagamento di interessi solo al raggiungimento di una soglia del 7,5 per cento. Poiché la media di riduzione nelle diverse coorti trattate ha raggiunto circa il 9% si è attivato un pagamento agli investitori quantificabile in un 3% annuo di rendimento. L’impegno dell’amministrazione pubblica non dovrebbe in teoria creare scompensi nel bilancio pubblico perché, se i conti sono stati fatti bene, il pagamento degli interessi è pareggiato dai risparmi futuri ottenuti attraverso l’intervento. In sostanza per l’amministrazione pubblica si tratta di una reingegnerizzazione di risparmi futuri in nuovi investimenti. Un risultato che molti descrivono come un successo, ed effettivamente lo è, anche se non mancano aspetti dubbi e aspetti problematici che non pochi hanno sottolineato. In primo luogo in verità la storia del Social Impact Bond di Peterborough è stata piuttosto travagliata. Delle tre coorti previste che avrebbero dovuto essere trattate per un periodo di sette anni solo due sono state portate a fine percorso, e solo per un periodo di cinque anni, per problemi di natura diversa, tra cui interventi di politica pubblica che rendevano inattuabile il programma e la sua misurazione. Alcune obiezioni sono state invece di carattere molto tecnico, relative ad esempio ai database utilizzati per la misurazione oppure ai livelli di confidenza statistica dei risultati o ancora all’eterogeneità delle coorti di riferimento. Osservazioni di natura più generale e importante riguardano la natura sostanziale dell’intervento e più in particolare ciò cui deve essere attribuito in ultima analisi il successo dell’operazione. Ai Sib si attribuiscono in generale due proprietà virtuose: primo, sul piano strettamente finanziario, la capacità di reclutare alla causa della soluzione di problemi sociali risorse private che non sarebbero disponibili per altra via. Secondo, la capacità di favorire soluzioni e modelli di intervento particolarmente innovativi e rischiosi. Questo perché lo schema Sib rialloca parte del rischio dal finanziatore (ad esempio la pubblica amministrazione) al finanziato, quindi dal soggetto meno informato (e quindi meno propenso a sviluppare soluzioni innovative e rischiose) a quello più informato (e quindi più propenso a innovare). Se nel primo caso, il reperimento di risorse finanziarie scarse, i dubbi si concentrano sulla effettiva capacità di scalare l’impatto dell’intervento in caso di successo, il secondo caso, la promozione di modalità innovative, è oggetto di discussione. Il tema fondamentale è che il successo del Sib di Peterborough potrebbe essere legato a fattori diversi dalla stessa natura dello strumento finanziario in senso stretto. Per esempio, alcuni pensano che il successo di Peterborough sia fondamentalmente legato al fatto di essere riusciti a mettere a lavorare insieme su uno stesso problema un numero cospicuo di organizzazioni sociali, cosa che però non è necessariamente legata al Sib ma potrebbe essere raggiunta in altri modi. Altri osservano che gran parte del successo potrebbe essere spiegato dalla governance dello strumento, che definisce una struttura di incentivi tale per cui il controllo esercitato dagli investitori sull’attività delle imprese sociali è molto più serrato e attento che nel caso di altri schemi filantropici. In tutti questi casi la critica di fondo è che gli stessi risultati potrebbero essere raggiunti con schemi finanziari più semplici senza necessariamente affrontare i costi e le complessità dei Sib. Benché queste osservazioni siano in gran parte fondate, ciò non toglie tuttavia al Sib di Peterborough di aver sperimentato e dimostrato la fattibilità concreta di un’operazione che molti consideravano sostanzialmente irrealizzabile. Il Sib di Peterborough è stato pioniere di una nuova generazione di strumenti di pay-for-results, che oggi conta quasi cento sperimentazioni in tutto il mondo. Tra questi alcuni, tra cui ad esempio quello australiano sui minori in affido e quello israeliano sulla prevenzione del diabete di tipo due, cominciano a mostrare risultati incoraggianti. L’esperienza di Peterborough deve quindi essere salutata a consuntivo con soddisfazione, pur in prospettiva critica, per poter costruire su di essa una seria stagione di sperimentazioni che portino al miglioramento dello strumento ovvero al suo superamento verso una generazione di strumenti fondati sul principio del pay-for-results ma più semplici nella loro architettura. La sperimentazione italiana in fase più avanzata è oggi il Sib che ha per oggetto la riduzione della recidiva attraverso il reinserimento lavorativo presso il carcere Lorusso Cotugno di Torino (nella foto una Scena del film "Tutta colpa di Giuda" di Davide Ferrario girato dentro all’istituto), promosso e progettato da Fondazione Sviluppo e Crescita e Human Foundation e sul quale sembrano concentrarsi interessi di importantissime istituzioni finanziarie tra cui Unicredit. Il progetto pilota è oggi nella fase di transizione da studio di fattibilità a sperimentazione concreta e l’augurio è che la sperimentazione di Torino possa rappresentare per l’Italia ciò che Peterborough ha rappresentato per il mercato internazionale. La democrazia anormale di Mario Calabresi La Repubblica, 17 settembre 2017 Si avverte la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo. Ciò che sta emergendo in queste ore, attraverso la deposizione del procuratore di Modena Lucia Musti, conferma e rafforza ciò che la procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone aveva svelato ormai da mesi: una manipolazione delle carte giudiziarie per alzare il livello di un’inchiesta - che aveva e ha fondamento - affinché fosse affondato l’allora primo ministro. Colpendolo attraverso il suo punto debole, un padre discusso, con il vizio di muoversi in modo inappropriato sfruttando la posizione conquistata dal figlio. Quando il primo colpo viene assestato, lo scorso dicembre, Matteo Renzi ha già perso il referendum, è già un ex presidente del Consiglio e la sua parabola è discendente. È stato il giudizio dei cittadini a decretare questa svolta. Non un’indagine e nemmeno le sue deviazioni. Ma questo non toglie nulla alla gravità di ciò che è successo. L’idea che sia possibile disarcionare un primo ministro o chiudere una carriera politica attraverso la manipolazione di intercettazioni e un uso sapiente delle rivelazioni ai giornali è sconvolgente. E non può essere paragonato e confuso con tutte le inchieste che in passato hanno avuto al centro leader politici. Questo non significa infatti che non possano essere le indagini a decidere le sorti dei politici (come nel caso della recente sentenza sulle malversazioni della vecchia guardia leghista) e che l’unico giudizio utile e accettabile sia quello delle urne - come sosteneva Berlusconi, che vedeva il voto come sola legittimazione esistente e come massimo scudo da ogni istruttoria - ma ci mostra che il sistema può essere inquinato e infiltrato. Viene naturale chiedersi: ma se il fascicolo non fosse finito a Roma, se Pignatone e i suoi pm non avessero esercitato con tempestività e urgenza uno scrupoloso controllo su ogni atto e su ogni trascrizione cosa sarebbe successo? I tempi della giustizia italiana, ce lo indica il caso Mastella, sono talmente lunghi da non garantire una pronta riparazione degli errori o da sventare manovre oscure. Con tutto questo dobbiamo fare i conti subito. Evitando però il gioco opposto, quello di politicizzare e generalizzare, perché in Consip il marcio c’era e ce lo conferma la condanna dell’ex dirigente Marco Gasparri che ha patteggiato una pena a un anno e otto mesi per avere ricevuto una mazzetta di 100 mila euro dall’imprenditore Alfredo Romeo. Inoltre dobbiamo riconoscere che Renzi ha permesso che le accuse che arrivavano a lambirlo fossero verosimili perché ha compiuto l’errore di inserire al vertice di Consip, la struttura che gestisce i più grandi appalti pubblici d’Italia, figure di sua fiducia. Persone della cerchia stretta che stanno intorno a lui dai tempi in cui governava la provincia di Firenze. Ma va detto con chiarezza che al momento non esiste alcuna prova di un coinvolgimento di Renzi e di suo padre negli illeciti, così possiamo tornare a giudicarlo su quello che ha fatto, quello che non ha fatto, sugli uomini e le donne che ha scelto e nominato e sulle sue idee per il futuro dell’Italia. Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo. Non contano le finalità per cui lo hanno fatto, se si sia trattato di mettersi al servizio di interessi politici, imprenditoriali o se abbiano soltanto seguito un’idea manichea di Giustizia, che trova consenso ideologico pure in una parte della magistratura. Gli innegabili meriti conquistati dal colonnello Sergio De Caprio e dalla sua squadra con la cattura di Totò Riina non possono autorizzare proclami sul "golpe perpetrato contro i cittadini", incompatibili con il suo ruolo istituzionale. Ed è sintomatico di questo corto circuito in cui un pezzo di Arma indaga sui propri vertici sospettandoli di subalternità politica il fatto che i vertici dell’Arma e il ministero della Difesa si siano espressi solo ieri sera e molto blandamente su questi comportamenti. Abbiamo richiamato decine di volte alla necessità di una democrazia normale, in cui l’autonomia della magistratura e il lavoro di tutti gli organi inquirenti vengano tutelati. Ma dove i cittadini abbiano diritto a un giudizio equo, senza inquinamenti e in tempi ragionevoli: tutti i cittadini, inclusi i leader politici. I frutti amari dell’inerzia sulla giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 17 settembre 2017 Non sappiamo se le indagini sulla Consip condotte da alcuni Carabinieri del Noe tendessero al sovvertimento delle istituzioni o esprimessero solo un eccesso di esaltato protagonismo. Né sappiamo quali fossero le direttive del Pm di Napoli al capitano Scafarto, visto che i due si scaricano reciprocamente le responsabilità, con il risultato di essere entrambi indagati di falso. Ma sappiamo che questa vergognosa vicenda ha fatto emergere, ancora una volta, sia le anomalie del nostro sistema giudiziario sia le sue funeste influenze sulla politica, e quindi sulla democrazia. E questo ci induce a tre considerazioni. Primo. Questo maledetto imbroglio è stato reso possibile dall’uso spregiudicato delle intercettazioni, dall’arbitrio con il quale si iniziano le indagini e dall’esistenza di reati evanescenti - come l’abuso di ufficio e il traffico di influenze - che possono facilmente esser attribuiti a chiunque si abbia interesse a delegittimare. Se veramente si voleva colpire Tiziano Renzi - e con lui il più illustre figlio - è stato un gioco da ragazzi ascoltarne migliaia di conversazioni, estrapolarne frasi di significato incerto, costruirvi sopra un’ipotesi di reato, e alla fine passare tutto ai giornali. Qualsiasi cittadino è vulnerabile davanti a questa micidiale combinazione di perversioni, che sta diventando quasi grottesca. Ancor più grottesco è che la politica non si sia accorta che in tal modo essa è diventata un giocattolo alla mercé della magistratura, o almeno di quella più esaltata. Il ministro Orlando procede cautamente sulla strada della riforma, e già retrocede intimidito davanti alle prime reazioni. Riflettano tutti che domani può capitare anche a loro. Secondo. La dottoressa Musti, capo della Procura di Modena, ha ricostruito davanti al Csm l’allucinante dialogo con i due ufficiali dei Carabinieri che le proponevano di "far scoppiare la bomba" contro il Primo Ministro. La gravità del contegno di questi due signori non sta tanto in queste espressioni improprie, e nemmeno nel loro atteggiamento definito dalla Musti "esagitato". Sta nel fatto che l’informativa che conteneva quel presunto esplosivo era un collage sgangherato di "chiacchiere da bar", e che i dischetti delle intercettazioni non recavano nemmeno i sigilli. Insomma, un pasticcio indegno. La Pm è stata saggia a liberarsene senza darvi seguito, e ancor più lodevole a mantenerne il segreto, fino a quando ha dovuto rivelarlo nella sede istituzionale. Purtroppo altri magistrati hanno agito diversamente. Terzo. Se si dimostrasse che questi atti di indagine - con le allegate intercettazioni - sono stati manipolati o alterati per attribuire a Tiziano Renzi un reato, si andrebbe ben oltre i reati di diffamazione e falso per i quali-già ora- si sta procedendo. Ci troveremmo davanti all’ipotesi di calunnia reale pluriaggravata, e sarebbe, per quanto ci ricordiamo, il primo caso nella nostra storia giudiziaria di un concorso tra toghe e divise per compromettere una personalità politica. Nessuno dubita che si tratterebbe di un caso episodico e isolato. Ma proprio per questo le Autorità di controllo devono procedere con efficienza e rapidità, quantomeno per rassicurare un’opinione pubblica a dir poco sconcertata. Concludo. Da quando, vent’anni fa, Berlusconi fu estromesso dal governo attraverso la notifica giornalistica di un’informazione di garanzia, la politica ha subìto intollerabili condizionamenti dalle inchieste giudiziarie. Essa ha peraltro contribuito a questa sciagurata anomalia con l’atteggiamento ambiguo e ondivago di legalismo moralizzatore e di garantismo sospetto, a seconda che le indagini riguardassero gli avversari o gli amici. Il "revirement" dei Cinque Stelle sulla candidabilità degli indagati ne è un esempio clamoroso. Tutti i tentativi di limitare l’insindacabile arbitrio di qualche euforico Pm - magari ispirato da segrete ambizioni elettorali - si sono infranti davanti all’alibi, facilmente contestabile, che queste riforme avrebbero compromesso l’efficienza delle indagini, favorito la criminalità mafiosa, e vulnerato l’indipendenza della magistratura. Ora si vedono i frutti di questa inerzia rassegnata. Frutti amari per chi li assapora, e purtroppo avvelenati per la nostra claudicante democrazia. La politica debole e le Procure forti, dieci anni di governi tenuti in scacco di Massimo Adinolfi Il Messaggero, 17 settembre 2017 "La mia esperienza mi dice che quei reati sono difficili da provare": parola di Antonio Di Pietro. Parola non di oggi, ma del gennaio 2008. Clemente Mastella, ministro della Giustizia del secondo governo Prodi, ha da poco ricevuto un avviso di garanzia per concussione: è accusato di aver esercitato pressioni indebite su Antonio Bassolino, a proposito di una nomina. Di Pietro, allora ministro pure lui, vede giusto, ma la sentenza di assoluzione è arrivata solo qualche giorno fa: nove anni e mezzo dopo. "Non riesco a immaginare Sandra Mastella che minaccia, concute e fa morire di paura Bassolino", diceva Di Pietro. Lui non ci riusciva, ma i magistrati sì, e Sandra Mastella finisce agli arresti domiciliari; e tutto l’Udeur, il partito di Mastella, viene travolto dallo scandalo. Non rinascerà più. Va detto che Di Pietro non interveniva per esprimere solidarietà a Mastella, ma per prendere le distanze dalle critiche ai magistrati che si era permesso di formulare. Lui, i suoi compagni di partito, tutto il Parlamento che lo aveva applaudito con uno "scrosciante battimano bipartisan". Non si fa. È un atto di eversione democratica. E lo è anche se è perfettamente chiaro, a Di Pietro per primo, che tutto finirà in un nulla di fatto. I magistrati - lo dice lui stesso - hanno "scoperto l’acqua calda", cioè come si fa politica al Sud. E come volete che si faccia? Con logica clientelare e spartitoria, spiega l’ex pm. L’obiettivo diventa allora azionare la legge penale per sradicare questa maniera di fare politica. L’ex-magistrato è esplicito: "La difficoltà di individuare un reato per contestare comportamenti lottizzatori e clientelari esiste". Quel che non dice, è perché, in base a quale idea e civiltà del diritto, comportamenti clientelari debbano essere trasformati in reati, piuttosto che essere sanzionati nell’urna. Che qualcosa non quadra è chiaro però pure a lui, visto che aggiunge: "Non è detto che tutto vada risolto per via giudiziaria". Non è detto, però viene fatto: le notizie di questi giorni lo dimostrano. Caso Cpl-Concordia. 2015. L’inchiesta riguarda la metanizzazione dell’agro aversano e di Ischia. Il governo in carica è quello di Matteo Renzi. Cosa c’entra Renzi con il gas metano? Forse fa le vacanze ad Ischia? Non risulta. Ma finisce intercettato lo stesso. Una soffiata - non si sa bene se pilotata o no - spinge infatti gli spaventati dirigenti della cooperativa a cercare di capire perché sono finiti sotto inchiesta. Si rivolgono a un generale. Il generale, per gli inquirenti, è Michele Adinolfi. Vengono disposte le intercettazioni. Il generale parla con Renzi, e le sue parole finiscono sui giornali scatenando il caos. Del versante giudiziario si son perse le tracce: nessuno sviluppo processuale, nessuna incriminazione per il generale Adinolfi, nessuna rilevanza penale. Ma l’effetto mediatico c’è tutto. Non cade nessun governo, quella volta, ma ora vien fatto di pensare che ciò è dipeso solo dal fatto che il capo della Procura di Modena, Lucia Musti, a cui è trasmessa parte dell’indagine napoletana guidata da John Henry Woodcock, decide di non far esplodere "la bomba" che gli consegnano i carabinieri del Noe, il capitano Scafarto e il suo superiore, Sergio Di Caprio. Per loro, infatti, a Renzi si può arrivare. Loro sì che riescono a immaginarlo, e anzi quasi lo suggeriscono al magistrato. Che nel luglio scorso (due anni dopo), sentita dal Csm presso il quale è aperta un’istruttoria nei confronti di Woodcock, usa parole di fuoco: per gli spregiudicati ufficiali del Noe, e per il Pm chi ne coordina il lavoro: una "informativa terribile, dove si butta dentro ogni cosa, che poi si manda ovunque. La colpa è anche di noi magistrati, perché siamo noi a dover dire che le informative non si fanno così". Non si dovrebbero fare, ma si continuano a fare. Altra inchiesta, e stessa disinvoltura. Spinta anzi fino a un’incredibile spudoratezza. Il caso Consip parte da Napoli ma anche in questo caso arriva fino a Roma, fino a Renzi. Anche in questo caso ci sono di mezzo intercettazioni e fughe di notizie. Anche in questo caso a muoversi sono gli uomini del Noe. Ebbene, se si guarda più da vicino l’intrico imbastito in quelle carte, e il modo in cui han preso a circolare, si trovano elementi in tutto analoghi a quelli del caso Cpl-Concordia. Non solo i protagonisti, ma pure il modus operandi. Al centro del quale ogni volta compaiono fughe di notizie che mettono in allarme le persone coinvolte, fughe che più che danneggiare il lavoro della Procura, sembrano alimentarlo. Sembrano, in poche parole, consentire di estenderne il raggio e di arrivare sempre più su: dal Cardarelli alla centrale di acquisti Consip; dalla centrale di acquisti Consip a Palazzo Chigi e a Rignano sull’Arno, dove sulla graticola finisce il padre dell’ex premier. Tutto questo accade prima, ovviamente, che si sappia che la madre di tutte le frasi, quella che avrebbe dovuto inguaiare Tiziano Renzi, era in realtà stata pronunciata non dall’imprenditore napoletano arrestato, Romeo, ma dal suo consulente Italo Bocchino. Svista? Fretta? Negligenza? Leggerezza? Forse. Ma com’è possibile che si proceda con fretta, negligenza o leggerezza in un’indagine che lambisce i massimi vertici istituzionali, che rischia di portare sotto processo il padre del Presidente del Consiglio in carica, e che riguarda appalti miliardari? Il premier tiene duro, e il governo non cade per mano della Procura. Ma la botta è forte. Questa volta però non ci sono battimani in Parlamento a difesa del premier. La strategia scelta dal partito democratico è abbassare la temperatura dello scontro fra politica e giustizia. Renzi rimane in sella, ma quale sarà il bilancio? La legge sulla responsabilità civile dei giudici? La riduzione dei giorni di ferie dei magistrati? Bilancio piuttosto magro, visto che né l’ordinamento giudiziario è stato in sostanza toccato, né si sono fatti passi avanti sui due punti di maggiore sofferenza: la disciplina delle intercettazioni e la prescrizione, che anzi, per non vanificare il lavoro delle Procure, è stata allungata per i reati contro la Pa, pazienza se un imputato rischia di rimanere sotto processo per vent’anni. In compenso, sono state introdotte nuove figure di reato, come il traffico illecito di influenze, che aumentano l’area di indeterminatezza dell’azione penale, o introdotte modifiche al codice antimafia, sempre in materia di corruzione, che ampliano anziché ridurre l’area dell’intervento cautelare. Ma forse una riflessione più generale andrebbe fatta sui vagiti di riforma della giustizia spesso soffocati in culla. Appena insediatosi, Renzi aveva annunciato di voler cambiare le regole del Csm. Di quella riforma non c’è traccia. L’impressione è che una politica debole, che si sente vulnerabile alle inchieste delle Procure - ai loro riflessi mediatici, e alla loro durata intollerabilmente lunga - preferisca abbozzare, non svegliare il can che dorme, non attaccare per non essere attaccata. Privacy e intercettazioni, dal Garante rigore nel sanzionare gli abusi di Antonello Soro* Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2017 L’articolo del prof. Tommaso Edoardo Frosini ("Intercettazioni, la privacy non è una minaccia per la giustizia", 15 settembre), contiene alcune informazioni imprecise, che ho l’obbligo di rettificare. In particolare, nell’articolo si lamenta una asserita inerzia del Garante rispetto alle violazioni del diritto alla riservatezza dei cittadini, determinate dalla diffusione sui media di contenuti intercettati nell’ambito di indagini penali. A smentire il professore basterebbe una semplice consultazione del sito web dell’Autorità, con la quale avrebbe potuto verificare che su questo tema il Garante è intervenuto innumerevoli volte e con atti di diversa natura. Di fronte a specifiche violazioni derivanti dalla diffusione, sui giornali e in rete, in contrasto con il principio di essenzialità dell’informazione, di contenuti intercettati privi di rilievo informativo e lesivi della riservatezza delle parti processuali o di terzi, siamo intervenuti con provvedimenti inibitori, volti a impedire il protrarsi del pregiudizio e a tutelare quanto possibile gli interessati. Analoghi provvedimenti abbiamo adottato, spesso d’urgenza, anche rispetto alla diffusione, in violazione di norme legislative e deontologiche, di altri atti d’indagine (si pensi all’interrogatorio dell’indagato detenuto) nella loro integralità, con virgolettati del tutto ultronei e spesso persino in forma di video. Al fine di rafforzare le garanzie di riservatezza dei contenuti intercettati, impedire fughe di notizie o anche soltanto accessi non legittimati agli atti d’indagine, già dai primissimi anni di attività del Collegio che presiedo (e precisamente nel luglio 2013), con uno specifico provvedimento abbiamo prescritto alle Procure della Repubblica l’adozione di misure di sicurezza, di tipo fisico e logico, idonee a garantire una maggiore protezione dei dati trattati. In ordine al disegno di legge di riforma del processo penale, al cui interno è appunto contenuta la delega legislativa per la riforma della disciplina delle intercettazioni, abbiamo rappresentato al Presidente del Consiglio dei Ministri, già nell’aprile 2015, l’esigenza di coniugare gli aspetti della correttezza e lealtà dell’informazione con il rispetto del principio di proporzionalità tra privacy e mezzi investigativi ribadito, anche recentemente, dalla Corte di giustizia. Analoghe istanze abbiamo espresso nell’ambito di innumerevoli interviste e articoli pubblicati su testate nazionali e locali. E in ciascuna delle cinque Relazioni annuali che abbiamo, con le Colleghe componenti il Collegio, presentato al Parlamento, non abbiamo mai mancato di sottolineare l’esigenza di garantire, anche mediante idonee riforme normative, la puntuale selezione del materiale investigativo assicurando, nel doveroso rispetto dei diritti della difesa, che negli atti processuali non siano riportati interi spaccati di vita privata (delle parti ma soprattutto dei terzi), del tutto estranei al tema di prova. Abbiamo anche promosso una riforma del Codice deontologico dei giornalisti (risalente ad ormai diciannove anni fa), volta a valorizzare, sulla scorta dei principi sanciti dalla Cedu e dalla Corte di giustizia, la funzione di vaglio critico dell’autore rispetto a notizie di reale interesse pubblico. E come abbiamo rappresentato al Governo, la scelta dell’Ordine di non voler concludere questo percorso di riforma - a partire da norme, quali quelle deontologiche, che proprio per la loro maggiore capacità di introiezione sono anche maggiormente effettive - ha ampliato, di conseguenza, l’ambito di intervento del legislatore. In tutti i casi citati, siamo intervenuti - contrariamente a quanto asserito dal professore - con il rigore e la tempestività che hanno sempre contraddistinto la nostra attività in ogni ambito, nel doveroso rispetto del principio del contraddittorio procedimentale e con la massima attenzione all’esigenza di contemperare diritto alla riservatezza, libertà di espressione, diritto di (e all’)informazione. Un’ultima notazione. La formula del "right to be let alone", citata dal professore, è dagli stessi Samuel Warren e Louis Brandeis correttamente attribuita, proprio nel saggio ricordato da Frosini, al Judge Thomas M. Cooley: "The right to onès person may be said to be a right to complete immunity; to be let alone". *Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali. "Per genitori e figli un solo tribunale" di Luciano Moia Avvenire, 17 settembre 2017 L’avvocato Marta Giovannini: più omogeneità per tutelare i nuclei familiari. L’obiettivo "alto" per la Conferenza nazionale di Roma? Naturalmente l’istituzione del "Tribunale per la famiglia", un organismo in cui far convergere finalmente tutto ciò che riguarda la vita di genitori e figli. Purtroppo non si tratta di un percorso facile e neppure si potrà realizzarlo a breve termine. Magari nella prossima legislatura.". L’avvocato Marta Giovannini, già membro della direzione nazionale del Pd, ha coordinato i lavori del gruppo sul diritto di famiglia in vista della Conferenza nazionale di Roma. "Pensare a un "Tribunale della famiglia" consentirebbe di avere uniformità di criteri nella valutazione di tutto quanto ruota intorno alla realtà familiare. Oggi - osserva ancora l’esperta - tra tribunali per i minori e tribunali ordinari spesso emergono valutazioni diverse, anche quando si trattano gli stessi problemi. Certo, occorre sempre tenere conto delle circostanze concrete, delle varie peculiarità, ma una maggiore omogeneità sarebbe auspicabile proprio alla luce di quella centralità del minore che dovrebbe sempre guidare gli interventi dei giudici". Un progetto che, nell’ambito del dibattito tra esperti, ha incontrato molti consensi. Anche i problemi di ordine economico non sarebbe insuperabili. Ma lasciando sullo sfondo l’auspicio del nuovo organismo - idea che dovrà passare comunque attraverso tanti ostacoli politici e tanti conflitti di categoria - il gruppo ha poi dedicato molto spazio a riflettere sulla mediazione familiare, scelta oggi di fatto lasciata alla volontà delle persone e quindi scarsamente battuta. "Noi possiamo cercare di comporre le situazioni di crisi con gli strumenti a nostra disposizione, ma si tratta di un percorso difficile, appunto perché non esiste una legge specifica". Da qui la necessità di avviare un percorso di riflessione per arrivare a nuovi sbocchi. "Abbiamo la mediazione in tante materie, tranne nella conflittualità coniugale che meglio si presterebbe a questa prassi". Lavorare per affermare la cultura della mediazione extra-giudiziale o comunque secondo percorsi che potranno essere discussi nell’ambito della Conferenza, significa rimettere al centro il ruolo della famiglia che - come tutti gli esperti hanno riconosciuto - merita nuove attenzioni e più efficaci interventi proprio per preservarne ruolo e funzioni. E si tratta di un obiettivo che giuristi e avvocati della famiglia non possono ignorare. Tanto più oggi che tanti punti di riferimento stanno venendo meno. "In questa prospettiva - dice ancora l’avvocato Giovannini - abbiamo affrontato il tema adozioni con un criterio di base, quello di aprire nuovi percorsi per cercare di preservare quanto più possibile il rapporto tra il minore e la famiglia d’origine. O comunque con la famiglia allargata, nonni e altri parenti. Solo come ultima istanza va considerata l’opportunità di un’adozione fuori dalla famiglia". Se, come più volte ribadito durante i lavori del gruppo, il punto di riferimento dovrà essere sempre e comunque il superiore interesse del minore, anche le disparità di trattamento che ancora oggi la legge riserva a famiglie fondate sul matrimonio e unioni di fatto, non potranno rimanere ai margini della riflessione. Come, altrettanto urgente, è raddoppiare gli sforzi per accompagnare alla comprensione della nostra legge le tante madri straniere che, entrando in ospedale per partorire, ignorano spesso i loro diritti per esempio sul parto in anonimato. Strettamente collegato a questi aspetti, il tema del riconoscimento delle origini biologiche la cui legge - già approvata dalla Camera - è ferma da mesi in commissione Giustizia del Senato e non si sa come e se potrà di nuovo essere presa in esame. "Gli argomenti che non sono stati affrontati nei lavori preliminari - conclude l’esperta - sono evidentemente tanti, ma nell’ambito della Conferenza ci sarà spazio per esaminare altri aspetti e per valutare l’obiettivo che più ci sta a cuore: offrire a minori e famiglia gli strumenti giuridici più efficaci per una tutela che possa sempre meglio salvaguardarne diritti, ruolo e funzioni". Detenzione inumana: il risarcimento del danno si prescrive in dieci anni personaedanno.it, 17 settembre 2017 Con una sentenza chiara e ben motivata, il Tribunale di Cagliari ha condannato il Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni patiti da un detenuto che ha scontato la propria pena in condizioni di detenzione non conformi all’art. 3 della Cedu che proibisce "la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante". Nello specifico il ricorrente lamentava di essere stato detenuto in celle non conformi alle dimensioni previste per legge (3 metri quadrati come spazio minimo), e di essere stato costretto a rimanere in cella per 22 ore al giorno, in quanto poteva usufruire solo di due ore al giorno d’aria. Il Ministero, costituendosi in giudizio, preliminarmente eccepiva l’avvenuta prescrizione della richiesta risarcitoria, e nel merito deduceva la sua infondatezza. Gli aspetti più rilevanti di tale sentenza attengono alle motivazioni addotte dal Giudice che ha rigettato l’eccezione di prescrizione, condannando il Ministero al pagamento dei danni patiti liquidati secondo quanto previsto dall’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario (Legge 354/1975 modificata dal DL 92/2014 su sollecitazione della Corte Europea). Il primo aspetto affrontato nella disamina del Giudice riguarda l’individuazione del termine iniziale dal quale calcolare la prescrizione del diritto al risarcimento. In merito, attraverso un attento excursus storico delle norme di riferimento, il Giudice riconosce che il dies a quo per calcolare il termine di prescrizione decorre "dal momento della fine dello stato di detenzione ovvero dalla fine di ciascun periodo di detenzione presso ciascun carcere o presso ciascuna cella durante la quale si sia verificata la violazione". Il ragionamento prende le mosse dall’art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario ("Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti dei soggetti detenuti o internati"), che prevede un rimedio, appunto, "risarcitorio", sia per coloro che ancora si trovano in stato di detenzione (attraverso il ricorso al magistrato di sorveglianza che, a titolo di risarcimento in forma specifica, può ridurre la pena ancora da espiare nella misura di un giorno ogni dieci giorni di pena già eseguita in condizioni "inumane"), sia per coloro che hanno già espiato la propria pena, come nel caso di specie. In questa seconda ipotesi la domanda di risarcimento dei danni subiti deve essere proposta al Tribunale Civile del capoluogo di distretto in cui il ricorrente ha la residenza, ed in caso di condanna, il risarcimento viene liquidato nella misura pari ad euro 8,00 per ogni giorno di detenzione subita in violazione dell’art. 3 della CEDU. Nella sentenza si sottolinea poi come dottrina e giurisprudenza siano concordi nel ritenere che il rimedio introdotto con l’art. 35 dell’Ord. Penitenziario abbia natura risarcitoria ( e non indennitaria), come si evince anche dalla stessa terminologia usata dal legislatore che fa espresso riferimento ai "rimedi risarcitori", ed inoltre come tale articolo non introduca un nuovo illecito civile, in quanto anche prima di tale disposizione, "la violazione del diritto ad una detenzione conforme all’art. 3 della Cedu costituiva un danno ingiusto risarcibile secondo i principi generali della responsabilità civile". Conseguentemente "la responsabilità dello Stato per l’illecito civile cui fa riferimento il d.l. 92/2014 trova la sua fonte diretta, non nel predetto decreto legge, bensì nella violazione delle statuizioni di cui all’art. 3 della Cedu, divenuto parte integrante del nostro ordinamento a far data dalla l. 848/1955, che ha ratificato e reso esecutiva in Italia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo". Tale impostazione comporta importanti conseguenze in materia di prescrizione, dato che, "riconosciuta la preesistenza del diritto (assicurato dalla disposizione di cui all’art. 3 Cedu), deriva che non è alla data di entrata in vigore della legge che deve essere ricondotto il termine iniziale di decorrenza della prescrizione del diritto stesso, da ricondursi, piuttosto, al momento in cui la violazione si è consumata". Una volta individuato il dies a quo del termine di prescrizione, il Giudice affronta il tema relativo alla durata della prescrizione che, ovviamente, varia a seconda che si opti per una responsabilità extracontrattuale, il cui diritto al risarcimento si prescrive in cinque anni, o al contrario per una responsabilità contrattuale, nel cui caso la prescrizione è decennale. Pur sottolineando la non uniformità di vedute, il Giudice de quo si esprime a favore della tesi della responsabilità contrattuale da c.d. contatto sociale anche in riferimento al rapporto tra detenuto e amministrazione penitenziaria, in quanto "secondo l’orientamento della Corte di Cassazione quando l’ordinamento impone a determinati soggetti, in ragione dell’attività o funzione esercitata e della professionalità richiesta a tal fine, di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti (si pensi alla responsabilità degli insegnanti nei confronti degli alunni affidati alle loro cure, oppure alla responsabilità del medico ospedaliero nei confronti del paziente), sorge ai sensi dell’art. 1173 c.c., in favore dei soggetti che si trovino nelle predeterminate situazioni e che entrino in contatto con l’attività di quel soggetto, uno specifico diritto di credito alla prestazione di facere contemplata e agli annessi obblighi di protezione, diritto a cui corrisponde specularmente una specifica obbligazione in capo al soggetto tenuto a quel comportamento". Secondo tale tesi, le norme di legge e del regolamento penitenziario che definiscono le caratteristiche delle strutture carcerarie e le prestazioni assistenziali, rieducative e sanitarie da erogare al detenuto sono disposizioni idonee ad individuare l’ambito di una vera e propria obbligazione, il cui inadempimento è fonte di responsabilità contrattuale. Condividendo tale impostazione, il Giudice aderisce quindi alla "tesi che inquadra la fattispecie nell’ambito della responsabilità da inadempimento dell’obbligazione. Ne deriva che il termine di prescrizione è quello decennale, decorrente dalla data delle verificazione della violazione causa del pregiudizio". Nel caso in oggetto quindi il termine di prescrizione non era ancora decorso e nel merito è stata accertata la violazione dell’art. 3 della Cedu; il Ministero è stato quindi condannato al risarcimento dei danni patiti dal ricorrente, liquidati, come detto, secondo quanto stabilito dall’art. 35 ter dell’Ord. Penitenziario. Como: "al Bassone ci sono troppi stranieri", la Lega Nord porta il caso a Roma di Roberto Canali Il Giorno, 17 settembre 2017 Una delegazione della Lega Nord ha visitato il carcere Bassone per manifestare la propria solidarietà ai quattro agenti che lo scorso agosto erano stati aggrediti. Una delegazione della Lega Nord ha visitato il carcere Bassone per manifestare la propria solidarietà ai quattro agenti che lo scorso agosto erano stati aggrediti e minacciati da un detenuto transessuale. Purtroppo non un rarità nel carcere comasco, che conta anche un numero altissimo di suicidi, proprio per le condizioni di eccezionale disagio e sovraffollamento della struttura. "Il dato delle presenze straniere non può e non deve passare inosservato - spiega l’onorevole Nicola Molteni - Oggi il carcere di Como vede la presenza di 419 detenuti, 371 uomini e 48 donne, di cui 233 stranieri (quasi tutti uomini), pari al 55% del totale. Dato allarmante e drammatico pari quasi al doppio della media nazionale, che si attesta al 34%. Allo stesso tempo fa riflettere che il carcere attualmente ospiti 419 detenuti su una capienza regolare prevista di 215 e una capienza tollerabile di 402 detenuti. Un numero che allarma e lascia intendere le condizioni di estrema difficoltà in cui operano gli agenti di Polizia all’interno della struttura. Una situazione insostenibile e ad alto rischio sociale. Per questo chiederò al ministro Orlando di intervenire immediatamente ponendo una seria attenzione sul carcere di Como e in particolare sulla necessità di far scontare ai detenuti stranieri la pena nel paese di origine". Nel corso del loro incontro Molteni e la vicesindaco di Como, Alessandra Locatelli, hanno incontrato anche la direttrice del carcere, la dottoressa Carla Santandrea, il segretario regionale del sindacato Cnpp della polizia penitenziaria Davide Brienza e il comandante del reparto Domenico Isdraia. La polizia penitenziaria ha colto l’occasione per chiedere più sicurezza e adeguati strumenti per garantire l’incolumità dei propri agenti, dato l’aumento di aggressioni, colluttazioni e ferimenti tra le sbarre, un adeguato piano di nuove assunzioni, un nuovo contratto di lavoro e il riordino delle carriere. Richieste destinate a diventare parte integrante di un’interrogazione parlamentare che Molteni si prepara a presentare al ministro della Giustizia. "Sono rimasta molto colpita dall’organizzazione e dalla struttura del Carcere di Como - testimonia Alessandra Locatelli - ho colto l’impegno e la determinazione delle forze di polizia che lavorano quotidianamente in una situazione non facile. Ci sono aspetti legati alla sicurezza e alla salute di chi opera all’interno del carcere, che non vanno sottovalutati, ma migliorati. Riguardo ai detenuti ho potuto osservare spazi adibiti alla lavorazione del legno e altre attività e, nonostante l’edificio non sia recente, c’è attenzione nel rendere alcuni spazi meno sgradevoli. Questo denota l’impegno della direzione e incoraggia l’amministrazione per una futura collaborazione". Trieste: nasce il "Tavolo di lavoro per l’inserimento sociale delle persone detenute" diariodelweb.it, 17 settembre 2017 Sei mesi fa era avvenuta, a Trieste, la sua costituzione con la riunione delle istituzioni e dei soggetti che, a livello territoriale, sono in grado di sviluppare forme di collaborazione e dialogo per facilitare l’inclusione sociale e lavorativa delle persone ristrette. Mercoledì prossimo, 20 settembre, alle 9.30, nella sala Gialla al primo piano del palazzo del Consiglio regionale, in piazza Oberdan 6 a Trieste, il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Pino Roveredo, promuoverà il "Tavolo di lavoro per favorire l’inserimento sociale e lavorativo delle persone detenute". Sei mesi fa era avvenuta, sempre a Trieste, la sua costituzione con la riunione delle istituzioni e dei soggetti che, a livello territoriale, sono in grado di sviluppare forme di collaborazione e dialogo per facilitare l’inclusione sociale e lavorativa delle persone ristrette, dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria alla magistratura di sorveglianza di Trieste, dall’assessorato ai Servizi e alle Politiche sociali del Comune di Trieste a Confartigianato, Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio, Assoturismo, Confesercenti, Coldiretti, Unione regionale panificatori e Federsolidarietà. Gli obiettivi - "Le attività del Tavolo di lavoro - spiega Roveredo - sono finalizzate alla sensibilizzazione, alla promozione di relazioni, all’avvio di collaborazioni tra i soggetti partecipanti, all’individuazione di strategie per la realizzazione di corsi propedeutici all’apprendimento di attività e mestieri atti a facilitare l’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti, all’individuazione di modalità per facilitare il loro impiego". E ancora, alla rilevazione e monitoraggio degli interventi e dei progetti realizzati a sostegno del recupero e del reinserimento sociale e lavorativo di queste persone, nonché alla diffusione di buone pratiche negli altri contesti territoriali della regione. Nel corso del 2018, un analogo Tavolo di lavoro sarà riproposto nelle provincie di Udine, Pordenone e Gorizia. Vasto (Ch): Comunità Papa Giovanni XXIII, "qui un futuro diverso per i detenuti" di Anna Bontempo Il Centro, 17 settembre 2017 Inaugurata la Casa accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII. Chiavaroli: le chiameremo misure di comunità. "Una giustizia che educa e accoglie è più efficace di una giustizia che vuole solo punire". Le parole di don Oreste Benzi, fondatore dell’associazione Papa Giovanni XXIII con i suoi 500 centri sparsi in 30 paesi del mondo, riecheggiano sotto il tendone allestito nel piazzale dell’edificio che accoglie la Comunità educante per detenuti (Cec) di San Lorenzo. Più che una inaugurazione è un momento di riflessione sull’importanza delle misure alternative alla detenzione e sulle problematiche relative alla inclusione dei carcerati. Tutti gli interventi sottolineano il ruolo fondamentale della riabilitazione che passa attraverso progetti personalizzati di recupero dove al centro c’è la persona. La struttura può ospitare 20 detenuti, 15 sono operatori e volontari. Molti quelli presenti insieme ai rappresentanti delle istituzioni e a una delegazione del Comune formata dall’assessore Luigi Marcello e dal presidente del consiglio comunale Giuseppe Forte. Assente il ministro della giustizia Andrea Orlando, che inizialmente aveva assicurato la sua presenza. Il Guardasigilli ha voluto "manifestare la sua vicinanza personale e del Ministero" con un messaggio letto da uno dei responsabili dell’associazione. In prima fila l’arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte. "Questa è una struttura di pietra", esordisce indicando il fabbricato, "ma dentro ci sono precise scelte pastorali. Al centro del progetto deve esserci la dignità del detenuto", aggiunge Forte, che alla affollata platea di operatori e rappresentanti istituzionali offre diversi spunti di riflessione, citando papa Francesco e il suo predecessore Benedetto. "Avere come scopo solo la pena significa fallire", insiste l’alto prelato. "Proponiamo un percorso educativo che porti al cambiamento", sottolinea Giorgio Pieri dell’associazione, "il sistema carcerario con il 75% di recidiva è fallimentare. Su cento persone che hanno scontato la pena in carcere 75 commettono di nuovo un reato. L’esperienza dei Cec vede i detenuti protagonisti attivi della loro riabilitazione e il coinvolgimento della comunità esterna". Sull’importanza delle misure alternative alla detenzione e sulla loro "convenienza" in termini di recidiva insiste il sottosegretario alla giustizia Federica Chiavaroli. "Cambieranno nome. Si chiameranno misure di comunità", afferma la senatrice accennando alla riforma, "perché si svolgono nella comunità. Sono convenienti. Se le persone le recuperiamo abbiamo meno delinquenti in giro". Napoli: Francesco spacciava e ora vuole diventare chef di Rosario Esposito La Rossa La Repubblica, 17 settembre 2017 Ha frequentato l’università della camorra e ora dice: "I soldi non valgono una figlia che cresce senza padre". Francesco Sollazzo era il mio amico di banco della terza media. Io ero un secchione, lui un bullo. Alto in terza media un metro e ottanta, faceva box, lui i ragazzini non li picchiava, li "scamazzava". Un giorno l’insegnante d’italiano mi disse che avrei dovuto aiutarlo a studiare, dissi a me stesso: "è una parola". Sono diventato amico di uno che mi proteggeva solo perché l’aiutavo a studiare, solo perché sapevo giocare bene a pallone. Ci siamo licenziati entrambi con buoni voti. Le nostre strade si sono separate e per anni non ci siamo più rivisti. Ho rincontrato Francesco dopo 10 anni, nel carcere di Vasto, in Abruzzo. Io raccontavo la nostra esperienza a Scampia, lui scontava una pena di 6 anni per spaccio. Siamo partiti dallo stesso banco, ma poi le strade si sono separate. Francesco è stato risucchiato dalla faida, dai soldi facili, dal successo criminale, dalle piazze di spaccio, dai vestiti di marca, dalle motociclette, dalla Gomorra più putrida. A 22 anni, dopo svariate detenzioni nei carceri minorili è finito a Poggioreale. Si è perso il meglio! Ha frequentato l’università della camorra. Spesso dice: "I soldi non valgono una figlia che cresce". Lui non si è potuto godere sua figlia. In 6 anni è stato in 6 istituti di detenzione: Napoli, Vasto, Avellino, Pescara, Campobasso e tanti altri. La famiglia l’ha seguito senza mai abbandonarlo. Quando lo rividi a Vasto mi ha scritto una lettera: "Rosà ti ricordi quando riempivo di botte i ragazzini, quando li pestavo? Quella era una mia richiesta di aiuto, era il mio modo per comunicare agli altri una sofferenza, per dire che mio padre aveva problemi con la legge, che mia madre si faceva in quattro pur di portare avanti la famiglia. Non dimenticarlo mai Rosà, non tutti ci lamentiamo allo stesso modo, non tutti soffriamo allo stesso modo". Francesco ci ha dato una grande lezione, nella Gomorra delle piazze di spaccio, vengono fuori criminali, spacciatori, anche perché noi non siamo bravi ad ascoltare con altre orecchie. Francesco insegna che dietro l’ennesimo mostro sbattuto in prima pagina ci sono sempre i perché, le motivazioni, le assenze. La storia di Francesco è diventata la nostra storia. È uscito dal carcere pochi mesi fa, la sua pena agli arresti domiciliari finirà tra 30 giorni. La nostra associazione, Voci di Scampia, vuol essere un punto di forza per Francesco. In quella famosa lettera che mi inviò dal carcere di Vasto mi scrisse anche: "Quando esco voglio venire con te nelle scuole ad urlare che la camorra è una montagna di merda". Oggi lo stiamo facendo, stiamo girando gli istituti superiori insieme. Francesco racconta la sua storia, ci mette la faccia. Spiega ai ragazzini che scarpe, potere e pistole non potranno mai valere la libertà. Racconta del carcere di Poggioreale, della Cella Zero, dei soprusi di un sistema penitenziario che non funziona, racconta che con la camorra si perde sempre. Francesco è un’altra persona, oggi è dirigente dell’Oratorio Don Guanella Scampia, è un mental coach, sprona i giovani calciatori di promozione a fare meglio. Sabato ha raccontato la sua storia a oltre 100 ragazzi provenienti da tutta l’Italia, durante la manifestazione Libera in Goal, dedicata ad Antonio Landieri, vittima innocente di camorra. Insomma, si sta mangiando a morsi la sua seconda chance. A Scampia, oltre i parenti della vittime innocenti, ci sono i parenti dei tanti Francesco, gente che bisogna incontrare, gente sfruttata dalla camorra, manovalanza, visitors, spacciatori. Gente senza niente, gente che ha creduto che la camorra fosse l’ultima possibilità. Fin quando non includeremo nei nostri progetti della legalità, nelle assemblee rivoluzionari, nei laboratori, nelle cose belle questa "brutta" gente, non cambierà mai niente. Fin quando non ci preoccuperemo di essere "educazione morbida" per questa gente abituata a cadere e farsi male, vincerà sempre il malaffare. Francesco è all’ultimo passo verso la riconquista della dignità, la ricerca di un lavoro che lo riabiliterà completamente. Vorrebbe fare il pasticciere, il panettiere, lavorare nel mondo della ristorazione, partendo dal carcere, dove con poco bisognava preparare pranzi per 14 persone in una cella per 6. Magari aprirà il ristorante Poggioreale Gourmet. Che senso ha raccontare la storia di Francesco, l’ennesimo riabilitato detenuto italiano? Forse un senso per gli adulti non lo ha, ma per gli ultimi, gli sfruttati, i ragazzi, forse sì. Noi non lo molliamo, perché se è vero che "prima della morte c’è il carcere" è anche vero che non si può essere fenice senza l’aiuto di chi crede nelle fiamme del riscatto. Bari: in tribunale mancano i cancellieri, dirottati ex autisti delle ambulanze di Mara Chiarelli La Repubblica, 17 settembre 2017 Cancellerie in affanno, processi a rischio prescrizione, dipendenti amministrativi sulla strada del pensionamento. La giustizia barese chiama, il ministero risponde mandando la Croce rossa. E, per la precisione, i lavoratori in esubero, smistati negli uffici amministrativi di procura e tribunale barese: almeno 4 da una parte e 10 dall’altra, ma altri sono attesi per novembre. Una scelta apprezzabile, nelle intenzioni, se non fosse per il fatto che in molti casi si tratta di lavoratori con formazione ed esperienza del tutto inadeguate al tipo di servizio richiesto. Capita così che in una cancelleria del tribunale particolarmente oberata di fascicoli vadano a dare una mano un ex meccanico, un ex autista e un capitano dell’Esercito. Situazione simile negli uffici che sbrigano il lavoro amministrativo della procura. Tutti accomunati, fra l’altro, dall’età media dei nuovi arrivi, non inferiore ai 58 anni e quindi prossimi alla pensione. Buona parte di loro aveva nella Croce rossa un profilo professionale corrispondente, "sulla carta", allo stesso livello dei cancellieri dipendenti dal ministero della Giustizia. Di fatto, però, c’è un grosso scollamento fra la loro formazione (diploma di scuola media o, tuttalpiù, di istituto tecnico superiore) e quella di chi, per lavorare al Palagiustizia, ha vinto un concorso con una laurea in giurisprudenza e ha anche conseguito l’abilitazione alla professione da avvocato. Resta quindi irrisolto il nodo degli organici, carenti nella misura del 20 per cento e costretti a fare turni di lavoro massacranti: non è infatti insolito che le udienze collegiali, e ancor più monocratiche, terminino alle 22, in barba a un protocollo stipulato un anno fa da presidente del tribunale, procuratore, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati, quello della Camera penale, il delegato della Giunta barese dell’Anm, il responsabile degli amministrativi e le sigle sindacali. Un testo condiviso da tutti, che imponeva la chiusura delle udienze non oltre le 17. Ma se il sistema giustizia non funziona, a farne le spese sono anche i magistrati, l’altra categoria sott’organico. I numeri, più di altri, danno l’immagine di una macchina sotto sforzo. A cominciare dalla procura, che dovrebbe contare su 32 sostituti procuratori, 1 procuratore, e 4 aggiunti. Ma che in effetti ne ha rispettivamente 28, 1 e 3, con una scopertura del 12 per cento. Il divario comincia a manifestarsi se ci si sposta al tribunale, dove mancano 13 giudici su 68, con una scopertura del 20 per cento. Si arriva invece al 23 per cento alla sezione lavoro dello stesso tribunale: dei 13 giudici sulla carta, ce ne sono solo 10 e altri 4 dovrebbero andare via a breve. Situazione più contenuta, infine, alla Corte d’appello dove mancano solo 4 giudici su 45. Quel che allarma, come evidenziato anche dal presidente del tribunale di Bari Domenico De Facendis durante l’audizione del Csm a Bari, giovedì pomeriggio, è la mancanza di volontà, da parte dei giovani magistrati, a candidarsi per quei posti: "Bari era una sede ambitissima e ora la pubblicazione dei posti rimane addirittura senza aspiranti. Lo stesso accade a Foggia e a Trani - avverte il presidente della Giunta barese dell’Anm, Lorenzo Gadaleta - Il distretto è stato lasciato privo delle fondamenta materiali indispensabili per poter offrire le più adeguate risposte giudiziarie a forme di criminalità che, in alcuni casi, hanno capacità paramilitari". L’Aquila: la denuncia dell’avvocato "vessazioni in carcere per la Lioce" di Giampiero Giancarli Il Centro, 17 settembre 2017 L’avvocato dell’ergastolana: "ben settanta provvedimenti disciplinari a suo carico in soli tre mesi, c’è un atteggiamento vessatorio in carcere nei confronti di Nadia Desdemona Lioce". Non ha usato mezzi termini l’avvocato della terrorista ergastolana, Caterina Calia, in occasione della seconda udienza, poi rinviata, del processo a carico della Lioce: è accusata di oltraggio a pubblico ufficiale per aver insultato un agente e di disturbo del riposo: più volte l’ergastolana avrebbe battuto una bottiglia di plastica sulle sbarre di ferro della sua cella causando rumore intollerabile. Fu una protesta contro le nuove direttive carcerarie del Dap con ulteriori restrizioni per i reclusi. Un esordio, quello dell’avvocato, certamente finalizzato a segnalare un presunto comportamento persecutorio verso l’imputata, ma anche a contestare le modalità del "carcere duro" cui la sua assistita è sottoposta da anni nel carcere delle Costarelle di Preturo. L’avvocato ha presentato una memoria nella quale, a sostegno della sua tesi, ha denunciato altri aspetti. "In soli tre mesi", ha detto, "ci sono stati 70 provvedimenti disciplinari a suo carico e ci sono anche le discutibili ragioni di queste sanzioni". Questo, a suo dire, potrebbe consentire, in sede di discussione, di valutare se l’utilizzo di una bottiglia di plastica battuta sul cancello sia stato davvero un atteggiamento grave rispetto ai fatti esposti. L’avvocato, insieme alla collega Ludovica Formoso, ha poi depositato un’interrogazione parlamentare del senatore Luigi Manconi su alcuni sequestri fatti in carcere alla Lioce. Nell’atto di Manconi si afferma, tra le altre cose, che all’imputata è stata sottratta la immediata disponibilità di materiale cartaceo in suo possesso (atti giudiziari, lettere, un quaderno, una rivista e articoli di giornale) trasferito in locali adibiti a magazzino, accessibili soltanto a giorni alterni. Il processo si è svolto tramite videoconferenza dal carcere ma la Lioce, che nella precedente udienza si era detta disponibile a essere processata pur in mancanza di notifiche, non ha fatto dichiarazioni. La prosecuzione dell’istruttoria è stata rinviata dal giudice onorario Quirino Cervellini, d’intesa con il pm Rita Di Gennaro, al 24 novembre. Data nella quale la difesa proporrà altri elementi a tutela della posizione dell’imputata Lioce. Ieri mattina un presidio di "Soccorso rosso internazionale" si è formato a Torino davanti ai cancelli del palazzo di giustizia proprio in concomitanza con la seconda udienza a carico della Lioce. Gli attivisti hanno appeso uno striscione e distribuito volantini. Alla conclusione dell’udienza negli uffici giudiziari aquilani, un’attivista del Movimento femminista proletario rivoluzionario ha diffuso un volantino nel quale la Lioce è definita "prigioniera politica" e viene messa in evidenza la sua condizione detentiva. Una petizione contro il regime del 41 bis, corredata da 1.500 firme, già inoltrata al presidente della Repubblica, è stata depositata anche al tribunale dell’Aquila. "La sezione femminile del carcere dell’Aquila", si legge nel volantino, "è tristemente nota per le condizioni detentive, e riserva alle donne perquisizioni corporali quando si esce dalla cella nell’unica ora quotidiana, totale divieto di comunicare tra detenute, corrispondenza con l’esterno praticamente inesistente per la forte censura". Più in particolare, in analogia con quanto denunciato dall’avvocato in udienza, si sostiene che alla Lioce non vengono consegnati i libri e nemmeno i vaglia per poterli acquistare tramite il carcere, ribadendo che in Abruzzo non c’è un garante per i detenuti. Alba (Cn): "Vale La Pena", due mesi di iniziative su carcere e dintorni cuneodice.it, 17 settembre 2017 La settima edizione dedicata all’economia penitenziaria. Si parte il 1° ottobre con "Produzioni Ristrette". Ad Alba tra i mesi di ottobre e dicembre ritorna Vale La Pena un inteso programma di iniziative su carcere e dintorni. La settima edizione sarà incentrata sul tema del lavoro all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. Esposizioni, mostre, momenti di riflessione e approfondimento e la presentazione del vino prodotto con l’uva coltivata nella Casa di Reclusione albese. Si partirà, domenica 1° ottobre in piazza Elvio Pertinace dove, dalle 9 alle 18, il Mercato della Terra ospiterà "Produzioni Ristrette": una rassegna di cibi, oggetti artigianali, abiti e accessori nati all’interno di progetti finalizzati al reinserimento delle persone ristrette. Lavorare in carcere è un’opportunità che mette alla prova detenuti, istituzioni e operatori; ma rappresenta anche uno dei grandi problemi del nostro sistema penitenziario: sono pochissimi coloro che lavorano spesso esercitando mansioni dequalificate. Tuttavia nelle prigioni italiane ci sono anche attività di eccellenza alcune di queste saranno presenti ad Alba. La manifestazione è organizzata dalla Compagnia di Iniziative Sociali - CIS e dall’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo ed in collaborazione con la Città di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, la Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, il Mercato della Terra "Italo Seletto Onlus" di Alba e la Consulta comunale del Volontariato. Nell’organizzazione sono coinvolti l’Istituto di Istruzione Statale "Umberto I" di Alba e Syngenta, gruppo mondiale interamente dedicato all’agribusiness, impegnato a sostenere il progetto di coltivazione delle uve presso il carcere albese. "Il mercatino Vale la Pena - afferma il Sindaco di Alba Maurizio Marello - è un’iniziativa che come Amministrazione abbiamo voluto convintamente e lanciato il 2 ottobre del 2011. Da allora è diventato un appuntamento tradizionale della prima domenica di Fiera del Tartufo, perla di diamante in un programma di iniziative sull’argomento carcere previste in autunno. Lo scopo è sempre quello di dare spazio e visibilità alle attività presenti nelle carceri italiane atte a riabilitare e favorire l’integrazione dei detenuti dopo il fine pena. A proposito ringrazio il Garante Regionale delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte Bruno Mellano ed il nostro Garante comunale Alessandro Prandi per il grande e costante impegno". "Investire nel lavoro significa investire in dignità e di conseguenza in legalità e sicurezza - afferma Alessandro Prandi, Garante comunale albese dei detenuti - Su dieci persone che entrano nelle prigioni italiane, sette ci torneranno; si tratta di una delle recidive più alte in Europa. Il rapporto si inverte se durante la carcerazione hai potuto seguire un percorso finalizzato ad acquisire o ampliare competenze in ambito lavorativo. È nostra intenzione sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni locali e il tessuto imprenditoriale del territorio sulle opportunità normative, fiscali e di crescita sociale che questo investimento potrebbe comportare". Airola (Bn): corso di formazione per pizzaioli all’interno dell’Ipm gazzettabenevento.it, 17 settembre 2017 Far emergere tutte le potenzialità del territorio e donare una vera occasione di riscatto ai giovani detenuti per guardare con speranza concreta al proprio futuro. Con queste finalità, è nato nel 2016 il Corso di formazione per giovani pizzaioli all’interno dell’Istituto Penale per Minori di Airola con il sostegno economico della Fondazione Angelo Affinita. Visti i risultati della prima esperienza, con sette ragazzi diplomati come pizzaioli professionisti, partirà, in questo mese di settembre, la seconda edizione, con importanti novità. Da quest’anno, infatti, il corso sarà certificato da Adecco formazione ed i giovani pizzaioli che si diplomeranno all’interno del carcere, avranno l’opportunità di essere inseriti nel database di Adecco e cogliere così le occasioni di lavoro che arriveranno. Inoltre, il corso si svilupperà su due moduli principali. Il primo dedicato all’orientamento al lavoro, seguito da Patrizia Flammia, con lunga esperienza di orientamento, tra l’altro, come responsabile del Centro di Solidarietà di Napoli. Il secondo modulo, dedicato alla professione di pizzaiolo, tenuto quest’anno da tre pizzaioli professionisti di primo livello, per assicurare ai corsisti una formazione di eccellenza: Marco Amoriello, pizzaiolo, 1° classificato al Campionato Mondiale della pizza per ben tre volte, Anna Iaquinto, prima donna ad aggiudicarsi la Rassegna del "Pizzafestival" di Napoli, docente della Scuola Italiana Pizza, e Alessandro Vittorio, già istruttore pizzaiolo per l’Accademia Italiana Pizzaioli. Il Corso è concepito in modo da formare i giovani detenuti dell’Istituto al futuro mestiere di pizzaiolo, inserendo altresì, in un percorso di orientamento al lavoro così strutturato: 40 ore di orientamento; 180 ore di formazione in laboratorio; 12 ore di verifiche e monitoraggio; 25 ore di stage in pizzeria; 20 ore di visite ad aziende del settore. I corsisti sono stati selezionati dal tutor del corso di orientamento e dalla Fondazione Angelo Affinita con colloqui motivazionali, così da creare un gruppo motivato e determinato a lavorare bene assieme. Al termine, poi, si terrà un test pratico e teorico che i giovani allievi saranno tenuti a superare con successo per ottenere l’attestato che aprirà loro un’occasione concreta di lavoro una volta usciti dall’Istituto. "Il Corso di formazione per giovani pizzaioli - si legge nella nota inviata alla Stampa - segue la strada di una lunga collaborazione tra la Fondazione Affinita e l’Itituto penale minorile e si inserisce in un forte impegno di sostegno al territorio. Il percorso generale proposto con questo progetto ha lo scopo di responsabilizzare i giovani in carcere, aiutarli a ritrovare la propria identità, ricostruendo un’immagine di sé positiva e costruttiva, in grado di dirigere la propria esistenza e gestire il proprio disagio. Un modo per recuperare i giovani, prevalentemente del territorio, motivandoli ad un reale cambiamento, per un futuro ricco di vera speranza". Ancona: concerto dei Modena City Ramblers nel carcere Barcaglione Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2017 Grande partecipazione per il Festival Barcarock: canti dal carcere. Ad animare il pubblico non sono solo i ristretti del carcere Barcaglione, ma un numeroso pubblico esterno, che nelle calde giornate estive hanno fatto ingresso in carcere nel cortile dell’ora d’aria. Ad inaugurare il Festival, la Macina di Gastone Pietrucci, che ha aperto l’anteprima del Monsano folk festival proprio dentro le mura cintate, a seguire la Gang con le loro sonorità folk rock. A chiudere l’edizione del festival, sabato 23 settembre alle 15 salirà sul palco del Barcaglione I Modena City Ramblers, nel penitenziario di Ancona per presentare il loro nuovo album "Mani come rami, ai piedi radici". I due organizzatori del festival, Marino Severini della Gang e Francesca Marchetti dell’associazione Art’O si dicono soddisfatti dell’iniziativa, tanto che a novembre, sull’onda lunga del Barcarock, si inaugurerà lo Spazio Musica nel carcere, dove i detenuti potranno imparare a suonare i diversi strumenti, a suon di chitarre, organetti e batterie e creare una rockband interna dove poter suonare e migliorare la loro vita detentiva: utilizzare la musica come un grimaldello per liberare energie positive ed accompagnarli verso un percorso naturale di rieducazione. Da sempre, la musica abita i luoghi della reclusione, memorabile il famoso concerto di Jonny Cash nel carcere di massima sicurezza di Folsom nel 1968, non poche sono le canzoni legate al mondo del carcere; un mondo maledetto quanto fonte di grande ispirazione. È possibile partecipare al concerto dei Mcr inviando una mail entro mercoledì 20 settembre a: barcaglioneagrirock@gmail.com. Lecce: teatro in carcere, il sogno sfuma di Antonella Gaeta La Repubblica, 17 settembre 2017 Resta senza fondi il progetto. Un congedo via Facebook: "Amici cari, il Centro teatrale aperto Io ci provo purtroppo quest’anno non sarà presente con le sue attività nella Casa Circondariale di Lecce. Purtroppo non abbiamo le economie necessarie per portare avanti il progetto". Ieri l’ideatrice e regista della compagnia del carcere, Paola Leone, ha condiviso l’annuncio dell’addio a un’attività durata sei anni, coronata da produzioni importanti come l’ultima PPP da 50 repliche tutte sold out, e alla stesura di un progetto per un teatro, il primo italiano, all’interno del carcere. Un’esperienza viva, continuativa, "realizzata soprattutto grazie all’entusiasmo della direttrice Rita Russo e del comandante Riccardo Secci, sempre al nostro fianco". Ma, al contempo, la difficoltà accumulata di anno in anno nel reperire e ottenere fondi di sostentamento minimo per le attività. "Per un triennio abbiamo potuto contare sul sostegno della Chiesa Valdese, ma nessun aiuto dal ministero della Giustizia, pochissimo dal Comune. Colpo di grazia l’impossibilità, di fatto, di partecipare al bando triennale della Regione, complicatissimo, che, ha tagliato fuori realtà come le nostre". E, infine, il saluto: "Ci auguriamo che la volontà politica di questo paese possa cambiare in meglio. Abbracciamo con amore tutti i detenuti/ attori che hanno fatto parte della compagnia, e sono tantissimi, con la certezza che insieme abbiamo sognato. L’uomo cresce solo se sognato, noi non smetteremo di crederci". Migranti. Missione in Libia, Pinotti frena Minniti: "decide il Parlamento" di Leo Lancari Il Manifesto, 17 settembre 2017 Divide il governo l’annuncio fatto due giorni fa dal ministro Marco Minniti di una nuova missione miliare in Libia, la terza dopo l’invio di soldati italiani a Misurata e la missione navale in collaborazione con la Marina libica. A frenare l’interventismo sempre più accentuato del titolare del Viminale è stata la ministra della Difesa Roberta Pinotti alla quale spetta decidere l’impiego dei soldati. E le sue parole sono state un monito al ministro degli Interni a restare all’interno dei suoi confini istituzionali. "Noi siamo già in Libia con un ospedale e ci siamo con una nave officina che sta aiutando la Marina libica a ripristinare i propri mezzi navali", ha ricordato la Pinotti. "Oltre questo nulla c’è e, nel caso nascessero nuove necessità, se ne parla prima di tutto in parlamento". Parole che sono uno stop alle ambizioni di Minniti, che oltre agli Interni da mesi ormai si muove come se fosse anche ministro degli Esteri e adesso sembra voler decidere sull’impiego dei militari. Scavalcando ancora una volta il parlamento, come è già successo con gli accordi stretti con la Libia per fermare i migranti. Nei piani del Viminale la nuova missione avrebbe come obiettivo la costituzione nel Fezzan di una base logistica dalla quale coordinare i lavori per la costituzione di una Guardia di confine libica, ma anche di offrire protezione al personale Onu (Unhcr e Oim) che dovrà occuparsi delle gestione dei centri nei quali sono richiusi i migranti. Minniti ritiene fondamentale fermare i migranti in Niger, prima che riescano a entrare nel paese nordafricano, utilizzando anche le popolazioni locali che vivono a ridosso del confine. "L’idea - ha spiegato nei giorni scorsi - è di far diventare le tribù del sud un elemento di forza, con una guardia di frontiera coordinata con Niger, Ciad e Mali, cioè avere una guardia di frontiera che controlli insieme le nuove frontiere anche con le nuove tecnologie, dai sensori laser sino ai droni". Parte di questo progetto è rappresentata dai progetti di sviluppo delle città libiche che l’Ue ha promesso di finanziare. Minniti ha inviato al commissario Ue per l’Immigrazione Avramopouolos le prime richieste che riguardano infrastrutture, sanità e sicurezza. Ma anche la costruzione a Bani Walid di un centro di accoglienza per i migranti per 17 mila persone, il che rende bene l’idea di cosa si starebbe preparando in Libia. Migranti. Appello di insegnanti e educatori: "subito lo Ius soli, i bambini sono tutti uguali" La Repubblica, 17 settembre 2017 Già migliaia le firme per la petizione lanciata dal maestro Franco Lorenzoni e dallo scrittore Eraldo Affinati. La scuola si mobilita per lo Ius soli e lo Ius culturae. Sono già migliaia le firme di educatori e docenti a sostegno dell’appello lanciato dal maestro Franco Lorenzoni e dallo scrittore e professore Eraldo Affinati, insieme ai rappresentanti delle più significative associazioni di insegnanti, perché venga approvata la legge sullo Ius soli. Una petizione che insieme alle firme verrà consegnata all’inizio di novembre al presidente Mattarella. Il 3 ottobre prossimo poi, insegnanti e educatori che aderiscono all’appello indosseranno un nastrino tricolore, per ricordare che tutti i bambini che frequentano le nostre scuole devono essere considerati italiani qualunque sia la loro provenienza. Ecco il testo dell’appello: n"Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800.000 bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarci, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non avranno attualmente la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese. Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla "cittadinanza e costituzione", seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo - che sono legge dello stato - sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto. Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studenti che sono e saranno discriminati per provenienza? Per coerenza, dovremmo esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza, che è argomento trasversale, obbligatorio, e riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline e le competenze che siamo chiamati a costruire con loro. Per queste ragioni proponiamo che noi insegnanti ed educatori martedì 3 ottobre ci si appunti sul vestito un nastrino tricolore, per indicare la nostra volontà a considerare fin d’ora tutti i bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole cittadini italiani a tutti gli effetti. Chi vorrà potrà testimoniare questo impegno anche astenendosi dal cibo in quella giornata in uno sciopero della fame simbolico e corale. Il 3 ottobre è la data che il Parlamento italiano ha scelto di dedicare alla memoria delle vittime dell’emigrazione e noi ci adoperiamo perché in tutte le classi e le scuole dove è possibile ci si impegni a ragionare insieme alle ragazze e ragazzi del paradosso in cui ci troviamo, perché una legge ci invita "a porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva", mentre altre leggi impediscono l’accesso ad una piena cittadinanza a tanti studenti figli di immigrati che popolano le nostre scuole. Ci impegniamo inoltre a raccogliere il numero più alto possibile di adesioni e di organizzare, dal 3 ottobre al 3 novembre, un mese di mobilitazione per affrontare il tema nelle scuole con le più diverse iniziative, persuasi della necessità di essere testimoni attivi di una contraddizione che mina alla radice il nostro impegno professionale. Crediamo infatti che lo ius soli e lo ius culturae, al di là di ogni credo o appartenenza politica, sia condizione necessaria per dare coerenza a una educazione che, seguendo i dettati della nostra Costituzione, riconosca parità di doveri e diritti a tutti gli esseri umani. Al termine del mese consegneremo questa petizione ai presidenti dal Parlamento Laura Boldrini e Pietro Grasso tramite il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, perché al più presto sia approvata la legge attualmente in discussione al Parlamento. Le e gli insegnanti ed educatori che operano in diverse realtà, associazioni, gruppi o scuole possono aderire all’appello collegandosi ad Appello degli insegnanti per lo ius soli e lo ius culturae. Abbiamo anche creato il gruppo Facebook "Insegnanti per la cittadinanza", esclusivamente per raccogliere proposte, esperienze e suggerimenti da condividere, per preparare le iniziative che si realizzeranno il 3 ottobre e nel mese successivo. Chiamiamo tutti a collaborare e cooperare per costruire una campagna di largo respiro che parta dalle scuole. Primi firmatari dell’appello Franco Lorenzoni, maestro elementare; Eraldo Affinati insegnante e scrittore, fondatore della scuola Penny Wirton; Giancarlo Cavinato segretario del Mce, Movimento di Cooperazione Educativa; Giuseppe Bagni presidente del Cidi, Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti; Clotilde Pontecorvo, presidente della Fitcemea; Gianfranco Staccioli, segretario della Fitcemea; Roberta Passoni, coordinatrice della Casa-laboratorio di Cenci; Paola Piva, coordinatrice scuole migranti; Alessandra Smerilli, scuola per stranieri Asinitas; Sara Honegger, scuola per stranieri Asnada; Fiorella Pirola, rete scuolesenzapermesso. Migranti. Sindaco di Lampedusa: isola al collasso, chiudere hotspot Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2017 Lancia un appello il primo cittadino di Lampedusa, Totò Martello. "Minacce, molestie, furti. Siamo al collasso, le forze dell’ordine sono impotenti, nel centro ci sono i8o tunisini molti dei quali riescono tranquillamente ad aggirare i controlli: bivaccano e vivono per strada". Così il sindaco arriva a chiedere con forza "che venga chiuso l’hot spot, una struttura inutile che non serve a niente". Martello, già in passato sindaco del Pd, traccia un quadro drammatico. "Siamo abbandonati. I bar sono pieni di tunisini che si ubriacano e molestano le donne. Ricevo decine di messaggi di turisti impauriti, gli albergatori, i commercianti e i ristoratori subiscono quotidianamente, non ce la fanno più". Poi accusa: "Nonostante il centro sia presidiato da polizia, carabinieri e guardia di finanza, i tunisini entrano ed escono come e quando vogliono. Non c’è collaborazione da parte delle istituzioni. Siamo soli. C’è un grave problema di ordine pubblico, chiedo l’intervento del ministro degli Interni". Non la pensa allo stesso modo Giusi Nicolini, l’ex sindaco dell’isola sconfitta alle ultime amministrative proprio da Martello: "Ho l’impressione che il mio successore voglia fare del terrorismo. Basterebbe controllare il numero delle denunce presentate ai carabinieri: a me risulta solo un furto da un negozio di frutta e verdura". Ma per Fabrizio Micari, candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione siciliana, "l’allarme non deve essere sottovalutato: non è certo in discussione la vocazione dell’isola all’accoglienza, ma bisogna garantire sicurezza per tutti i cittadini anche a tutela degli stessi migranti". Intanto in questi giorni sono ripresi gli sbarchi. Nelle ultime ore si registrano quindici interventi di soccorso e 1.200 persone salvate da parte di assetti militari e delle Ong che ancora operano nel Mediterraneo centrale. A favorire le traversate dal Nord Africa le buone condizioni meteo. Dall’inizio dell’anno, secondo dati del Viminale, gli sbarchi sulle coste italiane sono stati 100.541, il 22% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando sulle nostre coste arrivarono 129.225 migranti.