Con teatro in carcere la recidiva diminuisce di Simonetta Dezi Ansa, 15 settembre 2017 In più della metà delle carceri italiane si fa teatro. Da questo dato inizia il colloquio con la professoressa Valentina Venturini del dipartimento di Teatro dell’Università di Roma Tre che confessa il suo sogno nel cassetto: "togliere al teatro la definizione di intrattenimento per farlo diventare forma fondamentale del trattamento carcerario con gli stessi diritti del lavoro e della scuola". Un progetto ambizioso? "Forse sì" ammette, ma "il teatro è un mezzo efficace per il lavoro personale dei detenuti e al contempo un occasione per il Teatro stesso". È un fatto, spiega, che "la recidiva tra chi fa teatro in carcere scende al 6%, ed è un fatto che il teatro recitato dai detenuti molto spesso acquista un dato di verità e di realtà che raramente si trova tra gli attori professionisti". E a dimostrazione di quest’ultima affermazione chiama a supporto Fedor Dostovjeski. Lo scrittore russo, non solo diceva che gli uomini sono uomini anche in carcere, ma in "Memorie dalla casa dei morti" scrive del rapporto tra carcere e teatro. In modo molto efficace, perché lui in carcere c’è stato e racconta la sua esperienza. Era un paio di secoli fa, a metà ottocento, ma rileggerlo non ha perso di attualità. la professoressa cerca la frase giusta tra le pagine del libro: "Così lo spettacolo finisce [...]. I detenuti si sbandano allegri, contenti, facendo gli elogi degli attori e ringraziando il sottufficiale. Non si sentono diverbi. Tutti sembrano contenti, felici persino, e si addormentano diversamente dal solito, con animo quasi tranquillo. Perché mai? No, non è un parto della mia immaginazione. È la semplice e pura verità. Per pochi brevi momenti era stato concesso a quella povera gente di vivere secondo il loro desiderio, di divertirsi umanamente, di trascorrere almeno un’ora non da forzati, ed ecco, non fosse che per pochi minuti, avvenire un benefico cambiamento nello spirito dell’uomo". Per dimostrare l’efficacia del binomio carcere-teatro la professoressa ha pensato non solo di portare il teatro in carcere, ma di portarci anche gli studenti. Così uno dei tre laboratori della sua cattedra consiste in 36 ore in un anno che gli studenti trascorrono con i detenuti lavorando a un progetto teatrale. "Da tre anni - racconta - lo sta portando avanti il regista Fabio Cavalli. È importante per i ragazzi prendere contatto con una realtà consolidata. Serve agli studenti per rendersi conto di un altro mondo e anche che esiste un altro modo di fare teatro. Ho notato inoltre che quando ci sono gli studenti, gli attori-detenuti lavorano meglio". "È interessante vedere - aggiunge Venturini - come lentamente le dinamiche interne al carcere svaniscono e lasciano il posto a quelle della compagnia teatrale. Ad esempio il protagonista della rappresentazione non è il capo clan, ma chi tra loro sa fare meglio l’attore. Questo inizialmente non sempre viene accettato automaticamente. Poi però si lavora tutti insieme con l’obiettivo che lo spettacolo non cada". "È vero - ammette - i detenuti fanno teatro anche per essere presi in considerazione in modo diverso, però devo dire che nel tempo anche questo va via, e si fa teatro proprio per fare teatro". "Il teatro non è solo fare intrattenimento, ma anche la possibilità di uscire dal proprio guscio, confrontarsi con un altro da sé e al contempo riappropriarsi del proprio sé. Ci sono gli aspetti della risocializzazione e del riconoscimento: da una parte il detenuto riesce a parlare con se stesso, dall’altra c’è il confronto con l’esterno. Le famiglie che entrano e che vedono il proprio caro in una luce diversa, che lavora bene". "La mia idea - prosegue con entusiasmo - è di considerare anche tutti i mestieri che girano intorno al teatro: elettricisti, costumisti tecnici del suono e insegnarli ai detenuti anche in vista di un loro futuro fuori dal carcere. Per quanto riguarda poi la scelta degli attori, che pertiene al regista, è una grande responsabilità, bisogna scegliere bene le persone. Anche il teatro può diventare uno strumento pericoloso se usato male. Si possono creare aspettative che non si possono avverare". La professoressa Venturini non nasconde le difficoltà di fare teatro in carcere rispetto ad altre discipline, proprio per il contatto che si deve avere con i detenuti. "Ma sta cambiando" assicura. "I registi che scelgono di lavorare con i reclusi sanno che quando ci si mettono i detenuti possono emozionare profondamente. C’è la consapevolezza che si sta costruendo un altro modo di essere, perché quella è l’unica possibilità che il detenuto ha in quel momento di essere diverso. Non trovo questo sforzo nel teatro normale. Sono più veri quelli che vivono in condizione di non libertà. Ci stanno in quello che fanno. Corpo e anima, E lo spettatore lo sente. Se si riesce a guidarli (cosa che dipende dal regista e dalla sua competenza), si trova una verità che fuori non si trova più". Un freno al "libero odio". Ci provano le avvocature del G7 di Marina Della Croce Il Manifesto, 15 settembre 2017 Hate speech in rete. Boschi, Boldrini e Orlando al convegno organizzato dal Consiglio nazionale forense. "Dall’amore libero sembra che si sia passati all’odio libero". Per aprire i lavori del G7 dell’avvocatura, l’incontro tra gli avvocati dei sette Paesi sotto il patrocinio della presidenza italiana del G7, Maria Elena Boschi trova una formula efficace. Il tema è "Sicurezza e linguaggio dell’odio", e le diverse avvocature del G7 lo hanno preparato, per la prima volta nella storia, collaborando gomito a gomito. Ma sin dalle prime battute è evidente che tra tutti i fronti in cui l’hate speech si sviluppa e fa danno, qui se ne affronterà uno solo: probabilmente quello principale, certamente quello più dibattuto da mesi e anni: quello della Rete. La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio parte ipotizzando, sulla base dei dati raccolti dall’osservatorio delle Pari opportunità, una modifica in corso del linguaggio dell’odio in rete, che si starebbe allargando rispetto ai "classici" temi razzisti e xenofobi per prendere di mira l’identità sessuale, sul genere, sull’età, spesso sugli handicap. I temi che pone Boschi torneranno in tutti gli interventi: aggiornare la definizione del linguaggio dell’odio cogliendo per tempo le mutazioni; mettere a punto, coinvolgendo avvocati e giuristi, gli strumenti per intervenire efficacemente; accompagnare l’intervento sanzionatorio con quello formativo e preventivo ("Avete fatto bene a chiamare qui i ministri, ma bisogna coinvolgere anche i maestri"); coniugare la difesa dalle fake news, dalle intimidazioni e dalle calunnie con la difesa della libertà di parola ed espressione. L’ultimo punto è il più delicato. Non a caso, concludendo le assise, il ministro della Giustizia Andrea Orlando non è andato molto oltre il ribadire, sia pure con più convinzione di molti altri, la necessità di tenere insieme le due esigenze. Nell’intervento molto appassionato della presidente della Camera Laura Boldrini, da sempre convinta che la rete e la diffusione dell’odio siano priorità non ancora valutate in tutta la loro minacciosità e che proprio per questo ha voluto l’istituzione di due apposite e commissioni da lei stessa presiedute, la bilancia pende inevitabilmente dal lato repressivo: "Dobbiamo superare l’idea che il web sia un mondo a sé stante che non si può toccare, che ogni azione sul web significhi censurare, come se la libertà si realizzasse con l’assenza delle regole". Discorso sacrosanto, a patto di non trascurare le specificità della rete e i contesti, che verranno poi segnalati molto lucidamente da Mario Ricca, docente di diritto interculturale a Parma. Non sarà, si chiede ad esempio, che la rabbia viene sfogata in rete anche perché le persone sentono di avere sempre meno possibilità di intervenire nella dimensione "reale"? Negare la necessità di porre alcune regole su Internet è impossibile, ma immaginare di trasferire di peso le stesse norme che regolano ad esempio la stampa sarebbe probabilmente sbagliato oltre che illusorio. Più sofisticato il discorso del presidente del Cnf Andrea Mascherin, convinto anche lui che il linguaggio d’odio sia "il diluvio di questa era".Mascherin ha tracciato un parallelismo eloquente tra la libertà illimitata del mercato, che finisce per travolgere la vita degli individui come nella Grande Recessione, e quella di Internet, che arriva a risultati identici per altra via e ancora tra l’oligopolio che domina sia l’economia che la Rete. Alla fine le sette avvocature hanno firmato una dichiarazione d’intenti che le impegna a continuare e intensifica la collaborazione. Ce ne sarà bisogno: la strada per mettere a punto un regolamento della Rete adeguato ai tempi e alle specificità del mezzo sembra ancora lunga. L’odio dilaga sui social, ogni giorno 7mila allarmi di Francesco Lo Dico Il Mattino, 15 settembre 2017 Denuncia di Boldrini e Boschi: donne vittime numero uno. Lo chiamano "hate speech", discorso volto a promuovere l’odio. Ma non è soltanto l’arma imbracciata sui social da quelle che Eco chiamava "legioni di imbecilli" ansiosi di difendere e distorcere il diritto di parola. L’hate speech è anche e soprattutto la più redditizia mossa di marketing che gli imprenditori della paura, impegnati in politica, hanno messo a punto per fare dell’odio e della paura i fertilizzanti del consenso. Bene lo ha spiegato anche la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Boschi, al convegno sulla Sicurezza e il linguaggio dell’odio organizzato a Roma dal Consiglio nazionale forense. "Dalla stagione dell’amore libero - ha detto - siamo passati a quello dell’odio libero: c’è una sorta di liberalizzazione, come fosse un segno di libertà dire quello che si vuole sul web". Concimati nelle terre avvelenate dei partiti delle ruspe, i frutti si moltiplicano sui social network a dismisura. Basti pensare, come ha chiarito Maria Elena Boschi, che "dal monitoraggio effettuato dal dipartimento Pari opportunità rileviamo 7mila discorsi d’odio al giorno" sul web ed emerge che "cambiano i soggetti vittime, quindi dobbiamo adeguarci e dare una risposta anche normativa". Vittime privilegiate dei leoni da tastiera, sono le donne, "le principali vittime dell’odio in rete", chiosa la presidente della Camera Laura Boldrini all’incontro organizzato dal Consiglio nazionale forense. Un odio cieco, spesso in diretto rapporto con le fake news, che hanno visto la stessa Boldrini bersaglio di attacchi inauditi. Basti citare, tra i molti, l’attacco alla sorella defunta, che un post divenuto virale in rete, veniva diffamata da morta, in quanto avrebbe gestito cooperative di assistenza ai migranti, con tanto di foto fasulla appartenente in realtà all’attrice Krysten Ritter. Senza dimenticare l’assalto scatenato dall’account di Beppe Grillo ("Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?") che promosse in poche ore tra gli adepti del comico, un campionario assortito di minacce di morte, insulti e istigazioni allo stupro contro quella che lo stesso leader ha definito "bambola gonfiabile". Simbolici della misoginia 2.0 anche gli assalti a Gessica Notaro, miss sfregiata dall’acido ("Te lo sei meritato"), e Tiziana Cantone, prima e dopo il suicidio additata al pubblico ludibrio e insultata. Disabili, neri, donne stuprate, migranti: l’elenco dell’odio è lungo e imbarazzante. Buon ultimi, ma non nuovi all’insulto crasso i meridionali, e i napoletani in particolare. Ai quali, dopo il terremoto di Ischia, è stata augurata una colata di lava del Vesuvio per completare l’opera di distruzione incominciata dal sisma. Che il fenomeno della lapidazione virtuale sia in crescita, e lo sarà sempre di più negli anni a venire, lo conferma il rapporto On line / Off line. La doppia vita dei teenagers" commissionato dal Miur, nell’ambito del Piano nazionale per la prevenzione del bullismo e del cyberbullismo a scuola. Tredici ragazzi su cento, evidenzia il dossier, hanno insultato un personaggio famoso sui social network e 9 su cento hanno creato un profilo falso, sui social, proprio per insultarlo in modo anonimo. Ma ben più grave è che sette ragazzi su dieci giustificano l’hate speech quasi come forma di rivalsa sociale: per 1’11% dei ragazzi "non c’è nulla di male, ognuno deve essere libero di esprimere ciò che pensa", mentre i156% sostiene che "i personaggi famosi devono mettere in conto anche critiche e insulti", mentre solo il 9% segnala i commenti offensivi. Allarmanti anche le statistiche che fotografano l’odio tra coetanei. Il 10% dei ragazzi ha insultato o criticato aspramente un coetaneo sui social network, il 29% ha messo un "like" a un post che insultava o criticava un coetaneo e solo il 28% avrebbe avuto un comportamento diverso se il compagno fosse stato lì davanti a lui, in carne ed ossa. In buona sostanza, quattro ragazzi su dieci, sui social, si rendono protagonisti, attivi o indiretti, di messaggi di odio. Una tendenza che trova nel nuovo social del libero insulto, popolato da giovani tra i 12 e 15 anni, This Crush, il suo ideale complemento. Si tratta di un social che permette di postare in anonimo, messaggi caratterizzati da contenuti sessuali e violenti. "La dimensione internazionale - sottolinea il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte al convegno Sicurezza e linguaggio dell’odio - è l’unica con cui possiamo affrontare il tema delle condotte illecite sul web. "Occorre una standardizzazione del regime di data retention (ossia la conservazione dei dati, ndr) - annota Albamonte - e poi bisogna dotarsi si uno strumentario per la qualificazione giuridico-penale di alcune condotte, scegliendo bene qual è il punto di equilibrio". Ma per trovare il bandolo della matassa, occorrerebbe partire dai social. Su Facebook vengono fabbricati ogni giomo due miliardi e mezzo di post, e su Twitter 400 milioni di cinguettii. Chi controlla? È una questione di policy: cioè di politiche che presiedono alla libera espressione sui social. Facebook in teoria rifiuta l’hate speech ma ammette messaggi con "chiari fini umoristici o satirici" e di frequente consente l’incitazione all’odio. Esemplare il caso del gruppo "Pestare Piano porta bene" contro il parlamentare Pd. Segnalato da alcuni utenti, è tuttora aperto perché non viola le regole. Ancora più labili i confini di Twitter, che non vieta gli Nate speech, eccetto che per gli annunci pubblicitari. E intanto, l’odio, dilaga. Violenza sulle donne: aumentano le denunce, la giustizia risponda di Giusi Fasano Corriere della Sera, 15 settembre 2017 La denuncia, l’indole violenta di lui, i segnali di allerta tutti accesi, la famiglia di lei presente e consapevole del rischio. Eppure ancora una volta non è bastato. Noemi è stata uccisa. Aveva 16 anni. L’hanno trovata con la testa sfondata a sassate, in un angolo di campagna non lontano da casa, il corpo seppellito da un cumulo di sassi. Ieri il capo della polizia Franco Gabrielli ha rivelato numeri che raccontano della violenza domestica nel nostro Paese. Scopriamo che dal 2011 al 2016 sono aumentate del 33% le denunce per maltrattamenti in famiglia. Il che non vuol dire che si è diventati più violenti, ha premesso lui stesso, ma "significa che si sono create le basi per cui la vittima ha sempre più fiducia nel rendere manifesta la propria condizione". Spesso, spessissimo, la violenza domestica si consuma, appunto, in famiglia. Quindi ben venga quel 33% in più. A un patto, però: che ai fogli di carta bollata seguano fatti. E con fatti si intende tutto ciò che è possibile fare per scongiurare il peggio. Una donna o una famiglia che denuncia e decide (spesso dopo angosce inenarrabili) di uscire dal silenzio, ha bisogno di ascolto, di attenzione, di sapere se e come far fronte alla minaccia che ha davanti. E, ancora più importante, qualunque cosa si possa fare ha bisogno che si faccia alla svelta. Che i tempi della giustizia siano quelli della vita reale. La madre di Noemi aveva denunciato quel ragazzo che si era mostrato più volte violento con la figlia, incapace di staccarsi da una relazione che credeva fosse amore. Lui aveva alle spalle tre trattamenti sanitari obbligatori e problemi con la droga. Possibile che davanti al suo "curriculum" non sia stato possibile prendere nessun provvedimento? Ora il ministro della Giustizia Andrea Orlando manderà i suoi ispettori al tribunale dei minori di Lecce e il Csm ha chiesto l’apertura di una pratica sul caso. Ma Noemi è morta e ora per sua madre è solo questo che conta. Una campagna elettorale inquinata dai veleni giudiziari di Massimo Franco Corriere della Sera, 15 settembre 2017 I veleni giudiziari che stanno affiorando inseriscono una variabile nella campagna elettorale, che aleggiava da tempo. E regalano i primi scampoli di una polemica a dir poco ruvida, che non promette di alzare il livello della discussione. Per la prima volta un partito, la Lega, si vede bloccati dalla magistratura i conti correnti in alcune regioni. Si tratta di un provvedimento radicale, legato non alla gestione dell’attuale segretario, Matteo Salvini, ma a quella del precedente, Umberto Bossi. La decisione, tuttavia, induce Salvini a puntare il dito contro "una scheggia della magistratura" che a suo avviso vorrebbe "mettere il bavaglio" al Carroccio. Ma in parallelo, apre uno scontro virulento col Pd di Matteo Renzi, che ieri ha additato Salvini come capo di un partito che "deve restituire 48 milioni di euro"; e che "fa la morale a Roma ladrona ma ha rubato i soldi dei contribuenti". L’attacco è arrivato durante una manifestazione nella Capitale dove lo stesso Renzi si è sentito dire che le "cooperative del Pd e cattoliche lucrano" sui migranti; e ha reagito minacciando il contestatore di portarlo in tribunale. Nella stessa giornata, il Movimento 5 stelle ha evocato le pensioni dei parlamentari, che scattano da oggi, per colpire la maggioranza. Beppe Grillo ha bollato i partiti come "dinosauri" che saranno uccisi dall’"asteroide" del M5S. L’esigenza di accentuare tutti gli spunti della propaganda grillina contro il sistema dovrebbe far brillare il Movimento e allontanare le ombre giudiziarie che pure lo sovrastano, a partire dalla Sicilia. Sono esercizi di delegittimazione destinati a proiettarsi sui prossimi mesi. E riflettono un malessere diffuso che ognuno tende a interpretare a suo modo: anche se alla fine minaccia di scaricarsi in modo trasversale su tutte le forze politiche, perché implica un giudizio sommario negativo che non risparmia quasi nessuno. C’è da domandarsi quanto gli stessi partiti si rendano conto di alimentare una tensione che può ritorcersi contro di loro. E soprattutto, non è facile capire chi sarà il beneficiario di questo gioco al massacro reciproco. Di certo, non il sistema nel suo complesso, che finisce per trasmettere un’immagine di confusione e di tossicità. Verrebbe da dire che la rissa avvantaggia le opposizioni radicali. E danneggia un Pd bifronte, che offre da una parte il volto rassicurante del premier, Paolo Gentiloni; dall’altra un partito con un leader che ama la polemica forte. Si tratta di un Pd in preda a forti contrasti interni, che Renzi fatica a comprimere nonostante una leadership consacrata dal congresso. Eppure, anche il manicheismo del M5S comincia a mostrare la corda. Appare un po’ logoro. E comunque non riesce più a velare le sue contraddizioni. Papa Francesco. Un messaggio religioso che è diventato politico di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 15 settembre 2017 Il rischio è quello di dar vita a una "religione civile" che assume una forma antagonista rispetto agli orientamenti oggi prevalenti in Occidente. Può il messaggio cristiano, oggi in Occidente, prestarsi come un tempo ad una qualche forma di specifica mediazione politica? Cioè può quel messaggio essere ancora tradotto in indicazioni praticabili dalla politica in una società come la nostra? E in tal modo, per esempio, dare luogo ad uno specifico impegno politico dei cattolici? La risposta va cercata nei nuovi indirizzi pastorali che non senza forti discussioni al suo interno vedono oggi impegnata la Chiesa cattolica. Indirizzi che sono forse la più eloquente testimonianza di quella nuova epoca storica che si sta aprendo e che agli occhi della Chiesa (e non solo dei suoi) si caratterizza per un vero e proprio terremoto dei rapporti di forza: vale a dire la fine dell’egemonia sul processo storico mondiale da parte sia dell’area euro-atlantica e forse, almeno tendenzialmente, da parte addirittura dell’intero emisfero settentrionale. Ha certamente a che fare con questa visione la scelta della Chiesa - voluta con forza da papa Francesco - di assumere come direttiva cardine ed esclusiva per la propria presenza sociale il comandamento della "misericordia": deponendo con ciò l’ipotesi di ogni diverso ruolo propriamente politico. Il che in qualche modo appare peraltro come la logica conclusione di quel processo iniziato da tempo, che dapprima ha visto il rifiuto di qualsiasi collateralismo (tipo quello che una volta caratterizzava il rapporto tra la Chiesa e la Democrazia Cristiana), e in seguito l’eguale rifiuto di far svolgere alla religione cristiana la parte di una "religione civile". La parte, cioè, per dirla con Enzo Bianchi, di "intonaco per il muro cadente dell’Occidente, percepito come inerente al Cristianesimo". Al Cristianesimo - a quello cattolico in specie - inerisce il mondo, non certo l’Occidente. Tutto porta dunque a concludere che alla domanda iniziale la risposta sia negativa: in questa parte del pianeta non sembra esserci più spazio alcuno per una specifica mediazione politica del messaggio cristiano e per uno specifico impegno politico dei cattolici. Le cose non appaiono così semplici, però, se si considera il modo in cui la Chiesa cattolica, proiettandosi sulla scena mondiale, intende concretamente il comandamento della misericordia. Nella prassi e nel discorso quotidiano tale comandamento, come è noto, viene tradotto nella tematica dei "diritti umani"; significa i "diritti umani": sicché questa in pratica è la sola presenza "politica" (beninteso fra virgolette) che oggi la Chiesa sembra volersi concedere. Ora, tuttavia, proprio rivestendosi della tematica dei "diritti umani", la presenza della Chiesa, lungi dal manifestarsi con contenuti propri ed esclusivi riferibili a lei specificamente, si sovrappone ampiamente però ad altre presenze organizzative, ideali e politiche, che nulla hanno a che fare con la sua tradizione. A cominciare ovviamente dalla presenza delle grandi agenzie internazionali come l’Onu o la Fao le quali trovano per l’appunto nei "diritti umani" un loro ambito e un loro presupposto decisivi. Un’analoga ampia sovrapposizione esiste poi rispetto a componenti per così dire laico-progressiste proprie dell’universo ideologico-politico dei Paesi occidentali: componenti che anch’esse nulla hanno a che fare specificamente con la tradizione cattolica. Tra l’altro con una particolarità di non poco conto: e cioè che sempre più spesso tali componenti annoverano tra i "diritti umani", e rivendicano come tali, un certo numero di diritti - riguardanti ad esempio gli stili di vita sessuali, i rapporti matrimoniali, il fine vita, la genitorialità artificiale o quella medicalmente assistita - che di certo sono estranei a qualunque prospettiva condivisa o prevedibilmente condivisibile dalla Chiesa di Roma. Non basta. Sempre nominalmente infatti (ma i nomi non sono mai frutto del caso) la tematica dei "diritti umani" - stavolta nella sua versione laicissima se non laicista dell’"umanitarismo" - è pure quella che oggi anima la straripante presenza pubblica di alcune ricchissime e influentissime figure di "filantropi mondialisti" - non saprei come altro chiamarli: tipo Soros o Zuckerberg o Bezos - ormai assurti al rango di veri e propri profeti mediatici: anch’essi non solo estranei ma senz’altro ostili al cristianesimo cattolico. Ci si trova di fronte, insomma, a una triplice sovrapposizione tanto più potenziale fonte di equivoci in quanto molto spesso i diritti umani sembrano essere intesi dalla Chiesa con una radicalità che non ammette deroghe né compromessi. O comunque con una estrema varietà di toni che non contribuisce certo alla chiarezza. Resta il fatto che per un paradosso solo apparente, proprio la radicalità che spesso nell’ambito della Chiesa accompagna il discorso dei "diritti umani" contribuisce - starei per dire quasi naturalmente - non solo a rendere quanto mai "politicamente sensibile" il messaggio religioso che si riveste del discorso ora detto, ma ancora di più: a collocarlo di fatto nel quadrante più estremo dello spettro politico abitualmente presente nei Paesi democratici. Rischiando alla fine, in tal modo, di dar vita a una "religione civile" la quale non è meno tale per il fatto di assumere una forma antagonista, simmetrica anche se opposta, rispetto agli orientamenti oggi prevalenti in Occidente. Il che in ogni caso è la conferma - comunque si cerchi di evitare lo scoglio - di una consustanziale, inevitabile, crucialità politica del Cristianesimo, che lo rende, per chi sappia vedere, il cuore tuttora pulsante e problematico della nostra civiltà. Caso Consip, la pm accusa i carabinieri: "erano esagitati, puntavano a Renzi" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 settembre 2017 "È una bomba": indagini sulle frasi pronunciate dai militari. Dalla Procura di Modena le "anticipazioni" di Scafarto e Ultimo. Accertamenti sulla fuga di notizie che svelò le telefonate tra Renzi e il generale Adinolfi. Il Procuratore di Modena riferisce le "anticipazioni" di Scafarto e Ultimo: "Informativa fatta con i piedi, parevano degli esagitati". Gli accertamenti sulla fuga di notizie che svelò le telefonate tra l’ex premier e il generale Adinolfi. "Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi". Così disse l’ex capitano del Noe dei carabinieri Gianpaolo Scafarto - ora promosso maggiore e destinato ad altro incarico, indagato per falso dalla Procura di Roma nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto caso Consip - al procuratore di Modena Lucia Musti, in un colloquio avvenuto nell’ufficio del magistrato. La Musti ha riferito questa circostanza al Consiglio superiore della magistratura durante un’audizione del luglio scorso; la frase fu pronunciata all’inizio di settembre 2016, cioè quattro mesi prima del deposito dell’informativa agli uffici giudiziari di Roma e Napoli in cui lo stesso Scafarto avrebbe inserito alcune notizie non veritiere, come quella in cui l’affermazione "l’ultima volta che ho incontrato Renzi" (inteso Tiziano, cioè il padre dell’ex premier) viene attribuita all’imprenditore Alfredo Romeo, mentre invece era dell’ex parlamentare Italo Bocchino, e riferita al figlio Matteo. Frasi sospette - Il procuratore Musti non gradì questa anticipazione di Scafarto sugli sviluppi di un lavoro che stava portando avanti con un’altra Procura, violando il segreto investigativo; anzi, pensò che quell’ufficiale fosse poco serio, e una simile confidenza tutt’altro che normale. Non fece altre domande e da allora respinse ogni altra richiesta d’incontro da parte del capitano, che le mandava messaggi per vederla con una certa insistenza. In seguito, quando vennero fuori prima le anticipazioni sul "caso Consip" che coinvolgeva Tiziano Renzi e poi le notizie sulle accuse a Scafarto, il magistrato capì che il carabiniere gli stava annunciando proprio i risultati di quell’indagine, e il conseguente clamore che avrebbero suscitato. Del resto - sostiene ancora Musti - non era stato solo Scafarto a parlarle in termini quasi scandalistici delle inchieste che i carabinieri del Noe stavano conducendo. L’anno prima, poco dopo che a Modena era stato trasmesso uno stralcio dell’indagine su un’altra vicenda di presunta corruzione, il caso Cpl-Concordia, con allegata l’informativa redatta dagli stessi investigatori in cui erano state inserite alcune telefonate intercettate tra il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi e l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, il colonnello Sergio De Caprio (l’ex capitano Ultimo, che arrestò Totò Riina), all’epoca comandante del Noe, le avrebbe detto: "Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere". Anche in quel momento Musti riferisce di aver pensato che quei carabinieri erano degli "esagitati", e che prima si fosse liberata di quel fascicolo definendo le posizioni dei suoi indagati e meglio sarebbe stato. Carte in procura - L’audizione di Musti al Csm risale al 17 luglio scorso, e rientra in un accertamento avviato dalla prima commissione del Consiglio (competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati per "incompatibilità ambientale") che indaga sulla fuga di notizie del luglio 2015 riguardante proprio le telefonate tra l’ex premier e Adinolfi, risalenti al gennaio 2014, nelle quali Renzi esprimeva giudizi poco lusinghieri su Enrico Letta e accennava alle mosse per sostituirlo a palazzo Chigi. L’informativa del Noe, originariamente indirizzata alla Procura di Napoli, era stata trasmessa per competenza anche a Modena ad aprile 2015, e tre mesi dopo il contenuto delle telefonate era finito sulle pagine del quotidiano Il Fatto. Sul caso Consip, a dicembre 2016, è successo qualcosa di simile: poco dopo che il fascicolo è passato da Napoli a Roma, sono comparse le prime notizie sul coinvolgimento di Renzi padre e altri dettagli, sullo stesso giornale. Di qui i sospetti sorti nei pensieri del procuratore Musti che - ha spiegato ancora al Csm - quando ha saputo che Scafarto era accusato addirittura di avere inserito nel rapporto su Consip informazioni false contro Renzi senior ha commentato: "Finalmente l’hanno preso". L’indagine dell’organo di autogoverno dei giudici cerca di capire se sono individuabili responsabilità di magistrati nelle rivelazioni sulla vicenda Cpl-Concordia, che a Napoli era condotta dai pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano, gli stessi del caso Consip. Ma ieri il verbale dell’audizione di Musti e delle testimonianze rese dal procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso e dal procuratore generale Luigi Riello, sono stati inviati alla Procura di Roma, che indaga su Scafarto per falso (ma anche su Woodcock per violazione di segreto) perché "meritevoli di un approfondimento". Possibile movente - Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase "Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato" falsamente attribuita a Romeo ("assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano", scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (tra cui i presunti interessamenti dei servizi segreti controllati dal presidente del Consiglio dell’epoca, Matteo Renzi), ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo. Casualmente proprio ieri, a proposito dell’indagine Consip su cui da tempo chiede di svelare tutti i retroscena, l’ex premier ha dichiarato: "Noi vogliamo la verità, non persone che appartengono all’Arma dei carabinieri e si avvalgono della facoltà di non rispondere"; il riferimento è al silenzio opposto da Scafarto ai pm romani che tre giorni fa l’hanno riconvocato per interrogarlo. Sulla fuga di notizie relativa alle telefonate tra Renzi e Adinolfi contenute nell’indagine Cpl-Concordia, il procuratore Musti ha riferito fatti e espresso opinioni che suonano molto critiche nei confronti dei carabinieri del Noe, ma da cui si possono desumere perplessità anche sul comportamento dei colleghi napoletani. Il punto critico è la trasmissione dell’informativa completa, di quasi 600 pagine, in cui c’era il capitolo dedicato al generale Adinolfi, che con la parte d’inchiesta passata per competenza a Modena non aveva nulla a che fare. A Napoli i pm l’avevano omissato, ma in Emilia l’informativa fu trasmessa - tramite Scafarto, che lo consegnò personalmente a Musti in un plico non sigillato - completa di quella parte che poi uscì su Il Fatto. Come mai questo sia avvenuto, senza che lei fosse stata informata nemmeno a voce da Woodcock che c’erano intercettazioni destinate a rimanere riservate, Musti ha detto di non saperlo spiegare. Né ha potuto escludere che il gip di Modena, al quale il suo ufficio passò le carte, le avesse messe a disposizione degli avvocati. "Uno più uno fa due" - Quello che invece ha sottolineato in più occasioni durante la sua audizione, sono giudizi espliciti e molto taglienti nei confronti dei carabinieri del Noe: quell’informativa, ha spiegato, è un esempio di come non si devono fare, è "fatta coi piedi", gonfia di espressioni molti simili a "chiacchiere da bar" anziché a fatti accertati. Il fatto che De Caprio le avesse parlato in quei termini ("una bomba") la irritò non poco, e le anticipazioni di Scafarto sul "casino" che stavano per far esplodere con l’indagine napoletana condotta da Woodcock le fecero nascere ulteriori sospetti. Confermati dalle successive accuse a carico dell’ex capitano. Perché "uno più uno fa due". Ingiusta detenzione non sempre indennizzata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2017 La reticenza, la menzogna e il silenzio da parte dell’imputato sono scelte difensive legittime, che possono però "pesare" in negativo sulla richiesta di indennizzo per ingiusta detenzione. Su queste basi la Corte di cassazione (sentenza 42014) ha respinto la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, avanzata da Raffaele Sollecito per i 4 anni di carcere in relazione alla morte della studentessa inglese Meredith kercher, accusa dalla quale era stato poi assolto. Per la Suprema corte è corretto il verdetto della Corte d’Appello che aveva respinto la domanda, chiarendo che le versioni contraddittorie, che hanno sempre trovato una smentita, e il falso alibi fornito hanno inciso sulla scelta dei giudici di applicare severe misure cautelari. Secondo la difesa le contraddizioni e le "bugie" dette dal ricorrente dovrebbero essere considerate ininfluenti a fronte del fatto che le porte del carcere per Sollecito si erano aperte sulla scia di "clamorose défaillance o amnesie investigative o colpevoli omissioni di attività di indagine". La Cassazione spiega però che l’assoluzione è solo il presupposto per presentare istanza di riparazione ma non è sufficiente per il suo accoglimento. L’esito positivo c’è soltanto se l’interessato non ha in nessun modo "influito" nella custodia cautelare subìta con dolo o colpa grave. La Suprema corte ricorda che mentre il giudice del processo penale deve accertare il reato, quello della riparazione, pur dovendo operare sullo stesso materiale, segue un altro iter verificando quanto l’imputato ha inciso, anche in concorso con l’errore altrui, sulla sua detenzione. I divorzi islamici da non riconoscere negli Stati Ue di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 settembre 2017 In India hanno recentemente dichiarato incostituzionale il divorzio islamico, quello che avviene quando l’uomo pronuncia per tre volte la parola "talaq", io ti ripudio. Ma nella Ue ci sono Stati che li riconoscono tanto che l’avvocato generale della Corte di Giustizia Ue, Henrik Saugmandsgaard, ha espresso ha dato parere negativo dicendo che i "divorzi privati", come quelli previsti in base alla legge islamica (Sharia), non vanno mai riconosciuti, poiché sono richiedibili solo dagli uomini e, quindi, violano il principio di non discriminazione di genere sancito dalla Carta dei diritti fondamentali. Il parere dell’avvocato non è vincolante per la Corte stessa, che però normalmente ne segue l’orientamento giuridico. I giudici europei stanno esaminando il caso di una coppia con doppia nazionalità siriano-tedesca, in cui la la donna, Soha Sahyouni, ha presentato ricorso contro il riconoscimento in Germania del loro divorzio voluto dal marito, Raja Mamisch, che si è recato nel 2013 in Siria, dove "ha dichiarato di voler divorziare ed il suo rappresentante ha pronunciato la formula di rito davanti ad un tribunale religioso". In Germania il tribunale regionale superiore di Monaco ha accettato la richiesta di Mamisch, sostenendo che il divorzio in questione era regolato dalla legge siriana come secondo i giudici prevedrebbe il regolamento europeo Roma III. La donna però ha fatto ricorso e il tribunale di Monaco si è rivolto alla Corte che ha sede in Lussemburgo per dirimere la questione. Secondo l’avvocato generale della Corte Ue il regolamento non è applicabile perché il tribunale religioso non appartiene ad un Paese, e ha anche sottolineato che "il diritto siriano non conferisce alla moglie le medesime condizioni di accesso al divorzio concesse al marito". Una circostanza considerata "discriminatoria" e, quindi, in quanto tale, non permette alle autorità degli stati membri di riconoscere i divorzi religiosi ottenuti in questo modo. "Si tratta di un divorzio privato che non si basa sulla decisione di una giurisdizione o di un’autorità pubblica" si legge in un comunicato della Corte. Nel 2014 la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che il divieto in Francia di coprire il volto con il velo è compatibile con tutti gli articoli della Convenzione dei diritti umani e non viola la libertà di religione. Sempre nella Ue, nel marzo scorso la Corte di giustizia ha stabilito che vietare alle donne di indossare il velo islamico sul posto di lavoro non è discriminatorio nei confronti delle musulmane, se il datore di lavoro vuole dipendenti vestiti in modo "neutro", cioè che non esibiscano alcun segno politico, filosofico o religioso in modo evidente. Sulmona (Aq): detenuto suicida, la parola al presidente di "Antigone Abruzzo" infomedianews.it, 15 settembre 2017 Il presidente di "Antigone Abruzzo", Salvatore Braghini, fa il punto sulle condizioni delle case circondariali abruzzesi, evidenziandone le maggiori criticità. Preoccupazione per il fenomeno del sovraffollamento, la carenza di personale penitenziario e il malessere tra i detenuti. "Necessari maggiori investimenti". "L’episodio accaduto nel carcere di Sulmona richiama l’attenzione sulle condizioni della detenzione in Abruzzo". È quanto dichiara a Infomedianews.it, l’avvocato Salvatore Braghini, presidente di Antigone Abruzzo, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. "Se l’inchiesta della Magistratura confermerà che il 24enne pugliese si è tolto la vita o ancora peggio nel caso venga fuori un’altra verità, dovrà aprirsi una seria riflessione nella politica e nella società abruzzese, perché la Casa di reclusione di Sulmona, con la costruzione di un altro lotto, sta diventando uno dei carceri più importanti del Centro Italia, dove i problemi irrisolti del sistema detentivo sono accresciuti proprio dalle dimensioni. Nel carcere di Sulmona c’è un imponente circuito di massima sicurezza con 444 detenuti su 304 regolamentari. Vi è dunque un notevole sovraffollamento, un’altissima presenza di ergastolani e la presenza di ben 15 collaboratori di giustizia, proprio come il giovane di Altamura, trasferitosi dal carcere di Benevento e trovato morto nella sua cella, mentre vi era il cambio di turno dei poliziotti". Il presidente Braghini ha, inoltre, evidenziato quale siano le maggiori criticità e lacune che investono il sistema penitenziario e le case circondariali: "La carenza di personale penitenziario aumenta le difficoltà di gestione dei carceri più complessi, dove peraltro si assottigliano i fondi per le attività trattamentali e il reinserimento sociale, con un’incidenza della recidiva molto preoccupante, che si attesta su 2 rimessi in libertà su tre. Inoltre, sono ancora troppi i casi di autolesionismo, con una punta di 82 casi al Castrogno di Teramo, dove la carenza di personale è drammatica e nei giorni scorsi si è registrata l’ennesima aggressione ai danni dei poliziotti. Molti gli scioperi della fame, che denotano condizioni di malessere e disagio, altresì confermate dalla percentuale delle patologie psichiatriche che richiedono assistenza". Chiare e decise le richieste che il presidente di Antigone rivolge agli Organi che si occupano del settore e che hanno in mano il futuro delle carceri e dei detenuti: "Come Presidente regionale di Antigone, dopo essere stato ricevuto in V Commissione del Consiglio regionale, chiedo alla politica regionale di intervenire tempestivamente e decisamente per risolvere i numerosi problemi degli 8 istituti penitenziari abruzzesi, di investire per migliorare la sanità carceraria, l’erogazione di fondi per le attività sociali e di recupero, promuovere occasioni di risocializzazione, premiare e sostenere le attività di volontariato in carcere e soprattutto quelle lavorative. Occorre investire per migliorare e rendere sistematica la formazione del personale di polizia penitenziaria in ragion della tipologia del carcere, adeguandone il numero soprattutto laddove si registra un sovraffollamento, mettere in sicurezza gli edifici e sviluppare le tecnologie di monitoraggio e di sorveglianza, accrescere il numero degli educatori". Monza: nuovo suicidio nel carcere di via Sanquirico, un uomo di 30 anni si è impiccato di Dario Crippa Il Giorno, 15 settembre 2017 Suicidio ieri pomeriggio nel carcere di Monza. Un detenuto di 30 anni si è infatti impiccato mentre si trovava in infermeria. Non si conoscono ancora le ragioni di questo gesto, si sa soltanto che l’allarme è stata dato alle 18.42 e che, nonostante i soccorsi, l’uomo è morto. Si tratta del secondo suicidio nella struttura di via Sanquirico nel giro di pochi giorni. Una settimana fa un uomo era stato ricoverato per aver inalato il gas di una bombola del fornelletto da cucina ed era morto nonostante le cure disperate che gli erano state apportate Comunicato Sappe Un uomo detenuto nel carcere di Monza, imputato per reati di droga, si è tolto la vita nel tardo pomeriggio impiccandosi alle inferriate della cella. E il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, mette sotto accusa la gestione delle carceri del Ministro della Giustizia Andrea Orlando e del Dap Santi Consolo. "L’uomo si è ucciso impiccandosi alle inferriate della cella. Era imputato per reati di droga, era italiano e ristretto nella Sezione infermeria. Purtroppo il pur tempestivo intervento degli Agenti non è servizio a salvargli la vita. Contiamo dunque un altro detenuto suicida in carcere a sancire il fallimento delle politiche penitenziarie del Governo Gentiloni, di quelli che l’hanno preceduto e della gestione di Santi Consolo alla guida dell’Amministrazione Penitenziaria. Più di quaranta suicidi in meno di nove mesi nelle carceri italiane è un dato mai registrato prima, dal dopoguerra ad oggi: un triste primato. E certifica, se mai vi erano ulteriori dubbi, che le strategie messe in atto da Ministero della Giustizia e Dap per prevenire i suicidi di detenuti, per altro non meno di un mese fa, sono fallimentari in tutti i sensi", denuncia il Segretario Generale del Sappe Donato Capece. Lecce: detenuto morto in carcere; ci sono tre indagati, disposta perizia medica Corriere Salentino, 15 settembre 2017 Una perizia medica per accertare eventuali responsabilità di tre medici indagati con l’accusa di omicidio colposo per la morte di Donato Cartelli, 59enne di Uggiano La Chiesa, detenuto nel carcere di Lecce. Il sostituto procuratore Francesca Miglietta ha conferito incarico alla dottoressa Gabriella Cretì di eseguire una consulenza medico legale. L’accertamento scatterà a fine settembre. Gli esiti saranno depositati per gli inizi di dicembre. Il decesso del detenuto risale al 19 febbraio scorso quando l’uomo venne ritrovato ormai privo di vita all’interno della propria cella. A causare la morte, un arresto cardiaco. La tragedia colse di sorpresa i familiari della vittima che, assistiti dall’avvocato Andrea Conte, presentarono una denuncia sul tavolo del magistrato inquirente. Cartelli, a loro dire, non aveva mai lamentato alcun problema di salute. E ai familiari non aveva comunicato nessun malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, il detenuto avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta nel corso delle detenzione. L’unico malanno segnalato risaliva ad un mese prima dal decesso ed era legato ai fastidi per un’influenza stagionale. Il detenuto venne sottoposto ad un trattamento farmacologico consistito in quattro iniezioni. Sulle circostanze del decesso, invece, le informazioni fornite ai parenti sarebbero risultate del tutto frammentarie e lacunose. Da qui la decisione di presentare una denuncia con cui i familiari di Cartelli hanno chiesto di fare piena luce sulle cause della morte "e fugare così qualsivoglia sospetto sui fatti e sulle circostanze che, purtroppo, quando accadono all’interno delle mura carcerarie tendono ad avere contorni poco precisi". Il magistrato inquirente ha deciso di approfondire il caso. L’accertamento medico legale dovrà valutare l’eventuale nesso "tra eventuali condotte colpose e negligenti dei sanitari intervenuti nella vicenda e il verificarsi dell’evento letale". Inoltre la perizia servirà ad accertare se la diagnosi dei sanitari intervenuti nella vicenda nonché le cure prescritte al detenuto siano state appropriate e corrette. I medici - la cui iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo è un atto dovuto in vista dei primi accertamenti - sono assistiti di fiducia, tra gli altri, dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri, Flavio Santoro e Maurizio Memmo. Bologna: "qui mi faranno crepare, uscirò dentro una cassa da morto" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2017 Il quarentenne recluso a Bologna ha già perso 50 chili a causa di una malattia rara. Quando era entrato in cella la sua patologia non era stata presa sul serio e dopo sei mesi era arrivato al punto di non riuscire più ad alzarsi dal letto. "Ho paura di addormentarmi e di non svegliarmi mai più. Ho paura di morire qua senza avere la mia famiglia affianco", scrive Marco Bondavalli in una lettera fatta recapitare a Il Dubbio. Un continuo ping pong tra il carcere e l’ospedale, con il rischio di non farcela più. Continuano ed essere precarie le condizioni fisiche di Marco, detenuto nel carcere "La Dozza" di Bologna. Come già ha denunciato la sorella Katia su Il Dubbio, l’uomo è un 40enne condannato definitivamente a 10 anni per un cumulo di pene per truffa che ha subito due interventi allo stomaco anni prima di essere arrestato. A causa di una complicanza delle operazioni, ha contratto la dumping syndrome, una sindrome debilitante che crea sudorazione, aumento dell’appetito, debolezza, fino a provocare lo svenimento. Quando era entrato nel carcere bolognese a luglio dello scorso anno, la sua malattia - secondo quanto denuncia sempre la sorella del detenuto -, non era stata presa sul serio e dopo sei lunghi mesi, trascorsi con un catetere fisso e continue infezioni e svenimenti, era arrivato al punto di non riuscire più ad alzarsi dal letto della sua cella. A quel punto, il 9 febbraio di quest’anno, lo hanno ricoverato di urgenza in ospedale. Gli hanno diagnosticato una grave infezione che era giunta fino ai reni, mancanza di vitamine e risultava che non si ali- in modo appropriato. Dopo varie peripezie, compreso uno choc settico che l’aveva portato di urgenza in rianimazione, il 28 luglio scorso lo hanno dimesso e riportato in carcere a Bologna, ma la struttura penitenziaria non è dotato di un centro clinico ma di una sorveglianza medica h24. Secondo il referto del medico, risulta che Marco Bondavalli è affetto da disfagia e dumping syndrome post interventi e da un quadro infettivo da osservare e monitorare tramite trattamenti infettivologici. Il dottore si è inoltre raccomandato che il detenuto mangi correttamente, altrimenti si potrebbero creare infezioni all’intestino che potrebbero essere letali. Katia Bondavalli, la sorella di Marco, è molto preoccupata. "Da quando è ritornato al carcere di Bologna - ha denunciato al Il Dubbio -, non riesce ad alimentarsi ed è calato di 5 kg in pochi giorni". Bondavalli, dalla prima carcerazione ha perso in totale 50 kg. "L’infettivologo dell’ospedale di Reggio Emilia - aggiunge Katia - in un recente incontro con noi famigliari ha riferito che le complicanze che ha avuto mio fratello sono da attribuirsi al fatto che in carcere non sia stato curato con le dovute terapie". I familiari, tramite il legale, hanno chiesto l’incompatibilità carceraria e quindi un differimento della pena. La corte di appello di Bologna, prima di pronunciarsi in merito, ha chiesto di nominare un perito medico legale. I tempi quindi si sono dilatati e la camera di consiglio ci sarà il 31 di ottobre. Il caso era stato sollevato anche durante la puntata di "Lo Stato del Diritto", trasmissione su Radio Radicale ideata e condotta da Irene Testa, della presidenza del Partito Radicale. La vicenda è seguita molto da vicino dall’associazione Stefano Cucchi onlus, in particolar modo da Ilaria Cucchi che ne è la presidente. Nel frattempo la situazione fisica è precipitata. Continua ad avere febbre, quattro giorni fa ha subito una operazione per togliere un calcolo e il rene non gli funziona bene, tanto che dovrebbe essere monitorato costantemente. Durante l’operazione i medici hanno cercato anche di allargare l’uretra per cercare di contenere la stenosi. Oltre a questo è costretto a tenere un catetere vescicale fisso che però gli procura comunque delle infezioni. Marco Bondavalli nella lettera recapitata a Il Dubbio e si rivolge al presidente della Repubblica Mattarella per chiedere che si attivi per lui. "Qui mi fanno morire, mi fanno uscire dentro una cassa da morto", scrive nella lettera. Marco chiede semplicemente di andare ai domiciliari per stare vicino a sua moglie e suo figlio. Solo a casa può essere seguito meglio, ricevere le cure giuste e l’alimentazione specifica per la sua patologia. Non chiede di essere liberato, ma di essere ristretto nella propria abitazione in maniera provvisoria, almeno fino a quando le sue condizioni fisiche miglioreranno. Torino: denunciò agenti penitenziari, espulso il marocchino Rachid Assaraq di Luca Serranò La Repubblica, 15 settembre 2017 In carcere per violenza sessuale, il marocchino aveva provato a documentare gli abusi. una minaccia "effettiva e concreta" all’incolumità pubblica. Con questa accusa il tribunale di Torino ha convalidato il provvedimento della questura e dato il via libera all’espulsione di Rachid Assaraq, il cittadino marocchino scarcerato pochi giorni fa dopo aver scontato 9 anni e 4 mesi per violenza sessuale nei carceri di mezza Italia, durante i quali ha registrato presunti abusi della polizia penitenziaria e al tempo stesso collezionato una lunga serie di denunce per resistenza. Rachid si trova rinchiuso nel Cie di Torino, e a ore potrebbe essere imbarcato con destinazione Marocco. Se eseguito, il provvedimento rischia dunque di avere pesanti conseguenze sui diversi procedimenti nei quali è imputato, ma anche sull’inchiesta della procura di Prato in cui risulta al momento anche parte lesa: proprio nei giorni scorsi i pm Lorenzo Gestri e Sara Canovai hanno firmato l’avviso di conclusione indagini preliminari per 4 agenti della penitenziaria, accusati di aver pestato Rachid dopo averlo sorpreso con un registratore. I reati contestati sono quelli di lesioni aggravate, falso e calunnia. Le guardie spiegarono infatti di essere state aggredite da Assarag dopo averlo sorpreso ad armeggiare con una forbicina, tanto da denunciarlo per resistenza. Sul caso sono ancora in corso valutazioni da parte della procura sull’eventuale rinvio a giudizio. "L’espulsione di Rachid è un fatto molto grave - attacca l’avvocato Fabio Anselmo, che ha seguito l’intera battaglia giudiziaria - lascia a dir poco perplessi che questa decisione sia stata presa senza il nulla osta dell’autorità giudiziaria, e nello stesso decreto di espulsione si fa riferimento a fatti avvenuti 9 anni fa. La verità - conclude - è che l’inchiesta di Prato sta rivelando cosa realmente accade nelle carceri. Con buona pace delle ispezioni disposte dal ministro della giustizia Orlando". Le indagini della procura di Prato sui presunti abusi di 4 guardie penitenziarie era entrata nel vivo nel novembre del 2014, quando i pm titolari delle indagini sentirono Rachid (all’epoca recluso a Sollicciano) dopo avergli notificato l’avviso conclusioni indagini per resistenza. Sconvolgente il racconto: "Il personale si accorse del registratore di piccole dimensioni che avevo attaccato con un filo all’altezza del petto, ed era nascosto da una maglietta. Iniziarono a chiedermi conto (…), io risposi che era l’unico modo per dimostrare le condotte illecite e da quel momento iniziarono a picchiarmi. All’inizio erano quattro ma col passare dei minuti sopraggiunsero altri agenti. Ad un certo punto erano almeno otto persone". E ancora: "Fui costretto a rimanere a terra prono, e sentivo sopra di me che montavano gli agenti e scalciavano (..) ricordo che mentre ero ancora in terra alla presenza degli ispettori intervenuti che avevano determinato l’interruzione dell’aggressione, sentii il personale che mi aveva colpito dire tra loro che in magazzino avevo forbici non consentite". Torino: volontari in Servizio civile per la Garante dei detenuti Ristretti Orizzonti, 15 settembre 2017 Novità in vista per l’Ufficio della Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Torino. Da quest’anno infatti, grazie alla decisione di partecipare al progetto di Servizio civile nazionale, potrà contare sul contributo di due volontari per la gestione di varie attività legate alle competenze dell’ufficio, da svolgere prevalentemente all’interno del carcere torinese "Lorusso e Cutugno". Prima in Italia a pensare un tale progetto, nelle intenzioni della Garante c’è la volontà di riproporre con continuità, nei prossimi anni, questa esperienza. Al bando pubblicato da Informagiovani, scaduto a giugno, hanno risposto in 17, quasi tutti laureati o laureandi. Provenienti non solo da Torino e provincia ma anche da altre regioni italiane, a conferma dell’interesse verso le opportunità che questa esperienza è in grado di offrire. Convocati per il colloquio di selezione che si è svolto ieri, martedì 12 settembre, a Palazzo Civico, si sono presentati in 14 per affrontare: prima un colloquio di gruppo per dimostrare di conoscere le informazioni di base relative al Servizio civile e alle peculiarità del progetto e nel pomeriggio un incontro individuale per consentire alla Garante di comprendere motivazioni e corrispondenza del candidato con il profilo richiesto dal progetto. Due i prescelti che cominceranno il loro servizio nei primi giorni di dicembre. Soddisfatta per la qualità dei candidati la Garante, Monica Cristina Gallo, stupita di fronte a giovani così preparati e motivati verso la possibilità di affrontare un’esperienza così delicata come quella del lavoro all’interno del carcere. Garante convinta però della qualità del progetto: "un’opportunità significativa per questi volontari di confrontarsi con detenuti e istituzione carceraria". Biella: i detenuti-agricoltori diventano testimonial dell’alimentazione "bio" di Francesca Fossati La Stampa, 15 settembre 2017 Le verdure e la frutta coltivate dai detenuti del carcere di Biella sono in vendita allo Spazio Lilt: il ricavato servirà a sostenere la prevenzione oncologica. Ieri pomeriggio, all’ingresso della sede della Lega italiana per la lotta contro i tumori in via Ivrea 22, è stato allestito per la prima volta il banchetto con i prodotti stagionali e l’iniziativa si ripeterà ogni secondo mercoledì del mese, dalle 14 alle 17. La Casa circondariale e la Lilt di Biella hanno firmato un protocollo d’intesa allo scopo di far svolgere alcune attività ai detenuti in fase di reinserimento. A gestire il banchetto, infatti, è uno dei coltivatori dell’orto che si trova all’interno della casa circondariale, lo stesso che da tre mesi a questa parte si occupa anche del taglio dell’erba e della manutenzione delle aree verdi di Spazio Lilt e che prossimamente sarà affiancato da un volontario di Lilt nella vendita dei prodotti. Le persone che si recano nella sede della Lilt avranno così la possibilità di acquistare frutta e verdura a km 0 coltivati dagli stessi carcerati della vicina casa circondariale. La bancarella sarà comunque aperta anche a chi vorrà raggiungerla appositamente per l’acquisto a favore dell’attività di prevenzione dei tumori di Spazio Lilt. In questo progetto sono coinvolti 23 detenuti della sezione "Ricominciare" che quotidianamente vanno nei campi e nelle serre che si trovano tra le mura del carcere per coltivare i prodotti stagionali. "I detenuti sono seguiti da un agronomo e i risultati si vedono - commenta una delle educatrici del carcere. Stiamo ottenendo ottimi risultati e stiamo cercando di ottenere la certificazione "bio". In futuro contiamo di dedicarci anche alla trasformazione del prodotto preparando, ad esempio, passate e marmellate". È un modo concreto per imparare un mestiere che potrà esse utile quando sarà il momento di reinserirsi nella società e nel mondo del lavoro, ma allo stesso tempo è un occasione per fare del bene e contribuire alla ricerca e alla prevenzione dei tumori. La Lilt si augura che l’iniziativa abbia successo e che l’esposizione della bancarella possa diventare un appuntamento stabile. Palermo: detenuti e diritti, quelle vite sospese dietro le sbarre di Stefania Brusca meridionews.it, 15 settembre 2017 "Nelle carceri del Sud pochi aiuti per reinserimento". La campagna del centro sociale Anomalia che chiede "Amnistia per tutti" passa anche dalle storie di chi sconta la sua pena. Pochi giorni all’interno di un carcere palermitano bastano per constatare come si vive da reclusi. Chi c’è stato racconta di un mondo dove è difficile parlare di diritti, dove sei considerato ormai al di fuori della società civile. Si tratta di persone che hanno commesso dei reati, anche penali, ma per i ragazzi del centro sociale Anomalia questo non basta a giustificare le condizioni in cui queste persone vivono la loro permanenza dietro le sbarre. Sempre più spesso si parla di sovraffollamento. Sempre più spesso la cronaca racconta di suicidi in cella. Qualcosa sta cambiando, ma lentamente. Per questo il 22 settembre sfileranno in corteo dal Borgo Vecchio al carcere Ucciardone per manifestare la propria solidarietà ai detenuti. Ieri mattina una prima tappa della campagna: Palermo tappezzata di striscioni in cui Anomalia chiede: "Amnistia per tutti". "All’interno delle carceri palermitane ci sono tantissime cose che non ti permettono di far rispettare i tuoi diritti - spiega Emmanuele Surdi di Anomalia - Del resto sono molti quelli che non considerano i detenuti come persone. Se uno entra in determinate carceri, come ad esempio al Pagliarelli, si trova a potersi lavare soltanto tre volte a settimana". Oltre al primo impatto, che già è molto duro, poi c’è la permanenza all’interno del carcere che via via diventa sempre più complessa: "Moltissime famiglie palermitane e siciliane non hanno la possibilità di andare a trovare i propri parenti detenuti all’interno della propria città, o altri vengono trasferiti addirittura al di fuori della Sicilia". Emmanuele racconta di un caso in particolare, che ha vissuto in prima persona quando anche lui per 18 giorni ha vissuto il carcere: "C’era un 40enne catanese che ho conosciuto in quella occasione, che non è in condizioni di parlare con i propri familiari, costretti per vederlo a percorrere 200 chilometri". Spesso, racconta, "il detenuto non sa quando viene trasferito. Alla famiglia lo comunicano quando è già lontano. A volte il giorno stesso del trasferimento. Questo è quello che è successo a questa persona. È stato spostato dal penitenziario dove si trovava e ora è qua a Palermo. Abbiamo cercato di aiutarlo, ma possiamo comunicare con lui soltanto via lettera. I detenuti possono incidere poco sulle loro condizioni di vita, anche per richiedere il minimo indispensabile. Dall’esterno - conclude Emmanuele - è necessario che nasca un movimento per esprimere solidarietà e per parlare della questione carceraria, un tema poco trattato non solo dalla politica". "Vive in molte persone un innato spirito di giustizialismo - gli fa eco Chadli Aloui, anche lui di Anomalia - senza contare che nel Meridione il concetto di espiazione della pena è quasi pre-Illuminista. Già dal 1800 è stato superato il concetto che l’uomo è delinquente punto e basta. Il periodo in carcere dovrebbe servire anche per fare reinserire le persone nella società, per reintegrarli. Anche se anche questa è una pratica che ha le sue zone grigie". Aloui parla di una differenza di trattamento tra i detenuti del Sud e del Nord. "I detenuti sono in maggioranza extracomunitari e meridionali. Nei confronti di questi ultimi è come se fosse prevista una doppia pena. Le condizioni carcerarie sono peggiori e non ci sono al Meridione le stesse possibilità di accedere a corsi o attività per garantire il reinserimento in società". Poi parla della sua esperienza in carcere a Palermo, vissuta nello stesso periodo di Surdi: "Ho conosciuto persone di Trapani, Messina, Catania, che avevano difficoltà economiche e hanno chiesto di essere trasferite in altri istituti del Nord per accedere ai corsi per imparare un mestiere, per ottenere un attestato. Al Pagliarelli ne ho conosciute diverse. Un altro problema è dovuto al fatto che ad esempio non c’è modo di svolgere alcuna attività fisica, cosa che pesa di più a chi deve scontare una pena lunga". Per questo chiedono che "intanto si segua la legge prevista dall’Ue sui diritti dei detenuti e che si vada oltre la questione della punizione, che sembra quasi una tortura silente. Poi ci vuole un piano serio da parte delle istituzioni sulle fasce sociali per incrementare le misure dello Stato sociale altrimenti il carcere si trasforma in pura repressione. Occorre costruire un’alternativa per liberare le persone dal bisogno. Per questo chiediamo l’amnistia, che vige solo per reati comuni e può essere una risposta al sovraffollamento e non viene concessa dal 1990. Una misura diversa dall’indulto dato nel 2006 che valeva nei confronti di una precisa fascia sociale, chiediamo l’amnistia per tutti", conclude Aloui. Cagliari: Don Cannavera e il girone infernale del carcere di Uta di Antonio Salvatore Sassu avantionline.it, 15 settembre 2017 Il recente rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa sullo stato delle carceri italiane ha messo in evidenza una serie di criticità che riguardano anche gli istituti di pena sardi, principalmente viene citato un caso di maltrattamenti nei confronti di un detenuto accaduto nel carcere di Bancali, notizia passata sui tg nazionali ed elegantemente glissata dalla stampa locale. Eppure le notizie sul nuovo carcere di Bancali pubblicate negli ultimi tempi non sono tra le più confortanti: rivolte dei detenuti islamisti, suicidi, assistenza sanitaria carente, risse tra detenuti e minacce ai poliziotti. Un elenco di criticità senza fine. Ma la situazione non è certo migliore nelle altre carceri dell’isola dove il sovraffollamento la fa da padrone, con oltre 2.300 detenuti, con una percentuale di custodia cautelare intorno al 35 per cento. La custodia cautelare, lo ricordiamo, non riguarda solo gli arrestati con l’accusa di aver commesso un reato, ma anche i condannati non in via definitiva. Non a caso, sempre Strasburgo ha invitato l’Italia a prendere massicci provvedimenti alternativi alla custodia cautelare perché stiamo parlando di innocenti sino all’ultimo grado di giudizio. Questo svuoterebbe in parte le carceri, alleggerendo una situazione esplosiva, e rispetterebbe la legalità, articolo 27 della Costituzione compreso. e criticità sono presenti in tutti gli istituti di pena della Sardegna, ma la situazione più grave sembra essere quella del carcere di Uta, in provincia di Cagliari, dove la nuova struttura, inaugurata nel 2014, è già al collasso: una polveriera pronta a esplodere con risse tra detenuti, tentativi dei carcerati di organizzare uno spaccio interno di droga, rivolte, celle incendiate e/o allagate, e tentati suicidi. Un girone infernale che peggiora di ora in ora. E proprio sulla situazione di Uta abbiamo intervistato don Ettore Cannavera, che a fine agosto ha visitato il carcere assieme a una delegazione del Partito Radicale. Don Cannavera è un esperto dei problemi carcerari, con alle spalle una vita intera dedicata ai detenuti, sia dietro che fuori le sbarre, in particolare ai minorenni e ai giovani. Come ha trovato la situazione nel carcere di Uta? "Terribile, pesantissima, ci troviamo di fronte a una polveriera pronta a esplodere, anche a causa del sovraffollamento e della mancanza di attività, del poco personale e della insufficiente assistenza sanitaria. Quasi tutti i detenuti passano il loro tempo chiusi in cella, con poche occasioni di attività o di socializzazione. Per non parlare del mix della tipologia dei reclusi, che mette a repentaglio il delicato equilibrio dei rapporti all’interno del carcere. Ricordo che solo il 10 per cento dei carcerati italiani sono delinquenti, il 90 per cento sono sofferenti mentali, rifugiati, tossicodipendenti. A Uta la situazione è peggiore proprio a causa dell’alto numero dei sofferenti mentali che vi sono rinchiusi. La società è forcaiola, è emarginante. Abbiamo chiuso gli ospedali psichiatrici e abbiamo risolto il problema della mancanza di struttura adeguate sostituendoli con il carcere. Non si sa dove mettere una persona che ha o che crea problemi legati al suo disagio mentale? Oggi l’unica risposta è: mandiamolo in galera, la pattumiera sociale indifferenziata, dove stanno tutti assieme senza distinzioni. Al limite, sarebbe meglio una struttura da "raccolta differenziata", con sezioni specializzate, tipo, tanto per fare un esempio, un piccolo ospedale psichiatrico per quei detenuti che non possono e non devono convivere gomito a gomito con gli altri.". Don Ettore Cannavera è stato per 23 anni cappellano del carcere minorile di Quartucciu (in provincia di Cagliari) sino alle polemiche dimissioni del maggio 2015, quando ha affermato che il carcere minorile è una struttura inutile, dannosa e superata. Ma a occuparsi dei problemi dei minori rinchiusi dietro le sbarre ha iniziato 35 anni fa, quando ha fondato la sua prima comunità per minori sottoposti a provvedimenti di polizia giudiziaria. Contemporaneamente non ha mai smesso di occuparsi dei problemi dei reclusi dietro le sbarre: "Quando mi chiamano vado in carcere. Questo è il mio mondo, il mio modo di essere cristiano. "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi" dice Gesù nel Vangelo, e i cristiani dovrebbero riflettere su questa frase". Come e perché ha iniziato a occuparsi di minorenni incarcerati? "Trentacinque anni fa, su invito del Tribunale dei minori di Cagliari. Avevo già preso coscienza dei limiti della carcerazione per i ragazzi dai 14 ai 18 anni e delle mancanza di alternative. Così ho fondato la mia prima comunità: un luogo dove scontare la pena e, contemporaneamente, una possibilità di riscatto e la speranza di un futuro migliore per questi ragazzi". Il passo successivo di don Cannavera è stato quello di fondare, nel 1998, una seconda comunità, La Collina, dieci ettari in territorio di Serdiana. Questa comunità è stata ideata per i giovani, dai 18 ai 25 anni, che scontano reati commessi da minorenne. Perché questa nuova avventura? "Perché mi sono accorto che molti ragazzi, dopo aver compiuto i 18 anni, rientravano in carcere perché non avevano alternative oltre a delinquere, non avevano un luogo di sostegno che li avviasse al mondo del lavoro e della scuola, secondo regole di legalità. Così ho pensato di offrire loro un’esperienza e un’occasione che non avevano mia vissuto prima. Non dimentichiamoci che oggi si matura più tardi, che l’adolescenza è un periodo più lungo rispetto al passato, ed è per questo che abbiamo portato l’età massima dei ragazzi ospitati in comunità a 25 anni". Come è strutturata La Collina? "Il punto fondamentale del nostro lavoro è quello di inserire i ragazzi in un contesto educativo centrato sulla vita in comune, sulla condivisione e il rispetto dell’altro, sull’autonomia personale ed economica, raggiungibile principalmente attraverso il lavoro. Nei nostri terreni, estesi una decina di ettari, abbiamo un vigneto e un oliveto con 1.200 piante. Noi produciamo e vendiamo olio e vino. I ragazzi vengono assunti da una cooperativa e ricevono uno stipendio di 600 euro al mese, diviso in parti uguali tra loro e la cassa comune. In carcere c’è assistenzialismo puro, qui uno mangia grazie al suo lavoro. In carcere si butta tanta roba, qui se resta qualcosa a pranzo si conserva per la cena. Sono ragazzi sani, forti e robusti. Perché assisterli quando possiamo dar loro la possibilità di lavorare e guadagnarsi da vivere? In tanti anni di lavoro sul campo che idea si è fatto della delinquenza minorile e come si potrebbe combatterla? "Un concetto che amo esprimere è che ‘deviati’ non si nasce ma si diventa. Bisogna capire quali sono i fattori di questa devianza. La risposta non è certo il carcere minorile, che non migliora ma peggiora la situazione. A quell’età non sei un delinquente ma un adolescente, delinquente lo diventerai anche grazie al carcere. Al minore bisogna fare scontare la pena in un ambito educativo, ma educare è pratica di libertà, e il carcere, proprio per come è strutturato, non è il luogo più adatto. Un ragazzino, un adolescente, non può crescere in un contesto di carcerazione ma deve crescere in un contesto di libertà controllata. In carcere, infatti, sei messo da parte, stai in cella come dentro un freezer e peggiori col tempo. Poi quando esci non hai quasi nessuna speranza di poter vivere una vita ‘normalè. E questo vale soprattutto per i minori. Non è un caso che il 70 per cento degli ex carcerati delinque di nuovo. Mentre la pena deve tendere alla rieducazione. D’altronde lo dice anche l’articolo 27 della Costituzione: "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Senza dimenticare una maggiore attenzione nei confronti dei minori e dei giovani? "Certamente. Per i minori è preferibile una struttura adeguata ma ci vogliono anni per fare maturare la società. La nostra, lo ripeto, è una società forcaiola ed emarginante. Quando un ragazzo commette un reato bisogna chiedersi di chi sono le responsabilità: non sono solo sue ma è il sistema educativo italiano che è fallimentare. Una volta che non abbiamo sviluppato bene il cammino verso la legalità in questi ragazzi, ricordiamoci che li abbiamo privati del loro fondamentale diritto all’educazione. Se poi li priviamo anche della libertà commettiamo altri danni. Ogni volta che un ragazzo commette un reato ci dobbiamo interrogare noi adulti, non sono nati così, non sono nati delinquenti, dietro ci sono responsabilità familiari, scolastiche, territoriali, della Chiesa, di tutti noi adulti. O prendiamo atto di questo oppure torniamo alle teorie del Lombroso nel suo libro "Delinquenti nati". Pisa: sopralluogo del Pd regionale al carcere Don Bosco pisatoday.it, 15 settembre 2017 "Problemi strutturali e ristrettezza di personale". A certificare ancora una volta le criticità della casa circondariale sono state la vice presidente del gruppo Pd in Regione, Monia Monni, ed i consiglieri Alessandra Nardini, Valentina Vadi e Francesco Gazzetti. Una delegazione del progetto del Pd in Regione "Il Posto delle Donne" ha fatto visita nei giorni scorsi anche alla casa circondariale ‘Don Bosco’ di Pisa. Ad incontrare il direttore Fabio Prestopino sono state la vice presidente del gruppo Pd Monia Monni, ed i consiglieri Alessandra Nardini, Valentina Vadi e Francesco Gazzetti. La delegazione ha visitato la sezione femminile, raccogliendo elementi e spunti "che saranno al centro di una serie di proposte che verranno elaborate e presentate nelle prossime settimane". "Nonostante gli sforzi e l’impegno della direzione del carcere al "Don Bosco" - fanno sapere dalla delegazione - emergono evidenti alcuni problemi strutturali che condizionano la vita quotidiana di chi vi si ritrova in stato di detenzione. Pensiamo, ad esempio, ai bagni delle celle della sezione femminile i cui servizi igienici sono praticamente a vista. A questo si aggiungono problematiche, come le ristrettezze di personale, che complicano lo svolgimento delle attività di sorveglianza. Per quanto riguarda le attività presenti all’interno della casa circondariale emerge, ad esempio, la necessità di implementare progetti di mediazione culturale che si potrebbero aggiungere ad una già rilevante ed importante serie di iniziative che dimostrano, da tempo, l’attenzione del territorio al "pianeta" carcere". Ma è la questione strutturale quella che emerge come davvero prioritaria. Un aspetto che necessita di un interesse ancora più mirato e preciso da parte dell’amministrazione penitenziaria nazionale. Da segnalare come recentemente, a seguito della protesta verificatasi proprio nel carcere di Pisa nelle ore successive al suicidio di un detenuto, sia voluto essere presente al ‘Don Bosco’ lo stesso Santi Consolo, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un segnale di attenzione che in molti sperano possa essere replicato anche in relazione alle altre necessità della casa circondariale di Pisa. "La nostra visita - concludono Monni, Nardini, Vadi e Gazzetti - aveva la finalità di proseguire le attività che rientrano nel progetto ‘Il Posto delle Donnè ma gli elementi generali, raccolti e riscontrati, entrano nel nostro bagaglio di conoscenze. Spunti che metteremo a disposizione della riflessione più complessiva del nostro gruppo consiliare. Come ‘Posto delle Donnè - concludono i componenti della delegazione - la nostra presenza nelle carceri toscane proseguirà. Il carcere, infatti, per noi rappresenta un luogo delle nostre città e dunque è, a tutti gli effetti, un "Posto delle Donne", nel quale ogni singolo investimento, anche e soprattutto nel settore della mediazione, rappresenta un investimento in sicurezza". Brindisi: oggi la "Carovana per la Giustizia" del partito radicale fa tappa in città valleditrianotizie.it, 15 settembre 2017 Oggi, venerdì 15 settembre, la "Carovana per la Giustizia" del Partito Radicale e dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che sta attraversando tutta la Puglia, dopo essere già stata in Calabria, Sicilia e Sardegna, farà tappa a Brindisi. Alle ore 10 partirà la raccolta firme nel Carcere di Via Appia sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati. Alla fine della visita, prevista per le 12.30, si terrà una conferenza stampa davanti al carcere. La delegazione della Carovana è composta dal coordinatore della Presidenza del Partito Radicale Sergio D’Elia, dall’On. Nicola Ciracì (Direzione Italia), dal Presidente della Camera Penale di Brindisi Fabio Di Bello, dal componente del direttivo della Camera Penale Antonio Morleo Tondo e dal rappresentante dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi Roberto Cavalera. Le firme saranno raccolte alla presenza dell’autenticatore Consigliere provinciale Christian Continelli. Fanno parte della delegazione anche Michele Di Donna, già assessore del Comune di Brindisi e Renato De Giorgi, Presidente Associazione Famiglie Fratelli Ristretti. A sera, la "Carovana per la Giustizia" si sposterà in Piazza Vittoria, dove alle 18.30 verrà allestita una postazione per la raccolta firme dei cittadini. L’obiettivo dell’iniziativa è duplice: da una parte, mirare a una Giustizia più equa, grazie anche a un ruolo di reale parità tra accusa e difesa; dall’altra, pretendere maggiore rispetto per i diritti dei detenuti. Torino: "Guida ai diritti", per orientarsi tra norme e pratiche penitenziarie lettera21.org, 15 settembre 2017 Lunedì 18 settembre alle ore 12.00 presso la Sala Viglione di Palazzo Lascaris, sede del Consiglio regionale del Piemonte, in via Alfieri, 15 a Torino, si terrà la conferenza stampa di presentazione del "Vademecum - Riferimenti utili per la comunità penitenziaria". Lavoro prodotto dal Comitato dei Diritti Umani e dall’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione. Il "Vademecum" nasce come strumento conoscitivo ed informativo da dare in mano ai detenuti ristretti nelle 13 carceri del Piemonte ed è un’ideale integrazione alla "Guida ai diritti - orientarsi tra norme e pratiche penitenziarie" realizzata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino. Alla presentazione sarà presente, tra gli altri, il nuovo Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta, dott. Liberato Guerriero. La presentazione vedrà la partecipazione e l’intervento del Presidente del consiglio regionale del Piemonte, Mauro Laus, della Direttrice del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, Laura Scomparin, e del Garante dei Detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano. La conferenza sarà l’occasione ufficiale per presentare la pubblicazione (prodotta dal Centro Stampa della Regione, grazie all’editing realizzata nell’ambito del progetto "Stampatingalera" dell’Associazione Sapori Reclusi presso la Casa di reclusione di Saluzzo) e per illustrare il piano di divulgazione e distribuzione alla popolazione detenuta piemontese. Civitavecchia (Rm): l’Unicef sul Veliero della Speranza con i detenuti di via Tarquinia trcgiornale.it, 15 settembre 2017 Giornata speciale, quella di ieri, alla casa di reclusione "Passerini" di Civitavecchia. Il direttore Patrizia Bravetti e l’educatrice Marianna Marinni hanno organizzato una bella cerimonia all’interno del carcere di via Tarquinia per consentire ai detenuti di consegnare alla responsabile del comitato Unicef di Civitavecchia Pina Tarantino un veliero da loro realizzato per aiutare i bambini in pericolo. "Questo - hanno spiegato alcuni detenuti - è il Veliero della Speranza, realizzato da noi con tanta passione e desideriamo donarlo al rappresentante dell’Unicef per raccogliere fondi per aiutare i bambini". Dal canto suo Pina Tarantino ha ringraziato i detenuti per il nobile gesto ed ha ricordato la drammatica situazione dei bambini migranti, vittime di sfruttamento e abusi. "Da molti anni ormai - afferma Tarantino - grazie alla sensibilità del direttore, le due realtà carcerarie di Civitavecchia, compresa la sezione femminile, collaborano con il nostro comitato Unicef di Civitavecchia. Ogni anno i detenuti realizzano anche le Pigotte per consentire all’Unicef la campagna di vaccinazione". Salerno: all’Icatt di Eboli una serata dedicata a Fabrizio De André di Pietro Pizzolla Gazzetta di Salerno, 15 settembre 2017 Una serata dedicata ai temi cari a Fabrizio De Andrè, ma soprattutto un nuovo tassello nell’opera di recupero e restituzione alla società dei detenuti dell’Icatt di Eboli. L’appuntamento è per domani sera, con un’intera giornata dedicata a temi sensibili e che riguardano la sfera umana, oltre che artistica. Prologo nel pomeriggio, con l’incontro tra Luigi Viva, giornalista e biografo ufficiale di De Andrè, con gli ospiti del carcere ebolitano; in serata, un confronto tra Viva e Andrea Manzi, prima del concerto di brani di De Andrè di Band e Ami, una formazione particolarissima che fonda le sue performances non solo sui suoni, ma soprattutto sui contenuti, con brani intervallati dalla lettura di alcuni passi delle canzoni di De André. "Il cantautore genovese ha raccontato gli ultimi, lanciando messi di speranza - ha detto la direttrice dell’istituto, Rita Romano. È questa anche la nostra mission: i detenuti sono solo ospiti qui, in vista di un lori reinserimento graduale e completo". La manifestazione ha il sostegno del Comune di Eboli, come ha sottolineato il sindaco, Massimo Cariello: "Guardiamo a questi appuntamenti con interesse, sono il senso dell’opera quotidiana di chi lavora all’Icatt e dell’impegno di gruppi ed associazioni come Band e Ami che mettono a disposizione il loro tempo per scopi sociali ed obiettivi che qualificano chi li persegue". Bologna: "Cinevasioni", ritorna il Festival del cinema in carcere fondazionedelmonte.it, 15 settembre 2017 È ai blocchi di partenza la seconda edizione di Cinevasioni, il primo festival del cinema in carcere, in programma dal 9 al 14 ottobre 2017 nella Sala Cinema della Casa Circondariale della Dozza di Bologna. Per il secondo anno consecutivo Cinevasioni porta la cultura del cinema all’interno della realtà del carcere e apre il carcere ad autori, studiosi e attori. Organizzato dall’Associazione Documentaristi Emilia - Romagna (D.E-R), in collaborazione con Direzione della Casa Circondariale Dozza di Bologna e con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con il contributo della Fondazione del Monte e il sostegno di Rai Cinema, il festival presenterà 10 opere, tra film di finzione e film documentari, che saranno accompagnate e presentate dai loro autori o da un rappresentante dell’opera (attore principale, sceneggiatore, direttore fotografia, montatore, autore colonna sonora, produttore, distributore). A giudicarle una giuria, formata dai detenuti che hanno partecipato al corso laboratorio CiakinCarcere, presieduta da una figura di spicco del cinema italiano, mentre il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani curerà le presentazioni dei film in concorso prima delle proiezioni. All’opera vincitrice sarà assegnata la "Farfalla di ferro", fabbricata nell’officina metalmeccanica F.i.d., all’interno del carcere della Dozza. Alle proiezioni del Festival, che si svolgeranno una alla mattina e una al pomeriggio, potranno partecipare sia i detenuti che il pubblico esterno. Un momento di grande apertura del carcere sul mondo del cinema, di contaminazione reciproca, in un progetto comune di elevata qualità artistica. Per ulteriori informazioni: www.cinevasioni.it. Terni: domani le fiabe dal carcere saranno presentate a "Spello Libri" ternilife.com, 15 settembre 2017 L’editoria sociale del Cesvol della provincia di Terni, grazie ai racconti dal mondo del volontariato, sarà di scena a Spello Libri, manifestazione a corredo di Umbria Libri 2017 promossa dalla Regione Umbria. Sabato 16 settembre, alle 17, nella sala Accoglienza della chiesa Santa Ventura, sarà presentato il libro "Fiabe con le ali. Dal carcere di Terni rinascere attraverso la fantasia" a cura di Francesca Rotolo e Silvia Corvino. Oltre alle autrici interverranno il presidente del Cesvol di Terni, Lorenzo Gianfelice, la coordinatrice, Silvia Camillucci, la direttrice del carcere di Terni, Chiara Pellegrini, Stefano Anastasia, Garante per i diritti dei detenuti di Lazio e Umbria e Claudia Cianca, dell’istituto Ipsia di Terni. Il libro, realizzato dal servizio di editoria sociale del Cesvol Terni, è stato realizzato dalle associazioni Ariele e Mast, che hanno vinto il bando "Invito a proporre idee e contenuti per pubblicazioni sulle tematiche sociali e di interesse per il volontariato 2016". Migranti. Ius soli: paura di impopolarità. Se la politica rischia l’harakiri di Carlo Fusi Il Dubbio, 15 settembre 2017 Ci sono situazioni in politica che assomigliano terribilmente alla patologia descritta nel dopoguerra dagli psicologi statunitensi di scuola "sistemica", quella per la quale una madre regala due camicie al figlio e quando lui ne indossa una lei lo guarda con rammarico: "L’altra non ti piaceva, vero?". È la condizione che conduce alla schizofrenia perché ogni scelta è quella sbagliata. La frustata di Graziano Delrio sulla cancellazione al Senato dello ius soli ("Una scelta dettata dalla paura") consente di cogliere appieno l’impasse nella quale è precipitato il Nazareno sulla legge per la cittadinanza: qualunque sia l’opzione, il danno politico è inevitabile. Era tutto già ampiamente noto, e per questo ancor più suscita perplessità sia la scelta dei mesi scorsi di Matteo Renzi di cavalcare la norma ("Approvarla è un dovere sacrosanto", intimò il 18 luglio scorso) per poi bruscamente frenare una volta accertata l’indisponibilità di Ap; sia la rinnovata insistenza del premier Paolo Gentiloni che assicura di volerla comunque portare in aula al Senato "in autunno", dopo la legge di Stabilità. Angelino Alfano quella legge non la vuole e Maurizio Lupi avverte che Ap la fiducia non la voterà né adesso né dopo. Se le condizioni so- no queste, non si capisce cosa possa cambiare in una manciata di settimane, soprattutto considerando che più scorrono i giorni e più ci si avvicina alle elezioni politiche: condizione che rende del tutto improbabile mutamenti di rotta su un tema così divisivo. Andare alla roulette del voto di fiducia rischiando di sfasciare quel minimo di intesa politica che si è determinata tra le componenti della maggioranza può andar bene alle opposizioni o all’Mdp; assai meno al leader pd. Come pure appare strumentale scaricare la patata bollente nelle mani dell’inquilino di palazzo Chigi, come se Gentiloni potesse procedere favorendo la spaccatura della maggior forza politica in Parlamento, che oltretutto è anche la sua. Ma c’è un elemento ancor più urticante da considerare. Le difficoltà numeriche, vere o presunte, sono nient’altro che lo schermo dietro il quale si annida un viluppo pernicioso che illumina sull’attuale condizione della politica: la consapevole scelta di non volersi alienare una fetta del consenso popolare allontanando ogni occasione di impopolarità. Questa sì che è paura: di perdere voti. Si tratta di un’opzione che rovescia il meccanismo che lega gli elettori ai loro rappresentanti. In un sistema democratico sano, infatti, a questi ultimi spetta il compito di stabilire le priorità e di sottoporle ai cittadini, puntando a convincerli della loro efficacia ai fini dell’interesse pubblico. Se il circuito si inverte e sono i rappresentanti politici a inseguire l’elettorato accarezzandolo per il pelo dei suoi umori, il sistema per forza di cose è destinato a collassare: è solo questione di tempo. È quello che ieri è accaduto al Pdl, che oggi sta accadendo al Pd e che non lascia immuni neppure i Cinquestelle. Il virus dell’evitamento a tutti i costi dell’impopolarità sta producendo lacerazioni vistose nei partiti e nel corpo sociale. Stabilire che lo ius soli è un provvedimento di civiltà e poi rinunciare a condurlo in porto nel timore che la sua approvazione porti a perdere punti percentuali di consenso equivale a rinunciare ad una fetta decisiva di autonomia e capacità d’azione. Senza contare che il ragionamento potrebbe tranquillamente essere rovesciato chiedendosi quanti punti percentuali di consenso si perdono nel proprio elettorato di riferimento se nonsi fa una legge: in questo caso, appunto, lo ius soli per il Pd e il centrosinistra. Del senno di poi, com’è noto, ce n’è in abbondanza e dunque è stucchevole sostenere che il Nazareno tutto doveva fare tranne che ritrovarsi un una simile, negativa, condizione. Come pure l’opinione pubblica di sinistra (e non solo) favorevole alla legge sulla cittadinanza merita di più di un deprimente gioco al rimpallo tra dirigenza, gruppi parlamentari ed esecutivo, tutti inseriti nel medesimo perimetro di appartenenza. Se la legge non si può fare, non c’è altra strada che assumersene pubblicamente e onestamente la responsabilità, indicando con chiarezza perché il percorso è ostruito e di chi è la colpa, se colpa c’è. E naturalmente accollandosi i prezzi politici. Se al contrario esistono spiragli, sarebbe opportuno che venissero esplorati al riparo delle enfasi sui media, rivendicando con coraggio le ragioni di una scelta forse impopolare ma comunque ritenuta giusta e meritevole di una battaglia a viso aperto. Se si è creato (ma per colpa di chi?) un circuito sbagliato tra immigrazione, sicurezza e ius soli è compito della politica, almeno di quella che crede in sè stessa, presentarsi ai cittadini e sminare il terreno. In questo caso non è affatto escluso che i voti seguano il percorso che De Gaulle indicava per l’intendenza: seguiranno. Migranti. Ius soli, Gentiloni si "impegna", ma gli alfaniani dettano legge di Andrea Colombo Il Manifesto, 15 settembre 2017 Il premier ribadisce le promesse del governo. Ap fa muro: "Senza di noi niente fiducia". Oltre a Delrio, anche i ministri Orlando e Martina insistono per l’approvazione. Paolo Gentiloni appare serafico, ma per una volta l’irritazione traspare. "Non devo ricordare quando inizia e quando finisce l’autunno: è consapevolezza acquisita. Siamo ancora in estate, l’impegno che abbiamo descritto rimane", scandisce da Corfù, dopo l’incontro con Alexis Tsipras. Si parla ovviamente di ius soli, il cui ennesimo rinvio è suonato alle orecchie di molti come de profundis. La pensano così sia l’opposizione di destra, che brinda e festeggia e canta vittoria, che quella di sinistra, che piange e accusa governo e Pd di essersi abbandonati a "una pantomima ignobile", come la definisce la capogruppo di Si De Petris. Ma la pensa così, evidentemente, anche il ministro Delrio. Altrimenti non si sarebbe allargato fino a definire il rinvio "un dietrofront che è un atto di paura grave". È a lui più che a chiunque altro che si rivolge il premier. È lui l’oggetto della sua irritazione. Pare che a Renzi l’affondo dell’amico Delrio non sia dispiaciuto affatto. A Gentiloni e a parecchi altri ministri è sembrato invece una pugnalata alle spalle, tanto che il colpevole ha dovuto giustificarsi con il proverbiale "sono stato male interpretato". Ma qualcosa nelle sue parole, quasi identiche a quelle di Si e Mdp, non deve essere andato giù neppure a Matteo Orfini, che interviene a sua volta con un chilometrico post su Fb: "Il gruppo Pd ha fatto non bene ma benissimo a rinviare la discussione. Portare lo ius soli in aula senza garanzia che il governo ponga la fiducia significa ammazzarlo. Quella scelta non è un atto di paura ma di buon senso. Ai ministri che chiedono di accelerare suggerisco di lavorare più rapidamente per sciogliere il nodo della fiducia". Si chiama scaricabarile. Infatti, subito dopo aver accollato ogni responsabilità al governo, Orfini si affretta ad assolvere da ogni addebito il suo partito: "Se questa legge esiste è grazie al Pd. Se non la abbiamo ancora portata a casa è perché Fi, Lega, grillini e un pezzo della maggioranza sono contrari". Come al solito Orfini torce i fatti a suo uso, consumo e beneficio. È vero che oggi i centristi sono pronti non solo a negare la fiducia ma anche a fare il possibile per impedire che venga posta. Lo ha confermato anche ieri Lupi: "Orfini si metta il cuore in pace. Il consiglio dei ministri è un organo collegiale e i ministri di Ap non daranno mai l’assenso alla fiducia". Non è un grande sforzo a un soffio dalla fine della legislatura. Le cose sarebbero state ben diverse se il Pd avesse portato la legge in aula per tempo, invece di far passare due anni dall’approvazione facile della Camera. Non è andata così proprio per paura: prima quella di un effetto negativo sul referendum, poi quella di una punizione degli elettori tra il primo e il secondo turno delle ultime amministrative, ora lo spettro del voto in Sicilia al quale seguirà quello più temuto di tutti: le elezioni politiche. A combinare il disastro, checché ne dica Orfini, è stato proprio il Pd, salvo poi scaricare ogni colpa sul governo, che a sua volta declama altri princìpi subordinandoli però sempre a calcoli di bottega. Che ormai la situazione sia davvero a rischio al Senato è un fatto. Sulla carta per la fiducia mancano una trentina di voti. Però Si si è impegnata a votare una fiducia "di scopo", riducendo lo scarto. Ma ci sono decine di senatori che di fatto rispondono ormai solo a se stessi, dopo aver trasmigrato da un gruppetto nato per l’occasione all’altro, e molti potrebbero essere convinti. Però non risulta che il Pd abbia davvero adoperato tutti i mezzi a propria disposizione, dopo aver illuso per anni 800mila ragazzi nati in Italia, cresciuti in Italia, ma privi dei diritti degli italiani: se a un Alfano che ha perso ogni possibilità di riparo a destra venisse chiarito che un voto contro la fiducia equivarrebbe a perdere ogni possibilità di accordo col Pd nelle prossime elezioni, si può scommettere che molti senatori di Ap scoprirebbero di avere impegni urgenti fuori dall’aula al momento del voto di fiducia. È ancora possibile, per quanto improbabile, che il Pd e il governo si decidano in extremis a fare sul serio, sfidando un’opinione pubblica drogata non solo dalla propaganda della destra xenofoba ma anche dal loro continuo rincorrere quella destra. La presidente Boldrini insiste. Delrio non è l’unico ministro a premere per la prova di forza. La pensa così Orlando e ieri si è schierato per "andare fino in fondo" anche Martina. Il capogruppo Zanda pensa di tentare l’ultima carta tra l’approvazione del Def, il 27 settembre, e l’avvio del dibattito sulla legge di bilancio, intorno al 25 ottobre. Ma che il Pd osi davvero, con le elezioni in Sicilia a un passo, è poco credibile. Se non lo farà avrà vinto definitivamente la paura. Per gli italiani senza cittadinanza sarà un disastro. Per il Pd pure. Migranti. "Più controlli ai confini". L’Ue cambia Schengen di Carlo Lania Il Manifesto, 15 settembre 2017 Come chiesto da Francia e Germania. Le modifiche, motivate con ragioni di sicurezza, pronte entro la fine del mese. L’Europa avrà anche "il vento nelle vele", come ha spiegato il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, ma intanto si prepara a chiudere ulteriormente le sue frontiere interne con buona pace di uno dei suoi principi fondativi come la libertà di circolazione. A spingere in questa direzione sono soprattutto Germania e Francia, che da mesi lavorano per arrivare a una modifica del codice Schengen che consenta di ripristinare i controlli ai confini degli Stati in maniera più semplice e, soprattutto, per un periodo più lungo rispetto agli attuali sei mesi (prorogabili fino a due anni) come previsto ora. Obiettivo che è stato raggiunto ieri a Bruxelles durante il vertice dei ministri degli Interni dell’Ue, come ha annunciato al termine del summit il commissario agli Affari interni Dimitri Avramopoulos per il quale le modifiche saranno presentate dalla Commissione entro la fine del mese. A novembre scadono definitivamente le deroghe a Schengen già concesse a Francia, Germania, Norvegia, Austria e Danimarca, cinque paesi che hanno presentato un documento comune per sostenere la richiesta di una maggiore flessibilità. Parigi aveva ripristinato i controlli ai confini dopo gli attentati del 2015, mentre la scelta delle altre quattro capitali era motivata dalla crisi dei migranti. Ora che la rotta balcanica è chiusa e che la pressione dei flussi dal Mediterraneo centrale si è ridotta notevolmente, la richiesta di mettere mano al codice viene giustificata con ragioni di sicurezza. "La questione del terrorismo in Francia è ancora acuta e dobbiamo avere i mezzi per controllare le frontiere", ha spiegato il ministro degli Interni francese Gerard Collomb chiedendo di poter effettuare i controlli per altri due anni. Più esplicito il tedesco Thomas de Maiziere: "La posizione della Germania continua a essere la stessa: fino a quando le frontiere esterne europee non saranno sufficientemente sicure, serviranno controlli alle frontiere interne", ha detto. In realtà oltre al pericolo legato al possibile ingresso di terroristi, la richiesta francese è dettata anche dalla volontà di non allentare i controlli al confine di Ventimiglia, attraverso il quale Parigi teme l’ingresso soprattutto di migranti. Pur senza citare l’Italia, infatti, parlando a luglio a Orleans il presidente Macron aveva annunciato di lavorare con la cancelliera Merkel a una modifica di Schengen anche per prevenire la possibilità "di una crisi migratoria". Ma più in generale, il giro di vite sulla libertà di circolazione segna un nuovo passo in avanti nel rafforzamento dell’asse Parigi-Berlino come guida di un’Unione europea a due velocità. Passo che è stato ulteriormente confermato ieri a Bruxelles dal modo in cui la Germania ha bocciato la proposta avanzata mercoledì da Juncker di allargare ancora l’area Schengen consentendo l’ingresso di Romania e Bulgaria. "La visione per la quale i confini esterni dell’area Schengen dovrebbero coincidere con i confini esterni dell’Ue è una visione con la quale sono d’accordo, ma c’è ancora molta strada da fare", ha tagliato corto De Maiziere. Anche in vista dell’imminente scadenza elettorale - in Germania si vota il 25 settembr - la Merkel manda quindi messaggi chiari ai partner europei su chi detterà l’agenda per i prossimi anni. A partire dai paesi dell’Est che continuano a rifiutarsi di accogliere richiedenti asilo da Italia e Grecia. Il programma di ricollocamenti scade il 26 settembre ma la Commissione Ue ha deciso di prolungarlo visti gli scarsi risultati ottenuti. Ungheria e Polonia continuano però a mantenere la posizione, nonostante la Corte di giustizia europea abbia ribadito l’obbligo di rispettare le quote. "La decisone della Corte deve essere accettata da tutti e mi aspetto che lo facciano anche Budapest e Varsavia, anche se dopo qualche mugugno", ha avvertito De Maiziere, mentre per il ministro degli Interni di Lussemburgo, Jean Asselborn, se la Polonia non accoglie profughi "non è più membro dell’Unione europea". Tunisia: "il terrorismo non si batte con la pena di morte" di Victor Castaldi Il Dubbio, 15 settembre 2017 Il Cnf alla conferenza di Tunisi per la moratoria sulle esecuzioni. "La pena di morte in tempo di guerra al terrorismo". Questo è il tema della conferenza internazionale che si terrà a Tunisi dal 19 settembre nell’ambito di un progetto sulla moratoria della pena di morte in Egitto, Somalia e Tunisia approvato dalla Commissione europea. Il Consiglio Nazionale Forense partecipa a pieno titolo al progetto in virtù del protocollo di intesa sottoscritto il 26 maggio di quest’anno, con Nessuno tocchi Caino, organizzazione capofila del progetto che avrà la durata di tre anni (2017- 2019). "L’azione si colloca in una particolare e delicata fase storica, caratterizzata dalla guerra al terrorismo spiega l’avvocato Roberto Giovene di Girasole componente della commissione rapporti internazionali e Paesi del Mediterraneo del Cnf che parteciperà alla conferenza- in cui le logiche emergenziali e securitarie rischiano di compromettere la tutela dei diritti umani e dello Stato di Diritto, con un conseguente uso arbitrario, illegale e discriminatorio della pena di morte in varie parti del mondo in violazione dei principi fondanti la comunità internazionale". Scopo del progetto è di introdurre una moratoria in questo momento storico, caratterizzato dalla guerra al terrore ed all’aumento del numero dei condannati a morte, implementando i principi non derogabili in ordine all’applicazione della pena di morte così come previsto dagli accordi internazionali e dalla risoluzione per la moratoria della pena di morte votata dall’Assemblea generale Onu, uniformandosi alle raccomandazioni in materia dell’UE e dell’Onu. Durante la conferenza, i cui lavori si terranno in arabo e francese, organizzata in partnership con l’Istituto di cultura araba della Tunisia, che è da sempre in prima fila all’interno del mondo arabo su queste problematiche, sarà presentato a cura di Elisabetta Zamparutti dell’Associazione Nessuno tocchi Caino l’intero progetto, che mira a coinvolgere gli avvocati, che rivestono un ruolo cruciale. Alla conferenza parteciperanno anche esponenti dell’Ordine nazionale degli Avvocati della Tunisia con il quale il Cnf nel 2015 ha sottoscritto un importante protocollo di intesa. Il progetto prevede tra le altre cose una formazione specifica degli avvocati dei tre Paesi coinvolti nell’azione, che difendono imputati che rischiano la pena capitale (anche se deve essere sottolineato che in Tunisia pur essendo prevista la pena di morte l’ultima esecuzione capitale risale agli inizi degli anni 80 del secolo scorso), con l’obiettivo di garantire l’accesso alla giustizia per gli abitanti in zone remote, di ridurre il numero dei condannati a morte mediante i rimedi interni o internazionali ottenendo la commutazione della pena o il perdono, di effettuare una prima selezione dei casi più rilevati da portare all’attenzione dei giudici nazionali e internazionali e di Costituire un gruppo di avvocati disposti ad operare gratuitamente per coloro che rischiano la condanna a morte. "È particolarmente significativa la presentazione del progetto in Tunisia - osserva Giovene di Girasole paese dove importante e decisivo è stato il ruolo sociale svolto dagli avvocati, vincitori del Nobel per la pace 2015 quali componenti del cosiddetto quartetto per il dialogo nazionale, per garantire la transizione democratica e l’entrata in vigore della nuova costituzione nel 2014". Libia. I migranti che ripartono da Tripoli. E quelli che spariscono di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 15 settembre 2017 Tra i giovani africani rilasciati dai centri di detenzione e rimpatriati con gli aerei. Al capolinea di un lungo calvario. Eccoli qui quelli che sono finalmente riusciti a prendere il volo gratuito per tornare alle loro case in Africa. Per una volta puliti, con le magliette colorate, i pantaloni e le scarpe nuovi donati loro ieri sera alla vigilia della partenza. Qualcuno ha una vecchia borsa a tracolla, uno zainetto sgualcito, o un sacchetto di plastica con qualche vestito, ma la maggioranza non porta alcun bagaglio. "Erano settimane che i guardiani libici non mi lasciavano fare una doccia. Non posso comunicare con l’esterno. La mia famiglia non sa neppure che sto tornando. Non li vedo da quattro anni", dice tra loro Ibrahim Latifo, 24 anni, di cui gli ultimi quattro in Libia come operaio edile. Due volte ha provato a prendere i gommoni per l’Italia, a oltre 800 dollari per viaggio: i risparmi di mesi e mesi di lavoro buttati via nel primo tentativo a causa di un guasto al motore e il secondo fallito per il mare grosso e perché "ci siamo presi paura e siamo tornati alla spiaggia". Lui è uno dei 52 giovani del Niger che la Iom (International Organization for Migration, dipendente dalle Nazioni Unite) è riuscita a coordinare nel centro di detenzione libico di Triqsiqqa ed unire ad altri circa 150 raccolti individualmente nelle vie della capitale. Non un lavoro facile. Molti sono irraggiungibili, chiusi nelle carceri delle milizie che li usano come merce di scambio, o tenuti schiavi per le campagne in qualche azienda agricola, oppure in uno scantinato in attesa dei riscatti pagati dalle famiglie d’origine. Questi partono in aereo per il Niger, finalmente con il lasciapassare fornito dalla loro ambasciata a Tripoli. Domani ci sarà un charter da 180 posti per il Sudan e il giorno dopo per il Burkina Faso. Per qualcuno l’intero processo burocratico ha impiegato anche quattro mesi. In media tre ore di volo per un viaggio in senso inverso a quello di arrivo, che invece era durato mesi e mesi di sofferenze, l’incertezza di chi emigra da illegale con pochi soldi in tasca, alla mercé di bande criminali che appena li fermano si prendono denaro, cellulare e passaporto da rivendere sul mercato nero. La novità per tutti è però giunta negli ultimi due mesi. Prima infatti era chiaro che tante sofferenze potevano essere sopportate con la speranza di raggiungere le coste italiane e quindi trovare lavoro in Europa. Ma adesso la rotta è chiusa. Per mare non si passa quasi più, i piani del governo italiano stanno funzionando. Con una conseguenza fondamentale: non solo il popolo dei gommoni è ridotto al lumicino, ma soprattutto sono diminuiti enormemente gli arrivi dal deserto verso la Libia. Il punto diventa allora capire in che modo rimpatriare i migranti che intendono farlo. Come riportarli ai loro Paesi? Il rischio è che possa rinascere un nuovo racket: quello dei ritorni clandestini, alimentato dalle stesse bande che prima favorivano gli arrivi in Libia. Quanti sono dunque quelli che potenzialmente potrebbero essere rimpatriati? Non esistono numeri ufficiali. La stima che abbiamo potuto faticosamente raggiungere attraverso lunghe conversazioni informali con i dirigenti Iom qui e all’estero, oltre che con i funzionari delle altre agenzie di aiuto Onu e i dirigenti del ministero degli Interni libico, sfiora i 350 mila. È infatti valutato che al momento siano ben oltre 700 mila i lavoratori africani in Libia, di questi almeno la metà fa parte della comunità storica che da sempre risiede nel Paese (ai tempi di Gheddafi superavano abbondantemente il milione e mezzo) e non ha intenzione di imbarcarsi per l’Europa. Un recente documento Iom rivela che al 31 agosto 7.084 migranti volontari sono stati rimpatriati nel 2017 grazie alla collaborazione delle loro rappresentanze diplomatiche, con in testa quelle a Tripoli (tra cui Nigeria, Niger, Gambia, Mali, Burkina Faso, Ghana). Più difficile, ma non impossibile, è il rimpatrio dei cittadini di Paesi che non hanno qui una rappresentanza, quali per esempio la Costa d’Avorio, il Senegal, il Cameroon, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. "Ormai possiamo trattare via Skype con i ministri degli Esteri di qualsiasi Paese", dicono rassicuranti i funzionari Iom a Tripoli. Il loro lavoro si sta facendo più febbrile. "Sino a qualche mese fa organizzavamo a malapena due o tre voli al mese. Adesso stiamo arrivando a tre o quattro per settimana. Se procede così, entro la fine dell’anno potremmo giungere a 15 mila rimpatri. E nel 2018 aumentarli di molto. Ma il problema non sta nel preparare i voli, quanto nelle procedure burocratiche per stabilire l’identità dei migranti che garantisce il documento di viaggio", aggiunge uno di loro all’aeroporto di Tripoli, il 30enne Juma Ben Hassan. A conferma delle sue parole sta il calvario di 33 marocchini da noi incontrati ieri nella capitale. Dopo essere stati fermati in mare la notte del 29 agosto dai guardacoste libici al largo di Sabratha e aver subito rapine e pestaggi dalle milizie locali, adesso per ammissione degli stessi funzionari libici dovranno penare "almeno un mese e mezzo dietro le sbarre", prima di poter tornare in Marocco. È soprattutto la natura anarchica, tribale e violenta del panorama politico libico a complicare le operazioni. I funzionari Iom, tra loro il dirigente per l’Europa Eugenio Ambrosi, mettono l’accento sul problema degli "scomparsi": "Sappiamo che negli ultimi tre mesi, sino al 6 settembre, i guardacoste libici aiutati dal governo italiano hanno recuperato in mare circa 14 mila migranti che cercavano di arrivare alle coste italiane. Ma nei centri di detenzione libici abbiamo registrato solo la metà di quel numero. Dove sono finiti gli altri 7 mila?". Un altro problema sta nelle tensioni tra autorità libiche e organizzazioni internazionali. "Noi vorremmo che tutti i migranti rimpatriati venissero rilasciati dai nostri centri di detenzione. Tocca a noi censirli. Ma la Iom fa di testa sua e viola la sovranità libica. Una strategia che si presta a corruzione e illegalità. Che esista già un racket dei posti sui voli?", protesta Abdul Nasser Azzam, direttore del centro di Triqsiqqa. La stessa Iom ammette che almeno il 65% dei rimpatriati non passa dai centri libici, ma esclude qualsiasi racket. Egitto. Scorpion, il terribile carcere dove è detenuto il legale egiziano dei Regeni tpi.it, 15 settembre 2017 All’interno del carcere di Tora, a sud del Cairo, si trova l’ala di massima sicurezza Scorpion, considerata tra le peggiori prigioni d’Egitto. "È rivolta ai prigionieri politici. La prigione è stata progettata in modo che chi vi entra non possa che uscirne morto", precisava* Magdy Abdel el-Ghaffar - guardia carceraria di Tora e omonimo dell’attuale ministro dell’Interno egiziano - in un’intervista televisiva del 2012, quando l’Egitto era in mano al Consiglio supremo delle forze armate. Il complesso carcerario di Tora è considerato uno dei peggiori d’Egitto, ed è situato nell’omonima città (nota anche come Tura) a sud del Cairo. L’istituto comprende quattro prigioni, un ospedale militare e un carcere di massima sicurezza noto come Scorpion. Da diverse organizzazioni umanitarie, giornalisti e attivisti, Tora, e precisamente l’ala Scorpion, è considerata una tomba. È lì che vengono imprigionati attivisti, giornalisti, intellettuali, oppositori del regime egiziano. Proprio nella sezione di massima sicurezza Scorpion è detenuto Ibrahim Metwally, avvocato del team legale della famiglia Regeni al Cairo, di cui si erano perse le tracce domenica 10 settembre e che ora è invece accusato di aver fondato un’organizzazione creata illegalmente, di diffondere false notizie, di comunicare con entità straniere al fine di pregiudicare la sicurezza nazionale. L’avvocato resterà in prigione per 15 giorni, in attesa che si compiano le indagini. Nella prigione di Tora lavorano gli uomini mukhabarat della Qata`al-Amn al-Watani, ossia i militari e i poliziotti dell’agenzia di intelligence egiziana, e che rispondono direttamente ad Abdel el-Ghaffar, considerato uno degli uomini chiave coinvolti nella misteriosa morte di Giulio Regeni. Nel 2015 Magdy Abdel el-Ghaffar è stato nominato ministro dell’Interno nel 2015. In precedenza, el-Ghaffar era stato reclutato nei servizi segreti egiziani noti per i loro metodi repressivi e brutali. Proprio alla sua nomina come ministro dell’Interno, l’ong Amnesty International ricollega l’aumento sensibile del numero delle sparizione avvenute in Egitto negli ultimi anni. "Le sparizioni forzate sono diventate uno dei principali strumenti dello stato di polizia in Egitto. Chiunque osi prendere la parola è a rischio. Il contrasto al terrorismo è usato come giustificazione per rapire, interrogare e torturare coloro che intendono sfidare le autorità", ha detto lo scorso anno Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Tra il 2013 e il 2014 le autorità egiziane hanno arrestato o accusato almeno 41mila persone. Altre 26mila sono state fermate dall’inizio del 2015. Un dossier di 80 pagine redatto nel 2016 dalla ong Human Rights Watch racconta i trattamenti inumani riservati ai detenuti di Tora che vivono in spazi angusti senza letto né materasso, con privazioni di cibo e medicine. Le informazioni raccolte sono basate su interviste realizzate a 20 parenti di detenuti, due avvocati, due ex prigionieri, e sull’analisi di immagini, referti medici e documenti che testimoniano le condizioni terribili all’interno della struttura, che in alcuni casi hanno portato perfino alla morte dei prigionieri. Ai prigionieri vengono inflitti vari tipi di torture e maltrattamenti basati su pestaggi e abusi anche sessuali, senza che alcun legale o familiare possa incontrare i detenuti, definiti "sepolti vivi". Scorpion è la sezione più dura del carcere di Tora. La sua storia è legata al progetto repressivo attuato da Mubarak dopo l’assassinio di Anwar al-Sadat, ex primo ministro dell’Egitto, per stroncare l’azione antigovernativa del gruppo islamista al-Gama`a al-Islamiyya. Il settore speciale, già attivo nel 1973, venne ampliato. Oggi conta 320 celle e un migliaio di detenuti. Il rapporto di Human Rights Watch conferma la morte di almeno sei carcerati segregati in quella sezione, da maggio a dicembre 2015. Due di loro avevano il cancro, uno il diabete: a tutti è stato negato accesso alle cure mediche necessarie per la loro sopravvivenza, così come l’assistenza di un dottore. Secondo quanto raccolto dall’ong, le condizioni dello Scorpion sarebbero drasticamente peggiorate nel marzo 2015 con l’entrata in carica di Magdy Abd al-Ghaffar. Da allora, la prigione è stata praticamente isolata dal mondo esterno, causando il conseguente rapido declino delle condizioni e dei diritti dei suoi occupanti. Il divieto alle visite dei familiari ha lo scopo di celare le condizioni generali dei detenuti, che di fronte a cibo scarso o immangiabile deperiscono, s’ammalano, muoiono. "La prigione Scorpion si colloca al termine del percorso repressivo di Stato, che lascia gli avversari politici senza voce né speranza. Il suo scopo sembra esser quello d’un luogo dove gettare chi critica il governo e dimenticarlo", si legge nel rapporto. "Questo rapporto rivela le scioccanti e spietate tattiche cui le autorità egiziane ricorrono nel tentativo di terrorizzare e ridurre al silenzio manifestanti e dissidenti, ma anche la collusione tra i servizi di sicurezza e il potere giudiziario, che hanno coperto gli autori delle violazioni dei diritti umani o si sono rifiutati di investigare, diventando così complici dei soprusi", sostiene Amnesty.