Le ombre che toccano la giustizia di Marcello Sorgi La Stampa, 16 settembre 2017 Che Renzi sia risentito è naturale. Ma fa una certa impressione sentire un ministro assai pacato come Franceschini e un capogruppo arci-prudente come Zanda unirsi al grillo parlante del Pd Anzaldi, e denunciare tentativi di "colpo di stato", "complotti" e azioni di "enorme gravità istituzionale" commesse da un reparto dei Carabinieri. Il caso Consip, e al suo interno il comportamento del capitano "Ultimo", oggi colonnello, al secolo Sergio De Caprio, e del suo collaboratore Giampaolo Scafarto, sorprendenti, purtroppo, lo erano da tempo. Incredibile semmai è che finora non sia accaduto nulla, pur essendo noto da mesi che Scafarto, con De Caprio e sotto la regia del sostituto procuratore di Napoli Henry John Woodcock, aveva manipolato i verbali di un’intercettazione telefonica, per dimostrare (anche se non era vero) che il padre di Renzi, Tiziano, si era incontrato con un imprenditore accusato di erogare tangenti in cambio di appalti (mercoledì il dirigente della Consip Marco Gasparri, reo confesso e pagato centomila euro, è stato condannato per questo). Riassumendo: due ufficiali dei Carabinieri, coordinati da un magistrato inquirente, avevano cercato di costruire prove rivelatesi false grazie al lavoro di altri ufficiali dell’Arma. Ma mentre l’inchiesta nei loro confronti procedeva, nessun provvedimento cautelativo è stato preso nei loro confronti: anzi, uno dei tre, Scafarto, l’autore materiale della manipolazione, è stato pure promosso maggiore ("promozione automatica", per anzianità, è stato precisato). Nel frattempo - si viene a sapere adesso - un’altra magistrata, la procuratrice di Modena Lucia Busti, nella primavera del 2015 aveva parlato con "Ultimo" e il suo braccio destro, ricavandone una strana impressione. Busti era stata incaricata di completare un’inchiesta connessa con il caso Consip, aperta dalla procura di Napoli sulla cooperativa emiliana "Concordia", e piovutale sulla testa per competenza territoriale. Ma quando i due carabinieri andarono a trovarla, si sentì messa sotto pressione e pensò di aver di fronte due esagitati "presi da un delirio di onnipotenza", uno dei quali, "Ultimo", continuava a dirle di averle messo tra le mani "una bomba" che toccava a lei "far esplodere", per arrivare "a Matteo Renzi". In questi termini, di recente, Lucia Busti s’è espressa rispondendo a precise domande dei membri del Consiglio superiore della magistratura e sollevando ieri una durissima replica del colonnello De Caprio contro lei stessa, Franceschini, Zanda e Anzaldi. Seppure i dettagli forniti dalla procuratrice di Modena aggiungono elementi di inaudita pesantezza, tali da motivare reazioni politiche allarmate di tutte o quasi le forze politiche, la vicenda, insistiamo, era già chiara e nota da tempo in tutte le sue implicazioni: a cominciare, appunto, dal tentativo di tirare dentro uno scandalo Matteo Renzi, per interposto padre Tiziano, per farlo uscire con onta da Palazzo Chigi quando ancora era presidente del Consiglio. E se non si trattò tecnicamente di un golpe (in Italia, si sa, complice la nostra recente storia repubblicana, questo termine è un po’ abusato), certo non può essere considerato normale che un magistrato e due ufficiali dell’Arma, ancorché "spregiudicati", come apparvero alla dottoressa Busti, mettano in pratica un’orchestrazione che punta a far cadere la testa del premier e appresso a lui il governo che presiede. Così che sorge spontanea qualche domanda: perché, com’è avvenuto per i due carabinieri di Firenze macchiati dall’accusa di stupro delle due studentesse americane, anche Di Caprio e Scafarto non sono stati sospesi dal servizio? E prima ancora: perché un’indagine così delicata fu affidata al Noe, il nucleo specializzato che dovrebbe occuparsi dell’igiene dei ristoranti e delle contraffazioni alimentari? Vero è che in passato il dottor Woodcock ha svolto altre inchieste importanti avvalendosi della collaborazione dei vigili urbani (e non si trattava di indagini su problemi di traffico o di abusi edilizi), e vero è ancora che Ultimo, da giovane capitano, fu l’uomo che a Palermo nel ‘93 mise per primo le mani addosso a Totò Rina, il boss dei boss di Cosa Nostra. Ma cosa ha fatto in tanti anni per passare dall’Antimafia all’antisofisticazione e ritrovarsi a indagare, di sua iniziativa, sul capo del governo? Sono questioni che andrebbero chiarite, stavolta magari più rapidamente. Il ministro di giustizia Orlando ha dichiarato che essendo in corso indagini giudiziarie non tocca a lui intervenire. Ma uno sguardo d’insieme sullo stato della Giustizia, e sul conflitto tra magistratura (non tutta) e politica (quasi tutta), forse dovrebbe darlo. Si accorgerebbe che negli ultimi giorni un suo collega e suo predecessore, Clemente Mastella, è stato assolto dopo nove anni dall’accusa di corruzione che gli costò il posto, fece cadere il secondo governo Prodi e trascinò il Paese alle elezioni anticipate nel 2008; che lo stesso è accaduto, con analoghe conseguenze per l’amministrazione di Venezia, all’ex sindaco Giorgio Orsoni; e che per la prima volta i conti bancari di un intero partito, la Lega Nord, sono stati sequestrati, mettendolo in condizioni di inagibilità, anche se la responsabilità materiale dei reati per cui il sequestro è avvenuto non riguardano gli attuali dirigenti del Carroccio. Ferrajoli: "la politica obbedisce all’economia e non conosce più il diritto" di Iaia Vantaggiato Il Dubbio, 16 settembre 2017 Odio e conflitti. Intervista al professor Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto. Eclissi della politica, aggressione allo stato sociale, aumento delle disuguaglianze. Qui l’odio s’insinua, prende forma di parola e si fa linguaggio condiviso. Nascondendosi - troppo spesso - dietro un opaco quanto inattaccabile anonimato. Ne parliamo con Luigi Ferrajoli, giurista e professore emerito di filosofia del diritto. In corso di pubblicazione per Laterza, il suo ultimo libro: "Manifesto per l’Uguaglianza". Odio dunque parlo, professor Ferrajoli? Il linguaggio dell’odio sta sviluppandosi e generalizzandosi perché è legato non solo alle nuove forme della comunicazione - spesso anonime - ma anche al crollo delle forme e dei sentimenti tradizionali della solidarietà, al venir meno dei legami sociali. Un ennesimo effetto della crescita della diseguaglianza? La diseguaglianza, la povertà estrema, la disoccupazione, la precarietà e il senso di insicurezza hanno avuto come prevedibile esito la fine della fiducia nella sfera pubblica e del senso di appartenenza a una comunità di uguali. Di qui l’odio per i diversi, i migranti in primis, concepiti come nemici. Abbiamo smesso di odiare il "padrone" e cominciato a odiare il "servo"? È stata questa la strategia politica messa in atto dai governi e sperimentata con successo da Trump: mettere gli ultimi contro i penultimi, i poveri contro i poverissimi. Una strategia che ribalta la direzione della lotta di classe: non più dal basso verso l’alto ma dal basso verso chi sta ancora più in basso. Strategia politica a parte, questo linguaggio dell’odio sembra riflettere un odio vero. Assolutamente sì. Come pure sentimenti di rancore e disperazione ma soprattutto sfiducia: sfiducia nelle istituzioni, nella politica, negli altri, nei concittadini. Tutto questo è il risultato di un processo di disgregazione sociale prodotto dalla disoccupazione, dalla svalutazione del lavoro, dal misconoscimento delle competenze, dai bassi salari e dalla creazione di fittizie disuguaglianze tra lavoratori. Da qui il senso di lesione dell’amor proprio e l’aggressività generalizzata. Dov’è finita la politica? La politica ha abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di garanzia dei diritti dei più deboli: un’abdicazione che si è espressa nell’aggressione allo stato sociale. A cominciare dai ticket sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, a mio parere incostituzionali perché la salute è un diritto fondamentale, base dell’uguaglianza e perciò universale e gratuito. Parliamo della politica italiana? La politica italiana è uguale a quella di tutto il mondo occidentale. È l’economia a governarla. I rapporti si sono ribaltati: non è più la politica a governare la politica, ma viceversa. Il tutto è legittimato dalla tesi, ripetuta da tutti i governanti e da quanti li sostengono che "non ci sono alternative" alle politiche attuali, cioè alla subalternità ai mercati. E la mancanza di alternative equivale alla fine della politica che è prima di tutto trasformazione, alternativa all’esistente. Da noi non si salva nessuno? Il punto è che non c’è più rappresentanza. Il paradosso è che l’unico terreno su cui c’è rappresentanza è proprio quello dell’odio. Maggioranza e opposizione fanno a gara ad assecondare, interpretare, rappresentare l’odio, l’intolleranza e la paura nei confronti dei diversi. Proprio per questo considero ridicola la critica al sistema proporzionale - perché incapace di dar vita a una maggioranza - quando di fatto tutti fanno le stesse politiche economiche e sociali. Cos’è che manca davvero? Un programma, un progetto. In realtà ci sarebbe un enorme spazio per una forza di sinistra che semplicemente si impegnasse nell’attuazione del progetto costituzionale, cioè nella difesa dei diritti sociali e delle garanzie del lavoro. Accade invece che il Partito democratico e la destra, sostanzialmente, non si differenziano nelle loro politiche economiche. È questo che produce la percezione di una politica parassitaria, ridotta a tecnocrazia, cioè all’attuazione tecnica dei dettami dei mercati. Come diceva Norberto Bobbio, la tecnocrazia è la negazione della politica e insieme della democrazia. Rispetto all’immigrazione, come le pare il modello tedesco? Lì, nonostante le critiche che possiamo rivolgere alla Germania, la politica è a un livello più alto. Una politica che non ha dimenticato il compito - anche giuridico - di attuare i precetti costituzionali, di difendere i diritti umani e la dignità delle persone. Qui da noi la vittoria del no al referendum era apparsa come una vittoria dei principi costituzionali, ma tutto questo è già scomparso dall’orizzonte della politica. Insomma, insieme alla politica si è eclissato anche il diritto? Semplicemente non parlano più lo stesso linguaggio, come è stato sino a qualche anno fa. Il linguaggio della politica, oggi, è il linguaggio dell’economia che ignora termini come uguaglianza, dignità della persona, diritti umani e diritti sociali. E il linguaggio dell’economia è fatto solo di Pil, efficienza, crescita, riduzione delle tasse. Parliamo allora delle differenze, quelle che maggiormente sembrano scatenare sentimenti di odio. Le differenze hanno a che fare con l’identità della persona. Parlo delle differenze di sesso, di religione, di opinioni politiche, di etnia, elencate dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione. Sono le differenze di identità, che il principio di uguaglianza impone di tutelare stabilendo la "pari dignità" di tutte le differenze di identità che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale alle altre. È singolare il fatto che alla crescente intolleranza nei confronti delle differenze si accompagni una disponibilità quasi inaudita ad accettare come naturale e inevitabile l’aumentare impetuoso delle diseguaglianze... Le diseguaglianze non hanno nulla a che fare con le differenze di identità delle persone, ma solo con le loro condizioni di vita materiali, economiche e sociali, che il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione impone di rimuovere e di ridurre. Aggiungo che sia le differenze che le diseguaglianze sono circostanze di fatto, mentre il principio di uguaglianza è una norma, diretta a tutelare le prime mediante i diritti di libertà, e a rimuovere le seconde per il tramite dei diritti sociali (alla salute, all’istruzione, a un reddito di cittadinanza) Può il diritto facilitare l’integrazione rendendo i migranti più consapevoli dei propri diritti? Sì ma questo vale per tutti, non solo per i migranti. Naturalmente le diverse culture vanno rispettate, ma solo fino a che non ledono diritti fondamentali, in quanto tali indisponibili: una cosa è il velo, un’altra è l’infibulazione. Certo fa parte dell’integrazione la conoscenza e il rispetto dei nostri principi costituzionali, ma nell’una né l’altra possono essere imposti dal diritto, pena la loro illiberale negazione. Mi sembra un po’ drastico. Un principio generale di carattere liberale è che si regolano i comportamenti e non le idee. Le idee vanno promosse attraverso la cultura, ma non attraverso il diritto. Non si possono discriminare tesi, pensieri, posizioni politiche, anche se sono in contrasto con i valori costituzionali. I fascisti non ci piace che esistano, ma non possiamo reprimere le loro idee, ma solo combatterle argomentando e praticando le idee dell’antifascismo. Dal linguaggio dell’odio alla guerra santa. Siamo in presenza di culture terroriste e assassine alle quali - a cominciare dalla vendita delle armi - continuiamo a fare regali, come il panico generato dall’eccessivo spazio dato dai media ai loro crimini. C’è poi un altro regalo che facciamo ai terroristi: parlare di "stato" islamico e utilizzare contro di essi il linguaggio della guerra anziché quello del diritto penale. Giacché agli atti di guerra si risponde con la guerra, come è stato fatto l’ 11 settembre contro la strage delle Due Torri gettando così benzina sul fuoco e facendo divampare il terrorismo; mentre ai crimini si risponde, cosa certo più difficile, con le indagini dirette a identificare e catturare i criminali. Chiamare atto di guerra un crimine significa abbassare lo Stato al livello dei criminali o alzare i criminali al livello dello Stato. È così che la logica della guerra ha fatto il gioco del terrorismo che appunto come "guerra santa" vuol essere riconosciuto. Eppure l’informazione ha le sue esigenze. Certo occorre informare, ma se lo scopo del terrorismo è produrre terrore è precisamente la sua spettacolarizzazione che realizza tale scopo. Che ne pensa dello ius soli? È un provvedimento assolutamente scontato e la discussione intorno allo ius soli sta rivelando il carattere puramente razzista dell’opposizione. Qui non abbiamo a che fare con immigrati, ma con persone che sono nate in Italia, hanno fatto in Italia i loro percorsi scolastici e sono quindi connazionali a tutti gli effetti. L’opposizione a questa elementare misura di civiltà si spiega soltanto con l’intolleranza per l’identità etnica di queste persone, in breve con il razzismo. Non solo. Negando la loro italianità, che essi rivendicano con orgoglio, trasformiamo il loro senso di appartenenza al nostro paese in rancore anti-italiano. Il rifiuto della cittadinanza rischia così di trasformarli in nemici. Abbiamo qui il banco di prova del sottofondo razzista - più o meno consapevole - delle politiche di esclusione. Dobbiamo inoltre dare atto al governo della difesa, almeno finora, di questa elementare scelta di civiltà. Quanto siamo vicini alla realizzazione di una cittadinanza globale? Siamo lontanissimi di fatto, anche se l’uguaglianza, sul piano giuridico, è solennemente proclamata dalla Dichiarazione universale del ‘ 48 e dalle tante convenzioni, patti e trattati sui diritti umani. In breve: non siamo mai stati tanto uguali in diritto e tanto disuguali di fatto. Basti pensare che le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione, cioè di 3 miliardi e seicento milioni. Non c’è mai stata diseguaglianza di questo genere. È possibile difendersi dal linguaggio d’odio senza restare impigliati nella rete della censura? La libertà di espressione non consente né l’ingiuria né la diffamazione. Il vero problema è che l’anonimato della rete non consente di identificare, e dunque di querelare chi si rende colpevole di tali violazioni. È una materia che richiede ancora di essere studiata, soprattutto sul piano delle tecnologie informatiche idonee a impedire l’anonimato. L’inchiesta Consip e i veleni di troppo, la chiarezza necessaria di Massimo Franco Corriere della Sera, 16 settembre 2017 Magistrati e ufficiali dei carabinieri si accusano di cose infamanti. Il tarlo da eliminare è che si sia prodotto un logoramento del senso dello Stato anche in istituzioni da sempre considerate di tutti. L’inchiesta Consip somiglia sempre più a una cornucopia inesauribile di veleni. L’aspetto più sconcertante, però, è che stavolta i riflettori non si accendono sulle presunte malefatte della nomenklatura politica. Lo spettacolo illumina in primo luogo il comportamento reprensibile di alcuni degli inquirenti: rasoiate verbali che fanno impallidire le risse alle quali ci hanno abituato i partiti. A imporsi sulla scena è un intreccio di accuse infamanti tra pezzi dello Stato: complicità con indagati, falsificazione delle prove, e tentativi di colpire Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio. Si leggono dichiarazioni virgolettate che lasciano la sensazione amara di un’irresponsabilità senza argini; e di una situazione che è difficile non definire fuori controllo. Verrebbe da dire: qualcuno ordini a queste persone di fermarsi immediatamente e di tornare nei ranghi. Se non si rendono conto del ruolo delicato che ricoprono, e dell’immagine deteriore che stanno trasmettendo, occorrerebbe richiamarli almeno al rispetto di se stessi. Il problema è che non è chiaro chi sia in grado di farlo in questo momento. Ma così rischia di passare in secondo piano il fatto che a scoprire e denunciare le irregolarità e le distorsioni dell’inchiesta siano stati altri giudici e altri esponenti delle forze dell’ordine. Il ministro Dario Franceschini parla di fatti "di una gravità istituzionale enorme". Il presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, usa la parola "complotto". E arriva a ipotizzare che il piano possa avere coinvolto "organi dello Stato, volto a rovesciare istituzioni democraticamente elette... In altri tempi si sarebbe parlato di eversione". Ma la novità è che tutto si svolge sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Lo scontro avviene alla luce di un sole malato: quasi si trattasse di una di quelle trasmissioni tv definite "spazzatura", nelle quali si mettono in piazza le proprie beghe. Di più: le si esagera con dettagli scabrosi, che mirano a scandalizzare per fare audience. Il problema è che qui i litiganti sono servitori dello Stato, teoricamente chiamati al riserbo e a restare in un cono d’ombra; e che le indagini riguardano il padre di un ex premier, ministri in carica, magistrati, servizi segreti, manager pubblici, e vertici dell’Arma dei carabinieri. Registrare la virulenza di un colloquio tra un procuratore e un ufficiale dei carabinieri su queste inchieste minaccia di gettare discredito su gangli vitali degli apparati dello Stato; e di accomunarli nel giudizio negativo su quella "classe politica" liquidata sempre, a volte sbrigativamente, come quasi unica responsabile di un’Italia inquinata. Per paradosso, i miasmi delle indagini su Consip, centrale acquisti della Pubblica amministrazione, stanno mostrando almeno alcuni politici nei panni inediti e contraddittori di sospettati e vittime. Tra l’altro, sono tossine che emergono proprio nei giorni in cui, dopo nove anni, a Napoli viene assolto da tutte le accuse l’ex ministro Clemente Mastella. E a Venezia un altro ex ministro viene condannato, Altero Mattioli, ma l’ex sindaco Giorgio Orsoni è scagionato da ogni imputazione. Il segretario del Pd, Renzi, rilancia con forza la tesi che tutta l’inchiesta Consip sia stata messa in piedi per gettargli fango addosso: sebbene non voglia usare la parola "complotto". Di certo, le ultime rivelazioni puntellano i suoi sospetti. E promettono di indebolire l’intera impalcatura di un lavoro nel quale in realtà ci sono ancora una verità da trovare e punti oscuri da chiarire: dalla fuga di notizie che ha permesso di rimuovere alcune microspie, bruciando di fatto l’inchiesta e dirottando le indagini su personaggi eccellenti; agli intrecci opachi tra cordate di affaristi, tutti da decifrare. Le incognite più inquietanti non riguardano il destino politico e giudiziario degli esponenti politici che sono implicati in questa brutta storia, o ne sono lambiti. Quanto sta succedendo impone domande radicali sulla tenuta dello "Stato profondo" in Italia. Va chiarito se le prove falsificate e gli scontri tra apparati statali siano un fenomeno circoscritto a poche persone e a qualche scheggia isolata; o se segnalino un’operazione più ramificata e comportamenti più diffusi. Altrimenti, crescerà il sospetto che questi anni non abbiano solo portato una lunga crisi economica e un abbassamento del livello della classe politica. Il tarlo da eliminare è che si sia prodotto un logoramento del senso dello Stato anche in istituzioni da sempre considerate di tutti. È un dubbio che va fugato al più presto: prima che nel Paese si sedimenti un pregiudizio perfino più rischioso di qualunque ondata estremistica contro il sistema politico. Si avverte un’esigenza di stabilità e di chiarezza che va molto oltre quella del governo. E più in profondità. Ius soli e Consip: servono regole strutturali che impediscano il caos di Carlo Fusi Il Dubbio, 16 settembre 2017 Gli attori pubblici politici, magistrati, forze dell’ordine sono chiamati a una assunzione di responsabilità. e il parlamento deve impedire il blocco post elettorale. Proviamo a mettere sui piatti di una immaginaria bilancia i due più importanti fatti italiani di queste ore al fine di cercare di capire quale, in termini politici e sociali, pesi di più sul nostro futuro. Su un piatto poggiano le indiscrezioni che punteggiano l’inchiesta Consip: le più recenti assolutamente clamorose, e non è detto siano le ultime. Naturalmente sarà la magistratura a fare luce e ad individuare la verità: quella giudiziaria, almeno. Intanto però siamo di fronte ad un tornado che alimenta sospetti tremendi: carabinieri che fuori da ogni controllo tramano per colpire il capo del governo per finalità che, di qualunque genere siano, non possono che essere considerate eversive. Sull’altro, la rinuncia - salvo colpi di scena a fine anno tanto annunciati quanto oggettivamente improbabili - al varo dello Ius soli. Provvedimento di grande rilievo ma il cui rinvio non necessariamente provocherebbe sconquassi se non fosse per la motivazione: non se sia una legge giusta o meno, se fa fare un salto di civiltà al Paese o al contrario lo blocca argomentazioni comunque legittime - bensì il calcolo elettorale. Cioè se vararla faccia perdere o no voti, e a chi. Forse oberata da un simile carico, la bilancia collasserebbe. Presumibilmente rischia di farlo il sistema- Italia senza adeguati (e immediati) interventi. Le due vicende apparentemente collocate su piani completamente diversi, in realtà hanno un filo che le lega: entrambe aiutano a comprendere lo sfaldamento che sempre più sta contraddistinguendo la realtà italiana; sono ambedue espressioni del male oscuro che sta disarticolando il sistema. L’Italia è terremotata dallo sfarinamento della coesione sociale; affonda nella guerra da un lato tra gruppi e bande che cercano di conquistare il maggior potere di interdizione possibile e dall’altro dall’oceano di demagogia che nell’accusa indiscriminata nei riguardi dell’universo mondo, tutto confonde e soprattutto delegittima. Nessuna meraviglia che il linguaggio scelto per descrivere un tale stato di cose sia quello dell’odio: è il più incisivo. Che sia anche devastante è sciaguratamente considerato un effetto trascurabile. Le ragioni che hanno portato ad un simile stato di cose sono varie e non tutte e sempre facilmente individuabili. Come pure la scelta degli antidoti da inoculare su un organismo così visibilmente debilitato perché insidiato da troppi veleni. Una cosa però è scontato rilevare: che nessuna terapia sarà possibile in una situazione di impasse e/ o di ingovernabilità. Se un paziente è grave, serve trovare la medicina giusta; se invece i parenti si mettono a litigare tra di loro e nessuno chiama il medico, il risultato è scontato. Che si intervenga e come contro i i carabinieri infedeli se tali sono; se si proceda o no con lo Ius soli e con altre misure altrettanto socialmente e politicamente significative è in tanto reso possibile in quanto esiste e opera una maggioranza ed un governo; traballanti quanto si vuole e tuttavia attivi, in grado di agire. Ma che succederebbe se al contrario il sistema politico-istituzionale si trovasse nelle sabbie mobili dell’impraticabilità; senza un centro di gravità - precario quanto si vuole ma funzionante - capace di coagulare il potere di indirizzo nazionale? Senza voler fare i menagrami o, come si dice adesso, gufare, si tratta esattamente dello scenario in cui rischia di ritrovarsi l’Italia all’indomani delle elezioni politiche laddove si svolgessero con le regole attuali, cioè con due Camere elette con due sistemi diversificati, capaci perciò di produrre maggioranza diverse in ognuna di esse o anche, e più probabilmente, nessuna maggioranza. Vista dall’esterno (ma basta affacciarsi dal Colle più alto di Roma per capirlo..), una situazione simile provocherebbe la ressa dei rappresentanti politici per varare un meccanismo di voto sistematico e unitario, capace di consentire ai cittadini di esprimersi compiutamente, di scegliersi i loro parlamentari ed anche eventualmente un premier, una maggioranza e un governo. Sta accadendo il contrario, per una somma di irresponsabilità corpose e diffuse. E naturalmente anche di calcoli, a loro volta frutto di congetturate convenienze. Tutte, tranne una: quella degli italiani. Non c’è nessuna colpa nel fatto che ogni partito, forza politica o movimento si strutturi al fine di ottenere il massimo beneficio possibile dalla competizione elettorale. È semplicemente scandaloso che ciò possa avvenire ciascuno concentrandosi sul proprio limitato cabotaggio senza considerare il vincolo dell’interesse generale che sempre dovrebbe prevalere sui machiavellismi del "particolare". Sarebbe bello, oltre che giusto, che l’alito dell’interesse generale si spandesse su ogni attore della vita pubblica. Se così non è (e, guardandosi attorno, non è mai, anche fuori dei confini nazionali) allora è fondamentale che chi ha più buona volontà la usi per arrivare al traguardo. O tutti o niente quasi sempre significa niente. Ma il niente di oggi può diventare lo stallo di domani, con ulteriore perdita di credibilità (ma ce n’è ancora?) della politica da parte dei cittadini. Non conviene a nessuno. Neanche a quelli che a bocce ancora ferme pensano di guadagnarci. L’autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso di Francesco Merlo La Repubblica, 16 settembre 2017 La cronaca nera, tra tv e giornali. Quello di Noemi Durini è soltanto l’ultimo caso della deriva di un certo tipo di giornalismo italiano. È odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, "anzi no, era un coltello". Ora al pantografo sono finite le ferite, il sangue e la lama affilata. Ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. È un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: "Non ne facciamo il nome" dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio "di polizia", anzi una vera e propria trappola quella di Chi l’ha visto? ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: "Ancora non sapevano che il figlio avesse confessato". Il padre, che è indagato, dice allora "bedda mia", si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: "Hanno creato un mostro" grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona a una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta "ora siamo morti" e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. È vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola "eversiva ed emulativa" ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. È insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi. Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze. Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris... Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo- immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi - nel 2003 - "danno un rilievo altissimo ai fatti di violenza", eccedono, insistono, scavano con un furore che "finisce per dare a quei drammi una valenza esemplare che essi sicuramente non hanno", e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi, "un grave attentato alla dignità umana". Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea "neutrale", furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per "necessità di sapere", per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: "Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" L’inferno vuoto delle donne in fuga dalla ‘ndrangheta di Niccolò Zancan La Stampa, 16 settembre 2017 Non hanno mai commesso reati, non possono essere pentite e nemmeno testimoni di giustizia. Una di loro si racconta: "Vivo nel limbo: niente auto, gite per i figli, viaggi". Dopo la stagione dei pentiti ora un spunta un nuovo fenomeno: quello delle donne che abbandonano le famiglie per risparmiare ai figli maschi il carcere o la bara. "La mia colpa è di essere nata in quel luogo". Di fronte a noi, adesso, qui, c’è una donna di 37 anni con tre figli che sta scappando dalla ‘ndrangheta. È una donna che non può essere riconosciuta. Si nasconde ogni singolo giorno da otto anni. Nessuno deve sapere di lei. Se scoprono dove abita, è morta. L’hanno già rintracciata tre volte. Ma è ancora altrove, per fortuna. Ancora viva. Invisibile e quasi completamente sola. "Sono nata nel clou, nel peggio del peggio, nella sostanza stessa della mafia", dice in una stanza vuota in cui entra un po’ di sole. "Quella era la mia famiglia. In Calabria erano gli anni della faida dei seicento morti. Quando mio padre rientrava in casa, faceva lo squillo. Io e mia madre dovevamo uscire fuori ad aspettarlo per fargli da scudo, perché in quegli anni ancora non si uccidevano le donne e i bambini". La incontriamo come si incontrano i latitanti. Dopo passaggi a vuoto, strade secondarie e telefoni anonimi. "Io non posso esistere, avere un lavoro in regola, ammalarmi, abbonarmi ai mezzi pubblici. Non ho mai preso un aereo perché il mio nome non deve comparire, non posso neppure avere una scheda telefonica o andare in ospedale. Una volta mia figlia è stata citata sul giornalino della scuola e loro sono arrivati. Hanno il potere di farti crollare in ginocchio. Ma non lo farò". Questa donna che parla e piange e si asciuga continuamente gli occhi non ha mai commesso reati. Non può essere pentita e nemmeno testimone di giustizia. Per la legge italiana non ha diritto ad alcuna protezione, anche se ha fatto la scelta più dirompente. "Un giorno del 2008 mio marito è uscito di casa e non è mai tornato. Lupara bianca. L’hanno eliminato nel modo peggiore. Mi sono guardata intorno: vedevo reazioni strane. Tutti sapevano. Era un delitto consumato all’interno delle nostre stesse famiglie. Vedevo una freddezza totale. Era come se mi dicessero: la tua vita dipende da noi, stai zitta, vai avanti. Ero sola. Disperata. Volevo il corpo, almeno un funerale. Volevo scappare. È stato allora che ho deciso". Non è stato facile andare via. Per un anno e mezzo, mentre lei annunciava pubblicamente la sua partenza, loro la lasciavano fare, irridendola. Dicevano che era pazza e che era l’amante di un poliziotto, per screditarla al massimo. Erano sicuri che non ce l’avrebbe mai fatta. "Quando andavo a parlare in questura, trovavo sempre qualcuno fuori ad aspettarmi. Erano informati su ogni movimento. Grazie a un parroco, ho provato a fare un tentativo in Toscana da sola, ma mi sono resa conto che abitare lì, con i miei figli, sarebbe stato impossibile". Si trattava di vivere senza soldi. Senza un impiego. Senza nome. Senza storia. Senza neanche potere iscrivere i tre bambini a scuola. "Ho conosciuto don Luigi Ciotti di Libera per caso, non sapevo nulla dell’associazione. Allora credevo di avere un alloggio intestato a mio nome in Calabria, ma in realtà sono riusciti a togliermi anche quello. Beh, la mia intenzione era quella di regalarlo a Libera. Come gesto di rivolta contro la mia famiglia. Ma appena ho spiegato questa cosa, Luigi mi ha detto: "Non mi importa dell’alloggio, mi interessa la tua storia. Raccontami tutto di te". Ero in un lago di lacrime. Nessuno mi aveva mai ascoltata prima". Don Luigi Ciotti dice adesso che serve una legge: "Dobbiamo fare presto. Dobbiamo salvare questa donna e tutte quelle che stanno cercando una nuova vita lontano dalla mafie. Sono un esempio. Una strada da seguire". Ma la legge non c’è. E questa donna invisibile sta cambiando casa per l’ennesima volta. Arrivano sempre a un portone vicino a fare domande, non si sa come. Chiedono notizie qualificandosi così: "Sono il cognato del padre delle bambine". Perché lei non esiste già più. È già morta. La sua vita è costantemente in pericolo. "I problemi pratici sono tantissimi. I vaccini dei miei figli, per esempio. Non so come mandarli a scuola. Ormai siamo codici fiscali, serve un documento per tutto. Non posso permettermi un’auto perché da una multa risalirebbero subito al mio indirizzo. Avevo una residenza fittizia e sono andati a fare domande anche là. Non so come facciano, ma hanno accesso a tutti i dati. Hanno un potere assurdo. Vorrei andare a parlargli, guardarli in faccia. Ma mi dicono di non farlo, perché non mi lascerebbero tornare indietro". Le domandiamo: i suoi figli cosa sanno di questa situazione? "Tutto", risponde. "Sanno anche le cose più feroci e disumane. Rimanendo l’unico genitore, ho capito che o si fidavano completamente di me oppure avrei rischiato di perderli. Prima o poi avrebbero guardato i vecchi ritagli di giornale. Quindi sanno chi era loro padre e perché siamo qui. Sanno che mi vogliono eliminare. Sanno anche di dover stare attenti a tutto, anche a una foto su Facebook. Non possono andare in gita scolastica, giocare all’oratorio. Basta pochissimo per far saltare la copertura che ci ha organizzato Libera". È a questo punto che arriva il momento di sconforto peggiore. "Se morissi...", dice la donna invisibile. "Se morissi investita in mezzo alla strada o per qualunque stupido motivo, prenderebbero i miei figli e li riporterebbero in quel luogo. Da quelle persone. Lo farebbe un giudice, addirittura. Questa è la cosa che mi fa stare peggio. L’ho già detto a mia figlia, alla più grande, devo resistere fino a quando lei avrà 18 anni, in modo che a quel punto potrà prendersi cura di tutto". C’è un silenzio spaventoso nella stanza. Le parole sono nette. Per questa donna la vita è stata una continua fuga obbligata anche da se stessa. "Non riesco ad avere amicizie perché non potrei essere sincera. Non posso dire le cose che penso. Mi distrugge dover rinunciare anche alle mie idee. Ogni volta che arrivo in un posto nuovo, ho un’altra vita più rassicurante, inventata, che racconto ormai bene. Non ho più sogni. Sono stremata. Mi piacerebbe che potessero sognare almeno i miei figli, ma hanno capito che non si può. Niente gite. Giorni di studio in Inghilterra, partite di pallavolo. Sono combattivi. Mi fanno forza. Ma saperli tristi, mentre in tutti i modi si sforzano di mostrarsi allegri, mi fa molto male". Ha mai pensato di cambiare Paese? "No. Così vincerebbero loro. Non sono io che dovrei scappare. Mi manca tanto la mia terra". Il detenuto ha diritto alle medesime cure sanitarie di un soggetto libero di Aldo Antonio Montella* responsabilecivile.it, 16 settembre 2017 La sentenza in esame (Corte di Cassazione, Sezione 4°, n° 25576/2017) affronta il tema del diritto alla salute del detenuto, evidenziandone, in particolare, i fondamenti normativi. Orbene, in via del tutto preliminare risulta opportuno precisare in questa sede che la Legge n° 354 del 26 luglio 1975, definita Legge sull’Ordinamento Penitenziario (d’ora in poi O.P.), disciplina la figura del soggetto detenuto-condannato, all’esito della trattazione del processo penale a suo carico, definito con sentenza divenuta irrevocabile, evidenziando, pertanto, diritti, doveri e benefici del medesimo. L’art. 39 co. 2 della Legge sull’Ordinamento Penitenziario - Ebbene, l’art. 39 co. 2 O.P. sancisce espressamente l’obbligo di sottoporre a costante controllo sanitario il soggetto detenuto, garantendo, di tal guisa, la propria tutela alla salute. In particolare, la norma de qua impone due regole cautelari: la prima, che consiste nell’obbligo in capo al sanitario di una certificazione, attestante il regime di compatibilità del detenuto con il sistema carcerario, la seconda, che impone al medico di sottoporre a costante controllo sanitario il detenuto, nel corso del periodo di espiazione della pena. Ne consegue, dunque, che il sanitario del carcere deve sottoporre a visita medica il detenuto sia all’atto dell’ingresso in carcere, sia nel corso della detenzione, anche se manca una espressa richiesta del detenuto, e segnalare l’eventuale sussistenza di malattie che richiedono particolari cure, anche in strutture esterne all’istituto penitenziario. Ancora, nella vicenda sottoposta al vaglio della Suprema Corte, che coinvolge medici in servizio presso la struttura penitenziaria, imputandoli di omicidio colposo, a causa del decesso di un detenuto, gli Ermellini hanno indicato le fonti normative che garantiscono il diritto alla salute del detenuto. In particolare, oltre all’art. 39 co. 2 O.P., il diritto alla salute della persona in carcere risulta garantito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione Edu, che sancisce espressamente il divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti. Regole penitenziarie Europee - Vi sono, poi, le Regole penitenziarie Europee nonché la deliberazione approvata dall’Onu nel dicembre del 1982, relativa ai "principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti", che sancisce l’obbligo in capo al personale medico in servizio presso l’istituto carcerario di prestare le dovute cure ai soggetti reclusi, proteggendo la loro salute fisica e mentale: in particolare, le Regole penitenziarie Europee impongono ai medici di operare nei confronti del detenuto il medesimo trattamento che sarebbe adottato nei riguardi di un soggetto libero. Infine, risulta opportuno segnalare che, nell’ambito della elencazione delle fonti normative poste a fondamento del diritto inviolabile della salute del condannato, vi è altresì la Riforma della Medicina Penitenziaria, operata dal D.Lgs. n° 230/1999, che ha disposto il trasferimento della sanità all’interno degli istituti carcerari dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. *Avvocato del Foro di Napoli Cancellato il ricorso personale in Cassazione, serve un avvocato iscritto all’albo speciale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2017 La riforma penale in vigore da agosto ha escluso la possibilità di presentazione in Cassazione. Non ci sono possibilità di auto-ricorso in Cassazione. La Corte di cassazione, nella prima sentenza (la n. 42062 della Sesta sezione, depositata ieri) di interpretazione della riforma del processo penale in vigore dall’inizio da agosto, chiarisce che, per effetto di quanto previsto dall’articolo 1, comma 54 della legge 103 del 2017, deve essere esclusa la possibilità per l’imputato di presentare personalmente ricorso alla Cassazione stessa; possibilità lasciate invece per tutte le altre impugnazioni. La Corte sottolinea che l’obiettivo della limitazione, che attribuisce ai soli avvocati iscritti nell’albo speciale la competenza alla proposizione del ricorso, è di economia processuale: si punta cioè ad evitare lo stillicidio di giudizi di inammissibilità per carenza dei requisiti di forma e di contenuto, a causa della "oggettiva incapacità del ricorrente" di individuare i vizi di legittimità del provvedimento impugnato. Oltretutto in un procedimento a elevato tasso tecnico. Sottotraccia corre poi all’istituzione del divieto correva anche la preoccupazione di evitare un utilizzo improprio della possibilità di ricorso personale, con la possibile redazione dell’atto di impugnazione da parte di un professionista non iscritto all’albo e la sua formale sottoscrizione da parte dell’interessato. La sentenza ricorda, facendo riferimento anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale, che l’esclusione "dell’auto-ricorso" non deve essere letta come una limitazione dell’esercizio di un pieno diritto di impugnazione, visto che questo può essere realizzato attraverso l’aiuto tecnico di un difensore legittimato. Per questo non si configura una espressone di irragionevolezza tale da fondare una questione di legittimità costituzionale. Ed è stata la stessa Cassazione a ribadire, in più occasioni, che il legislatore ha delineato un modello di esercizio del diritto di difesa differenziato per le varie fasi e tipologie di processi. Nessun problema poi se si allarga la prospettiva e si prende in considerazione quanto richiesto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte europea, infatti, pur riconoscendo a ogni imputato il diritto di difendersi personalmente, tuttavia non ne ha precisato le condizioni di esercizio, lasciando agli Stati la definizione degli strumenti che meglio permettono al sistema giudiziario di renderlo effettivo. Così, anche quando una norma espressamente ammetteva la presentazione personale del ricorso, come nel caso approdato in Cassazione che riguardava un’impugnazione in materia di mandato di arresto europeo, disciplinata dalla legge n. 69 del 2005, questa può essere abrogata da una misura successiva e incompatibile. Io ho paura di uno Stato che tiene in carcere 60 bambini con le loro mamme di Roberto Saviano facebook.com, 16 settembre 2017 Io non perdo la speranza che in questo luogo, che su Facebook, si possa ragionare. Mi dicono: "Fai post troppo lunghi, le persone si stancano e non leggono", "Il ragionamento è alieno a questo luogo che è invece la piazza in cui si vomita bile e odio". Io non sono d’accordo! Io ho fiducia, fiducia nelle parole e fiducia in chi le legge, cioè in voi. Sono pieno di rabbia, sono amareggiato. Permettetemi di dirvi perché. Permettetemi di raccontarvi una storia che ci spiega come mai in Italia cresca lo sconforto che si traduce in paura, paura anche per i migranti. Una storia che spiega come mai secondo nuove indagini il 46% degli italiani si sente in pericolo. Non vi parlerò di Ong, non di Ius soli, né di accoglienza, qui non c’entra la politica intesa come "io sono piddino e tu grillino quindi ci dobbiamo disprezzare". No. Niente di tutto questo e la sfiducia è comprensibile, ma è male indirizzata. Vi racconto una storia che pochi di voi avranno sentito e che nessun politico, di nessuno schieramento, ha interesse a farvi sapere perché a quel punto potreste capire di chi davvero bisogna diffidare e non sono certo i migranti. Nel carcere di Gazzi a Messina una bambina di 3 anni reclusa con sua madre, una donna nigeriana condannata per il reato di immigrazione clandestina (non spaccio o rapina, ma immigrazione clandestina!), ingerisce un topicida e per alcune ore lotta tra la vita e la morte. Ora la bimba sta bene e molto probabilmente è tornata in carcere da sua madre. Questo è accaduto sabato scorso, nessun quotidiano nazionale ha dato la notizia, solo qualche testata locale, ma erano brandelli di informazione, niente di più. Gli unici a essere al corrente di quanto stava accadendo erano i giornalisti di Radio Radicale Massimiliano Coccia e Riccardo Arena che ne hanno parlato qui (vi invito ad ascoltare la trasmissione, perché è un punto di non ritorno https://www.radioradicale.it/…/radio-carcere-il-caso-della-…). La vicenda è agghiacciante: il carcere è invaso dai topi, soprattutto la zona in cui "sconta la detenzione" la bambina di 3 anni, con sua madre e il fratellino di 1 anno. Una guardia penitenziaria di sua iniziativa colloca bustine di topicida, una di queste viene ingerita dalla bambina. La guardia penitenziaria è l’unica ad aver pagato per questa vicenda. Nessun altro. Non conosciamo il nome della bambina, non quello di sua madre, né del fratellino. Non conosciamo il nome della guardia penitenziaria e non possiamo provare un briciolo di empatia per nessuno di loro. Esseri umani senza volto e senza nome. Sacrificabili, tutti. Ma conosciamo i nomi dei responsabili, di chi permette che in Italia 60 bambini scontino la detenzione insieme alle madri e non è in grado di creare per loro delle strutture alternative che esistono, ma sono troppo poche. Solo 60 bambini. Quanto ci vuole a collocare 60 bambini e le loro mamme fuori dal carcere? Niente, non ci vorrebbe niente. Ma che fiducia possiamo avere noi in chi non è in grado di gestire 60 bambini? E poi sapete cosa? Sono figli di nessuno, sono figli di gente senza nome e senza volto. Che marciscano in carcere e se ci muoiono che non si sappia! Dite la verità: tra una donna nigeriana in carcere per immigrazione clandestina, reclusa con due bambini di 1 e 3 anni, e uno Stato che lascerebbe morire bambini in carcere senza nemmeno assumersene la responsabilità, chi vi fa più paura, la donna nigeriana o lo Stato? Io personalmente avrei più paura dello Stato, perché non serve essere clandestini per essere sacrificabili, basta non avere un nome e non avere un volto, basta che nessuno racconti il nostro dramma, basta che nessuno possa provare empatia perché chiunque diventi sacrificabile sull’altare della Ragion di Stato. Uno Stato che a me oggi, più che mai, sembra non avere Ragione ma Torto. Torto marcio. Campania: Napolitano "il mio discorso in parlamento sulle carceri ispirato da Adriana Tocco" di Giuseppe Del Bello La Repubblica, 16 settembre 2017 Il presidente emerito interviene alla giornata in memoria della Garante dei diritti dei detenuti, scomparsa ad agosto. Sala gremita, volti segnati dalla commozione e un’infinità di persone. Amici, autorità di ieri e di oggi, compagni di partito e di lotta. Tutti arrivati a Palazzo Serra di Cassano di primo pomeriggio per partecipare alla commemorazione di Adriana Tocco, la professoressa di latino e greco, ma soprattutto la donna che ha dedicato gran parte della sua vita ai diritti dei detenuti, morta ad agosto a Stromboli. E ieri, tra coloro che hanno voluto renderle omaggio c’era anche il presidente emerito Giorgio Napolitano. È stato tra i primi a parlare. Un discorso breve, poche parole. Ma la sintesi dell’intervento ha restituito la lucidità di un grande vecchio che con Giuliana Tocco ha condiviso lotte e ideali. Ed è proprio da qui che Napolitano, il foglio di appunti tra le mani e scusandosi di non poter restare fino alla conclusione, ha rievocato un momento importante del suo settennato, quando tenne il suo unico discorso da presidente alle Camere riunite. "Il sovraffollamento cronico delle carceri è incostituzionale", aveva tuonato nel 2013. E a quel messaggio ieri l’ex capo dello Stato ha associato Adriana Tocco per spiegare che proprio con lei aveva condiviso la sua preoccupazione per il popolo delle carceri. Per sollecitare politica e governo a darsi una mossa e a non sottacere un problema sociale diventato di estrema gravità. Un tema spinoso che aveva spinto nel 2010 a denunciare, nell’aula della Camera, il dramma di chi aveva perduto la libertà ma non i diritti umani, anche papa Wojtyla. "Un segno di clemenza verso i detenuti", aveva avvertito il Pontefice, "mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità". Dopo Napolitano, si sono alternati al microfono esponenti del mondo della scuola e rappresentanti della sinistra. Da Alba Sasso a Marco Rossi-Doria. Ma c’erano pure Tino Santangelo e il fratello Mario, il vice capo del Dap Marco Del Gaudio che ne ha tracciato un commosso ricordo. E così anche il sindaco di Napoli Luigi de Magistris e il magistrato Egle Pilla. A rievocare il profilo umano e professionale sono stati anche Riccardo Polidoro, presidente dell’Osservatorio nazionale carceri e fondatore del Carcere possibile onlus, l’associazione a cui Tocco ha dato il suo contributo, e l’architetta Marella Santangelo. E poi lo stuolo di amici di Daniela, la figlia di Adriana prematuramente scomparsa qualche anno fa. Ma i riflettori, come era ovvio, hanno inquadrato soprattutto il presidente Napolitano. Lì proprio, a Monte di Dio dove abitava, c’è l’ingresso del rifugio antiaereo utilizzato durante i bombardamenti della II guerra mondiale. Il rifugio è ora visitabile all’interno del percorso "La via delle memorie", uno dei quattro itinerari della Galleria Borbonica. Ad accompagnare Napolitano c’era il presidente Gianluca Minin e il responsabile del percorso Vincenza Donzelli. "Si è intrattenuto a parlare con me per più di un quarto d’ora", racconta Minin. "Lucidissimo, ricordava perfettamente i 135 scalini che conducevano al ricovero. Mi ha detto che li faceva anche 4 o 5 alla volta per paura delle bombe. E si è rammaricato che le sue condizioni fisiche non gli permettessero di scendere le scale, e ci ha spronato ad andare avanti nella nostra opera di ricerca e valorizzazione del sottosuolo di Napoli". Monza: da inizio anno morti cinque detenuti, ma solo due i suicidi "certi" di Simone Bianchin La Repubblica, 16 settembre 2017 Impiccato nella camera della sezione infermeria del carcere, il nodo scorsoio fatto con la maglia avvolta intorno alle inferriate. È il secondo suicidio certo tra le cinque morti che ci sono state dall’inizio dell’anno nel carcere di Monza e il sindacato di polizia Sappe accusa la gestione delle carceri del ministro Orlando e del Dap. Gli ultimi due suicidi sono avvenuti per impiccagione: prima, sempre nel carcere di Monza, due detenuti erano morti dopo aver inalato gas da fornelletti che sono in dotazione come scaldavivande (gli addetti dell’istituto concordano nel dire che quei due carcerati sono rimasti vittime cercando l’effetto stupefacente del gas) e uno era morto in seguito a un infarto. Giovedì l’uomo che si è ucciso aveva 38 anni. In carcere dal 24 agosto, per lui era la prima volta: fermato dopo una rapina, era in attesa del processo. Tossicodipendente, era stato preso in carico dal Sert e dai servizi psichiatrici che sono rimasti "assolutamente spiazzati" dal suo gesto. "Lunedì ci confronteremo tutti su come migliorare le procedure", dice il direttore del carcere di Monza, Maria Pitaniello. Per il provveditore alle carceri della Lombardia, Luigi Pagano, "manca personale ma è impossibile controllare tutti i detenuti a vista". Aosta: carcere di Brissogne, salvato detenuto che ha tentato suicidio valledaostaglocal.it, 16 settembre 2017 Un detenuto di nazionalità serba di 31 anni, ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Brissogne, ma è stato salvato dal tempestivo intervento delle Agenti di Polizia Penitenziaria in servizio. È accaduto nelle prime ore della mattinata di giovedì. A darne notizia sono i sindacati della Polizia Penitenziaria. L’uomo sconta una pena per furto, condannato fino al 2021, ed è detenuto in una cella del primo piano sezione C1. Ha tentato il suicidio impiccandosi con delle lenzuola annodate alle grate della cella e salvato in extremis dalla Polizia Penitenziaria, che, come commenta Leo Balducci, segretario nazionale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), " fa sempre il proprio dovere, anche quando risorse organiche e mezzi difettano come nel caso di Aosta, l’Amministrazione penitenziaria invece a partire dagli Uffici Centrali maggiormente rilevanti come quello del personale retto da Pietro Buffa già direttore del Carcere di Torino, sono completamente sordi a qualsiasi esigenza del territorio tant’è che il carcere di Aosta continua ad essere privo di Direttore e Comandante titolari nonostante le denunce e le segnalazioni dei sindacati anche a seguito dei gravi fatti occorsi di recente". Balducci sostiene che "gli errori, le inadempienze e la sostanziale incapacità gestionale che connotano l’attuale andamento del carcere in Italia per nulla valutati da un Ministro della Giustizia sempre più assente qual è l’attuale Guardasigilli Orlando e da cui le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, sostanzialmente abbandonati a se stessi possono, porre sempre meno riparo, comporteranno conseguenze di notevole entità per lungo tempo in danno alla collettività esterna al carcere ad Aosta come sul restante territorio nazionale". Sondrio: il caso delle dimissioni del Garante dei detenuti sbarca in Senato di Susanna Zambon Il Giorno, 16 settembre 2017 Il Sottosegretario Chiavaroli ha risposto all’interrogazione presentata dal morbegnese Mauro Del Barba (Partito democratico). Il caso del carcere di Sondrio e delle dimissioni del garante per i diritti deli detenuti, Francesco Racchetti, al centro della seduta del Senato di ieri, giovedì 14 settembre. Il sottosegretario Chiavaroli ha infatti risposto all’interrogazione presentata dal morbegnese Mauro Del Barba (Partito democratico), e ha reso note le azioni intraprese che hanno normalizzato e rasserenato una situazione critica, grazie al confronto e all’impegno di tutti i soggetti coinvolti. "Due anni fa, a Natale, nell’ambito di un’iniziativa di solidarietà lanciata dal collega Ernesto Preziosi mi recai in visita ai detenuti del carcere di Sondrio: è stato naturale proseguire l’impegno anche nel momento in cui la casa circondariale ha vissuto un periodo molto delicato, che ha coinvolto l’intera comunità cittadina e il cui riverbero è finito anche sulle pagine di cronaca nazionali - ha dichiarato il senatore valtellinese Del Barba. Mi sono da subito impegnato in prima persona, proprio su richiesta dell’allora Garante e della gravità dei fatti contenuti nella sua lettera-denuncia, interrogando il Ministero della Giustizia in merito e sollecitando un’apposita attività ispettiva necessaria a fare piena luce sulla vicenda e garantire il rispetto della legalità e delle finalità di reinserimento sociale dei detenuti. Il lavoro del Ministero e dell’Amministrazione penitenziaria ha richiesto tempo, ma ha consentito di riorganizzare con serenità ed efficacia i servizi all’interno del carcere". Attraverso la sottosegretaria Chiavaroli, il Governo ha risposto all’ interrogazione riportando il lungo lavoro messo in campo dalle amministrazioni centrali, in particolare la visita ispettiva ministeriale presso la struttura del capoluogo, l’intervento del direttore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Pagano e le prescrizioni che lo stesso direttore ha impartito alla direzione del carcere. "Ritengo, a questo proposito, particolarmente importante che le prescrizioni impartite alla direzione vengano rese pubbliche - prosegue Mauro Del Barba. Ho chiesto pertanto che si agisca in questo senso, attraverso un’azione del Ministero oppure fornendomene copia, così che gli operatori e la cittadinanza possano essere debitamente informati e la soddisfazione possa essere, così come il controllo dei risultati, piena e condivisa". "Affinché questa vicenda, di cui oggi salutiamo con piacere la risoluzione almeno negli aspetti principali, venisse affrontata con serietà e attenzione sono state purtroppo necessarie le dimissioni dell’allora Garante Racchetti, a cui tutti dobbiamo riconoscenza. Ho avuto modo di verificare quanto sofferte siano state le sue dimissioni, motivate dall’interesse e dalla passione verso i detenuti e il ruolo stesso di garante, esercitato nel nostro territorio con grande merito, ha concluso il senatore morbegnese. Grazie al suo intervento e a quello di molte altre persone, unitamente alle azioni messe in campo dal Ministero e dalle amministrazioni centrali, ora la situazione è migliorata. Ovviamente, ben consapevole che sono molte le persone e le istituzioni che nell’ordinario si occupano del merito e fanno la loro parte nell’interesse delle comunità, manterrò intatta la mia disponibilità a seguire da vicino le problematiche inerenti la casa circondariale di Sondrio, nella convinzione che sia compito di tutti operare nel miglior modo possibile per garantire ai carcerati una detenzione dignitosa e volta alla riabilitazione sociale e lavorativa di ognuno". Como: carcere del Bassone, stranieri oltre la metà dei detenuti quicomo.it, 16 settembre 2017 L’onorevole Molteni e il vicensindaco Locatelli (lega) in visita al carcere di Como. Un carcere sovraffollato (anche se di poco) con oltre la metà di detenuti di provenienza straniera. Per la precisione i dati che riguardano il carcere Bassone di Como sono i seguenti: 419 detenuti, 371 uomini, 48 donne, di cui 233 stranieri quasi tutti uomini, pari al 55% del totale. La capienza regolare della casa circondariale sarebbe di 215 detenuti con una capienza massima tollerabile di 402 detenuti. "Un dato, quello dei detenuti stranieri, allarmante e drammatico pari quasi al doppio della media nazionale che si attesta al 34%" fa sapere la Lega Nord al termine della visita che il parlamentare Nicola Molteni e il vicesindaco di Como Alessandra Locatelli (entrambi della Lega Nord) hanno fatto nella mattina di venerdì 15 settembre 2017 al carcere Bassone. "Questa mattina assieme al vicesindaco di Como, Alessandra Locatelli, siamo stati in visita al carcere cittadino del Bassone. Oltre alla direttrice del carcere, la dottoressa Carla Santandrea, abbiamo incontrato Davide Brienza segretario regionale del sindacato Cnpp della polizia penitenziaria - ha raccontato Molteni - e il comandante del reparto Domenico Isdraia dai quali abbiamo potuto apprendere sia lo straordinario impegno delle forze di Polizia che le numerose criticità e difficoltà che gli agenti stessi riscontrano quotidianamente. In particolare, la polizia penitenziaria ha avanzato alcune richieste fondamentali per poter assolvere al proprio dovere al meglio: la necessità di avere più sicurezza e adeguati strumenti per garantire l’incolumità dei poliziotti penitenziari, dato l’aumento di aggressioni, colluttazioni e ferimenti tra le sbarre; un adeguato piano di nuove assunzioni di agenti di polizia penitenziaria, un adeguamento delle risorse per il rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da quasi 10 anni; il ripristino di corrette relazioni sindacali in sede centrale (Dap) e presso gli istituti e servizi penitenziari del paese; una rimodulazione del provvedimento di ‘riordino delle carriere. Richieste queste che verranno portate all’attenzione del ministro della giustizia attraverso l’interrogazione parlamentare che già oggi verrà presentata". A margine della visita al carcere il deputato del Carroccio ha sottolineato il sovraffollamento della struttura che conta detenuti in gran parte stranieri. "Il dato delle presenze straniere non può e non deve passare inosservato - ha dichiarato Molteni. Oggi il carcere il Como vede la presenza di 419 detenuti, 371 uomini, 48 donne, di cui 233 stranieri quasi tutti uomini, pari al 55% del totale. Un dato, quello dei detenuti stranieri, allarmante e drammatico pari quasi al doppio della media nazionale che si attesta al 34%. Allo stesso tempo fa riflettere che il carcere attualmente ospiti 419 detenuti su una capienza regolare prevista di 215 e una capienza tollerabile di 402 detenuti. Un numero che allarma e lascia intendere le condizioni di estrema difficoltà in cui operano gli agenti di polizia all’interno della struttura. Una situazione insostenibile e ad alto rischio sociale. Per questo chiederò al ministro Orlando di intervenire immediatamente ponendo una seria attenzione sul carcere di Como e in particolare sulla necessità di far scontare ai detenuti stranieri la pena nel paese di origine". "Sono rimasta molto colpita dall’organizzazione e dalla struttura del Carcere di Como - ha detto Locatelli - ho colto l’impegno e la determinazione delle forze di polizia che lavorano quotidianamente in una situazione non facile. Ci sono aspetti legati alla sicurezza e alla salute di chi opera all’interno del carcere, che non vanno sottovalutati, ma migliorati. Riguardo ai detenuti ho potuto osservare spazi adibiti alla lavorazione del legno e altre attività e, nonostante l’edificio non sia recente, c’è attenzione nel rendere alcuni spazi meno sgradevoli. Questo denota l’impegno della direzione e incoraggia l’amministrazione per una futura collaborazione". Frosinone: il Garante "condizioni di detenzione inaccettabili nella I e nella II sezione" ilpuntoamezzogiorno.it, 16 settembre 2017 Discutibile la chiusura dell’esperienza dei Bisonti, la squadra di rugby che militava nel campionato di serie C. "Il carcere di Frosinone sta vivendo un momento difficile. Alle inaccettabili condizioni strutturali di alcune sezioni, come la prima e la seconda, che andrebbero chiuse per ragioni di igiene e sicurezza, si somma la chiusura di attività importanti, come quella della squadra di rugby dei Bisonti, che fino all’anno scorso ha visto i detenuti frusinati partecipare al campionato di rugby di serie C. Come purtroppo spesso accade, un evento critico e la cronica insufficienza del personale di polizia rischia di spingere l’amministrazione penitenziaria a chiudersi su stessa, tagliando attività e progetti. Si tratta di una reazione non condivisibile, che riduce il carcere a mera custodia, allontanando l’obiettivo di un efficace reinserimento sociale dei detenuti. Mi auguro che il provveditorato voglia dare il sostegno necessario al risanamento strutturale dell’istituto e che la nuova direzione dia un segno visibile di inversione di tendenza e di riapertura nei confronti delle attività sportive, culturali e di reinserimento sociale dei detenuti". È quanto si legge in una dichiarazione di Stefano Anastasia, Garante dei detenuti della Regione Lazio, alla fine della visita odierna presso l’istituto di Frosinone. Rimini: separazione carriere in magistratura, raccolta di firme alla Casa circondariale romagnanoi.it, 16 settembre 2017 La Camera Penale di Rimini unitamente al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito in data 1 Settembre scorso hanno organizzato, all’interno della locale Casa Circondariale di Rimini, una raccolta delle firme a sostegno della proposta di legge di riforma costituzionale di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere fra Magistratura Giudicante ed Inquirente. La proposta di legge ha ad oggetto la separazione delle carriere di Giudice e di Pubblico Ministero, con l’obiettivo di attuare il dettato dell’art. 111 della Costituzione che impone che il Giudice non sia solo "imparziale", ma anche "terzo". E terzietà non può che significare appartenenza del Giudice ad un ordine diverso da quello del Pubblico Ministero. Come già accaduto in altre carceri italiane, anche a Rimini i detenuti erano ben informati sul contenuto dell’iniziativa ed hanno aderito numerosi alla sottoscrizione. Ciò, nonostante gran parte dei detenuti non abbia i requisiti per poter sottoscrivere la proposta di legge perché cittadini stranieri o perché, a seguito delle condanne definitive riportate, ha perso la capacità di godimento dei diritti politici. Sono state raccolte, infatti, 41 firme, autenticate dal Consigliere del Comune di Rimini Luigi Camporesi. Presenti alla raccolta per la Camera Penale di Rimini gli avvocati Sonia Raimondi, Veronica Magnani e Francesco Bragagni; per il Partito Radicale, Ivan Innocenti e Maura Benvenuti. Nell’occasione, i detenuti hanno ricevuto materiale informativo sulle attività del Partito Radicale e sono stati informati dell’azione nonviolenta in corso a sostegno dell’emanazione da parte del Governo dei decreti attuativi della riforma penitenziaria, azione nonviolenta a cui hanno già aderito oltre 7.000 detenuti in tutta Italia. Questa raccolta delle firme dei detenuti nel carcere riminese vuole essere la prima tappa romagnola che toccherà anche gli istituti di Forlì e Ravenna. Le firme raccolte finora in tutta Italia ammontano a più di 63.000 ed è stata quindi ampiamente superata la soglia di 50.000 prevista dalla Costituzione. La Regione Emilia Romagna è terza per numero di firme raccolte, dopo Sicilia e Campania, e Rimini si colloca al terzo posto in regione, dopo Bologna e Modena. L’iniziativa, promossa a livello nazionale dall’Unione delle Camere Penali Italiane, è stata avviata all’inizio del mese di Maggio scorso ed ha trovato subito l’appoggio del Partito Radicale che, nei mesi scorsi, ha altresì promosso una Carovana della Giustizia, sempre con il sostegno delle Camere Penali italiane. La Carovana della Giustizia per la raccolta firme sulla proposta di legge sulla separazione delle carriere e per il raggiungimento dei 3000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre ha già toccato tutte le carceri delle regioni Calabria, Sicilia e Sardegna e dall’11 settembre si trova in Puglia. La Camera Penale di Rimini unitamente al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito in data 1 Settembre scorso hanno organizzato, all’interno della locale Casa Circondariale di Rimini, una raccolta delle firme a sostegno della proposta di legge di riforma costituzionale di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere fra Magistratura Giudicante ed Inquirente. La proposta di legge ha ad oggetto la separazione delle carriere di Giudice e di Pubblico Ministero, con l’obiettivo di attuare il dettato dell’art. 111 della Costituzione che impone che il Giudice non sia solo "imparziale", ma anche "terzo". E terzietà non può che significare appartenenza del Giudice ad un ordine diverso da quello del Pubblico Ministero. Come già accaduto in altre carceri italiane, anche a Rimini i detenuti erano ben informati sul contenuto dell’iniziativa ed hanno aderito numerosi alla sottoscrizione. Ciò, nonostante gran parte dei detenuti non abbia i requisiti per poter sottoscrivere la proposta di legge perché cittadini stranieri o perché, a seguito delle condanne definitive riportate, ha perso la capacità di godimento dei diritti politici. Sono state raccolte, infatti, 41 firme, autenticate dal Consigliere del Comune di Rimini Luigi Camporesi. Presenti alla raccolta per la Camera Penale di Rimini gli avvocati Sonia Raimondi, Veronica Magnani e Francesco Bragagni; per il Partito Radicale, Ivan Innocenti e Maura Benvenuti. Nell’occasione, i detenuti hanno ricevuto materiale informativo sulle attività del Partito Radicale e sono stati informati dell’azione nonviolenta in corso a sostegno dell’emanazione da parte del Governo dei decreti attuativi della riforma penitenziaria, azione nonviolenta a cui hanno già aderito oltre 7.000 detenuti in tutta Italia. Questa raccolta delle firme dei detenuti nel carcere riminese vuole essere la prima tappa romagnola che toccherà anche gli istituti di Forlì e Ravenna. Le firme raccolte finora in tutta Italia ammontano a più di 63.000 ed è stata quindi ampiamente superata la soglia di 50.000 prevista dalla Costituzione. La Regione Emilia Romagna è terza per numero di firme raccolte, dopo Sicilia e Campania, e Rimini si colloca al terzo posto in regione, dopo Bologna e Modena. L’iniziativa, promossa a livello nazionale dall’Unione delle Camere Penali Italiane, è stata avviata all’inizio del mese di Maggio scorso ed ha trovato subito l’appoggio del Partito Radicale che, nei mesi scorsi, ha altresì promosso una Carovana della Giustizia, sempre con il sostegno delle Camere Penali italiane. La Carovana della Giustizia per la raccolta firme sulla proposta di legge sulla separazione delle carriere e per il raggiungimento dei 3000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre ha già toccato tutte le carceri delle regioni Calabria, Sicilia e Sardegna e dall’11 settembre si trova in Puglia. Lanciano (Ch): "troppe sezioni, troppi detenuti", agenti penitenziari in stato di agitazione abruzzolive.it, 16 settembre 2017 Le sezioni detentive e vanno ridotte, non aumentate; detenuti che sono troppi rispetto al numero degli agenti, che subiscono violente aggressioni; necessità di nuovi poliziotti penitenziari. Queste le richieste dei sindacati che, per far sentire le proprie ragioni e giunti all’esasperazione, hanno proclamato lo stato di agitazione all’interno del supercarcere di Villa Stanazzo a Lanciano. E da oggi a lunedì ci sarà anche l’astensione dalla mensa. La protesta porta la firma di Uil, Sappe, Osapp, Cnpp e Sinappe che hanno chiesto un incontro urgente al prefetto di Chieti, Antonio Corona, per "valutare le ricadute dell’insostenibile carenza di personale sia sulla sicurezza del territorio che dei lavoratori". Hanno sollecitato poi un intervento "forte e concreto" alla senatrice Federica Chiavaroli, sottosegretario alla Giustizia, "da sempre attenta alle dinamiche degli istituti penitenziari" e "ben a conoscenza dei problemi" che esistono nel carcere di località Villa Stanazzo. A Lanciano sono rinchiusi 230 detenuti per 134 agenti in servizio. "Ne servirebbero altri 20, come da pianta organica", fanno presente i sindacati in un documento. Le sezioni sono diverse, alcune per reati gravissimi e legati a crimini che vedono in primo piano camorra, mafia, ndrangheta e Sacra corona pugliese. C’è anche la sezione Z per i familiari dei collaboratori di giustizia che necessitano di protezione. L’ultimo progetto, in una situazione già complicata, riguarda l’apertura di nuove sezioni per detenuti comuni. "Ora basta - è la posizione dei sindacati. Se non verranno presi provvedimenti al più presto, inaspriremo le proteste". Pordenone: a "Pordenonelegge" l’annuncio di due nuovi giornali fatti dai carcerati diariodelweb.it, 16 settembre 2017 Arrivano i detenuti giornalisti: lo scrittore Pino Roveredo, Premio Campiello e Garante dei detenuti Fvg, annuncia la pubblicazione di due giornali fatti da chi abita nelle carceri di Tolmezzo (massima sicurezza) e di Trieste: "L’aquilone" e "Via Nizza 26" usciranno dal mese di ottobre, per creare un ponte fra chi sta dentro e fuori le carceri. "Il 70% dei detenuti tornerà a delinquere. Perché? La politica preferisce essere dalla parte forcaiola che dalla parte dei cittadini" Parola di Pino Roveredo, lo scrittore Premio Campiello che venerdì 15 settembre a Pordenonelegge 2017 presenta in anteprima il suo nuovo libro, "Ferro batte ferro" (Bottega Errante edizioni), un appassionato incrocio fra pamphlet e testimonianza, fra racconto e autobiografia. Già, perché Roveredo è stato a sua volta un detenuto, parecchi decenni fa, dopo una serata brava giovanile. E della sua esperienza oggi dice: "Al mio lontano periodo di carcere non devo nemmeno mezzo passo di vita in avanti, semmai ha aumentato le mie capriole in salita. La funzione rieducativa del carcere è un miraggio che si trova solo nelle leggi, ma che non ha alcuna attualità. Non esistono programmi di recupero, l’emergenza è costante nelle carceri e ci sono direttori che devono occuparsi di più case circondariali per la vacatio dei colleghi. Mancano gli agenti penitenziari e il livello dei suicidi aumenta costantemente. Ci sono solo i radicali, capostipiti di questa causa, in Italia, da Pannella a Rita Bernardini. Ma da soli non possono farcela". I due giornali - Una buona notizia c’è e Pino Roveredo la dà in anteprima a Pordenonelegge: "la scrittura è salvifica in carcere, così come la lettura - spiega - io mi sono salvato così: iniziando a leggere "Cronache di poveri amanti" e adesso nelle biblioteche dei carceri ci sono i miei libri. Ma dal mese prossimo ci saranno anche due giornali: nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo e in quello di Trieste abbiamo attivato due redazioni fatte di detenuti. Il mese prossimo, in ottobre, usciranno due giornali con articoli scritti da loro: "L’aquilone", a Tolmezzo, e "Via Nizza 26", a Trieste. Perché via Nizza? È un indirizzo - pseudonimo: alle poste di Trieste lo sanno tutti, le lettere per via Nizza vanno portate in carcere, un modo per schermare la privacy di chi abita lì". Terni: inaugurazione della "Stanza di colloquio per i minori con il genitore recluso" Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2017 Lunedì 18 settembre 2017 alle ore 16.00 presso la Casa Circondariale di Terni sarà inaugurata la "Stanza di colloquio per i minori con il genitore recluso". Lo spazio è stato pensato per i minori che ogni giorno varcano la soglia del carcere per incontrare il papà e rappresenta una risposta ai loro bisogni di bambini e di figli. È un progetto di sostegno alla genitorialità: una stanza "a misura di bambino" il cui scopo non è distrarre i piccoli dalla realtà e dalla relazione col genitore, ma al contrario è portarli su quella relazione che deve essere favorita in ogni modo. Il progetto sarà presentato dal Direttore della Casa Circondariale Chiara Pellegrini e dalla Presidente del Soroprimist Club Anna Rita Manuali. Il tradizionale taglio del nastro sarà affidato ad alcuni bambini i cui papà sono ristretti nel penitenziario ternano. Al termine della cerimonia gli ospiti saranno ricevuti nel giardino interno per il brindisi allestito dall’Istituto Alberghiero "Casagrande" di Terni. Il progetto è stato possibile grazie al finanziamento dell’Amministrazione Penitenziaria e al contributo del Soroprimist International Club di Terni. I lavori sono stati interamente eseguiti dai detenuti che lavorano alla manutenzione del fabbricato: hanno realizzato le opere di muratura, falegnameria, pittura e impiantistica, gli arredi in legno e l’affresco. Il progetto della stanza è dell’Architetto Claudia Grisogli che ha dato il suo apporto a titolo gratuito. I tavoli sono stati realizzati su disegno di Fabiola Vitale, Segretaria del club Soroptimist. Il risultato è un vero e proprio esempio di architettura umana. All’inaugurazione parteciperanno autorità ed ospiti esterni per sensibilizzare la Città sulla necessità, durante la detenzione di un genitore, di curare le relazioni familiari e di tutelare il diritto del bambino alla continuità del legame affettivo. La Presidenza del Soroptimist Club di Terni La Direzione della Casa Circondariale di Terni Napoli: carcere femminile di Pozzuoli, via a "Un film per evadere" ilroma.net, 16 settembre 2017 Il progetto dedicato alla comunità dei detenuti e nato dalla collaborazione tra l’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni e il Comune di Napoli. "Big eyes" di Tim Burton è la pellicola scelta per inaugurare a Pozzuoli la rassegna cinematografica "Un film per evadere". Il progetto dedicato alla comunità dei detenuti e nato dalla collaborazione tra l’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni e il Comune di Napoli rappresentato dal consigliere comunale e presidente della Commissione Welfare, Maria Caniglia, vedrà impegnate - dopo i detenuti di Poggioreale e Nisida - le donne ospiti nell’istituto di Pozzuoli. La serie di pellicole selezionate ad hoc ha lo scopo di utilizzare il forte potere evocativo del cinema, il quale non costituisce soltanto un mero momento di distrazione e intrattenimento. La visione di un film, infatti, attraverso il processo di identificazione con le storie e i personaggi narrati, stimola emozioni forti, fantasie e memorie. La discussione sulle emozioni e sulle riflessioni suscitate dal film, parte fondamentale del progetto, consente di elaborare i vissuti dei detenuti, di connettere la trama del film ad una parte della trama della propria vita. Ogni proiezione sarà seguita da un dibattito con le psicologhe Ilaria Ricupero e Francesca Scannapieco e ogni detenuto potrà mettere su carta le riflessioni suscitate dalla visione-discussione del film, in brevi elaborati che saranno raccolti in un libro. Droghe. Cannabis, la rivolta delle Regioni di Ilario Lombardo La Stampa, 16 settembre 2017 L’appello dei governatori di Emilia, Toscana e Puglia: la distribuzione non funziona. Emiliano sfida il governo: senza un intervento, pronti ad avviare l’auto-produzione. "Il governo e il Parlamento diano una risposta in tempi brevi. E non intendo settimane, ma ore. Altrimenti provvediamo da soli". L’ultimatum di Michele Emiliano sulla cannabis terapeutica ha i toni della soffice ribellione cari al governatore pugliese sempre in equilibrio tra la fede di partito e gli impulsi autonomisti. Il tema però è sentito, e anche altri due governatori di centrosinistra, Enrico Rossi, della Toscana, e Stefano Bonaccini, dell’Emilia Romagna, si uniscono all’appello sull’esigenza di aumentare la distribuzione in Italia della canapa medicinale. Il presidente della Puglia è pronto ad avviare una produzione regionale del farmaco a base di marijuana, in provincia di Lecce, dove, a Racale, è già attiva l’associazione "La Piantiamo", se a Roma, "dal ministero della Salute non si attrezzeranno per aumentare le quantità della cannabis a uso medico" sul mercato italiano. "Me ne sono accorto questa estate - racconta Emiliano. Nonostante l’impegno spasmodico mio e della Asl di Bari, non siamo riusciti a trovare abbastanza farmaci per soddisfare il fabbisogno dei malati". A fine giugno il governatore pugliese aveva ricevuto una lettera da Nicola Loiotile, barese di 48 anni, colpito da sclerosi multipla. Da anni si cura con il Betrocan, medicinale dell’omonima azienda olandese, commercializzato con il nome Cannabis Flos. Ma le quantità reperibili in Italia sono troppo esigue. Così Nicola ha confessato di essere costretto a comprare la marijuana dai pusher. "Questo non solo vuol dire solo che lo Stato non aiuta i propri malati di Sla, o chi ha un tumore o malattie neurologiche, ma anche che favorisce il crimine organizzato". Ad oggi in circolazione si trovano prodotti di importazione provenienti dal Canada e dall’Olanda. Ma sono pochi. Tre anni fa è stata avviata la sperimentazione della canapa a uso medico allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Ma i lotti della sostanza denominata FM-2 non bastano. È un primo passo, ancora incerto, anche perché solo a maggio è stato annunciato che verrà triplicata la produzione, passando dai 100 ai 300 chili l’anno. Serviranno nuove serre e un investimento maggiore di quello iniziale, di un milione di euro. Certo, sarebbe di grande aiuto se la legge sulla cannabis non fosse bloccata in commissione alla Camera. Del testo iniziale, nato attorno all’intergruppo del sottosegretario Benedetto Della Vedova, di fatto sopravvive solo la parte relativa all’uso terapeutico. Ma le chance che possa essere approvata prima della fine della legislatura sono poche. "Avendo un Parlamento che si spaventa di Ius soli e biotestamento, non la vedo semplice" aggiunge Emiliano che esorta il governo a intervenire, "altrimenti - afferma - lasci fare a noi Regioni". Come ultima speranza resterebbe la legge di iniziativa popolare dei Radicali italiani, un testo valido anche nella prossima legislatura e che accanto alla legalizzazione prevede un ampio accesso alla cannabis terapeutica, finora garantita solo da dieci regioni. Tra queste c’è la Toscana del presidente Rossi, ex Pd, oggi in Mdp, che si dice pronto a fare "una battaglia comune con medici e pazienti" e concorda con Emiliano su un punto: "Bisogna arrivare a un livello di produzione adeguato alla domanda dei malati. Abbiamo una struttura di eccellenza a Firenze ma servono più investimenti". Anche Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna e presidente della Conferenza delle Regioni è favorevole: "La quantità va aumentata, per garantire i diritti di tutti i cittadini, da Nord a Sud. Per questo sarebbe meglio - spiega - non mettere in competizione i livelli territoriali e che ci fosse un impegno del governo". Droghe. Sconveniente per le farmacie, la marijuana di Stato è introvabile di Nadia Ferrigo La Stampa, 16 settembre 2017 I cento chili coltivati a Firenze non bastano. Disparità tra le Regioni, che decidono sulla mutua. Da troppo cara per chi la compra, a troppo poco conveniente per chi la vende. Così a rimetterci sono sempre i malati. Dietro prescrizione medica, è possibile acquistare cannabis a scopo terapeutico nelle farmacie, nelle Asl e negli ospedali. Almeno sulla carta si può scegliere tra cinque diversi preparati importati dall’Olanda - Bedrocan, Bediol, Bedica, Bedrobinol e Bedrolite - e la Fm2, l’unica varietà made in Italy. In Italia la possibilità di ricorrere a farmaci cannabinoidi esiste infatti dall’aprile del 2007: in questi dieci anni però i - pochi - pazienti hanno potuto servirsi solo dei prodotti della Bedrocan, l’azienda che produce le infiorescenze usate in tutta Europa come terapia, con prezzi che potevano arrivare anche ai 50 euro al grammo. Cannabis "made in Italy" - Il via libera arriva nel 2014, con un protocollo di intesa tra ministero della Difesa e della Salute che ha affidato all’Istituto Farmaceutico militare di Firenze la produzione di cannabis terapeutica: tra gli obiettivi c’è anche quello di evitare i costi dell’esportazione e garantire che la materia prima sia sempre disponibile. Secondo le stime dell’Istituto fiorentino, il fabbisogno è passato dai 20 chilogrammi tra il 2014 e il 2016 agli oltre cento dello scorso anno. Non basta. Come annunciato dal direttore dell’Istituto, il colonnello Antonio Medica, sono già state predisposte nuove serre per arrivare a 300 chilogrammi l’anno. Basterà a soddisfare le richieste dei sempre più numerosi pazienti? Difficile saperlo. "A novembre dell’anno prossimo, chiusa la fase pilota del decreto Lorenzin, il ministero della Sanità sarà in grado di dare i primi numeri - spiega Marco Perduca, che segue il tema per l’associazione Luca Coscioni -. Il problema è che non tutte le Regioni comunicano i numeri delle ricette al database nazionale e non tutti i medici seguono le disposizioni alla lettera. Solo nella zona di Bari, i pazienti sono circa trecento. Il problema però è che a causa della mancanza di formazione del personale sanitario, siamo comunque a un decimo delle potenziali prescrizioni, che sono in costante aumento". La tariffa nazionale - A giugno il ministero della Salute ha stabilito per decreto il prezzo della cannabis: il costo massimo deve stare tra gli 8,50 e i 9 euro per grammo. "Un provvedimento necessario per uniformare le spese a cui sono sottoposti i malati - spiega Pier Luigi Davolio, farmacista e vice presidente della Sirca, Società italiana ricerca cannabis -, ma con questo prezzo fisso le farmacie non guadagnano nulla: ecco perché per i malati è sempre più difficile trovare la cannabis, che non conviene più. Restano soltanto gli ospedali, ma le diversità legislative regionali rendono la situazione dei malati molto complessa". Da Regione e Regione - L’unico caso virtuoso è il Trentino Alto Adige, che con delibera regionale ha alzato il prezzo della cannabis terapeutica a 12 euro al grammo, lasciando così un margine di guadagno alle farmacie. Spetta poi alle Regioni decidere quali patologie rientrano nella distribuzione gratuita e quali no. "La legge nazionale era chiara, con dei paletti pensati per impedirne l’abuso e agevolarne l’uso - continua Davolio. Ma la mutuabilità spetta alle Regioni e non allo Stato, con tutte le incongruenze e disparità che ne conseguono". Germania. Arrestati senza prove al G20: l’odissea dei ragazzi italiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2017 Detenuti dal 7 luglio denunciano gli abusi e le pressioni psicologiche delle autorità tedesche. Sono passati più di due mesi da quando sono stati arrestati ad Amburgo e rinchiusi, tra un giro di trasferimenti da un penitenziario all’altro, nel carcere di Billwerder. Parliamo di Emiliano Puleo di Partinico, Alessandro Rapisarda e Orazio Sciuto del centro sociale "Liotru" di Catania e di altri due ragazzi italiani Fabio Vettorel e Riccardo Lupano, tratti in arresto durante le manifestazioni del G20 di Amburgo. In particolare c’è Emiliano Puleo, abitante del paese siciliano di Partinico, che recentemente ha inviato anche una lettera ai familiari dove denuncia vessazioni e pressioni psicologiche da parte delle autorità tedesche. Emiliano è un ragazzo molto impegnato, un idealista, ed è un militante del circolo "Peppino Impastato" di Rifondazione Comunista. Era andato assieme a un suo amico reporter ad Amburgo, per partecipare alla manifestazione contro il G20. Parliamo del 7 luglio scorso. Mentre rientrava in ostello è stato però tratto in arresto perché un poliziotto ha dichiarato di averlo visto lanciare una bottiglia durante gli scontri. Emiliano si dichiara innocente, d’altronde oltre alla testimonianza del poliziotto tedesco non c’è nessuna prova video o fotografica. I famigliari stanno lottando, soprattutto la mamma, Fina Fontana. Dopo diverso tempo le è stato concesso di andare a visitarlo in carcere per due ore ogni 15 giorni. Se pur reattivo, Emiliano appare molto stanco e c’è preoccupazione. La Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, su iniziativa di Giovanni Impastato, ha preso posizione mettendo uno striscione nel terrazzo della casa dedicata a Peppino e alla sua mamma. Intanto per Emiliano Puleo il processo è stato fissato per il 4 ottobre. Alcuni ragazzi (finora non quelli italiani) sono stati processati e nel caso peggiore a un olandese sono stati dati 2 anni e sette mesi da scontare in carcere, in altri casi un anno e mezzo in libertà vigilata. La detenzione risulta molto dura. Fino a pochi giorni fa la direzione del carcere aveva imposto una serie di restrizioni che avevano creato polemiche, tra le quali il divieto di poter ricevere libri. Emiliano, in una recente lettera, aveva raccontato quello che ha subito fin dall’arresto. "La prima perquisizione corporale in una caserma e poi il GeSa, prigione speciale costruita appositamente per il G20 e costata 5 milioni. Si trattava di un vecchio magazzino - scrive Emiliano - con all’esterno diversi container e all’interno di questi, unicamente illuminati con la luce artificiale dei neon, un innumerevole numero di celle prefabbricate. Entrato lì, sono stato prima denudato totalmente, hanno controllato anche le cuciture delle mutande e mi hanno tolto orologio e felpa, in nome della mia sicurezza; poi è arrivato il turno dell’alcool test; infine mi hanno fotografato e due poliziotti mi hanno condotto in cella, prendendomi a destra e a sinistra e piegandomi le braccia dietro la schiena (modalità di accompagnamento che poi hanno utilizzato per ogni spostamento)". Dopo la permanenza al GeSa hanno iniziato i trasferimenti in carcere. Prima sosta al carcere Billwerder. "Ci sono rimasto 2/ 3 ore prima di essere rimpacchettato e trasferito ad un altro carcere - scrive sempre Emiliano -, un carcere minorile chiuso ed aperto solo per una decina di noi. Stanze singole, un’ora d’aria e socializzazione al giorno, il resto delle 23 ore chiusi dentro". Poi hanno riportato lui e gli altri ragazzi a Billwerder. Come mai questi metodi duri per un presunto lancio di bottiglie? A rispondere è stato il deputato della Die Linke Martin Dolzer, portavoce Giustizia del gruppo della sinistra tedesca nel Parlamento di Amburgo durante un incontro con la delegazione di Rifondazione. In sintesi ha spiegato che, proprio a ridosso del vertice del G20, sono state inasprite le norme che regolano le manifestazioni di piazza. Ha inoltre sottolineato come il capo della polizia tedesca si sia contraddistinto per la sua linea dura e poco rispettosa dei diritti umani. Da parte dei giudici tedeschi ha rilevato un atteggiamento di accanimento, soprattutto nei confronti degli stranieri. In effetti qualcosa non torna. Oltre a Emiliano che viene accusato senza prove, c’è il caso di Fabio Vettorel. Si tratta di un giovanissimo operaio bellunese di 18 anni che aveva protestato ad Amburgo assieme a Maria Rocco (liberata dopo un mese di detenzione). Viene accusato di aver agito contro l’ordine pubblico: il tribunale lo considera implicato in gravi atti di violenza durante le manifestazioni. In realtà lui ha raccontato che si era semplicemente fermato per soccorrere un’altra manifestante che si era fratturata una gamba. Le carte dei giudici tedeschi raccontano di violenze simili a quelle di una guerra civile, ma nel servizio dell’emittente tedesca Ndr fa notizia un video, girato dalla stessa polizia, in cui si vede la carica degli agenti partire rapidissima verso i manifestanti. In mezzo soltanto qualche oggetto, tra cui probabilmente un fumogeno, lanciato sulla strada. Un video che in Germania ha alimentato nuove domande sul caso, tanto che altri giornalisti tedeschi sono andati in carcere a intervistare Fabio facendo emergere la sua innocenza. Se n’è occupato anche il quotidiano tedesco Süddetsche Zeitung che ha dedicato un lungo articolo alla vicenda del giovane bellunese, descrivendo Fabio Vettorel come proveniente da famiglia borghese, con la madre che lavora come consulente aziendale. Il ragazzo, prosegue il pezzo, è membro di un gruppo bellunese di sinistra chiamato "il Postaz". Il quotidiano ricorda anche come il gruppo, cinque settimane fa, si fosse accampato davanti al municipio di Belluno per protestare pacificamente contro il proliferare delle centraline idroelettriche. Il dubbio che resta, nei media tedeschi, è che Fabio si sia trovato nel momento sbagliato al posto sbagliato. Così come gli altri quattro ragazzi italiani. Si avverte la sensazione, almeno nei dibattiti tedeschi, che questi ragazzi siano stati probabilmente utilizzati per mostrare il pugno duro. Il governo italiano, però, tace nonostante diverse interrogazioni parlamentari. Francia. Attentati di Parigi, carcere meno duro per Salah Abdeslam: "dà segni di paranoia" di Pietro Del Re La Repubblica, 16 settembre 2017 L’autore degli attacchi del 2015, unico sopravvissuto del suo gruppo, ha ottenuto delle condizioni di detenzione migliori dopo aver minacciato il suicidio. Ma il personale che lo sorveglia garantisce: "Sarà controllato tutto il giorno". A lanciare l’allarme è stato il suo ex avvocato, Frank Berton: "Lo vedo affondare sempre di più nel suo isolamento e mutismo perché le condizioni di detenzione sono davvero spaventose". Tanto è bastato ad allertare l’amministrazione penitenziaria di Fleury-Mérogis e a farle prendere immediate misure di sicurezza, sebbene il detenuto in questione, Salah Abdeslam, l’unico aggressore sopravvissuto ai cruentissimi attacchi del 13 novembre 2015 a Parigi, sia il più sorvegliato di Francia. Le sue condizioni carcerarie sono state immediatamente alleggerite, e rese più umane. Negli ultimi mesi Abdeslam ha iniziato a manifestare segni di paranoia, prostrazione, irritabilità. Dopo aver accertato che il detenuto non simula i sintomi, la procura di Parigi e l’amministrazione del carcere hanno anzitutto deciso di intervenire negli interessi dell’inchiesta e del processo. Ora, per evitare un suicidio, il 28enne terrorista islamico, in carcere da un anno e mezzo, è sotto video-sorveglianza 24 ore su 24. E solo per occuparsi di lui, detenuto numero 428001, la prigione impiega ben otto secondini. È stato quindi rimosso il vetro di separazione della sala sua visite, gli è stato concesso uno spazio isolato sui tetti e due ore di passeggiata al giorno. Da ora potrà anche pregare nella sua cella, con un tappeto da preghiera e una copia del corano. Al momento solo la sua famiglia può recarsi a rendergli visita, e lui è perquisito dopo ogni incontro. "Nei prossimi giorni verrà anche smontato il plexiglas che scherma la sua finestra", afferma una fonte della direzione del carcere. "Ma le draconiane condizioni di detenzioni rimarranno tali e quali", aggiunge la fonte riferendosi al fatto che Abdeslam rimarrà comunque sorvegliato giorno e notte e che gli sarà sempre impedito di comunicare con altri detenuti per evitare il rischio di scambio d’informazioni ma anche di fare eventuali proseliti. Da quando è rinchiuso in galera, dopo la sua estradizione nell’aprile dello scorso anno dal Belgio dove fu arrestato, il terrorista ha spesso avuto un comportamento aggressivo con il personale carcerario, e quando il giudice gli comunicò in video-conferenza il prolungamento della sua detenzione, lui sputò sulla telecamera. Ma da qualche mese la sua prostrazione profonda preoccupa la Procura. Entro la fine dell’anno sarà ascoltato in Belgio per una sparatoria a Bruxelles nel marzo 2016 durante la sua fuga. Quell’udienza permetterà ai giudici di farsi un’idea sul vero stato della sua salute mentale. La radio di Fathi Osman, per la libertà dell’Eritrea di Paolo Lepri Corriere della Sera, 16 settembre 2017 La Corea del Nord africana? Non ci sono dubbi, è l’Eritrea. Lo sa bene Fathi Osman, ex diplomatico fuggito in Francia e animatore di Radio Erena, l’emittente fondata da un altro dissidente in esilio, il giornalista Biniam Simon. Secondo il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, le "pratiche totalitarie" del regime di Isaias Afeworki, leader dell’indipendenza e presidente al potere da ventiquattro anni in cui non si sono mai tenute elezioni, dimostrano un "totale disprezzo per la libertà dei cittadini": servizio militare illimitato, lavoro forzato, interferenze nei culti religiosi, repressione della stampa e del diritto di parola. È chiaro quanto ci sia bisogno delle informazioni che arrivano da quell’appartamento parigino. "La nostra - afferma - è la voce di chi non ce l’ha". Nel passato di questo intellettuale cinquantunenne leggiamo le sofferenze, che la storia conosce, di chi "diserta" tentando di lasciarsi alle spalle uno Stato-prigione: la separazione dalla famiglia (tenuta inizialmente in ostaggio in patria), il ricongiungimento difficile, l’amaro sollievo del mettere le radici in un mondo diverso. Ancora meno fortunati di lui, però, sono le migliaia di disperati che iniziano questo viaggio camminando nella sabbia. L’Europa deve accoglierli stabilendo priorità condivise e sostenibili. Soprattutto perché, come ha detto Osman al Guardian, "da noi la vita è una sorta di vita a metà, una morte vissuta". In un saggio, From the Dream of Liberation to the Nightmare of Dictatorship, Osman traccia un legame a suo giudizio inevitabile tra la lotta di liberazione e l’involuzione autoritaria del Paese. Non è sicuro, in realtà, che le cose siano così semplici. La forza della delusione sta in un’osservazione molto umana: "Avevamo sperato che arrivare all’indipendenza così tardi ci desse il vantaggio di non fare gli errori degli altri, ma non è stato così". Certo, sembra un secolo da quando, durante una nottata di festa impressionante, il vessillo del nuovo Stato fu issato in piazza Primo settembre nel cielo effervescente di Asmara. E ora i rami di ulivo di quella bandiera, simbolo di una giusta causa nazionale, disegnati su un triangolo rosso, stanno scomparendo alla vista per una sorta di illusione ottica provocata dalla coscienza. I nativi del Perú, avvelenati dai metalli e abbandonati dallo stato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 settembre 2017 Amnesty International ha accusato il governo del Perú di essersi dimenticato della salute di centinaia di nativi. Il rapporto dell’organizzazione per i diritti umani, intitolato "Uno stato tossico", denuncia l’assenza di cure mediche adeguate in favore delle comunità native di Cuninico ed Espinar, rispettivamente nella regione amazzonica e andina, le cui uniche fonti d’acqua sono contaminate da metalli tossici dannosi per la salute umana. Dal 2014 l’acqua del fiume che scorre nella comunità di Cuninico, ha iniziato ad avere uno strano odore. Le donne hanno raccontato di avere crampi allo stomaco, bruciore alle vie urinarie, irritazioni cutanee e aborti. I loro figli presentano molti sintomi analoghi e a scuola non riescono a rimanere concentrati. Uno studio eseguito quell’anno dall’Autorità regionale per la salute (Diresa) ha rivelato che i livelli di alluminio e di idrocarburi da petrolio nelle acque di Cuninico eccedevano quelli ammessi per il consumo umano. Due anni dopo, nel 2016, uno studio del ministero della Sanità peruviano ha reso noto che più della metà dei residenti della comunità aveva livelli anormali di mercurio nel sangue e che livelli allarmanti di cadmio e piombo erano stati rinvenuti anche nei bambini. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’esposizione al mercurio e al piombo può causare gravi problemi di salute e danni irreversibili allo sviluppo fetale. La risposta dello stato peruviano è stata ampiamente inadeguata. Nonostante nel 2017 il governo abbia proclamato lo stato d’emergenza per la salute pubblica, non è stato preso alcun provvedimento per fornire cure mediche alle comunità colpite e rimediare alla contaminazione delle acque. Le comunità sono costrette a raccogliere l’acqua piovana per il consumo domestico e a bere quella contaminata del fiume quando le piogge sono insufficienti. L’ambulatorio medico più vicino a Cuninico è a un’ora e mezza di distanza se si percorre con un’imbarcazione veloce e non ha in servizio specialisti in grado di curare persone esposte a metalli tossici. Nella provincia di Espinar, situata nella regione andina, la situazione è analoga. Studi condotti dalle autorità statali hanno rilevato che alcune comunità sono state collettivamente esposte a metalli pesanti e ad altre sostanze chimiche e che le loro uniche fonti d’acqua sono contaminate. Le donne della comunità di Espinar lamentano costanti mal di testa, dolori allo stomaco, diarrea, bruciore agli occhi, difficoltà respiratorie e problemi ai reni. Già nel 2010 uno studio realizzato dal Centro nazionale per la salute nel lavoro e la tutela della salute ambientale aveva rilevato che quasi tutti i membri delle comunità che erano stati sottoposti a esami avevano presenza di piombo, cadmio, mercurio o arsenico nel sangue. La prolungata esposizione a questi metalli tossici è causa conclamata di una serie di problemi cronici di salute tra cui perdita di memoria, infertilità, perdita della vista, diabete, disfunzioni epatiche e renali e cancro. Lo stato peruviano è venuto ampiamente meno al suo obbligo di proteggere le comunità native di Cuninico ed Espinar e garantire il loro diritto alla salute. Ora deve rimediare, assicurando che queste comunità abbiano accesso ad acqua pulita e individuando e rimuovendo le cause della contaminazione.