Italia condannata speciale. Prontuario di notizie dimenticate di Valter Vecellio L’Indro, 14 settembre 2017 Diminuiscono i furti e le rapine ma cresce la percezione della paura. L’8% dichiara di avere acquistato una pistola o un fucile per difendersi. Ecco le loro voci: ci proteggiamo. I numeri, le statistiche non vanno a braccetto con la sensazione di insicurezza degli italiani. In Italia ci sono circa 1 milione 300 mila licenze di porto d’armi. Solo l’8% degli italiani, secondo Eurobarometro, dice di aver preso una pistola o un fucile per difesa personale. Ma il dato è sottostimato. Il 23% dei connazionali si dichiara appassionato di tiro al volo. I permessi sportivi, più facili da ottenere, rischiano così di diventare un escamotage. Anche perché in Italia, a fronte di poco meno di 1 milione e 300 mila licenze, ci sarebbero (secondo Eurispes) quasi 10 milioni di armi detenute legalmente da circa quattro milioni di famiglie. Seconda notizia. Processi troppo lunghi, troppa custodia cautelare, troppe celle disponibili solo in teoria, troppo basso il ricorso alle misure alternative che abbattono la recidiva. In alcuni penitenziari siamo di nuovo sotto la soglia minima dei 3 metri quadri per detenuto: alcuni carceri hanno quasi il doppio dei detenuti rispetto ai posti. Tra l’8 aprile e il 21 aprile 2016 in varie carceri (Como, Genova marassi, Ivrea, Torino, Ascoli, Sassari) i rappresentanti del Comitato per la prevenzione e la tortura, dipendente dal Consiglio d’Europa ha effettuato alcune ispezioni e ricognizioni. Nel rapporto su quelle visite, affermano che "la riforma senza precedenti del sistema penitenziario attuata dalle autorità italiane che ha portato a un calo di 11.000 persone nella popolazione carceraria ed un aumento di 2500 posti disponibili nel triennio 2013-2015". Ancora: "Le persone sotto custodia della polizia non sempre beneficiano delle garanzie loro concesse dalla legge". Sono comunque "insufficienti le condizioni delle camere di sicurezza di alcune stazioni della Polizia di Stato e dei Carabinieri". Si ricorda di aver "effettuato un’osservazione immediata sulle persistenti misere condizioni di detenzione" riscontrate "ancora una volta durante la visita alla Questura di Firenze". Il Consiglio d’Europa punta il dito contro il sovraffollamento delle carceri italiane che "non è stato risolto perché molti istituti di pena operano ancora al di sopra della loro capacità", malgrado le misure prese dopo la cosiddetta "sentenza Torreggiani" con la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva nel 2013 condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti. L’associazione Antigone ricorda: "Ad agosto il numero di detenuti ha superato nuovamente le 57.000 unità e attualmente il 16% della popolazione vive in meno di 4 mq, non lontano dal parametro minimo che è fissato a 3 mq. Proprio su questo parametro il Cpt critica l’Italia, rea di utilizzare lo stesso come elemento centrale delle proprie politiche, quando è nettamente al di sotto degli standard che lo stesso Comitato indica". Si denunciano, inoltre, numerosi casi di maltrattamenti. Il Comitato ha espresso preoccupazione "per le accuse di maltrattamenti fisici inflitti a persone private della libertà dalle forze dell’ordine o detenute in carcere". Nel testo si specifica che "le persone in custodia non sempre godono delle garanzie previste dalla legge". Le autorità italiane sono dunque state invitate a fare "una comunicazione formale alle forze dell’ordine, ricordando loro che i diritti delle persone in loro custodia devono essere rispettati e che il maltrattamento di tali persone sarà perseguito e sanzionato di conseguenza". Il rapporto cita come casi di maltrattamenti rilevati "pugni, calci e colpi con manganelli al momento del fermo (e dopo che la persona era stata messa sotto controllo) e, in alcune occasioni, durante la custodia". Il governo italiano ha già risposto al Consiglio d’Europa elencando le riforme degli ultimi due anni nell’ambito del sistema giudiziario e per migliorare la condizione dei detenuti. Ma quello che il Cpt chiede alle autorità italiane, al più alto livello politico, è "un messaggio chiaro ai funzionari di polizia" per contrastare la pretesa di impunibilità e ricordare loro che "tutte le forme di maltrattamento fisico sono inaccettabili e saranno perseguite e sanzionate di conseguenza". Terza notizia. Dopo Calabria, Sicilia e Sardegna, dal 11 al 19 settembre il Partito Radicale e l’Unione delle Camere Penali Italiane organizzano infatti una Carovana per la Giustizia che attraverserà tutta la Puglia. "La Carovana", ha spiegato Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, "farà la prima tappa a Foggia l’11 settembre, con visita nel carcere foggiano; proseguirà poi in tutte le province pugliesi, con ingressi in tutti gli altri istituti di pena della regione: San Severo, Lucera, Trani, Turi, Bari, Brindisi, Taranto, Lecce". Gli obiettivi della Carovana sono: raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, arrivata già a oltre 63000 sottoscrizioni; amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta; superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo; approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario; 3.000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella. Nel corso della conferenza stampa di presentazione della nuova iniziativa radicale, Rita Bernardini ha dato una notizia: nel carcere Gazzi di Messina una bambina nigeriana di tre anni che con la madre e il fratellino con cui condivide la detenzione ha ingerito un potente veleno per topi che le ha provocato emorragie e ora lotta per non morire in ospedale. A ciò si aggiunge l’aumento dei suicidi in carcere: quest’anno siamo già a 41. Bernardini ricorda che "gli 8.000 detenuti che in tutta Italia hanno deciso di aderire al nostro grande Satyagraha, una iniziativa nonviolenta che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello, finalizzata nel richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario". Tutto questo nel quasi totale silenzio dei mezzi di informazione che "presi da altro, ignorano la tematica della giustizia, soprattutto ciò che accade nel suo ultimo anello, ossia le carceri". Quarta notizia. È relativa a un film, si chiama "Dove cadono le ombre", è la storia del "piccolo genocidio" dei Jenisch In Svizzera negli anni che vanno dal 1926 al 1986, quando un’associazione filantropica sottrae oltre 2mila bambini alle famiglie Jenisch, terza etnia nomade europea, per estirpare il fenomeno del nomadismo. Il film racconta degli esperimenti scientifici e le pratiche mediche che vengono condotti sui bambini. I Sindacati di Polizia penitenziaria incontrano Orlando, ma confermano manifestazione jobsnews.it, 14 settembre 2017 I sindacati della Polizia penitenziaria incontrano il ministro Orlando ma, al termine della riunione, confermano la mobilitazione in programma martedì 19 settembre a Roma in piazza Montecitorio a partire dalle ore 9. "Meno parole e più fatti a sostegno della Polizia Penitenziaria", con questa rivendicazione i sindacati Sappe, Osapp, Uilpa, Sinappe, Fns Cisl, Uspp, Fsa-Cnpp e Fp Cgil promuovono, infatti, un sit in in occasione della ricorrenza del bicentenario del corpo. Al centro della rivendicazione dei sindacati la richiesta di: "Più sicurezza e adeguati strumenti per garantire l’incolumità dei poliziotti penitenziari, dato l’aumento di aggressioni, colluttazioni e ferimenti tra le sbarre; un adeguato piano di nuove assunzioni di Agenti di Polizia Penitenziaria (sono 8.000 le unità necessarie al Corpo); un adeguamento delle risorse per il rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da quasi 10 anni; il ripristino di corrette relazioni sindacali in sede centrale (Dap) e presso gli Istituti e servizi penitenziari del Paese; una rimodulazione del provvedimento di ‘riordino della carrierè". Temi posti al centro della riunione di oggi col ministro della Giustizia, Andrea Orlando, "ma che ha registrato esiti negativi". Da qui la conferma delle ragioni alla base della manifestazione di martedì 19 settembre che non avrà più corteo perché non autorizzato. Appuntamento quindi alle ore 9 in piazza Montecitorio davanti alla Camera dei Deputati dietro le parole d’ordine "Meno parole e più fatti per la Polizia Penitenziaria". La strategia che alimenta l’insicurezza, così la destra prova ancora a vincere di Concetto Vecchio La Repubblica, 14 settembre 2017 Alla vigilia di elezioni, come nel 1999 e nel 2007, le campagne di Berlusconi e Lega cavalcano il fenomeno migranti per far crescere i timori degli italiani. "Milioni di persone hanno le palle piene!" tuonò contro l’insicurezza Umberto Bossi a Treviso. Era l’8 settembre 2007, lo applaudirono in migliaia. "La sinistra vuole gli immigrati per avere il loro voto", sibilò nel microfono. La destra soffiava sul fuoco delle paure: una tecnica deliberata. Eppure in quei mesi era uscita una statistica del Viminale che dava in netto calo gli omicidi in Italia: 621, poco più del minimo storico del 2005, 601; uno su tre era stato commesso da uno straniero. C’era poi un altro dato, dell’Istat: solo il 10% degli stupri era da attribuire a cittadini stranieri. Lo ha ricordato ieri Ilvo Diamanti su Repubblica: solo in due casi l’indice di insicurezza suscitato dagli immigrati, (oggi il 46% dei cittadini si sente in pericolo), è stato più alto di adesso: nell’autunno del 2007 e nel 1999. Guarda caso erano due vigilie di elezioni. Mentre la Lega ringhiava, il governo Prodi era appeso a un filo. Tutta la destra si aggregò allora al concerto della paura. Gianfranco Fini, il presidente di An, suonò la fanfara contro l’indulto voluto dal ministro Mastella un anno prima: "Mai più una legge così!". Eppure dei 26 mila scarcerati era tornato in cella il 17 per cento, un dato giudicato basso dagli esperti, se paragonato al 68% di coloro che scarcerati per avere saldato il debito con la giustizia finivano di nuovo in galera. "Va introdotto il reato di ingresso clandestino", propose Fini. Secondo una ricerca del centro studi americano Pew Research Center, gli italiani erano in Europa i più scontenti delle politiche migratorie: l’87% per cento reclamava maggiori restrizioni alle frontiere. Il Polo delle Libertà cavalcò questo umore. E il centrosinistra? Il sindaco di Firenze Leonardo Domenici emise un’ordinanza contro i lavavetri. Quello di Padova Flavio Zanonato propose 500 euro di multa alle lucciole che si prostituivano per strada. Ma passavano per sceriffi, specie il secondo. "Non possiamo limitarci a togliere dalla nostra vista prostitute, lavavetri, ambulanti" disse il ministro della Famiglia Rosy Bindi, dando corpo a un umore prevalente. La percezione d’insicurezza era più pronunciata al Nord; a Roma non pareva ancora un’emergenza. Poi, il 30 ottobre 2007, nei pressi della stazione di Tor di Quinto, periferia nord della città, un rumeno che dimorava in una baraccapoli - Nicolae Mailat, 24 anni - violentò e uccise una donna, Giovanna Reggiani, 47 anni, che stava rientrando a casa dopo essere scesa dal treno: il delitto sconvolse la Capitale. "Il sindaco Veltroni ha sempre detto che la città era sicura e ha trattato con disprezzo chi lo metteva in dubbio", saltò su Gianni Alemanno. Il moderato Casini se la prese con il buonismo di certa chiesa. Berlusconi, che nel 2003 si era inventato per amor di propaganda il poliziotto di quartiere, ci si buttò a capofitto. Quattro mesi dopo Alemanno si ritrovò incredibilmente in Campidoglio. Berlusconi spodestò Prodi a palazzo Chigi. Nessuno parlò più d’insicurezza a Roma. Nel 1999 non era andata poi diversamente. Non c’era nemmeno l’euro, ma la questione immigrazione infiammava la pancia della destra. Il premier Massimo D’Alema disse alla radio: "Il nostro è un paese ricco che ha la possibilità di accogliere un flusso ragionevole di immigrati", mentre il centrodestra scendeva in piazza a Milano per "la manifestazione silenziosa contro la criminalità". Più o meno in quei giorni la metà dei commercianti di Torino rivelò che il vero problema della città erano gli immigrati: più grave rispetto alla microcriminalità e alla diffusione della droga. Alle Europee vinse Forza Italia. I Ds di D’Alema arretrarono. Giorgio Guazzaloca portò per la prima volta gli anticomunisti al potere nella rossa Bologna. E nel 2017 i populisti ci riprovano. Riforma del Codice antimafia in bilico, pressing Csm: "Subito il sì" di Liana Milella La Repubblica, 14 settembre 2017 "Non perdere l’occasione di approvare subito il nuovo codice Antimafia". Una riforma "apprezzabile", secondo tutti i consiglieri togati e laici del Csm, che non può rischiare di rimanere vittima della fine di questa legislatura. E dalla Camera, dove il testo del Codice andrà in aula il 25 settembre, la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti legge la notizia e si lascia sfuggire le sue preoccupazioni: "Questa è una riforma che non si può perdere. La maggioranza deve essere compatta nel licenziarla definitivamente. Piccoli ritocchi, se necessari, si possono fare in seguito. Ma se la legge dovesse essere cambiata di nuovo alla Camera e dovesse ritornare al Senato sarebbe morta". Da palazzo dei Marescialli, con una corposa risoluzione di oltre 40 pagine, è arrivato ieri un netto invito al Parlamento a licenziare definitivamente una legge che, scrive il Csm, "affronta e risolve le numerose criticità nella gestione ed amministrazione dei beni confiscati, nel solco delle migliori elaborazioni in materia e delle sollecitazioni provenienti anche dalla magistratura specializzata". Proprio così. Il Csm, quasi sempre critico verso le scelte legislative, questa volta sponsorizza una delle leggi - il nuovo codice Antimafia - che Repubblica ha inserito tra quelle da salvare. Un testo che la risoluzione scritta dai relatori Antonello Ardituro, Ercole Aprile e Luca Forteleoni, e ieri approvata in plenum, giudica "positivamente", al punto da compiere un ampia ricognizione negli uffici per capire come il nuovo sistema delle misure di prevenzione - confische allargate, nuova Agenzia dei beni confiscati, tribunali e giudici specializzati, rigidi criteri di rotazione per gli amministratori delle aziende sottratte alla mafia - possa effettivamente funzionare. Il vice presidente Giovanni Legnini parla di "un lavoro straordinario del Csm" e l’ex pm di Napoli Ardituro annuncia che il Consiglio "lavorerà al fianco del ministero dell’Interno e dell’Agenzia per i beni confiscati elaborando linee guida per gli uffici". Dal Csm, invece, neppure una parola sulla corruzione e sulla possibilità di applicare, anche a questi reati, le misure di prevenzione, a patto che sussista il vincolo associativo. Poche righe, proprio all’inizio di una legge di ben 37 articoli, che hanno scatenato la bagarre al Senato, dove la legge ha rischiato di arenarsi. Gianni Letta in persona ha chiesto al capogruppo Pd Luigi Zanda di attenuare il testo che, nella versione della Camera, non conteneva il riferimento all’associazione. E adesso? Dice, appunto, Ferranti: "Le scadenze decisive sono prossime. Gli emendamenti in commissione scadono il 18 settembre e il 25 si va in aula. Io, francamente, non me la sento di rimettere in discussione un testo che il Senato, dopo ampie audizioni, ha corretto e approfondito. Questa è una legge che ha visto la sinergia di due ministri come Orlando e Minniti, il vaglio della commissione Antimafia, gli input del procuratore nazionale Antimafia. Dopo il via libera del Senato (il 7 luglio, ndr.) modificare qualcosa sarebbe come voler dire "questa legge non si deve fare". E sarebbe davvero un errore". Quanto alla corruzione, il punto che inquieta Forza Italia e Ap, Ferranti minimizza. "Non è affatto una novità. È stata enfatizzata. Perché già adesso un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione può portare a misure di prevenzione". Intercettazioni: i dubbi sul ruolo della polizia giudiziaria di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 settembre 2017 La discussione sulla proposta del guardasigilli. Fra i punti più contestati, la parte in cui si vieta la "riproduzione integrale nella richiesta delle comunicazioni e conversazioni intercettate". Si infiamma il dibattito intorno alla riforma delle intercettazioni elaborata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Fra i punti più contestati, la parte in cui viene fatto "divieto di riproduzione integrale nella richiesta (del pubblico ministero, ndr) delle comunicazioni e conversazioni intercettate" essendo consentito soltanto il richiamo al loro contenuto. Divieto che vale anche per le ordinanze del gip e per quelle del tribunale del riesame. Per le comunicazioni o conversazioni i cui contenuti non hanno rilevanza ai fini delle indagini, nonché di quelle riguardanti dati personali definiti sensibili dalla legge, divieto sia di trascrizione integrale che di riassunto, tranne il caso in cui "il pm ne valuti la rilevanza per i fatti oggetto di prova". Un svolta, dunque. Nelle intenzioni dell’Esecutivo, quella di riportate le intercettazioni ad essere un mezzo di ricerca della prova e non prova come avviene adesso, evitando la gogna mediatica che accompagna la fase delle indagini preliminari, dove anche conversazioni insignificanti finiscono in pasto all’opinione pubblica. Per Orlando, infatti, "la funzione delle intercettazioni non e quella di far scrivere delle cose ma è quella di accertare la verità processuale. In quest’ottica il tentativo di ridurre la mole delle intercettazioni non conferenti che spesso vengono messe all’interno dei fascicoli. Ci sono migliaia di cittadini che vengono inopinatamente chiamati in causa per il loro orientamento sessuale, relazioni o abitudini, cose che in un processo non dovrebbero avere rilevanza perché il processo non serve per dare attestati di moralità ai cittadini, serve per accertare se c’è stato o non c’è stato un reato", ha aggiunto il ministro della Giustizia. Di diverso avviso la Fnsi che ieri, in una nota, ha espresso "contrarietà alla limitazione del diritto di informare che si vuole introdurre attraverso il divieto di trascrizione integrale delle intercettazioni negli atti giudiziari. Le modalità di pubblicazione delle intercettazioni le decide il giornalista, visto che l’eventuale obbligo di pubblicare soltanto riassunti è in contrasto con l’indirizzo della Cedu", ha dichiarato il segretario della Fnsi Lorusso. "Il cronista - ha aggiunto ha l’obbligo di informare l’opinione pubblica non soltanto su questioni che hanno rilevanza penale, ma su tutto ciò che costituisce un interesse generale per la collettività: quando c’è un interesse per i cittadini non c’è segreto che tenga". Sul punto è intervenuto anche il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte secondo cui "pubblicare le intercettazioni in forma di riassunto sarebbe più dannoso che utile". Per Albamonte, "l’Anm è favorevole a non inserire negli atti e a non divulgare informazioni sulla vita privata che non sono rilevanti per le indagini. Le norme sul riassunto - ha pero sottolineato si riferiscono non ai colloqui coperti dalla privacy, ma a tutti quelli che dovranno essere utilizzati in quanto rilevanti ai fini della prova, con il pericolo che si aprirebbe un contenzioso infinito sulla correttezza del lavoro di sintesi fatto dal pm prima e dal giudice poi". A luglio il Csm era intervenuto con un monitoraggio delle buone prassi sulle intercettazioni telefoniche. Molte procure, infatti, hanno già emanato provvedimenti organizzativi generali per impedire l’indebita diffusione di dati personali non rilevanti, acquisiti nel corso delle operazioni di intercettazione. La discussione, però, rischia di tener fuori chi materialmente esegue le intercettazioni: la polizia giudiziaria. Come disse il procuratore di Milano Francesco Greco, "la mia preoccupazione principale è che il pm non conosca tutte le intercettazioni che fa", fidandosi tout- court dell’operato della polizia giudiziaria. Dopo la gestione Scafarto dell’indagine Consip, una riflessione sul punto sarebbe quanto mai auspicabile. Eugenio Albamonte: "Intercettazioni, no ai riassunti, sono più dannosi che utili" di Liana Milella La Repubblica, 14 settembre 2017 Il presidente dell’Anm dopo l’incontro con il ministro Orlando: "Contro la corruzione servono i Trojan Horse. Sulle trascrizioni delle telefonate serve il controllo dei magistrati ". Il riassunto delle intercettazioni? "Più dannoso che utile". Ma chi può aver suggerito una simile ipotesi? "Se n’è parlato nel mondo della politica". Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte esce da via Arenula e dopo l’incontro sulle intercettazioni con il Guardasigilli Andrea Orlando dice a Repubblica: "Siamo contrari a negare l’uso dei Trojan Horse contro la corruzione". Sabato prossimo il "parlamentino" dell’Anm discuterà il caso. Presidente, ma ha sentito che Mastella è stato assolto in primo grado dopo 9 anni? Possibile? Siamo messi male coi tempi della giustizia... "Non voglio affatto sottrarmi, ma per rispondere adeguatamente dovrei conoscere nel dettaglio la storia del processo, che invece non conosco". Intercettazioni per riassunto nei provvedimenti dei magistrati. È realistico? "La delega è concentrata su un tema specifico, quello della tutela della privacy dei soggetti intercettati. Il che vuol dire che se nelle registrazioni si acquisiscono informazioni sulla vita privata che non sono rilevanti per le indagini queste non devono essere inserite negli atti e quindi divulgate. Un principio condiviso dall’Anm che più volte ha ribadito la necessità di queste tutele". Se l’ambito della delega è circoscritto, il governo allora non può legiferare su tutte le intercettazioni? "Le norme sul riassunto si riferiscono non ai colloqui coperti dalla privacy, ma a tutti quelli che dovranno essere utilizzati in quanto rilevanti ai fini della prova. Rispetto ai quali imporre un lavoro di sintesi ad opera del pm prima e dei vari giudici poi risulta più dannoso che utile". Perché? "Si aprirebbe un contenzioso infinito sulla correttezza del lavoro di sintesi fatto dal pm prima e dal giudice poi. E questo creerebbe alla lunga una grande confusione che potrebbe rischiare di mettere in crisi l’attendibilità stessa delle decisioni giudiziarie, peraltro in una materia sensibile come quella cautelare". Il riassunto non sarebbe inutile e contraddittorio anche alla luce dell’inevitabile deposito delle intercettazioni per i difensori solo pochi giorni dopo una misura cautelare? "Certo che sì, perché appunto stiamo parlando di intercettazioni che anche con la nuova legge devono essere depositate. E una volta messe a disposizione della difesa è scontato che esse possano anche diventare oggetto di articoli di stampa con la conseguenza singolare, nel caso del riassunto, che sui giornali potrebbero essere pubblicati i testi integrali, mentre i magistrati sarebbero gli unici a non poterlo fare". Su questa ipotesi - anticipata da "Repubblica" - il ministero insiste? "Allo stato ho percepito una concreta disponibilità a prendere in considerazione le osservazioni critiche che sono pervenute anche dall’avvocatura, preoccupata che sia menomato il diritto di difesa". Ma lei ha capito chi preme per una soluzione così tranchant che ha scatenato le critiche della Fnsi? "Ovviamente non conosco i dettagli, ma ricordo bene che questo argomento è stato oggetto di un ampio e recente dibattito pubblico in cui questa soluzione veniva proposta dal mondo della politica". Come se lo spiega? "Le intercettazioni riproducono frasi che lo stesso indagato ha pronunciato e che spesso sono univocamente indicative della sua responsabilità, anche agli occhi dell’opinione pubblica una volta finite sui giornali. Sostituire alle frase un riassunto fatto dal giudice consente comunque di difendersi ipotizzando un’interpretazione maliziosa o peggio ancora persecutoria, che inevitabilmente ridurrebbe l’affidabilità della decisione del giudice rispetto a chi legge". Procuratori e ministro insistono sulla necessità di non sbobinare neppure le telefonate private o che non servono ai fini della prova: ma siamo sicuri che questo, diritto di cronaca a parte, non privi il processo di documenti rilevanti? "È giusto non far trascrivere le conversazioni personali e non attinenti alle indagini. Bisogna fare in modo però che ciò avvenga attraverso una procedura trasparente che, da una parte, consenta al pm di controllare l’attività svolta dalla polizia giudiziaria, e dall’altro permetta all’avvocato di verificare che tra le intercettazioni non trascritte non ci sia qualcosa utile alla sua difesa". Una materia così delicata si può decidere "nel chiuso" di una delega? Non necessita di un confronto parlamentare? "La scelta del Parlamento di dare al ministro la delega in materia non è sindacabile da parte dell’Anm. Apprezziamo però che Orlando abbia aperto una consultazione con giudici e avvocati". Non le sembra assurdo negare l’uso dei Trojan Horse per le indagini sulla corruzione? "È una scelta parlamentare che l’Anm ha già duramente contestato. Contraddittoria rispetto anche ad altre iniziative legislative sulla corruzione che sembravano andare nel senso di una stretta su questi reati". Che ne sarà delle intercettazioni già fatte con questo mezzo, come nel caso dell’inchiesta Consip? "Non conosco quel fascicolo, ma in via generale ci tengo a mettere in evidenza che le Sezioni unite della Cassazione avevano ritenuto utilizzabile il Trojan anche, ad esempio, nelle indagini relative all’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, mentre il legislatore preclude questa possibilità". Contro la propaganda fascista non serve un’altra legge di Gianpasquale Santomassimo Il Manifesto, 14 settembre 2017 La legge Fiano è aggiuntiva di norme già salde e efficaci. L’autore è lo stesso della legge sul negazionismo criticata dalla maggioranza degli storici italiani. Una battaglia politica e culturale, una costruzione laboriosa di egemonia sui valori dell’antifascismo, senza scorciatoie giudiziarie che possono rivelarsi un boomerang. Negli scampoli di una legislatura particolarmente infelice un parlamento che rinuncia ad approvare una norma di elementare civiltà come lo ius soli trova il tempo per approvare - non sappiamo se in forma definitiva - la proposta di legge dell’onorevole Fiano. Che amplia ed estende la norma già esistente del codice penale concernente "il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista". Il nuovo dispositivo promette reclusione da sei mesi a due anni per "chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità". Immagino che molti lettori di questo giornale accoglieranno istintivamente con favore un provvedimento di questo tipo. Ma qui vorrei sommessamente evidenziare le molte perplessità che la legge suscita. Ci si chiede se era davvero necessario questo provvedimento, in presenza di due solide leggi (Legge Scelba del 1952 e Legge Mancino del 1993) già esistenti sulla materia, ed è lecito e doveroso interrogarsi anche sulle implicazioni che sono insite nella disposizione complessiva, politica e culturale, di chi legifera su questo terreno. La Legge Fiano non è sostitutiva ma aggiuntiva, pretende di controllare ogni forma di espressione individuale, di pensiero o di gestualità, riconducibili al fascismo. L’autore è lo stesso personaggio che ci ha dato una legge discutibilissima e pericolosa sul "negazionismo", contro la quale si pronunciò la stragrande maggioranza degli storici italiani. Nella vaghezza di quel rinvio a "contenuti propri" (sui quali migliaia di interpreti in tutto il mondo dibattono ancora) sta tutta la sapienza dei legislatori che avevano già prodotto l’Italicum ed altre leggi incostituzionali. Le cronache giornalistiche parlano di saluti romani, bottiglie di vino, accendini e gadget vari: prendendo alla lettera la legge, dovremmo avere imponenti retate a Predappio, che sicuramente non vedremo. Si noti che l’art.1 della Legge Scelba proibiva già "manifestazioni esteriori di carattere fascista", ma la cosa era sfuggita. E infatti di fronte alla vicenda inquietante di Chioggia il prefetto era intervenuto ordinando lo smantellamento di tutta la propagande fascista dal grottesco "Bagno Dux", a riprova del fatto che le leggi esistono e si possono applicare, senza inventarsene di nuove per esigenze propagandistiche, nei confronti di un elettorato negli ultimi tempi negletto e umiliato con stravolgimenti della Costituzione, per fortuna respinti al mittente dal voto popolare del 4 dicembre. La pena prevista è aumentata di un terzo "se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici": non solo quindi ingolfamento dei tribunali quindi, ma anche un massiccio apparato di controllo della rete, abbastanza irrealistico da realizzare e pericoloso nelle sue implicazioni. Ma proprio dalla Costituzione bisognerebbe ripartire, senza dimenticare mai il valore universale e solenne dell’art.21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure". Così come l’art.18 garantisce la libertà di associazione, vietando però "le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare". Una eccezione, parziale e circoscritta, contenuta anche nella XIIma "disposizione transitoria" della Costituzione, che vieta "la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista". Non si fa riferimento al fascismo in generale, ma a una specifica forma di partito, unico, armato e con vocazione totalitaria. A questo quadro di principi si richiamarono le leggi del ‘52 e del ‘93, e sulla loro base furono sciolti movimenti eversivi di estrema destra con carattere insurrezionale. Questo dovrebbe essere l’equilibrio da mantenere ad ogni costo. Su questo terreno nel corso della Prima Repubblica ci si mosse con estrema prudenza e senso di responsabilità, evitando di perseguire opinioni e comportamenti certamente esecrabili ma che rientravano nella sfera delle garanzie costituzionali. E affidando alla battaglia politica e culturale, alla costruzione laboriosa di egemonia e senso comune, l’impegno per affermare i valori dell’antifascismo, senza imboccare scorciatoie giudiziarie. I politici del tempo erano anche consapevoli che occorreva evitare precedenti molto pericolosi, che potevano aprirsi ad estensioni avventurose. Tanto per capirci, nella Germania Ovest di quel tempo era fuorilegge il partito comunista. Come nell’Europa dell’Est di oggi sono altre le simbologie proibite e perseguite. Era una saggia preoccupazione che oggi non sembra più condivisa da una sinistra liberal che in Occidente tende a perseguire penalmente tutte le opinioni che contrastano con la sua visione del mondo, nella politica, nella biopolitica, nel costume. Senza rendersi conto che il vento può cambiare e si può rimanere a propria volta vittime di provvedimenti persecutori. Il legittimo impedimento dell’arrestato non ostacola il giudizio per direttissima di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 13 settembre 2017 n. 41783. Il legittimo impedimento che non permette all’arrestato di essere fisicamente presente all’udienza, non ostacola - anche nel caso in cui l’assenza sia dovuta ad evasione - la richiesta di convalida dell’arresto e il contestuale giudizio direttissimo. La Corte di cassazione, con la sentenza 41783 depositata ieri, accoglie il ricorso del pubblico ministero, contro l’ordinanza con la quale il tribunale restituiva gli atti al Pm ritenendo di non poter procedere al giudizio direttissimo per la mancata comparizione dell’imputato evaso. Per il Pm il tribunale avrebbe dovuto comunque procedere mentre la restituzione degli atti era un provvedimento abnorme. E per la Cassazione ha ragione. I giudici della VI sezione penale, ricordano che sul punto esiste un contrasto giurisprudenziale. Secondo un primo orientamento il legittimo impedimento a comparire, vieta di incardinare il procedimento davanti al giudice e dunque il giudizio per direttissima. I giudici che sostengono questa tesi distinguono inoltre il legittimo impedimento dall’allontanamento volontario in caso di evasione. Un diverso indirizzo, al quale aderisce la sesta sezione con la sentenza di ieri, sostiene invece che la mancata presenza, a prescindere dalle ragioni che l’hanno determinata, non preclude il giudizio di convalida dell’arresto e il contemporaneo rito direttissimo. La Suprema corte precisa che alla base del contrasto c’è l’impossibilità d una contestazione orale, propria dell’impedimento a comparire, per i giudici però il problema dovrebbe essere superabile davanti al giudice del dibattimento esattamente come lo è davanti al Gip dove non è considerata essenziale. Inoltre non c’è alcuna incompatibilità strutturale tra convalida e rito direttissimo nell’ipotesi di temporaneo impedimento dell’imputato arrestato. Il giudizio direttissimo è, infatti, adottabile anche nei confronti dell’imputato in stato di libertà. Né è indispensabile l’assoluta contestualità tra celebrazione del processo e decisione sull’imputazione, basti, infatti, pensare - si legge nella sentenza - alla fisiologica possibilità che l’arrestato, anche se presente, chieda i termini a difesa e, al loro decorso, eventuali riti alternativi. Per chiudere i giudici chiariscono che non c’è alcuna differenza tra legittimo impedimento e l’impedimento per "scelta" come nel caso dell’evaso. Una differenziazione porterebbe al paradosso di imporre il carcere all’assente per legittimo impedimento a fronte della possibile trattazione in stato di libertà dell’evaso. Intercettazioni allargate contro le società di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2017 Utilizzo esteso delle intercettazioni nei confronti della società. Anche quando il procedimento, formalmente amministrativo, che la riguarda, è distinto da quello penale contro gli amministratori. E poi, il modello Iso 9001 non può essere considerato equivalente a quello richiesto dal decreto 231 del 2001 per scongiurare la responsabilità della persona giuridica. Come pure quello Deloitte se manca di codice etico e codice di comportamento. Ancora, è diverso l’interesse all’impugnazione, anche in caso di prescrizione per i manager, tra persona fisica e giuridica. Tutte conclusioni raggiunte dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 41768 della Sesta sezione penale depositata ieri (nella vicenda delle residenze assistite nella Regione Puglia che aveva visto coinvolti l’ex presidente Raffaele Fitto e Giampaolo Angelucci) che fornisce una serie di interpretazioni sulla materia della responsabilità degli enti per reati commessi dai dipendenti. Per quanto riguarda l’utilizzabilità delle intercettazioni, la Cassazione sottolinea come non ci sono ostacoli quando sono state disposte per il reato presupposto (in questo caso la corruzione), nè quando i procedimenti contro la società e i manager sono formalmente separati, nè l’annotazione del procedimento nei confronti dell’ente è arrivata dopo rispetto all’effettuazione delle operazioni di ascolto. La Corte ricorda che, anche a volere sostenere la tesi della distinzione tra reato presupposto e illecito amministrativo, non può essere ignorato lo stretto collegamento "sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dell’illecito amministrativo dipendente da reato". Quanto ai modelli organizzativi, la Cassazione è chiara: i modelli aziendali Iso 9001 non valgono come "scudo" a vantaggio della società. Infatti non contenevano l’individuazione degli illeciti da prevenire insieme con il sistema sanzionatorio da applicare per le violazioni al modello e si riferivano solo al controllo della qualità del lavoro nella prospettiva del rispetto della disciplina di prevenzione degli infortuni sul lavoro o degli interessi tutelati dai reati in materia ambientale. Il modello Deloitte, oltre ad essere stato adottato dopo la commissione dei reati presupposto "non conteneva, tra l’altro, né il codice di comportamento e le relative procedure, nè il codice etico, né le procedure per la conoscenza dei modelli, né il sistema sanzionatorio". Dopo avere precisato che nel caso gli autori (persone fisiche) dei reati abbiano agito nell’interesse proprio o di terzi, la conseguenza può essere quella della riduzione a carico dell’ente, la Cassazione si sofferma sulla diversità di posizione, quanto a interesse a impugnare, tra società e persone fisiche. Infatti, osserva la Corte, nel caso di un giudizio di prescrizione nei confronti dei manager, senza conseguenza sul piano civile, e di sanzione a carico dell’ente quest’ultimo può evidentemente contestare il verdetto. La sentenza, sul punto, ricorda che l’assoluta identità di posizioni tra l’imputato persona fisica e l’ente in materia di impugnazione, potrebbe avere conseguenze paradossali. Potrebbe, per esempio, verificarsi il caso di vizi che comportano l’annullamento con rinvio e si riferiscono al alla posizione del solo imputato persona fisica (è il caso della nullità in materia di citazione a giudizio). In questi casi il processo verrebbe definito nei confronti dell’ente, mentre dovrebbe proseguire nei confronti del solo imputato persona fisica per il quale però esiste, già dichiarata, una causa di estinzione del reato. Armi da fuoco, la clandestinità assorbe il porto illegale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 13 settembre 2017 n. 41588. I delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico di un’arma comune da sparo non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico della stessa arma clandestina. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, sentenza 13 settembre 2017 n. 41588, rideterminando la pena in modo più favorevole all’imputato, e chiarendo che il primo reato deve ritenersi assorbito in quello di porto di arma clandestina. Il caso era quello di un uomo trovato dalla polizia aeroportuale in possesso di una pistola a salve, di libera detenzione, modificata però in modo tale da renderla idonea all’impiego di munizioni letali, "evenienza che ha comportato la qualificazione dell’arma come clandestina". La Corte di appello di Catania nel condannare l’imputato, per entrambi i reati in concorso, aveva affermato che "non vi può essere assorbimento dei reati di detenzione e porto di arma comune da sparo in quelli, rispettivamente, di detenzione e porto di arma clandestina, secondo il consolidato insegnamento giurisprudenziale, essendo diversi sia gli elementi strutturali delle fattispecie, sia gli interessi protetti dalle norme incriminatrici". Per il ricorrente all’opposto il concorso di reati non è ipotizzabile "di talché la contestazione relativa al porto in luogo pubblico dell’arma clandestina, in base al principio di specialità, deve essere selezionata come l’unica applicabile". E le Sezioni Unite, superando il precedente orientamento, gli hanno dato ragione affermando che "i reati di cui all’art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975 costituiscono ipotesi criminose speciali, rispetto a quelle di cui agli artt. 2, 4 e 7, legge n. 895 del 1967, giacché contengono tutti gli elementi costitutivi della condotta - detenzione e porto di un’arma comune da sparo - e, in più, quale elemento specializzante, il dato della clandestinità dell’arma comune da sparo, che risulta non catalogata o sprovvista dei segni identificativi". Pertanto, in base al principio di specialità, "nei casi di detenzione e di porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di un’arma comune da sparo clandestina devono trovare applicazione le specifiche fattispecie di cui all’art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge n. 110 del 1975, dedicate rispettivamente alla detenzione (terzo comma) ed al porto (quarto comma) delle armi clandestine, e non le generali previsioni sulla detenzione ed il porto illegali delle armi comuni da sparo, di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967". Sulmona (Aq): sul suicidio nel carcere l’interrogazione della senatrice Pezzopane reteabruzzo.com, 14 settembre 2017 La senatrice Stefania Pezzopane presenterà un’interrogazione al ministro di Giustizia "perché siano accertate le circostanze che hanno condotto all’ennesimo suicidio dietro le sbarre", avvenuto nel penitenziario di Sulmona. A togliersi la vita è stato un ventiquattrenne, collaboratore di giustizia, proveniente dal carcere di Benevento ed originario di Altamura, in provincia di Bari. "Queste sono notizie che ormai passano quasi sotto silenzio, ma la vita umana va preservata anche nelle carceri. Così come va garantito a chi lavora in carcere il diritto di poterlo fare in una forma organizzata e alla sicurezza" sottolinea la senatrice, annunciando prossime visite nei penitenziari abruzzesi. "Dalle ricostruzioni giornalistiche - continua la senatrice - sembra che questo ragazzo abbia approfittato di un cambio turno degli agenti della polizia penitenziaria. È un fatto che si sia suicidato a 4 giorni dal suo arrivo nel supercarcere di Sulmona". La parlamentare chiede che sia fatta luce sul caso per capire cosa sia accaduto. "Nelle condizioni di carenza di personale da cui è afflitto da tempo il carcere di Sulmona, mi chiedo se abbia senso tenere aperto il reparto collaboratori di giustizia - aggiunge Pezzopane - seguo da tempo le vicende di questo penitenziario, così come delle altre carceri abruzzesi ed in più occasioni ho sollecitato il governo ed il ministro della Giustizia ad una presa di coscienza della gravità della situazione. Tra l’altro, la Regione non può più rinviare la nomina del Garante regionale dei detenuti, quale figura essenziale per monitorare e seguire la situazione all’interno delle carceri. Questa tragica vicenda deve essere subito chiarita e vanno adottati tutti i provvedimenti necessari a garantire condizioni di vita dignitose per i detenuti e di lavoro per la polizia penitenziaria". Intanto per il detenuto suicida il procuratore capo Giuseppe Bellelli ha disposto l’autopsia, che sarà eseguita dall’anatomopatologo Ildo Polidoro. La salma del giovane è ora nell’obitorio dell’ospedale di Sulmona. Palermo: agente penitenziario del Pagliarelli si spara in casa con pistola d’ordinanza La Sicilia, 14 settembre 2017 A darne notizia è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, che lancia un allarme sulle condizioni di lavoro degli agenti nei carceri siciliani. Un assistente capo del Corpo di polizia penitenziaria, originario di Termini Imerese e in servizio nel nucleo traduzioni e piantonamenti del carcere Pagliarelli di Palermo, si è tolto la vita oggi, sparandosi con la pistola d’ordinanza. A darne notizia è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Ha prestato servizio e poi è tornato a casa, dove si è tolto la vita. Siamo di fronte a una tragedia immane. Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria. Ed è grave che in Sicilia, in tanti anni, nulla è stato fatto per prevenire il disagio lavorativo dei poliziotti penitenziari. Lo scorso mese di aprile, a Marsala, un altro poliziotto penitenziario si tolse la vita ma quella tragedia non ha insegnato nulla", dice Donato Capece, segretario generale del Sappe, ricordando che negli ultimi tre anni si sono suicidati più di 40 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 100, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Ancona: il Garante "con sovraffollamento e carenza di personale il mix è esplosivo" di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 14 settembre 2017 "Noi siamo sempre impegnati nel verificare la qualità detentiva degli istituti penitenziari e dialoghiamo costantemente con il Dap e il Prap" ha detto l’Ombudsman delle Marche. Sovraffollamento, sottorganico del personale e multiculturalismo della popolazione detenuta. È il mix di questi 3 elementi ad accendere un faro sulle carceri anconetane. A confermarlo è il Garante dei diritti dei Detenuti delle Marche l’avvocato Andrea Nobili (foto in basso) che non parla di allarme, ma dopo una sua recente visita, ha detto: "A Montacuto la criticità c’è ed è data da una serie di fattori. Il primo è la carenza dell’organico non solo di Polizia Penitenziaria ma anche degli operatori in generale. Dunque c’è una condizione di inadeguatezza rispetto ai diritti che devono essere garantiti ed è per questo che sono stato in visita al carcere sollecitando il deputato Emanuele Lodolini affinché chiedesse chiarimenti al Ministero perché credo ci sia anche un tema di marginalizzazione del nostro territorio in seguito agli accorpamenti". Si riferisce all’assenza di un Provveditore delle carceri marchigiane. "Esatto. Poi c’è anche un altro tema, cioè il tipo di popolazione detenuta per cui una buona parte vive condizioni problematiche: ci sono gli psichiatrici, i tossicodipendenti e chi ha entrambi questi problemi". Ma perché queste persone stanno in carcere e non negli istituti appositi, cioè le Rems? "Nelle Marche non sono in grado di far fronte al numero di detenuti e poi non dimentichiamoci che c’è tutto un mare di persone che non rientrano nei parametri di chi è destinato ad essere inserito nelle Rems". Cioè? "Cioè tutti coloro che rientrano in quelle zone grigie per cui, sì hanno problemi di stabilità mentale ma che non hanno una condizione certificata che rientra nelle condizioni di legge per un inserimento nelle Rems". Insomma si sta tornando alle condizioni degli anni peggiori per la carceri marchigiani e per Montacuto. Possiamo parlare di emergenza carceri? "Emergenza carceri è un termine che può usar lei, di sicuro io posso dire che c’è un problema serio e rispetto al passato c’è anche un ulteriore elemento di criticità che è l’etnia dei detenuti, cioè il fatto che molti di loro sono stranieri per cui si deve far fronte anche ad un alto tasso di eterogeneità culturale dei detenuti che, di fronte alla già citata una carenza di psicologi e mediatori culturali. È chiaro che parlare solo di sovraffollamento diventa riduttivo". Dunque il fatto che una buona fetta della popolazione carceraria sia composta da cittadini stranieri non agevola, anzi è un problema. "Lo diventa se combinato con tutti gli altri fattori. Tutti i fattori vanno messi insieme. Si pensi alla difficoltà di gestire un detenuto straniero, magari Nordafricano che parla poco o zero italiano, con problemi di tossicodipendenza o psichiatrici. Se poi ci mette il rischio di una radicalizzazione religiosa che in Italia non è che sia zero". In che senso? Dobbiamo pensare che nelle carceri marchigiane ci sono percorsi di radicalizzazione islamica? "Nelle Marche ci sono soggetti monitorati in quanto ritenuti sensibili a percorsi di radicalizzazione religiosa". Alla luce di tutto questo qual è il compito dell’ombudsman? "Noi siamo sempre impegnati nel verificare la qualità detentiva degli istituti penitenziari e dialoghiamo con il Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria) e il Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria). Credo sia merito nostro se il ad agosto il flusso del trasferimento dei detenuti da altre carceri a Montacuto si è arrestato". Ma resta una questione di diritti civili. "Il clima è impegnativo. Io non so se parlare di diritti civili sia corretto ma la questione riguarda anche il rispetto dei detenuti e se uniamo insieme tutte le criticità analizzate fino ad ora ci troviamo di fronte ad un mix esplosivo". Sassari: inferno jihadista in cella? Ma è una fake news (o quasi) di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2017 Nel supercarcere di Bancali molte criticità, ma non ci sono al momento situazioni estreme. Una denuncia del deputato Mauro Pili parla di rivolte da parte di persone ristrette con l’accusa di terrorismo. I fatti dicono altro, ma parlano di gravi difficoltà a iniziare dalla lingua. Al supercarcere di Bancali, a Sassari, si parla di inferno jihadista, rivolte collettive da parte di detenuti ristretti nella sezione di alta sicurezza per reati di terrorismo. La denuncia proviene direttamente dal deputato di Unidos Mauro Pili che ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia. Ma come stanno realmente le cose e perché il carcere sassarese si trova in una situazione critica? Ma soprattutto, la criticità riguarda solo la sezione di alta sicurezza? Il professore Mario Dossoni, garante dei detenuti del comune di Sassari, raggiunto da Il Dubbio ha spiegato che la situazione è senz’altro critica, ma non ci sono rivolte infernali in corso e che la direzione del carcere sta comunque cercando di trovare degli equilibri per far fronte al disagio. Parliamo della sezione di "Alta Sicurezza 2" (As2) dove sono ristrette le persone accusate di aver legami con il terrorismo islamico. I soggetti detenuti in Italia per reati legati al terrorismo internazionale - secondo gli ultimi dati che abbiamo a disposizione - sono 47 e si trovano ristretti nelle sezioni As2 delle case circondariali di Benevento, Brindisi, Lecce, Nuoro, Sassari, Tolmezzo, Torino, Roma Rebibbia e Rossano. Di questi, più della metà sono ristretti presso i due istituti della Sardegna, in particolar modo al carcere sassarese di Bancali. Il garante Dossoni spiega che all’interno della sezione non tutti sono condannati definitivamente, ad esempio vi sono ristretti, dal 2015, otto detenuti in attesa di giudizio. La sezione speciale, infatti, è nata a partire dalle indagini che hanno portato al loro arresto: di nazionalità pakistana, residenti a Olbia, erano stati accusati di far parte della rete di Al Queada e, tra le altre cose, di aver organizzato un attentato in Pakistan. La competenza del processo è del tribunale di Sassari, e le udienze si svolgono all’interno del carcere in un’aula predisposta ad hoc. A partire da questa prima presenza, sono stati trasferiti a Bancali altri detenuti con accuse di terrorismo internazionale di matrice islamica. Una detenzione particolarmente dura perché rimangono rinchiusi in cella per molte ore al giorno. Usufruiscono di un’ora al mattino per il passeggio nel cortile esterno, ma anche di alcune ore nella sala socialità dove svolgono l’attività di preghiera in comune. Il problema che il professore Dossoni denuncia è relativo alla difficoltà di gestione che derivano dalle necessità organizzative della sezione, in un carcere che già lamentava i problemi nella gestione della sezione 41bis con un organico effettivo sottodimensionato e problemi strutturali - denunciati anche dal comitato europeo per la prevenzione della tortura - come la poca luce e mancanza d’aria. Altro problema, fondamentale, è la comunicazione. Una barriera linguistica dovuta dal fatto che la maggior parte dei detenuti parlano e scrivono in arabo e non conoscono la lingua italiana. Ovviamente gli agenti penitenziari, in mancanza di traduttori e mediatori culturali, trovano non poca difficoltà nel relazionarsi. Tante però sono le agevolazioni che la direzione del carcere ha concesso nei confronti dei detenuti in regime speciale, come ad esempio l’accesso in biblioteca e in palestra, ma "rimane il problema della concessione delle telefonate ai familiari" spiega sempre il garante dei detenuti. Non sempre vengono concesse, anche perché gli operatori trovano difficoltà a capire nei confronti di chi viene rivolta la telefonata. Problemi che creano disagio e quindi molta tensione. Alcuni detenuti, soprattutto quelli in attesa di giudizio, denunciano alcuni di questi disagi e sottolineano che tutto ciò rischia di portarli ad "incattivirsi". A breve - come già riportato da Il Dubbio - giungeranno i Gom, i gruppi operativi mobili, che si dedicheranno all’osservazione dei detenuti islamici ristretti in tale sezione. Eppure, spiega sempre il garante Dossoni, quello che manca non è un ulteriore controllo da parte di agenti speciali, ma una gestione che verta al raggiungimento di un equilibrio, soprattutto dal profilo relazionale e non meramente repressivo. Disagi anche per la detenzione normale Nel carcere di Bancali, recentemente, ha fatto visita una delegazione della camera penale di Sassari che ha accompagnato la carovana per la giustizia del partito radicale, una campagna volta a raccogliere le firme per la separazione delle carriere dei magistrati. Raggiunto da Il Dubbio, il presidente della camera penale di Sassari Marco Palmieri ha spiegato che la situazione generale presenta diverse problematicità. A partire dal bene primario: l’acqua. Sì, perché nella zona sassarese avviene il razionamento dell’acqua e la poca che c’è, soprattutto di mattina, esce di colore giallognola. Un problema della popolazione di tutta l’area esterna, ma che nel carcere, per ovvi motivi, è amplificato. Per quanto riguarda la detenzione comune, la sorveglianza dinamica non viene applicata - soprattutto per la mancanza di organico - e ciò provoca la permanenza dei detenuti nelle celle. Ciò genera un malcontento che va a ripercuotersi anche nei confronti degli agenti penitenziari che si ritrovano a gestirlo. Altro problema è il disagio, che molto spesso si trasforma in atti di violenza, tra detenuti comuni italiani e stranieri. Un problema dovuto dalla mancanza, anche in questo caso, di figure importanti come i mediatori culturali e traduttori che servono a contenere e, soprattutto, a risolvere il problema della convivenza tra varie etnie e culture. Nell’attuale contesto detentivo, caratterizzato dal crescente fenomeno del multiculturalismo, è quindi indispensabile che il personale penitenziario venga messo nelle condizioni di decodificare i codici di comportamento ed i valori di riferimento propri dei detenuti stranieri, al fine di evitare che, dalle reciproche incomprensioni, derivi una discriminazione sostanzialmente frutto dell’ignoranza delle altre culture. In tale ottica la mediazione linguistica-culturale rimane di vitale importanza per supportare la quotidianità detentiva e fornire uno spazio di ascolto ai vissuti emotivi dei detenuti extracomunitari; tale canale permetterebbe inoltre agli operatori penitenziari di accedere alla lettura non solo del disagio psicologico del detenuto. Mancando tutto questo, la situazione inevitabilmente rimane ingestibile e il carcere di Sassari potrebbe rischiare di diventare ingestibile. Biella: davanti al centro Lilt in vendita frutta e verdura coltivati in carcere laprovinciadibiella.it, 14 settembre 2017 Dalla collaborazione avviata da tempo tra la Casa Circondariale di Biella e Lilt Biella, che prevede di far svolgere attività ai detenuti in fase di reinserimento, in questi giorni è nata una nuova iniziativa. A partire da oggi, ogni secondo mercoledì del mese, verrà allestito un banchetto di frutta e verdura all’ingresso di Spazio Lilt, in via Ivrea 22, coltivati all’interno del carcere di Biella. Le persone che si recheranno presso la sede di Lilt Biella, avranno così l’occasione di acquistare i prodotti a km 0 coltivati dagli stessi carcerati della Casa Circondariale di Biella. L’iniziativa è aperta anche a tutti coloro che vorranno recarsi appositamente per l’acquisto di questi prodotti. L’intero ricavato verrà devoluto a sostegno della attività di prevenzione oncologica di Spazio Lilt. Il progetto eco green coinvolge 23 detenuti, della sezione "Ricominciare" che quotidianamente vanno nei campi e nelle serre che si trovano nella struttura carceraria, per coltivare i prodotti stagionali. Un modo concreto per imparare un mestiere da sfruttare quando ci sarà il reinserimento nella società ed una opportunità di fare del bene. "I detenuti, vengono seguiti da un agronomo e i risultati si vedono. Stiamo ottenendo ottimi risultati e siamo alla ricerca della certificazione bio. In futuro contiamo di passare anche alla trasformazione del prodotto, come passate e marmellate" spiega una delle educatrici della struttura. Ci auguriamo che l’iniziativa abbia successo e possa diventare un appuntamento stabile. Ora le persone hanno un valido motivo in più per venire a visitare Spazio Lilt. Catanzaro: pronto il servizio sanitario specialistico peri i detenuti Corriere della Calabria, 14 settembre 2017 Verrà inaugurato oggi, 14 settembre, alla presenza del Capo dipartimento Santi Consolo. Sarà operativa la riabilitazione estensiva destinata a tutti i detenuti calabresi e di fuori regione. Il 14 settembre, alle 11, il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo sarà presente all’inaugurazione del Servizio multi professionale integrato di assistenza intensiva, istituito presso la casa circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro. Il Centro, attivo dal 15 settembre, è destinato all’assistenza sanitaria specialistica delle persone detenute provenienti sia dagli istituti penitenziari della Regione Calabria che da altre regioni. L’iter per la sua costituzione ha preso avvio il 20 luglio 2013 con la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra il ministro della Giustizia e il presidente della giunta regionale della Calabria, definito il 31 maggio 2017 con la firma dell’accordo operativo tra il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Calabria, la direzione della casa circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, il dipartimento Tutela della salute e Politiche sanitarie della Regione Calabria e la direzione dell’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro. Il centro erogherà da subito i seguenti servizi sanitari: riabilitazione estensiva a ciclo continuativo per 11 posti letto; servizi sanitari generali dell’istituto penitenziario e servizi ambulatoriali per le branche specialistiche (15 branche specialistiche e di un’attività di riabilitazione attraverso un ampio servizio di fisioterapia); 6 posti di degenza. Al termine delle procedure di selezione del personale infermieristico da parte della Asp di Catanzaro saranno attivati anche i seguenti servizi di carattere psichiatrico i cui locali sono già attrezzati: una sezione di 8 posti di degenza per i servizi di tutela intramuraria della salute mentale; una sezione di 5 posti di degenza ai fini dell’accertamento delle infermità psichiche. Vasto (Ch): apre una Casa di accoglienza per detenuti in misura alternativa felicitapubblica.it, 14 settembre 2017 Aprirà i battenti domani, 15 settembre, a Vasto in provincia di Chieti, una casa di accoglienza per detenuti promossa dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. La struttura ospiterà persone che avranno la possibilità di espiare la propria pena detentiva in una misura alternativa al carcere. La struttura, che è stata concessa in comodato d’uso gratuito da parte della Diocesi di Chieti-Vasto, può ospitare circa 20 detenuti e vedrà coinvolte circa 15 persone tra volontari e operatori. La nuova casa di accoglienza sarà inaugurata domani alle 15.30 alla presenza, tra gli altri, di Monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, Federica Chiavaroli, sottosegretario di Stato e Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ed è proprio quest’ultimo a spiegare il senso di questa struttura. "Don Benzi ripeteva: "Dobbiamo passare dalla certezza della pena, alla certezza del recupero. Perché una persona recuperata, rieducata alla vita, non è più pericolosa". Tramite le Comunità Educanti con i Carcerati (Cec)", sottolinea il presidente Ramonda, "concretizziamo questa profezia del nostro fondatore, di cui quest’anno celebriamo i 10 anni della scomparsa. Questa esperienza risponde inoltre a quanto dichiarato dal presidente Mattarella circa la necessità di sviluppare un sistema di pene alternative". Dal 10 al 18 settembre, all’interno della stessa casa, inoltre, sarà allestita la mostra fotografica sulle Apac, Associazione per la Protezione e Assistenza ai Condannati. Tale mostra, allestita dall’Avsi, sta girando l’Italia al fine di spiegare l’esperienza del "Carcere Alternativo": un carcere senza guardie, che abbassa la recidiva al 20%, i cui costi diminuiscono enormemente. Un carcere che ha avuto il riconoscimento dell’Onu, come il miglior metodo nel panorama mondiale carcerario. Saluzzo (Cn): raddoppiati i posti nella "Casa di Donatella" per le famiglie dei detenuti di Giulia Scatolero La Stampa, 14 settembre 2017 Ampliati i locali che ospitano anche i reclusi in permesso-premio. Si amplia la "Casa di Donatella" inaugurata nel marzo 2016 dall’associazione Liberi Dentro per offrire un "punto di appoggio" ai detenuti in permesso- premio o di lavoro o ai familiari provenienti da fuori città per i colloqui. Lunedì, alle 17, saranno presentati i lavori di ampliamento e risanamento realizzati dai volontari dell’Onlus grazie a un finanziamento di 2.500 euro della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo. L’intera struttura è stata affidata in comodato d’uso gratuito dal Comune. È in via della Croce 39, vicino al cimitero. "Abbiamo riqualificato il magazzino di fianco al monolocale - spiega Giuseppina Bonardi, presidente dell’associazione. Gli spazi sono così raddoppiati e da 2 persone ne può accogliere fino a 4, tutte però appartenenti allo stesso nucleo familiare". Anche i nuovi locali resteranno intitolati a Donatella Girotto, una delle fondatrici dell’associazione, morta nel 2014. Tra la quindicina di volontari Bruna Chiotti, già socia del gruppo, oggi garante comunale dei detenuti. "Tutti hanno dato una mano durante i lavori - prosegue. Alcune aziende hanno offerto manodopera o materiale". Accolte già 30 persone Ad oggi la struttura, dotata di cucina, è stata utilizzata da una trentina di persone per un totale di sessanta giorni. "C’è voluto un po’ di rodaggio - spiega Bonardi. Il numero è già elevato e le richieste sono in aumento". "Non c’è un limite di notti che i detenuti possono trascorrere - prosegue: tutto dipende dal tipo di permesso ricevuto". Sono il magistrato di sorveglianza e gli educatori ad occuparsi delle persone ristrette in carcere. L’associazione cura i rapporti con le famiglie. Tra i "requisiti" per accedere al servizio, vivere una difficoltà economica e/o provenire da lontano. "Saluzzo è carente dal punto di vista dei trasporti e soluzioni abitative alternative possono essere costose - chiarisce la presidente. La maggior parte dei detenuti del nuovo padiglione di alta sicurezza provengono dal Sud e così le loro famiglie". Liberi Dentro è nata a fine Anni 90 con l’obiettivo di dare sostegno morale e materiale ai detenuti e alle loro famiglie. "Negli anni abbiamo organizzato cineforum, incontri e a ottobre avvieremo un progetto dedicato alla genitorialità - spiega Bonardi: volontari e detenuti, tutti genitori, si confronteranno sul tema all’interno di due laboratori". Sempre a ottobre, il 27, è atteso in città padre Gianfranco Testa, tra i fondatori dell’Università del Perdono di Torino, progetto che insegna a detenuti, vittime e famiglie ad affrontare con decisione il passato per cambiare il futuro. "Aiutiamo anche nelle cose più materiali - conclude: pratiche burocratiche, acquisti o fornendo un passaggio in macchina in caso di bisogno". Trani (Bat): "Per un giudice terzo", arriva la Carovana della giustizia andriaviva.it, 14 settembre 2017 Non si tratta di una visita ispettiva, piuttosto di un modo per incontrare i detenuti, incrociare i loro occhi ed ascoltare le loro esperienze di vita all’interno delle carceri. Ma soprattutto l’occasione per raccogliere le firme a sostegno della proposta di legge sulla separazione delle carriere già sostenuta dall’Unione delle Camere Penali. La Carovana della giustizia del Partito Radicale arriva in Puglia ed a Trani, davanti al carcere femminile, viene accolta dal presidente dell’ordine degli avvocati, Tullio Bertolino, e da una dele della Camera Penale di Trani rappresentata dall’avv. Francesco Di Marzio presente anche il penalista andriese Francesco Montingelli, che si sono già mobilitati a sostegno dell’iniziativa legislativa sulla distinzione tra organo giudicante ed organo inquirente. A maggio scorso, lo ricorderete, l’Unione della Camera Penale del foro di Trani aveva già avviato una petizione direttamente all’ingresso di Palazzo Torres. "Vogliamo dare un sostegno alla proposta di legge per la separazione delle carriere avviata dagli avvocati penalisti perché la riteniamo anche una nostra battaglia: in passato, infatti, abbiamo tentato di proporre un referendum sul tema ma i partiti all’epoca si disinteressarono dell’argomento. Vogliamo la separazione delle carriere perché i giudici ed i magistrati alla fine fanno la stessa carriera quindi non c’è differenza tra accusa e difesa. Vogliamo, invece, un giudice davvero terzo", ha detto Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale, prima di entrare nel carcere femminile. Visita alla quale è seguita la tappa successiva tranese nel supercarcere di via Andria, accompagnati dal direttore delle strutture, la dott.ssa Bruna Piarulli. Gli obiettivi della Carovana sono, oltre che la raccolta firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati arrivata già a oltre 63000 sottoscrizioni anche amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta; superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo; approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario; 3.000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella. Nel pomeriggio, nella Biblioteca storica degli avvocati di Trani, si terrà una convegno nazionale a cui parteciperanno onorevole Rita Bernardini e Giovanni Flora, vicepresidente nazionale dell’Unione delle Camere penali. Ivrea (To): "lavoro per i detenuti semiliberi", giornata di studio per nuovi progetti La Sentinella del Canavese, 14 settembre 2017 Su dieci persone che entrano nelle carceri italiane, sette ci torneranno. È una delle recidive più alte d’Europa. Il dato si abbassa drasticamente se si esce dal carcere con un percorso di attività e costruzione di buone relazioni. Occuparsi del lavoro e della formazione delle persone detenute significa anche lavorare per la sicurezza della comunità. Ivrea e il territorio hanno sempre promosso progetti legato alle opportunità di percorsi di lavoro e formazione per i detenuti semiliberi che, attualmente, sono una decina. La sfida è raddoppiare i numeri. Attualmente, infatti, sono una ventina i posti per i detenuti che, se accompagnati in un percorso di lavoro, potrebbero accedere alla semilibertà. Augusto Vino, assessore alle politiche sociali, spiega: "Progetti con piccoli numeri ne sono stati avviati diversi, sia legati al lavoro volontario che con cantieri di lavoro. Il punto è che bisognerebbe cercare di ampliare la platea di chi accede a questi percorsi. Una giornata di studio per mettere a confronto iniziative e buone pratiche, realizzate in altre case circondariali e sul territorio ci pare un modo per avviare nuove proposte". Di qui, appunto, è nata l’idea di una giornata di studio e di proposte in programma martedì 19 settembre, dalle 9,30 alle 13,30, al liceo scientifico Gramsci. L’iniziativa è stata presentata ieri mattina a palazzo civico. Per il carcere di Ivrea, il convegno costituisce anche un’opportunità di proseguire su un dialogo costruttivo dopo mesi di tensioni, problemi e inchieste della magistratura per fare chiarezza su alcuni episodi di maltrattamenti sui detenuti. Alla giornata di martedì prossimo interverranno Liberato Guerriero, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta, Bruno Mellano, garante regionale per i diritti dei detenuti. La seconda parte della mattinata sarà dedicata a una tavola rotonda che metterà a confronto alcune esperienze e coordinata da Giovanni Torrente, funzionario giuridico pedagogico nella casa circondariale di Ivrea. Parleranno Giorgio Siri, capo area trattamento del carcere di Ivrea, Cosima Buccoliero, dirigente aggiunto della casa circondariale di Bollate che parlerà dell’esperienza di Bollate, Andrea Sitzia, dell’Università di Padova, che parlerà del caso Padova e dell’esperienza della cooperativa Giotto, Giorgio Basevi, docente all’università di Bologna, che parlerà della formazione scolastica per i processi di reinserimento e Giuseppe Mosconi, dell’Università di Padova, con un intervento del lavoro nelle dinamiche penitenziarie. Chiuderà i lavori l’assessore regionale alle Politiche sociali Augusto Ferrari. Roma: "Dei delitti e delle pene", Beccaria parla anche inglese di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 14 settembre 2017 Nel 1767 "Dei delitti e delle pene" per la prima volta è stato pubblicato in inglese all’interno di un saggio su crimine e punizione. Non è questa una storia nota, ma l’opera straordinaria di Cesare Beccaria ha avuto un grandissimo impatto anche nei paesi anglosassoni. Un impatto non solo sulle scienze giuridiche ma anche sugli studi filosofici e sulla letteratura. È questo un qualcosa di cui essere orgogliosi. Un intellettuale italiano ha esportato in luoghi chiave delle democrazie odierne una idea di giustizia e di pena di cui fino ad allora non si era vista traccia nella storia del pensiero mondiale. Dall’invito alla dolcezza delle pene fino alla proibizione della tortura e della pena di morte, passando da una nuova idea di punizione regolamentata nel tempo e nello spazio e sottratta all’arbitrio del sovrano. Di tutto questo si parlerà nella conferenza internazionale cominciata ieri all’Università La Sapienza di Roma e che prosegue giovedì 14 e venerdì 15, organizzata dalla Società italiana di studi sul secolo XVIII e dalla British Society for Eighteenth-Century Studies in collaborazione con La Sapienza Università di Roma e l’Associazione Antigone. Sono decenni che dai paesi di lingua inglese importiamo politiche penali selettive e classiste, finanche irriguardose di principi sacrosanti del diritto, primo fra tutti l’intangibilità della libertà personale. Negli Stati Uniti prima e nella Gran Bretagna dopo abbiamo visto fare carta straccia di alcune regole fondamentali dello stato di diritto nel nome della lotta al terrorismo internazionale. Facendo fare passi indietro secolari alla cultura giuridica di quei paesi, i criminali sono stati trattati come nemici, arrivando a giustificare forme di detenzione arbitraria. In Inghilterra si è ritenuto che i moniti e le sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani su temi quali il divieto di respingimento verso paesi che praticano la tortura o il diritto di voto per le persone detenute fossero solo delle seccature alle quali sottrarsi. A tratti tutto ciò è arrivato anche in Italia, provocando un’alterazione profonda di alcune conquiste giuridiche di cui avremmo dovuto essere fieri. Negli ultimi mesi, il dibattito razzista e fascista sui migranti e il rinascere di populismi securitari ci fanno allontanare drammaticamente dai contenuti di quel meraviglioso libretto del 1765. A Roma si è deciso meritoriamente di celebrare i 250 anni della sua traduzione inglese. Purtroppo non ci paiono questi i tempi in cui il paese e le sue istituzioni si sentono rappresentate dal grande filosofo milanese. Proprio per tale motivo questa storia va raccontata. Lo faranno dunque studiosi di molte discipline - filosofia, diritto, storia, studi letterari - provenienti dalle Università di tutta Europa, riuniti all’Università La Sapienza nell’Aula Levi della Vida, alle Ex Vetrerie Sciarra, in via dei Volsci 122. *Presidente di Antigone Milano: alla Bocconi corso (gratis) per volontari che aiutano detenuti, immigrati e disabili di Cristina Lacava iodonna.it, 14 settembre 2017 Parte il 4 ottobre il corso gratuito di formazione a distanza per volontari di associazioni, fondazioni e organizzazioni che aiutano detenuti, immigrati e disabili: 8 sessioni settimanali di 1 ora e mezza l’una tenute da docenti della Sda Bocconi. Non è il primo del genere, ci spiega il coordinatore Alex Turrini, docente di Management pubblico e non profit in Bocconi: "Già da qualche anno la nostra università ha fatto partire un progetto filantropico, Sda Bocconi for Growth, per supportare il valore della solidarietà e dell’inclusione. L’anno scorso, il corso di formazione manageriale per chi aveva perso il lavoro aveva avuto 1.300 iscritti. Quest’anno il focus è sui volontari che nelle loro associazioni possono aver bisogno di competenze manageriali per raccogliere fondi, sviluppare progetti sociali, tenere la contabilità e promuovere la comunicazione istituzionale. Ci indirizziamo soprattutto verso chi segue detenuti, immigrati e disabili perché in questi settori operano piccole realtà, che hanno bisogno di crescere. A loro diamo il nostro aiuto perché crediamo fortemente che il volontariato sia una risorsa importante del nostro Paese". E un volontario con risorse manageriali può avere una marcia in più. Le lezioni, tenute da docenti SDA Bocconi (in collaborazione con la Fondazione Adecco), si svolgeranno dal 4 ottobre al 29 novembre: "Anche in questo caso, come in Sda, non si tratta di lezioni teoriche ex cathedra ma partiamo da casi reali, da storie di successo. Gli studenti possono intervenire, raccontando la loro esperienza o facendo domande. L’anno scorso si era creato un network interessante". Si comincia il 4 ottobre alle 18 con "Identificare missione e strategia dell’organizzazione". Le iscrizioni sono aperte fino al 22 settembre. Info alexandra.cerullo@sdabocconi.it. Viterbo: "Portare il mare dove non c’è", un progetto artistico con i detenuti di Francesca Cuccuini viterbopost.it, 14 settembre 2017 L’artista parla del suo progetto con i detenuti. "Portare il mare dove non c’è" questa è l’idea, riassunta in una frase, dall’artista Anna Raimondo che, dopo aver fatto tappa a Bruxelles e Milano, è sbarcata proprio a Viterbo. A curare il tutto è stato Marco Trulli che, con la complicità di Sara Bauli e Laura Crescentini dell’Arci, ha invitato Anna nella città dei Papi cominciando un percorso di riattivazione del mare in luoghi in cui, il mare, non c’è. "Grazie al carcere - continua l’artista - ho pensato di fluidificare il dentro con il fuori. E con i detenuti abbiamo portato avanti un laboratorio fatto di evocazioni, ma anche divertimento". Sono stati loro, infatti, a rendere tutto molto radiofonico e raccontare una giornata al mare riproducendone i suoni e i rumori con l’uso della voce. "Dai ricordi ai desideri e le canzoni che legavano le persone con cui ho lavorato in carcere si è formata una connessione con il fuori da estendere e diffondere grazie alle loro voci e poeticamente portarli al loro mare". E il risultato è in un furgoncino bianco che, per le vie della città, ha trasmesso il risultato di questo originale progetto. Il video "Come un mare for d’acqua" riporta il viaggio di una radio ambulante che trasmette il racconto "acquatico" girovagando per le vie della città dei Papi. Dalla periferia alle piazze del centro per portare il mare dove non c’è. Migranti. Ius soli, la politica senza autonomia di Ezio Mauro La Repubblica, 14 settembre 2017 Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti. Dunque la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti, mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo cristiano, e i Cinque Stelle rivelano qui più che mai la loro natura di ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra. Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al senso comune dominante. Ci sono certo differenze di metodo, di linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come se la politica fosse un fascio di foglie al vento. Bisogna avere la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale, vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza. Un terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo frequentato ma immaginario della politica. Tutto questo si riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca, quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria, crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come la bomba. Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica non basta a se stessa. Naturalmente il venir meno della politica ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva insieme i vincenti e gli sconfitti. Alla fine, sotto i nostri occhi sta mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri, da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo. C’è da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e l’inconfessabile, cumulandoli. Lo "straniero", il visitatore, il diverso sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura. È chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un basso livello d’istruzione (il 26 per cento di "paura" in più di chi ha un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri, magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e senza più la speranza di governarlo. La paura, l’insicurezza non sono necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi, raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando i penultimi dalla paura degli ultimi. Questo è il modo per non lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più, perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi semplici strumenti, non con una ruspa. Migranti. Delrio: stop a Ius soli è un atto di paura. I renziani lo zittiscono subito: sbagli di Massimo Franchi Il Manifesto, 14 settembre 2017 Lo stop allo Ius Soli si porta dietro strascichi sia tra i rapporti all’interno della maggioranza che dentro il Pd. Ed è ancora una volta l’ala cattolica fra i Dem a distinguersi sul tema. Ieri le parole più dure sono arrivate dal ministro Graziano Delrio in un’intervista - non a caso - al tg di Tv2000, l’emittente della Cei. Per Delrio il dietrofront del Senato sullo ius soli è "certamente un atto di paura grave. Abbiamo bisogno di non farci dominare dalla paura. Questa - ha aggiunto - è una legge di civiltà e diritti. Uno sguardo diverso verso l’immigrazione significa anche riconoscere ai bambini nati qui i loro diritti". Nonostante un vago riferimento all’impegno "del capogruppo a trovare i voti", il messaggio è chiaro: "Ultimamente - ha proseguito Delrio - è stato creato un clima molto grave, sono state utilizzate parole sbagliate, è stata sparsa benzina: oggi tocca ai migranti, domani può capitare a nemici politici o persone diverse". Una uscita che ha fatto infuriare i renziani - mentre il capo rimane in silenzio - che evidentemente a Delrio non hanno ancora perdonato il fuorionda in cui criticava il segretario "per non aver fatto neanche una telefonata per evitare la scissione". Tocca all’ineffabile duo di parlamentari Andrea Marcucci e Franco Mirabelli tirare per le orecchie il ministro. "Dispiacciono le parole del Delrio. Il ministro sa bene che per il gruppo del Pd al Senato il provvedimento rimane prioritario e sa altrettanto bene che portarlo in aula in questi giorni avrebbe significato affossarlo perché non c’erano i numeri". Dal Nazareno nel frattempo "fonti" si precipitano a sottolineare come "la posizione del Pd sullo ius soli è nota ed è pienamente in sintonia con il governo". Insomma, sull’immigrazione le acque nel Pd si stanno - finalmente - agitando. Conseguenze allo stop allo Ius Soli potrebbero esserci sulla legge di bilancio che sta per arrivare. La pace con Pisapia infatti non ha fatto abbassare i toni degli esponenti di Mdp contro la sordità del governo alle istanze "da svolta sociale". L’avvertimento lo fa Alfredo D’Attorre: "Se questi sono i frutti avvelenati del rinnovato fidanzamento tra Renzi e Alfano, nessuno può pensare che noi staremo lì a reggere il moccolo. Per Mdp varrà dunque il "liberi tutti", non saremo corresponsabili di una conclusione insensata della legislatura", avverte. Migranti. L’Ue ringrazia l’Italia, ma la lascia sola sulla revisione di Dublino e Schengen di Carlo Lania Il Manifesto, 14 settembre 2017 "Il peggio è passato" dice Jean Claude Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione e l’ottimismo del presidente della Commissione europea sembra estendersi oltre l’economia arrivando a toccare anche l’immigrazione, uno dei temi che negli ultimi anni ha maggiormente tenuto banco a Bruxelles. In effetti rispetto anche solo a nove mesi fa la situazione è cambiata. La politica messa in atto dall’Italia in Libia - e prontamente condivisa dall’Unione - ha portato a una forte riduzione dei flussi in arrivo dal Paese nordafricano e sta lentamente spostando sempre più a sud i confini europei, puntando a bloccare i migranti prima ancora che entrino in Libia. Scelte che Juncker dimostra di apprezzare, tanto da riservare al governo del premier Gentiloni un tributo particolare riconoscendo come "nel Mediterraneo centrale l’Italia ha salvato l’onore dell’Europa". Certo, resta il problema dei centri di detenzione libici in cui i migranti vengono rinchiusi e che Juncker definisce "inumani", ma promette di lavorare per migliorarli e di aprire vie legali per arrivare in Europa. Prioritari restano comunque i rimpatri dei migranti irregolari perché, spiega Juncker condividendo un concetto caro al presidente francese, "solo così l’Europa potrà dare prova di solidarietà verso i profughi che hanno veramente bisogno". Complimenti che gratificano Paolo Gentiloni, che infatti si affretta a ringraziare via Twitter il presidente della commissione Ue, ma che rischiano di restare l’unica prova di solidarietà nei confronti dell’Italia. Se infatti dall’impegno in Africa si guarda a quanto succede a casa nostra, i cambiamenti che si preparano potrebbero non piacere a palazzo Chigi. A partire dall’ostinazione con cui i Paesi dell’Est continuano a opporsi ai ricollocamenti per finire con le riforme di Dublino e Schengen in preparazione a Bruxelles. La prima partita a essere giocata sarà quella con i duri del blocco di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia). Nonostante il 6 settembre la Corte di giustizia europea gli abbia dato torto, il premier ungherese Viktor Orbán continua a rifiutarsi di accogliere profughi dall’Italia e dalla Grecia, forte anche di un sondaggio secondo il quale il 75% dei cittadini dell’Europa centrale e l’80% di quelli dell’Europa orientale sarebbero contrari alla politica delle quote decisa due anni fa da Bruxelles. Juncker lo incontrerà il 28 settembre in Estonia in occasione del Tallinn Digital Summit e proverà a fargli cambiare idea, ma lo scontro vero è rimandato al Consiglio europeo di ottobre dove Angela Merkel è decisa a dare battaglia. La cancelliera tedesca ha definito "inaccettabile" la decisione ungherese di non rispettare la sentenza della Corte del Lussemburgo e minaccia ritorsioni in sede di discussione del prossimo bilancio europeo (l’Ungheria beneficia di 34,3 miliardi di euro dai fondi europei per il periodo 2014-2020). In ballo c’è poi la riforma del regolamento di Dublino che l’Italia chiede di modificare nella parte che assegna al Paese di primo ingresso la responsabilità dei richiedenti asilo. La bozza presentata dalla Commissione europea a maggio del 2016 ignora però l’istanza italiana, limitandosi a introdurre un sistema di ripartizione delle domande di asilo che scatta solo quando uno Stato si trova sotto pressione a causa dell’alto numero di arrivi. Perché però il meccanismo si attivi le richieste di asilo devono superare del 150% la quota di riferimento fissata in precedenza per ogni Stato membro sulla base della sua popolazione e del Pil. Di fatto una non soluzione che continuerebbe a penalizzare Paesi come l’Italia e la Grecia. Non a caso ieri Gianni Pittella, presidente del gruppo S&D all’europarlamento, ha ribadito che il gruppo socialista "non voterà nessuna revisione di Dublino senza l’eliminazione della regola aberrante del Paese di primo sbarco". Manovre in corso, infine, anche per modificare il trattato di Schengen. A spingere in questo caso sono soprattutto Germania e Francia (ma d’accordo sarebbero anche Austria, Danimarca e Norvegia) che puntano a semplificare le procedure per ripristinare i controlli alle frontiere interne e ad innalzare dagli attuali sei mesi fino a due anni, da poter estendere fino a quattro per i casi "eccezionali", il periodo massimo cui è possibile sospendere Schengen. La motivazione ufficiale riguarda i pericoli legati a possibili attentati terroristici, ma dietro l’insistenza di Berlino e Parigi si intravede la volontà di ostacolare nuovi ingressi da parte di migranti. Migranti. Corsa alle ultime 16mila firme per la legge "Ero straniero" di Zita Dazzi La Repubblica, 14 settembre 2017 Mentre lo Ius soli naufraga al Senato, da Milano si parte alla carica per conquistare le ultime 16mila firme necessarie a presentare entro la fine di ottobre al Parlamento il testo di una legge che superi la Bossi-Fini e per abolire il reato di clandestinità. Ieri alla Casa della Carità - che con Radicali, Cgil, Arci, Adii, Astalli, Asgi e altre sigle ha lanciato la campagna "Ero Straniero" - erano presenti tutti i testimoniai che ci hanno messo la faccia e che in quest’ultimo mese e mezzo faranno di tutto perché le firme arrivino. Assieme all’ex sindaco Giuliano Pisapia, al sindaco di Bergamo Giorgio Gori, a don Virginio Colmegna, a Pierfrancesco Majorino (che ieri è stato nuovamente minacciato per il suo lavoro a favore dei migranti), c’era Emma Bollino, sorridente, convincente anche nello spot realizzato ad hoc per la volata finale. Sarà questo un mese denso di banchetti e iniziative su tutto il territorio lombardo, con banchetti nelle università (i127 a Scienze Politiche, il 28 in via Festa del Perdono, il 4 ottobre al Politecnico, il 5 alla Bicocca)  all’Anagrafe di via Larga e in tutti i municipi (dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 15.30) dal lunedì al venerdì. Si firma anche "nelle-sedi sindacali, nelle fabbriche, sui luoghi di lavoro", come ha promesso Corrado Mandreoli, della Camera del lavoro "perché oltre a raccogliere le adesioni, noi vogliamo che questa campagna sia un’occasione per parlare conia gente del tema della migrazione e smontare i luoghi comuni, le false notizie che generano paura e disinformazione". Mobilitazione straordinaria dal 25 al 30 settembre nella sede di via Brambilla 10 (Crescenzago) della Casa della Carità e presso Chiama Milano (in via Laghetto 2), dove si potrà firmare tutti i giorni. Sabato, in via Pepe 10, all’Isola Pepe Verde, pranzo condiviso, arte e musica con tanti ex "stranieri" oggi "milanesi", come Pap Khouma. Sabato 30, sempre in via Brambilla, dalle 21, lettura scenica di Sara Donzelli del testo teatrale "Lampedusa beach". Don Colmegna nell’invitare tutti a queste giornate spiega che in 20 mesi, sono arrivati li chiedendo di essere accolti 3.542 cittadini stranieri per chiedere diverse forme di aiuto. Di questi, solo 1.396 (meno del 40 per cento) possedevano un permesso di soggiorno valido. Tutti gli altri, 2.146 persone, sono "vittime" della Bossi- Fini - frutto della grande irregolarità che la legge produce. Non siamo buonisti ma abbiamo un progetto di società che prevede inclusione, coesione e sicurezza per tutti. Un progetto che comprende anche lo Ius soli, una riforma della cittadinanza per i tanti giovani italiani che la aspettano da troppo tempo". Sui siti e le pagine Fb di Radicali e Casa della carità, indicazioni dettagliate sui banchetti per firmare. Stati Uniti. Il Muslimban ritorna: la Corte suprema dà il via libera a Trump di Marina Catucci Il Manifesto, 14 settembre 2017 Accettato il ricorso del governo. La Casa bianca ne approfitta e annuncia nuovi tagli al numero di rifugiati accolti nel paese. Il Dipartimento di giustizia ha scagionato i sei agenti di Baltimora coinvolti nella morte di Freddie Gray, il giovane ucciso nel 2015: le prove sarebbero insufficienti. Continua la battaglia di Trump per il Muslimban, il provvedimento che impedisce l’ingresso begli Usa a cittadini di sei nazioni prevalentemente musulmane: martedì la Corte suprema ha temporaneamente concesso all’amministrazione Trump la facoltà di impedire a circa 24.000 rifugiati di entrare negli Stati uniti, fino al 10 ottobre prossimo, quando la Corte sentirà le parti coinvolte nella disputa legale. Questa decisione sospende una parte della sentenza della settimana scorsa della Corte d’Appello del nono circuito di San Francisco, in base alla quale un tribunale delle Hawaii aveva deciso che il Muslimban non poteva essere applicato ai rifugiati che sono parte del programma Usa di ammissione o che hanno ricevuto rassicurazioni formali da parte di agenzie di ricollocamento. Trump vorrebbe che il divieto durasse 3 mesi per i cittadini dei sei paesi nel mirino (Siria, Libia, Iran, Somalia, Sudan, Yemen) e 4 mesi per i rifugiati. Così facendo, sostiene Trump, il paese avrebbe tempo per valutare le procedure di controllo e impedire l’ingresso a possibili terroristi. Per Trump, pur essendo temporanea è comunque una vittoria; l’ultimo intervento fatto dalla Corte Suprema, in vista dell’appuntamento del 10 ottobre, è il terzo dallo scorso 26 giugno quando il massimo organo giudiziario americano aveva dichiarato che il travel ban, annunciato con un contestatissimo ordine esecutivo il 6 marzo, poteva entrare in vigore ma non includere chi ha relazioni in "bona fide" con persone o organizzazioni Usa. Il 19 luglio la Corte suprema era intervenuta una seconda volta vietando all’amministrazione di impedire i viaggi ai membri di una famiglia allargata, zii, nonni, cugini; il ban, quindi, vale solo per i rifugiati e non per chi ha parenti o relazioni lavorative ed economiche in Usa. Stando a quanto dichiarato dal New York Times, inoltre, alla Casa bianca ci sono anche forti pressioni affinché il tetto di rifugiati da ammettere negli States venga abbassato sotto la soglia delle 50mila unità previste dallo stesso Trump, vale a dire meno della metà dei 110mila rifugiati che l’ex presidente Obama disse dovevano essere ammessi nel 2016. Sul limite dei rifugiati accolti non è stata presa alcuna decisione ufficiale ma pare che la linea dura anti-accoglienza sia capeggiata dal consigliere di Trump, Stephen Miller, arrivato a proporre un tetto di 15mila unità, per un paese che conta 360 milioni di abitanti, e per rifugiati che scappano per lo più da guerre che vedono il coinvolgimento attivo proprio degli Stati uniti. Per legge Trump deve consultare il Congresso e prendere una decisione entro il primo ottobre, a inizio del nuovo anno fiscale. Se davvero la cifra dell’accoglienza dovesse essere ridotta, sarebbe la seconda volta in 15 giorni che il presidente usa la propria autorità per ridurre il flusso di migranti, vista la decisione di smantellare il Daca, Deferred Action for Childhood Arrivals, voluto da Obama e in vigore dal 2012 per proteggere dall’espulsione i cosiddetti Dreamers, persone arrivate negli Stati uniti da bambini con genitori illegali. Trump ha lasciato al Congresso il compito di legiferare sull’argomento, entro i prossimi sei mesi. Ma nell’Almerica di Trump non sono solo gli stranieri ad essere marginalizzati, perché lo stesso tipo di trattamento viene riservato alla comunità afroamericano. Il Dipartimento di giustizia ha scagionato i sei agenti di Baltimora coinvolti nella morte di Freddie Gray, giovane afroamericano che nel 2015 è morto dopo essere stato caricato a forza su una camionetta della polizia, vittima poi di lesioni letali alla spina dorsale mentre era in custodia delle forze dell’ordine. La polizia si è sempre difesa dicendo che il 25enne era caduto da solo sbattendo violentemente, ma non è mai sembrata una versione supportata da prove necessarie. L’episodio della sua morte aveva scatenato proteste violentissime a Baltimora, con una parte della città messa a ferro e fuoco e l’azione per verificare l’eventuale violazione dei diritti civili da parte dei sei agenti di polizia era stata avviata durante l’amministrazione Obama. "Dopo una lunga revisione di questo tragico evento, condotta da procuratori e investigatori con lunga carriera, il dipartimento di giustizia ha concluso che le prove sono insufficienti" ha detto il dipartimento in una dichiarazione, aggiungendo di non essere stato in grado di dimostrare che i poliziotti "abbiano intenzionalmente violato i diritti civili di Gray". Iraq. Nelle galere di Raqqa: "Ho 13 anni, combattevo per Isis" di Emilia Costantini Corriere della Sera, 14 settembre 2017 Il terribile racconto nel reportage in onda stasera su La7. "Ho avuto un addestramento militare e religioso". Cappuccio nero in testa che gli copre la faccia, sandali ai piedi. È seduto su un lettino ricoperto da un telo su cui, ironia della sorte, si legge Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati). Si chiama Mohammad, ha 13 anni, si toglie il cappuccio, capelli scuri, cicatrice sulla fronte, combattente dell’Isis, ora prigioniero dei curdi siriani a Raqqa, capitale dello Stato islamico devastata dalla guerra. È lui il protagonista del reportage esclusivo con cui Corrado Formigli riparte questa sera su La7 ore 21.10 con "Piazzapulita". "Sognavo di diventare un grande combattente, ora passo 23 ore su 24 in cella - racconta Mohammad, figlio di un militante Isis. Ho lasciato la scuola per arruolarmi, ho avuto un addestramento religioso e militare". Ha imparato a memoria il Corano e a manovrare il fucile. "Hai visto quel video dove dei bambini come te sparano alla nuca dei prigionieri inginocchiati davanti a loro?", gli chiede Formigli. E lui, sguardo spento, risponde: "Sì, non potrei fare altrettanto. Il mio solo desiderio è rivedere la mia famiglia". Questa è una delle tante storie raccolte da Formigli nell’inferno di Raqqa. C’è anche quella di un combattente italiano che, volto oscurato, descrive la sua avventura tra le macerie di una civiltà distrutta, palazzi sventrati, migliaia di mosche sui cadaveri in decomposizione. "Vengono negati i diritti umani fondamentali - dice il conduttore - non ho incontrato osservatori internazionali, c’è clima da occhio per occhio dente per dente: un bambino di 13 anni non è un carnefice, è una vittima". Urla un guerrigliero: "Il califfato va annientato a qualunque costo!". E il costo dei civili morti è altissimo: "Non si può sapere quanti - spiega Formigli. Molti sono presi in ostaggio dai terroristi, altri si nascondono nelle case spianate dalle bombe americane. L’odore di morte è fortissimo e non riesco a togliermelo di dosso". Non solo guerre a "Piazzapulita", anche politica interna, "sì, però non si possono affrontare i fatti interni senza guardare all’esterno. La nostra politica è influenzata da questioni internazionali, come i migranti: noi non ci preoccupiamo del loro destino in Libia, ma solo che non sbarchino sulle nostre coste". Papua Nuova Guinea. Behrouz Boochani, cronache dalla Guantánamo australiana di Tommaso Proverbio glistatigenerali.com, 14 settembre 2017 C’è un giornalista iraniano di origine curde ingiustamente detenuto da quattro anni in una delle carceri della Papua Nuova Guinea, e in pochi ne parlano. Behrouz Boochani, è recluso - insieme ad altri ottocento uomini - sull’isola di Manu, e tramite i suoi profili Facebook e Twitter riesce a denunciare gli abusi che sono costretti a subire quotidianamente i migranti. Sono sette mesi che seguo assiduamente il profilo di Behrouz: appena ho scoperto che la sua pagina personale era attiva e costantemente aggiornata, gli ho inviato la richiesta e mi ha accettato. Mi sono annotato i suoi post, e ho salvato le foto che ha condiviso. Dopo un’ulteriore documentazione ho deciso poi di raccontare la sua storia. Behrouz Boochani è nato a Ilam, città del Kurdistan iraniano, nel 1983. È un giornalista indipendente che ha fondato una rivista socioculturale, Werya. Nel febbraio 2013, mentre Behrouz si trovava a Teheran, i guardiani della rivoluzione sono entrati nella redazione arrestando tutti i componenti presenti. Dopo tre mesi di latitanza - nel maggio del 2013 - decise di fuggire in Australia, convinto che lo avrebbero accolto come rifugiato politico per la particolare attenzione ai diritti umani. A luglio, mentre viaggiava su un barcone con altri 75 migranti, viene arrestato dalla marina australiana e portato nel centro di identificazione di Christmas island, dove fa richiesta di asilo politico. Proprio in quei giorni il governo laburista di Kevin Rudd aveva deciso un importante cambiamento riguardo alla politica di accoglienza dell’Australia; politica tanto elogiata dall’estrema destra europea, in primis dalla leader del Front National - Marine Le Pen. Secondo le nuove direttive, in vigore dal 19 luglio 2013, i profughi che arrivavano via mare dovevano essere smistati: gli uomini in Papua Nuova Guinea, donne e bambini a Nauru. Soltanto lì avrebbero potuto avanzare la richiesta di asilo politico. I detenuti provengono principalmente da Africa, Asia e Medio Oriente: in particolare da Iran, Iraq, Sri lanka, Afghanistan, Sudan e Nepal. La Papua Nuova Guinea è un paese rurale, molto povero e con un alto tasso di criminalità. I rapporti con la popolazione locale sono molto complicati, e Boochani non li biasima dal momento che "anche loro sono vittime di questa politica, e il governo non ha chiesto il loro parere. L’isola ha un’economia fragile ed è scarsamente popolata: ecco perché la vedono come una sorta di invasione". La tensione è alta, tant’è che nel febbraio 2014 la polizia ha fatto irruzione nel centro di detenzione con al seguito alcuni abitanti del posto armati di coltelli e bastoni, e hanno aggredito i migranti. In seguito a questi disordini ha perso la vita un suo connazionale poco più che ventenne. Tra i detenuti vi sono anche alcuni uomini costretti a fuggire dal paese d’origine a causa del proprio orientamento sessuale, per poi approdare in Australia, convinti di poter godere di una maggiore libertà. Ora invece sono detenuti in Papua Nuova Guinea, dove l’omosessualità è un crimine e si rischia una pena detentiva di quasi 15 anni. Behrouz, nel dicembre 2016, ha denunciato - oltre i vari soprusi che devono subire ogni giorno i migranti - anche le pessime condizioni sanitarie, puntando il dito contro l’azienda che ne è responsabile all’interno del campo, l’Ihms. Di conseguenza sono scoppiati disordini durante una protesta dei detenuti in cui ha perso poi la vita un ragazzo sudanese, la vigilia di Natale dell’anno scorso. Sta lavorando a un romanzo e - in collaborazione con un regista olandese - a un documentario, girato interamente col suo cellulare, intitolato "Chauka, per favore dicci che ore sono". (Chauka è il nome dell’unità di isolamento del campo). Le foto e i messaggi che posta il giornalista curdo sui suoi profili sono le uniche informazioni che giungono al mondo esterno, ma pare che comunque non possa scrivere tutto quel che vuole. Non ha una rete Wifi, ma si connette grazie alle continue donazioni che gli vengono fatte da chi lo sostiene. Il suo smartphone è stato sequestrato ben due volte ed ha dovuto barattarne nuovamente un altro di nascosto. Ogni detenuto ha diritto a ‘25 puntì ogni settimane, da spendere allo spaccio del campo: solitamente si comprano le sigarette, che sono la merce più facile da scambiare con gli uomini del posto. Boochani, che inizialmente lavorava nell’anonimato, ora pubblica frequentemente aggiornamenti e foto delle condizioni in cui vivono e delle violenze subite dai profughi - dentro e fuori dal campo - catturando così l’attenzione dei media internazionali. A ben poco ha portato invece lo sciopero della fame durato due settimane e intrapreso con altri detenuti per denunciare le precarie condizioni in cui sono costretti a vivere. Vive in una tenda con altre quaranta persone, in mezzo allo sporco, dove dormire è quasi impossibile. Nell’aprile 2016 la Corte suprema della Papua Nuova Guinea ha ordinato di chiudere il centro dell’isola di Manu perché non rispetta i diritti sanciti dalla Costituzione. A novembre dello stesso anno, è stato trovato un accordo tra gli Usa e l’Australia. Si trattava di uno ‘scambio di migrantì: gli Stati Uniti avrebbero accolto 1250 profughi provenienti da Manu e da Nauru, in cambio dei richiedenti asili provenienti dall’America Centrale. Una volta divenuto Presidente, Donald Trump ha twittato: "Incredibile, l’amministrazione Obama ha accettato di prendere migliaia di immigrati illegali dall’Australia. Che stupido accordo!", demolendo così la piccola speranza nata tra i migranti pochi mesi prima. L’accordo precedente, inoltre, si trova in contrasto con il muslim ban (il decreto sull’immigrazione di Trump), dal momento che molti profughi appartengono alla lista dei paesi avversi agli Stati Uniti. Per giunta, sull’isola di Manu e a Nauru, ci sono 1616 profughi. Che ne sarà dei 366 che non rientra negli accordi? Come avverrà la selezione? Behrouz Boochani ha già fatto sapere che andrà in America solo se sarà sicuro di denunciare in tribunale l’Australia. In questi giorni è in corso un’altra protesta all’interno del campo di Manu, e sta durando da più di un mese. Boochani si fa portavoce dei detenuti e scrive sul suo profilo e invoca una maggiore attenzione internazionale ai crimini del governo australiano a Manu e a Nauru: "In questi giorni la crudele politica australiana è una questione internazionale, e dovremmo lavorare di più con i media. I giornalisti nel mondo stanno seguendo la questione e sono certo che se il governo australiano intende portare i rifugiati con la forza in Papua Nuova Guinea, sarà un grosso errore politico. Il mondo sta guardando l’Australia". Nel campo si alternano sentimenti di rabbia, speranza e frustrazione. L’immobilismo e l’indifferenza delle istituzioni internazionali è alquanto imbarazzante, mentre nei centri di detenzione si prova a resiste. Lì dove, come dice Boochani, "la tortura peggiore tra quelle subite non è quella fisica, bensì quella del tempo".