Perché la riforma Orlando è "inaccettabile" per gli avvocati di Manuela D’Alessandro nuovaresistenza.org, 13 settembre 2017 Milano, circa 200 avvocati in toga stanno dando vita al flash mob per protestare contro il Ddl Orlando che prevede incisive modifiche al codice penale e a quello di procedura. L’iniziativa, organizzata dalla Camera Penale, è cominciata col concentramento dei partecipanti al primo piano del Palazzo e prosegue sugli scaloni dell’edificio che affacciano su corso di Porta Vittoria, l’ingresso principale alla "casa! della giustizia milanese. Tra i cartelli esposti: "Processo senza fine? No!" e "Difesa telefonica? No grazie". Chiaro il riferimento a quelli che i legali definiscono gli aspetti "inaccettabili" della riforma. Prescrizione lunga e processi eterni - Si dice spesso che col loro cavillare gli avvocati allunghino i processi. "Ma non è così - spiega il presidente della Camera Penale, Monica Gambirasio - tant’è vero che protestiamo contro l’allungamento della sospensione dei termini della prescrizione". Il codice riscritto prevede processi più lunghi per 3 anni. "Il decorso del tempo si verifica oggi, nella maggior parte dei casi, per l’inerzia dei pm nelle indagini preliminari. L’esito di un giudizio dilatato accrescerà la sfiducia dei cittadini nel funzionamento della giustizia per cercare di andare incontro all’esigenza della certezza della pena. Noi chiediamo che il processo venga celebrato in tempi ragionevoli ma nel rispetto delle garanzie per gli imputati". No ai processi in videoconferenza - Ora i detenuti vengono trasportati dalle carceri nelle aule dei processi per assistere ai procedimenti che li riguardano, salvo casi estremi previsti dalla legge di terrorismo o criminalità organizzata in cui è prevista la video - conferenza. "Con la riforma invece - puntualizza Gambirasio - si lascerebbe ai giudici ampia discrezionalità sulla partecipazione a distanza dei detenuti, anche per reati meno gravi. Il tutto peraltro a "costo zero" nel senso che la riforma non prevede una copertura finanziaria per installare gli apparati". Ma perché allontanare i detenuti dalle aule è pericoloso? "Siamo di fronte a una mortificazione del diritto delle difesa: un contro è avere il proprio assistito in aula, con la possibilità di parlare con lui e concordare strategie, un altro è difenderlo in video - collegamento". Una riforma a colpi di fiducia - Per la Camera Penale è "criticabile" anche la scelta di proporre il voto di fiducia per l’approvazione del disegno di legge" perché la delicata riscrittura di pezzi del codice penale e di procedura penale non può avvenire attraverso "la soppressione del dibattito parlamentare". "In ogni caso - conclude Gambirasio - questa non è una riforma organica, con un’idea complessiva della giustizia. Salvo poche eccezioni, il Ddl Orlando appare difficile da condividere". La legge del 416bis compie 35 anni. Denunce, arresti e detenuti non calano di Camilla Cupelli La Stampa, 13 settembre 2017 Denunce e arresti per l’associazione di stampo mafioso non calano significativamente nel tempo: è questa la fotografia restituita dai dati dell’Istat e della Direzione Investigativa Antimafia, che abbiamo analizzato in occasione dell’anniversario dell’approvazione della legge. Con l’ok definitivo del 13 settembre del 1982 la legge n. 646, conosciuta come "Rognoni-La Torre", ha portato nel codice penale il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. I numeri - In base ai dati dell’Istat, il numero di denunce effettuato dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria per 416 bis è andato progressivamente diminuendo tra il 2010 e il 2012, ma ha ricominciato a salire negli ultimi anni. Nel 2014 e nel 2015 si sono registrate rispettivamente 89 e 85 denunce, contro le 68 del 2012 e le 75 del 2013. Numeri comunque più bassi rispetto a un decennio fa: nel 2007 le denunce erano state infatti 140. Per quanto riguarda i detenuti presenti nelle carceri, condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, le cifre raccontate dall’Istat, invece, dipingono un quadro in peggioramento nel tempo. Mentre nel 2008 i detenuti per 416 bis erano 5.257, nel 2016 il numero è salito a 6.967 e, secondo i dati provvisori del 2017, aggiornati al 30 giugno, il numero arriva a 7.048. Nel report semestrale della direzione investigativa antimafia si legge infine che nel 2016 le persone denunciate e arrestate per associazione a delinquere di stato mafioso sono 2.619. Se si aggiungono i soggetti denunciati e arrestati per 416 ter (scambio politico-mafioso) e condannati con aggravante del metodo mafioso (art. 7 D. L. 152/1991), la cifra sale a 4.792. Il dato più aggiornato sul sito del Ministero della Giustizia in merito ai procedimenti penali per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso sono invece del 2013: si parla di un totale di 5.967 procedimenti contro noti e ignoti. La legge n. 646 - L’approvazione della legge venne accelerata dopo l’omicidio del segretario regionale siciliano del Partito Comunista Italiano, Pio La Torre, commesso il 30 aprile, e del prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre dello stesso anno. Nel testo si legge che "chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da due o tre persone è punito con la reclusione da tre a sei anni". L’associazione è considerata di tipo mafioso quando chi ne fa parte si avvale della "forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva" per commettere delitti, acquisire attività economiche, concessioni, appalti pubblici o vantaggi, sia per sé che per altri. Nelle recenti interpretazioni della giurisprudenza l’applicazione della pena per questo reato è stata allargata anche a forme non tradizionali di organizzazione mafiosa, ma che rispettano i requisiti del "vincolo associativo" e della condizione di "assoggettamento e omertà". Un caso esemplare è quello della mafia rumena a Torino: lo scorso giugno la Cassazione ha annullato le assoluzioni dall’accusa di associazione di stampo mafioso per i soggetti coinvolti nell’omonimo processo e ha ordinato un nuovo processo in Corte d’appello, proprio tenendo conto della nuova interpretazione giurisprudenziale. I 5 Stelle dicano che giustizia vogliono darci di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2017 Due domeniche fa i dioscuri del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista sono intervenuti, rispettivamente, a due manifestazioni completamente diverse tra loro. Il primo - che si appresta ad essere designato, attraverso votazione in rete, candidato premier (la designazione risulterà inconsistente e poco credibile se voteranno soltanto i soliti 40 mila iscritti) - si è, serioso e compunto, presentato, reduce da Harvard, nel "salotto" dei padroni della finanza e della economia nazionale, guadagnandosi la dura reprimenda dell’ex senatore e magistrato Ferdinando Imposimato, da sempre vicino al Movimento. Di Maio ha rassicurato i "padroni del vapore" affermando che il Movimento 5 stelle non è una forza "populista" ed ha precisato di "credere nel primato della politica" (meglio avrebbe fatto a dire di "credere nel primato della legge"). Il secondo, invece, spigliato e per nulla supponente, si è presentato alla festa versiliana del Fatto Quotidiano dove ha riscosso uno strepitoso successo tenendo efficacemente testa a due "mastini" del calibro di Peter Gomez e Massimo Fini che lo incalzavano con insidiose domande su grandi temi di politica interna ed estera (sicurezza, immigrazione, missioni di guerra, ecc.) fornendo precise e convincenti risposte su come il Movimento - ove dovesse assumere il governo del Paese - intende, in concreto, affrontare e risolvere tali rilevanti problematiche. È mancato, invece, il contraddittorio sui temi della Giustizia, (peraltro, quasi sempre assenti nei dibattiti televisivi cui partecipano esponenti dei 5 stelle), sicché, allo stato attuale, non è dato conoscere se, ed in che modo, il Movimento, ai fini di rendere più celere e certa la Giustizia civile e penale - oggi scandalosamente lenta e incerta - intenda riformare i relativi, inefficienti, sistemi processuali, e se, e in che modo, intenda riformare il Csm ai fini di stroncare la degenerazione correntizia e politica ed evitare che possano essere adottati provvedimenti ispirati da logiche lottizzatorie, come, purtroppo, spesso è avvenuto. È, pertanto, necessario che il Movimento espliciti, con urgenza, in pubblici dibattiti, un articolato programma su come intende riformare la Giustizia e dal quale risulti dettagliatamente: a) se, intende, ed in che modo, riformare il processo civile e penale, iniziando, immediatamente, dall’istituto della prescrizione che va interrotta dalla emissione del decreto che dispone il giudizio; b) se, ed in che modo, prevede di modificare il sistema di elezione dei membri togati del Csm e se ritenga che l’unico sistema idoneo ad eliminare la degenerazione correntizia sia quello dell’estrazione a sorte dei componenti; c) se intende prevedere l’assoluta incompatibilità ad essere nominati membri laici dei professori universitari e degli avvocati che ricoprono o abbiano ricoperto, a qualsiasi livello, cariche politiche; d) se intende proporre l’abrogazione della disposizione contenuta nell’art. 104 Cost. secondo cui "fanno parte di diritto del Csm il primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione", escludendoli, comunque, in ogni caso, dal comitato di presidenza; e) se intende prevedere che il V. Presidente del Csm non venga eletto dal "Plenum" ma sia estratto a sorte tra i membri laici; f) se intende, ed in che modo, riformare la sezione disciplinare del Csm (e il relativo procedimento), prevedendo, in ogni caso, che a presiedere la sezione sia persona diversa dal V. Presidente; g) se intende prevedere il divieto assoluto per i magistrati di assumere incarichi extragiudiziali ivi compresi l’insegnamento e la partecipazione a commissioni esaminatrici (ad eccezione di quella per l’accesso alla magistratura la cui composizione va radicalmente modificata sia per renderla molto più autorevole sia per sottrarla ai "tentacoli" dell’Asm); h) se intende prevedere l’abrogazione della norma che consente al Governo di nominare un quarto dei Consiglieri di Stato. Si tratta di questioni fondamentali per i cittadini che hanno il diritto di essere informati, in maniera dettagliata, in vista delle prossime elezioni, da un Movimento che ha raccolto oltre otto milioni di voti poiché si proponeva di combattere partitocrazia, lobby e poteri forti (principi nei quali sembrano ancora fortemente credere, tra gli esponenti più rappresentativi, Di Battista, Fico e la Taverna ai quali è sostanzialmente rivolto l’invito contenuto nel presente articolo), ed è a questi elettori - e non ai 150 mila iscritti (e a quei 40 mila che votano in rete) - che il Movimento, nell’attuazione dei principi fondanti, deve dar conto, astenendosi dall’incontrare, come purtroppo è avvenuto, gerarchie ecclesiali, ambasciatori dei Paesi della Ue, Confindustria, vale a dire gli effettivi detentori del potere reale. La rana gonfia della delega sulle intercettazioni di Vincenzo Vita Il Manifesto, 13 settembre 2017 Quella delle intercettazioni è ormai un’ossessione, gonfia come una rana di messaggi impliciti e di più espliciti valori simbolici. Si vuole dire, da parte del governo, che l’informazione non è un bene comune, bensì una costola di chi ha in mano il potere, ancorché pro tempore. E il grado di trasparenza dipende dalle scelte soggettive di chi dà le carte. Per di più, una politica così debole deve stringere i bulloni e rendersi impermeabile al giudizio dei "sudditi". E sì, perché tutta questa vicenda non riguarda i poveri della terra, su cui è considerato lecito esercitarsi con cinico voyeurismo, bensì le aree privilegiate della società. Chissà se il ministro della giustizia Orlando, che pure è persona di buon senso con qualche velleità di distinzione dal mainstream prevalente, ha ben calcolato i danni che provocherebbe - se mai entrasse in vigore - la delega prevista dalla legge 103/2017 sul processo penale (passata con il voto di fiducia), stando al testo girato su carta intestata del ministero. È vero che il ministro si è parzialmente dissociato, ma il colpo di freni potrebbe essere solo un modo per stemperare le polemiche, visto che le consultazioni di inizio settimana con l’unione camere penali e con l’associazione magistrati si sono svolte sulla base dell’articolato contestato. Quest’ultimo conteneva (contiene?) aspetti tanto gravi quanto grotteschi. La federazione della stampa ha scritto una lettera al ministro in cui si sostiene che lo schema di decreto è in contrasto con le norme europee. Del resto, la scelta di imporre la scrittura di un sunto delle conversazioni telefoniche significa contraddire le regole elementari della narrazione, dove sono proprio i particolari apparentemente secondari e soprattutto i virgolettati ad agevolare l’interpretazione. Il resto, quello non reso noto, verrebbe custodito in archivio apposito. I malintenzionati sono, di conseguenza, spinti a maggior ragione a fare "mercato nero" delle parti segrete. La trasparenza è l’unico mezzo concreto per contrastare eccessi e devianze, rendendo agevole e "normale" la conoscenza. E poi, il divieto di registrazione di certi colloqui, magari in un bar, in un ristorante, o in un distributore di benzina. Ecco, se si applicassero le disposizioni immaginate, forse sapremmo poco o nulla della ultime vicende criminali italiane: da "Mafia Capitale" all’affare Consip. Ha fatto bene la federazione della stampa a dichiararsi indisponibile a qualsiasi incontro se non vengono definiti i margini reali della discussione, e se Orlando non chiarisce che ne è della promessa misura sulle querele temerarie. Le esose richieste di risarcimento ai danni di giornalisti spessissimo precari e free lance sono un ricatto permanente, moralmente inaccettabile. Invece che alle intercettazioni si pensi ai problemi concreti di una professione ormai difficile e rischiosa. Vedremo che succederà nei prossimi giorni. Alle reazioni polemiche di 5Stelle e di Sinistra italiana si è unita una presa di posizione preoccupata del capogruppo del partito democratico in seno alla commissione giustizia della camera dei deputati Walter Verini. Se non si prenderà atto dell’assurdità dell’ennesima forzatura, sarà indispensabile costruire una vasta mobilitazione: già avvenne quando governava Berlusconi. Diverse associazioni ("Articolo21" e "NoBavaglio") hanno lanciato appelli e richieste di impegno. E ci sovviene la grande manifestazione del 3 ottobre 2009 sulla libertà di informazione, in piazza del Popolo a Roma: c’era anche Paolo Gentiloni. Intercettazioni, per l’Anm il nodo dell’udienza filtro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2017 Un apprezzamento nel metodo, visto che il testo del decreto è ancora provvisorio e che si è aperto un confronto preventivo. Ma perplessità nel merito. Ieri al ministero della Giustizia, nel "giro" di consultazioni avviato in vista della redazione del decreto legislativo di riforma della disciplina delle intercettazioni, è stata la volta dell’Anm. I maggiori dubbi dei magistrati riguardano l’introduzione dell’udienza filtro per selezionare le intercettazioni rilevanti da acquisire in dibattimento separandole dal materiale irrilevante che non può essere utilizzato: il timore è che un meccanismo di questo genere possa dilatare i tempi, andando a cozzare con l’esigenza di assicurare una durata ragionevole al processo. Altro punto critico è rappresentato dal divieto di riportare negli atti i virgolettati, da sostituire con i contenuti delle conversazioni. E poi l’utilizzo dei captatori informatici, i cosiddetti trojan, per intercettare gli smartphone nel corso di indagini: la bozza, infatti, lascia inalterate le regole attuali se si procede per i reati di mafia e terrorismo, ma introduce forti limiti negli altri casi. Ieri è stata la volta anche del Consiglio nazionale forense. In parziale dissenso con Anm, il presidente Andrea Mascherin ha sottolineato come "non si rilevano particolari criticità nell’introduzione della possibilità di richiamo al contenuto invece che al virgolettato, purché si redigano delle linee guida che garantiscano l’omogeneità delle modalità di riassunto sul territorio e che il riassunto stesso sia esauriente, ciò sia nell’interesse dell’accusa che della difesa". Quanto alle osservazioni proposte al ministro, Mascherin ha spiegato di ritenere necessario che all’articolo 103 del codice di procedura penale venga inserito il divieto assoluto di ascolto del difensore: l’interesse alla riservatezza deve prevalere su ogni altra considerazione di carattere investigativo. Soprattutto perché l’ipotesi di utilità e utilizzabilità delle intercettazioni tra difensore e assistito è assolutamente rara e poco probabile. In alternativa al divieto assoluto di ascolto - ha aggiunto Mascherin - è stata avanzata l’ipotesi di prevedere che il pm, nella sua richiesta di disporre le intercettazioni dell’utenza dell’indagato, debba illustrare i motivi specifici e gli argomenti a sostegno dell’esistenza di un concreto fumus in diritto e in fatto, che giustifichi anche l’ascolto dell’eventuale colloquio tra avvocato e assistito. Il giudice dovrà conseguentemente poi fornire specifica motivazione nell’autorizzare anche l’ascolto di questi colloqui. E dalla Fnsi ieri è arrivata una lettera del segretario Raffaele Lorusso nella quale da una parte si apre a un confronto che però affronti anche il nodo delle querele temerarie e dall’altra si sottolinea il diritto riconosciuto ai giornalisti a un’informazione non solo su fatti di rilevanza penale. "La propaganda fascista è reato". Ok della Camera, la legge passa al Senato di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 13 settembre 2017 Primo via libera all’introduzione nel codice penale del reato di propaganda fascista. Polemiche per il caso obelisco. Via libera dell’Aula della Camera alla proposta di legge, a prima firma Emanuele Fiano (Pd), che introduce l’articolo 293-bis nel codice penale relativo al reato di propaganda fascista. I voti a favore sono 261, i voti contrari 122 e 15 gli astenuti. Hanno votato a favore Pd, Ap, Mdp, Sinistra italiana, Civici e Innovatori, Ds-Cd. Hanno votato contro M5S, FI, Lega, FdI, i verdiniani. Il testo, composto di un unico articolo, è stato modificato durante l’esame da parte dell’Assemblea. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato. Le modifiche - La nuova formulazione recita: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque propaganda i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero dei relativi metodi sovversivi del sistema democratico, anche attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne fa comunque propaganda richiamandone pubblicamente la simbologia o la gestualità, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. La pena è aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici". Il caso obelisco - La proposta ha fatto discutere per una dichiarazione del capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali: Fiano, durante una diretta radiofonica, ha detto di non essere contrario alla cancellazione della scritta Mussolini Dux dall’obelisco dell’Olimpico a Roma. Una frase che gli ha attirato addosso accuse di censura: "Immagino che la prossima proposta di Fiano sarà il rogo dei libri. #obelisco", ha scritto ad esempio su Twitter il segretario del Movimento Nazionale, Gianni Alemanno. "Speriamo che il senatore Fiano non proponga di abbattere" la stazione di Milano, ha scritto su Facebook Viviana Beccalossi, responsabile milanese di Fratelli d’Italia. Ma poi il deputato ha precisato: "Non sono d’accordo con l’abbattimento dei monumenti o edifici dell’epoca del ventennio o con misure iconoclaste di qualsiasi foggia. La cancellazione di quella scritta non è una mia proposta e non è certo una priorità. Non è in alcun modo oggetto della legge che voteremo oggi e per la stessa legge non sarebbe reato. Il provvedimento che votiamo oggi alla Camera si occupa della propaganda o dell’apologia dell’ideologia fascista, non di architettura, arte o altro. Per me quella scritta può rimanere, non è oggetto della mia attenzione". Il tweet grillino - Si è invece attirato diverse critiche sui social il deputato grillino Carlo Sibilia che durante la discussione nell’aula di Montecitorio ha twittato questa frase: "Oggi la Apple presenta l’iPhone8 e noi in Parlamento siamo costretti dal Pd a discutere di fascismo contro comunismo". L’estate difficile - La proposta Fiano, formulata sulla scia delle leggi Scelba e Mancino, arriva dopo settimane in cui l’estrema destra è tornata a farsi sentire. Dallo stabilimento fascista di Chioggia al blitz di CasaPound sul lungomare di Ostia, dai cartelloni che inneggiavano Mussolini Uno di noi con Salvini in provincia di Salerno ai manifesti di Forza Nuova. Per finire con quella marcia di Roma, che la sindaca Virginia Raggi vuole impedire, organizzata per il 28 ottobre, 95° anniversario della marcia che portò Mussolini al potere. Auto-riciclaggio con rischi ampi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2017 Il recepimento della Quarta direttiva risparmio (895/2015 via dlgs 90/2017) e il "rodaggio" del nuovo reato di auto-riciclaggio (legge 186/14) aumentano il perimetro degli adempimenti e i rischi di sanzione per professionisti, intermediari e aziende, nel buio peraltro di una giurisprudenza ancora tutta da creare. Dalle segnalazioni di operazione sospetta, con un’area molto più ampia rispetto alla fattispecie penale, fino ai protocolli aziendali per prevenire la responsabilità sociale del dlgs 231/01, lo scenario in continua mutazione solleva preoccupazioni tra professionisti e manager. Se ne è parlato ieri al convegno organizzato da Fondazione forense e da Fabbrica della legalità in un dibattito a più voci che si ferma però sulla soglia, finora inesplorata, dell’approccio giudiziario. Gaetano Ruta, sostituto procuratore a Milano, ha spiegato che tra intestazione fittizia di beni (art 12-quinquies legge 356/92, con cui veniva punito l’auto-riciclaggio) e il nuovo auto-riciclaggio non c’è bis in idem, perché nella seconda ipotesi (più ampia) manca la fittizietà del trasferimento dei beni/valori. Quanto al professionista/intermediario che aiuta/agevola il cliente a riciclare proventi illeciti (per esempio con investimenti esteri) l’imputazione del primo non potrà essere di concorso in auto-riciclaggio ma di riciclaggio tout court, più ampia in quanto privo di clausola di salvaguardia sul godimento personale. E proprio il godimento personale è tema di confine e di conflitto. Il Gip di Milano ha recentemente convalidato il sequestro operato dalla Gdf di 380mila euro in gioielli a un indagato per evasione fiscale, negando appunto la qualifica di post factum non punibile. Secondo Ruta, in tema di auto-riciclaggio, anche la scelta della piazza finanziaria può orientare il magistrato nel valutare il "concreto ostacolo all’identificazione": una piazza black list in questo contesto non equivale alla Borsa di Francoforte. Antonio Martino (Dla Piper) si è chiesto perché, nelle già basse statistiche giudiziarie di utilizzo delle nuove fattispecie, non figuri per nulla la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (in vigore da 17 anni), una sorta di grimaldello per colpire le condotte più mascherate. Senza considerare poi che l’auto-riciclaggio, reato a formulazione aperta, è un grosso problema per i protocolli di prevenzione 231 delle imprese più strutturate. Mastella assolto 9 anni dopo la caduta di Prodi. "Ho sofferto tanto" di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 13 settembre 2017 Accusato con la moglie Sandra Lonardo, l’ex leader dell’Udeur si dimise da Guardasigilli e mandò in crisi il governo. Per quanto Berlusconi ci provò con la compravendita dei senatori, la vera causa della caduta del governo Prodi nel 2008 furono le dimissioni di Clemente Mastella da ministro della Giustizia. Scelse di farsi da parte, ma anche di ritirare l’appoggio dell’Udeur alla coalizione, quando dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere lo misero sotto inchiesta accusandolo di concussione nei confronti del governatore della Campania dell’epoca, Antonio Bassolino. Il terremoto politico - Sono passati oltre nove anni da quell’inchiesta e ieri Mastella è stato assolto. Non impose cariche per esponenti del suo partito, non commise nessun altro tipo di reato. Assolti anche tutti gli altri imputati, tra i quali la moglie dell’attuale sindaco di Benevento, Sandra Lonardo, che all’epoca conobbe addirittura gli arresti domiciliari Nel gennaio del 2008 il Paese subì dunque un terremoto politico e una crisi di governo per nulla, si scopre oggi. E Mastella ne ricorda, però, soprattutto le conseguenze sul piano personale e familiare. "Ho sofferto tanto", commenta adesso. E aggiunge: "La mia famiglia e io abbiamo patito cose inimmaginabili. Sono contento soprattutto per la giustizia, perché questa sentenza conferma che la giustizia esiste e bisogna crederci, anche quando i tempi sono molto lunghi". Lui nel frattempo ha vissuto anni lontano dalla politica, ma non ce l’ha fatta a non tornare in gioco, anche se in qualche momento avrà pensato che era davvero fuori da tutto. La vittoria a Benevento - Invece ora è sindaco a Benevento, e alla luce della sentenza emessa ieri dal Tribunale di Napoli, può tranquillamente restare al suo posto. In caso di condanna (il pubblico ministero Ida Frongillo aveva chiesto una pena di due anni e sei mesi) sarebbe invece in corso in quanto prevede la legge Severino e avrebbe dovuto lasciare la carica di primo cittadino. L’inchiesta nei confronti di Mastella disegnò l’Udeur come un centro di potere basato su illeciti di vario tipo. L’accusa principale rivolta al leader fu quella di aver imposto a Bassolino una importante nomina all’interno della Asl div Benevento, minacciando, in caso contrario, di ritirare la fiducia alla giunta regionale e di costringerla quindi a capitolare. Per la verità il primo a discolpare Mastella, nel corso di questi anni, è stato proprio Bassolino, che ha sempre negato di aver subito pressioni di alcun tipo. Alla fine se ne sono convinti anche i giudici. Le indagini - Nelle indagini, oltre a Sandra Lonardo, furono coinvolti numerosi altri esponenti dell’Udeur, ma ieri tutti sono stati assolti. In alcuni casi erano maturati anche i tempi per la prescrizione (la cui applicazione è stata chiesta dal pm) ma il Tribunale ha preferito entrare nel merito e pronunciarsi per una assoluzione piena. Di quella vicenda di quasi dieci anni fa rimane - oltre a un’inchiesta finita nel nulla e a una crisi di governo - soltanto il ricordo di una surreale conferenza stampa, con il procuratore dell’epoca di Santa Maria Capua Vetere, Mariano Maffei, che non si rese conto di essere ripreso da decine di telecamere e che al termine provò a pretendere che nessuna immagine venisse mandata in onda. In realtà era già stato tutto trasmesso in diretta e in diretta andò anche la sua piccatissima reazione. Assoluzione di Mastella: il contrario della giustizia di Alessandro Barbano Il Mattino, 13 settembre 2017 Ma l’assoluzione con formula piena di Mastella non mette la parola fine a una normale vicenda giudiziaria, bensì a un "monstrum" giuridico. È fuori luogo però l’aggettivo kafkiano: qui non c’è nulla di incomprensibile, labirintico, assurdo o angosciante. Qui tutto è fin troppo chiaro. Mastella è stato messo sotto accusa per aver caldeggiato una nomina a commissario di una Asl. L’allora governatore della Campania, Bassolino, nei panni della presunta vittima, chiamato a testimoniare dalla difesa (perché l’accusa, che pure avrebbe il dovere di cercare tanto le prove a carico, quanto quelle a discolpa, non ha mai ritenuto di ascoltarlo) ha affermato che si è trattato di un fatto politico, essendo la nomina sua responsabilità ed avendo egli esercitato il suo potere in via del tutto autonoma. Ciononostante il processo è durato dieci anni e l’assoluzione è arrivata solo ora. La volontà di portare la dialettica politica sotto l’imperio della legge penale, in nome di una campagna di moralizzazione di cui certa magistratura si è fatta negli anni paladina, ha trasformato un confronto interno alla compagine di maggioranza, che allora guidava la Regione, in una storiaccia nera, fatta di ricatti, di pressioni indebite, di sordida concussione. Tutto senza fondamento alcuno, apprendiamo ora dal giudice che ha emesso la sentenza. Quella iniziativa giudiziaria però produsse i seguenti effetti: le dimissioni del Ministro della Giustizia, la caduta del governo Prodi, l’eclisse di Mastella dalla scena politica nazionale, la messa sotto accusa della moglie di Mastella (anche lei assolta insieme ai due assessori regionali allora coinvolti), la criminalizzazione dell’Udeur, il partito guidato da Clemente Mastella. Dopo dieci anni, non c’è modo di fare come se tutto questo non fosse mai accaduto. È accaduto, e i magistrati, che hanno sostenuto l’accusa con ostinazione degna di miglior causa, ne portano intera la responsabilità morale. È facile raccontarla oggi come una storia d’altri tempi: Bassolino fa ormai il nonno a tempo pieno; Mastella, che ha la pellaccia dura del democristiano della prima Repubblica, è tuttora sindaco di Benevento, ma ha abbandonato il palcoscenico nazionale. Sul suo intero partito, ormai sciolto, pende ancora un’altra imputazione di associazione per delinquere, formulata dalla stessa procura che oggi viene sonoramente smentita. Dieci anni, in politica, sono tanti. Ma non ce la sentiremmo però di dire che sono abbastanza per giurare che in futuro di simili, abnormi vicende non si dovrà più parlare. Non è così, perché il tessuto normativo e quello dell’organizzazione giudiziaria non sono così cambiati in questi anni. La politica soffre lo stesso discredito di allora, ma soprattutto l’avviso di garanzia funziona allo stesso modo, lo squilibrio fra accusa e difesa pesa ancora sul processo, di separazione delle carriere non si parla, l’assetto dell’ufficio del pubblico ministero è rimasto sostanzialmente uguale, e i tempi della giustizia restano intollerabilmente lunghi. In queste condizioni, chi può dire che non si verificherà più che un ministro o un governo vengano travolti da un avviso di garanzia per scoprire solo dieci anni più tardi che quelle accuse erano senza fondamento? Ci sarebbe di che riflettere. Ci sarebbe... Storia di un giudice che decise di morire da innocente di Maria Antonietta Farina Coscioni* Il Dubbio, 13 settembre 2017 È una storia sconcertante. Una di quelle storie che lasciano l’amaro in bocca; è la storia è quella di un giudice, il Procuratore Generale di Catanzaro Pietro D’Amico. Comincia quasi dieci anni fa, nel 2008. L’alto magistrato si trova coinvolto in un’inchiesta che a suo tempo fece scalpore: quella "Why not?", condotta dall’allora procuratore Luigi De Magistris. Accuse che col tempo si rivelano completamente infondate. La riabilitazione è netta, chiara; solo sospetti, tutto viene archiviato; ma D’Amico esce da questa vicenda profondamente scosso: il solo fatto che si sia potuto dubitare del suo corretto agire, lo getta in uno stato di profondo sconforto. L’uomo, all’apparenza, è quello di sempre: sorridente, solare. Ma evidentemente qualcosa "dentro" si è rotto. Congiunti, amici, sanno di questo "disagio", ma non ne sospettano la profondità, la gravità di questa ferita che non riesce a rimarginarsi. Il 27 aprile 2010 D’Amico scrive a un amico, Edoardo Anselmi: "C’è poco da capire: in una situazione come la mia, io voglio morire perché aggredito da una malattia terribile in fase avanzata e terminale". Già: perché al magistrato, nel frattempo, è stato diagnosticato un tumore. D’Amico matura la convinzione che è meglio farla finita con "la dolce morte" da praticare là dove è consentito: in Svizzera; meglio scegliere come e quando, piuttosto di una lunga, lenta, dolorosa agonia senza scopo e speranza. "Sto pensando", scrive, "a qualcosa di indicibile, e che nessuno può immaginare. Vado in Svizzera poiché là é chi provvederà nel caso come il mio". Trascorrono così quasi due anni: D’Amico sembra determinatissimo nel suo proposito. Alla fine ottiene la documentazione necessaria: certificati che affermano l’esistenza di patologie che rendono possibile, in base alla legge elvetica il cosiddetto "suicidio assistito". Nell’aprile del 2013, a Basilea, presso il centro "Life Circle-Eternal Spirit", la vicenda si conclude: D’Amico trova la sua pace. L’inquietante storia, invece, comincia ora. Perché la famiglia, che nulla sa dei propositi di D’Amico, viene freddamente avvertita con una telefonata dell’avvenuto decesso; cerca di capire cosa è accaduto: chiede, e ottiene, che sia effettuata l’autopsia. Colpo di scena: D’Amico non era affatto malato di tumore, come forse credeva. Depresso, sì, per le ragioni che abbiamo detto. Ma l’autopsia, e approfonditi esami di laboratorio escludono l’esistenza di quella grave e patologia dichiarata da alcuni medici italiani, e asseverata da medici svizzeri. Clamoroso errore, diagnosi errate, che spingono D’Amico, già psicologicamente provato, a convincersi che l’unico modo per chiudere con dignità la propria esistenza, è quello di ricorrere al suicidio assistito? O, peggio: i documenti sono stati falsificati ad arte, per poter appunto accedere alla clinica svizzera e suicidarsi? È quello che invano la famiglia di D’Amico chiede da anni di sapere. La magistratura italiana, ripetutamente investita del caso, al momento non ha intrapreso particolari iniziative per accertare i fatti; e comunque la famiglia nulla sa. Come mai? Perché? Di questa sconcertante abbiamo trattato ne "La Nuda Verità", la trasmissione che conduco assieme a Massimiliano Coccia, ogni domenica alle 19.30 su "Radio Radicale". A "La Nuda Verità" abbiamo ospitato Francesca, la figlia del magistrato. Ha ripercorso con noi tutte le tappe della vicenda. Ha denunciato come al padre siano state diagnosticate patologie inesistenti, redatti certificati medici falsi; e rivendica il diritto di sapere come sono andate davvero le cose: "Mi chiamarono dalla Svizzera e mi dissero che mio padre era morto. Io cadevo dalle nuvole: ero convinta che fosse un errore, una omonimia. Invece era tutto tragicamente vero". Francesca non contesta l’aspirazione alla dolce morte, dice di rispettare la scelta di suo padre. Però ne fa un problema di deontologia: "Possibile che sia arrivato in Svizzera con due documenti sulle sue condizioni di salute e che nessuno abbia fatto accertamenti per capire, confermare, accertare? Quale medico si può arrogare il diritto di disporre della vita altrui? Voglio andare fino in fondo a questa faccenda, per capire come sono andate esattamente le cose e se sono stati commessi errori". Sullo sfondo di questa inquietante vicenda, i dilemmi e gli ineludibili interrogativi di sempre che lacerano le coscienze, quelle laiche come quelle dei credenti: come e quando si ha diritto di interrompere la propria vita? La depressione, pur nel suo stato profondo, va compresa tra le patologie che possono rendere possibile la "dolce morte"? Chi può stabilire quando il cosiddetto "mal di vivere" è incurabile? Fino a che punto il volere del soggetto va assecondato, e non si deve invece cercare di offrirgli alternative? Insomma: quali i limiti, e quali i diritti; come esercitarli, e fino a che punto esercitare la propria autodeterminazione? Ecco, al di là del caso specifico che abbiamo affrontato, l’essenza delle questioni. Che non vanno negate, e che bisogna, al contrario, cercare di "governare". *Presidente Istituto Luca Coscioni Processo penale: teste da risentire in appello anche in caso di assoluzione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 12 settembre 2017 n. 41571. Il giudice di appello per assolvere l’imputato condannato in primo grado deve ascoltare di nuovo la testimonianza della persona offesa, considerata decisiva in primo grado. La Corte di cassazione, con la sentenza 41571 depositata ieri, afferma l’obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale non solo nel caso in cui si passi dall’assoluzione alla condanna, ma anche quando avviene l’inverso. Una tutela nei confronti della parte lesa imposta - sottolineano i giudici della seconda sezione penale - non solo dall’articolo 6 della Cedu sull’equo processo ma anche dal nuovo codice di procedura penale (legge 103\2017). La Suprema corte si era recentemente attivata per allineare la sua giurisprudenza ai principi dettati da Strasburgo. La Cedu con una serie di pronunce aveva affermato l’obbligo di rinnovare l’istruzione o di ascoltare di nuovo i testi, nel caso il giudice di appello, consideri - diversamente dal "collega" di primo grado - attendibili le dichiarazioni dell’accusa limitandosi però solo a leggere senza ascoltare di nuovo i testi chiave. La Cassazione si è conformata affermando che l’articolo 603 del Codice di procedura penale, in una lettura "convenzionalmente orientata" impone di rinnovare l’istruttoria dibattimentale per riascoltare i testimoni decisivi in primo grado "nel caso in cui la Corte d’Appello intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione dell’imputato". Sul tema sono intervenute le Sezioni unite (sentenza 27620/2016 e 18620/2017) per affermare sia la rilevabilità d’ufficio della violazione sia l’estensione del principio al giudizio abbreviato. Con la sentenza di ieri la Cassazione fa un passo in più affermando la necessità di usare lo stesso criterio anche in caso di assoluzione in appello, in considerazione del principio di fondo dell’equo processo contenuto nelle sentenze Cedu e dei recenti interventi normativi in attuazione della direttiva 2012\29\Ue su diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (Dlgs 212/2015) seguito dalla legge 103/2017 che modificato il codice penale e di rito. Il legislatore - spiegano i giudici - ha così ridefinito il volto del processo ridisegnandolo in un’inedita veste "triadica", nel quale la vittima del reato è una figura processuale con ampio diritto di partecipare e di conoscere gli sviluppi futuri del procedimento. E la testimonianza è certamente una forma di partecipazione della persona offesa al processo penale che ha il duplice scopo di consentire alla "vittima" del reato di servirsi del processo per ottenere giustizia e di realizzare l’interesse pubblico all’accertamento della verità. In sede di redazione del nuovo codice di rito - proprio per non sacrificare la ricerca della verità - è stato accantonato il dubbio sull’incompatibilità della persona offesa costituita parte civile a testimoniare, in quanto portatrice di un interesse personale. I giudici precisano che il dovere del giudice di riascoltare il teste "vale tuttavia solo nei casi in cui si possa effettivamente parlare di differente valutazione della prova dichiarativa: non perciò quando emerga che la lettura della prova sia affetta da errore "revocatorio", per omissione, invenzione o falsificazione". L’adempimento dell’obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale per assumere di nuovo la prova decisiva non deve tuttavia - avverte la Suprema corte - indurre il giudice a pensare che non sia necessaria una sentenza con motivazione rafforzata. La Cassazione controllerà attentamente le ragioni che giustificano la riforma del provvedimento impugnato. Omicidio, la premeditazione si valuta sulla base di una verifica preliminare di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2017 Il giudice non può fondare l’aggravante della premeditazione valorizzando solo l’esistenza del rapporto conflittuale tra l’omicida e la sua convivente. La Cassazione dice la sua (la sentenza è la numero 41586 depositata ieri), sull’omicidio di Porto Ercole. Era l’ottobre del 2013 quando una donna ucraina di 47 anni venne strangolata dal suo convivente, un tecnico informatico. Reo-confesso l’uomo, 49 anni, confidò alle forze dell’ordine di aver gettato il corpo della vittima in una scarpata sull’Argentario. Arrestato dopo la confessione, la Procura ha chiesto per lui la pena dell’ergastolo (da scontare a 30 anni per la scelta del rito abbreviato) per omicidio volontario pluriaggravato, con la premeditazione e l’abuso di relazioni domestiche. Nel 2016 la Corte di assise di appello di Firenze ha concesso le attenuanti generiche, rideterminando il trattamento sanzionatorio in diciannove anni. Nella sentenza depositata ieri, i giudici della Cassazione ritengono congrua la motivazione della sentenza impugnata, nel valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato, nel momento in cui si accingeva all’omicidio. In merito alle circostanze aggravanti, la Corte ricorda che il processo di sedimentazione psicologica del progetto criminoso dell’imputato deve essere valutato in termini flessibili ed adeguati alle emergenze del caso concreto. Nel delitto di Porto Ercole - si legge nella sentenza - sarebbe stato utile verificare quali fossero le effettive intenzioni dell’uomo prima della cena consumata insieme con la vittima. La Corte d’appello avrebbe cioè dovuto compiere una verifica preliminare, volta a scandagliare condizioni cronologiche e volitive dell’uomo. Per i giudici l’assenza di indicazioni motivazionali non consente di ritenere effettivamente sussistenti gli elementi dell’aggravante della premeditazione. La Cassazione, pertanto, annulla la sentenza limitatamente alla circostanza aggravante della premeditazione e rinvia per un nuovo esame ad altra Sezione della Corte di assise di appello di Firenze. Reati fiscali e abusi di mercato, la Corte Ue smonta le doppie sanzioni di Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2017 Il legislatore nazionale è libero di stabilire per gli stessi fatti illeciti un doppio binario di procedimenti paralleli (amministrativi e penali), più o meno vicini nel tempo. Questo, però, non implica che la legge nazionale possa introdurre delle limitazioni al principio del ne bis in idem, nemmeno per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione ed evitare che le frodi gravi restino impunite. A precisarlo è l’avvocato generale, lo spagnolo Manuel Campos Sánchez Bordona, della Corte di giustizia nelle conclusioni depositate nella mattinata di martedì 12 settembre relative a quattro procedimenti che riguardano l’Italia, tra cui anche quello che riguarda l’immobiliarista Stefano Ricucci (causa C-537/16). Le ricadute potrebbero essere importanti anche sul fronte fiscale. Tra i procedimenti esaminati (causa C-524/15) c’è, infatti, anche quello "arrivato" dal Tribunale di Bergamo sull’omesso versamento Iva. L’imputato era stato già chiamato a pagare, per gli stessi fatti, una sanzione pecuniaria. Di qui il dubbio, sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea in via pregiudiziale, che tale sistema di doppia sanzione (amministrativa e penale) contrasti con il principio del ne bis in idem, secondo cui non si può essere processati due volte per lo stesso fatto. A tal proposito l’avvocato generale richiama i principii dettati nella sentenza del 26 febbraio 2013 (causa C-617/10). In caso di doppio binario, le sanzioni tributarie, formalmente amministrative, si possono sommare alla sanzione penale solo se non hanno una sostanziale natura penale. È compito dei giudici nazionali accertare se le sanzioni tributarie imposte dall’amministrazione finanziaria italiana siano in realtà di natura penale. In tal caso, il principio del ne bis in idem risulterebbe violato. E quali sono i criteri applicabili? Quelli relativi alla qualificazione dell’illecito nel diritto nazionale, alla natura dell’illecito, alla natura e il grado di severità della sanzione. Su quest’ultimo profilo, la gravità delle sanzioni deve essere valutata in funzione di quella di cui è a priori passibile la persona interessata, e non di quella poi inflitta o eseguita: una possibile successiva riduzione della pena o la mancata esecuzione per la concessione di una grazia sono irrilevanti. Il caso Ricucci - Anche nel bis in idem nel settore degli "abusi di mercato", che comprende l’abuso di informazioni privilegiate e la manipolazione dei mercati, valgono le argomentazioni in materia fiscale. Per l’Avvocato generale, quindi, la doppia repressione amministrativa e penale delle medesime condotte illecite di abuso di mercato, priva di un meccanismo processuale per evitarla, non garantisce il rispetto del diritto al ne bis in idem. È il caso che riguarda l’imprenditore Stefano Ricucci, nei cui confronti potrebbe decadere la multa da 5 milioni di euro che avrebbe dovuto pagare per manipolazione del mercato all’epoca della tentata scalata a Rcs da parte dei ‘furbetti del quartierino. L’Avvocato generale rileva, poi, che il principio del ne bis in idem forma parte integrante del diritto primario dell’Unione e, in quanto tale, prevale sulle direttive, sui regolamenti (diritto derivato dell’Unione) nonché sulle norme interne degli Stati membri. Di conseguenza, in caso di conflitto fra il proprio diritto interno e i diritti garantiti dalla Carta, il giudice nazionale dovrà direttamente disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante una sentenza della Corte costituzionale. In caso di norme incompatibili con il diritto di ogni persona al ne bis in idem, quindi, il giudice nazionale o le autorità amministrative competenti dovrebbero, secondo l’Avvocato generale, archiviare i procedimenti pendenti, senza conseguenze negative per l’interessato che sia già stato perseguito o sanzionato in un altro procedimento penale o amministrativo avente natura penale. Trattamento rifiuti, il ripristino dell’autorizzazione non scrimina l’attività precedente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 12 settembre 2017 n. 41528. Scatta il reato di gestione non autorizzata di rifiuti per l’impresa che continui ad esercitare l’attività nel periodo intermedio tra la revoca dell’autorizzazione ed il suo ripristino. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 12 settembre 2017 n. 41528, chiarendo che non può essere neppure invocata la "buona fede" in quanto non si era di fronte a due provvedimenti contrastanti e contemporaneamente esistenti ma soltanto ad una loro successione nel tempo. La Corte di appello di Ancona, confermando la decisione del Tribunale, aveva ritenuto il ricorrente colpevole del reato previsto dall’articolo 256, comma 1, lettera a), del Dlgs n. 152 del 2006 per avere, "nella qualità di titolare di un’impresa impegnata nell’attività di recupero di macerie da costruzione e frantumazione di pietre, esercitato l’attività di recupero di rifiuti non pericolosi senza la prescritta autorizzazione". Mentre nessun rilievo infatti poteva essere accordato al fatto che la revoca della autorizzazione, avvenuta il 23 gennaio 2012, era stata a sua volta revocata il 22 ottobre del 2013 "con efficacia ex nunc". Una lettura confermata dalla Suprema corte secondo cui "è evidente" che le condotte ascritte all’imputato sono "ampiamente anteriori" alla data di ripristino dell’autorizzazione e dunque riguardano un periodo in cui non aveva alcuna copertura amministrativa per poter esercitare l’attività di recupero. Né tanto meno può essere presa in considerazione la supposta buona fede dell’imputato "fondata sulla condotta della Provincia di Pesaro Urbino", che aveva "revocato il proprio precedente provvedimento con il quale era stata cancellata la precedente iscrizione dal registro delle imprese autorizzate alla gestione dei rifiuti non pericolosi". Infatti, prosegue la decisione, in materia contravvenzionale, la scriminante della buona fede "presuppone la esistenza di un positivo comportamento della pubblica Amministrazione in atto al momento in cui la condotta contestata è stata realizzata". Per cui nel caso specifico poteva operare solo se di fronte a "provvedimenti della pubblica amministrazione aventi segno e significato opposti rispetto alla affermazione della illiceità del fatto contestato, sicché il destinatario di essi potrebbe legittimamente nutrire dubbi in ordine alla effettiva contrarietà normativa di una condotta che sia consentita alla luce di un atto vigente e vietata secondo i termini di un altro eventuale provvedimento". Ma, prosegue la decisione, in questo caso "non vi è la contemporanea emissione o comunque vigenza di provvedimenti amministrativi di significato contrastante, essendoci, semmai, una successione nel tempo di provvedimenti diversamente orientati". Mentre "il fatto che al momento in cui la condotta è stata contestata la fattispecie era regolamentata dal solo provvedimento di cancellazione del prevenuto dal registro delle imprese autorizzate alla gestione dei rifiuti, esclude che l’imputato possa legittimamente vantare un qualche forma di buona fede in relazione alla prosecuzione della condotta non più autorizzata". Una buona fede, conclude la Corte, "inammissibilmente argomentata sulla futura esistenza di un diverso provvedimento non presente al momento in cui la condotta è stata posta in essere". Lavoro precario per 20 anni. A Treviso riconosciuto il "danno esistenziale" di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 13 settembre 2017 Un gruppo di docenti ha insegnato passando da un contratto a termine all’altro. "Incertezza sulle aspettative della vita". Riceveranno fino a 15mila euro di indennizzo. Dieci, dodici, anche vent’anni di lavoro precario ininterrotti. Possibilità di pianificare la vita, avere il mutuo per la casa o anche solo metter su famiglia compromesse. Esiste la possibilità di vedersi risarcito il danno per un disagio tanto prolungato? Secondo un provvedimento del giudice del lavoro di Treviso sì, tanto che è stato riconosciuto un risarcimento a 12 insegnanti che tra la fine degli anni 90 e il 2014 hanno "ballato" da un contratto a termine e l’altro sempre nell’incertezza assoluta sul loro avvenire. Il giudice ha sancito un accordo tra il gruppo dei docenti e il loro datore di lavoro (un centro di formazione professionale che fa capo alla Provincia di Treviso) riconoscendo l’esistenza del "danno esistenziale" e accordando a ciascuno di loro una somma che oscilla tra i 2 e i 15mila euro. Dieci mensilità, niente tredicesima - Il ricorso presentato dall’avvocato Silvia Benacchio chiedeva in prima battuta il pagamento di somme che avrebbero parificato il lavoro dei 12 insegnanti a quello dei loro colleghi di ruolo e in subordine, appunto, il versamento di un risarcimento per i disagi patiti in seguito al precariato. "Parliamo di persone laureate - racconta la legale, mettendo a fuoco la situazione - e con l’abilitazione all’insegnamento ma che per tutto il periodo preso inconsiderazione; venivano assunte a settembre e licenziate a luglio, percepivano nove o dieci mensilità l’anno, senza tredicesima, senza scatti di anzianità. Questo ha comportato sofferenza, frustrazione di ogni aspettativa, incertezza sul rinvio del posto di lavoro per un periodo che si è protratto per un decennio e anche oltre". "Illegittima reiterazione dei contratti" - Comparse in tribunale, le parti hanno deciso di sottoscrivere un accordo transattivo. Nel verbale firmato davanti al giudice Filippo Giordan viene dato conto del danno esistenziale "patito a seguito della illegittima reiterazione dei contratti a termine e della conseguente situazione di precariato patita, con pesanti ripercussioni nella vita privata e sociale di ciascuno - anche alla luce della situazione familiare dei ricorrenti (alcuni senza supporti economici, alcuni con figli minori) e della protrazione dell’instabilità lavorativa per circa 15 anni". Secondo la legge, infatti, un rapporto di lavoro a tempo determinato deve costituire l’eccezione non la regola, deve fare fronte a situazioni di urgenza e non prolungarsi all’infinito. Migliaia di lavoratori in tutta Italia, non solo insegnanti, potrebbero riconoscersi nelle vicissitudini dei docenti di Treviso e tentare la carta del ricorso al giudice per il "danno esistenziale", quantunque siamo di fronte solo a un provvedimento davanti a un giudice di primo grado. "Mi risulta - conferma l’avvocato Benacchio - che altri sempre a Treviso si apprestano a seguire questa strada e che altrettanto hanno intenzione di fare dei lavoratori precari davanti al tribunale di Verona". La Provincia: "Danno contenuto" - La controparte dei lavoratori, vale a dire l’amministrazione provinciale di Treviso parla invece di un esito della causa ridotto ai minimi termini e che non potrà costituire un precedente: "A seguito della costituzione della Provincia e delle difese degli avv.ti Carlo Rapicavoli, Mario Feltrin e Marco Zanon, i dodici insegnanti hanno deciso di rinunciare al posto fisso e a 36 mensilità. In cambio, la Provincia riconosceva loro un importo davvero contenuto: ovvero una media di € 6.500 ciascuno, corrispondenti ad un costo di circa 2,5 mensilità. Questo a fronte del rischio prospettato nel ricorso: ovvero dover assumere per sempre 12 lavoratori e pagare, a ciascuno dei 12 docenti, una somma superiore a 60 mila euro ciascuno". Il sovraffollamento nelle carceri italiane di Achille della Ragione Il Mattino, 13 settembre 2017 Anche quest’anno si è ripetuto il mesto rito estivo del pellegrinaggio dei parlamentari ai penitenziari per rendersi conto delle miserevoli condizioni di vita dei carcerati. I parlamentari hanno "scoperto" che la recettività più assurda, meno dello spazio in una cuccia di un cane, la si trova a Lucca, dove per ogni recluso in cella è disponibile meno di due metri quadrati. E poi un interminabile elenco di carenze, tutte già ben note e alcune che gridano vendetta e meriterebbero di essere portate davanti alle corti di giustizia europee: sovraffollamento record, condizioni igieniche disastrose, suicidi a catena per disperazione, personale di custodia insufficiente, mentre non si applicano pene alternative, mancano progetti per ammettere a un utile lavoro esterno e la giustizia, sempre più lenta, tollera che la metà dei reclusi sia in attesa di giudizio e di conseguenza, se la Costituzione non è carta straccia, innocente. Bisogna urgentemente passare dalla teoria alla pratica. Ma soprattutto fate presto per evitare che il problema si risolva da solo attraverso un’allucinate catena di suicidi: dall’inizio dell’anno sono quasi cinquanta. Come oramai sapete, il vostro cronista ama le citazioni. Vi affida questa del filosofo Luigi Lombardi Valluri, che parte dalla fede e arriva ai drammi terreni: il dogma dell’inferno è incostituzionale in quanto nessun atto, per quanto grave, può meritare una pena eterna e perché è contraria ai princìpi più avanzati del diritto, e specificamente del diritto influenzato dal cristianesimo, una pena che in nessun modo tenda alla rieducazione/riabilitazione del condannato. Altrettanto importante che tra qualche anno o lustro, ma ciò non avverrà mai, le cronache riportino la progressione in carriera di questi stessi pm, ricordando soprattutto il caso Tortora. L’amnistia come soluzione politica per quello che è stato il fenomeno della lotta armata di Giulio Petrilli osservatoriorepressione.info, 13 settembre 2017 Rilanciare la proposta dell’amnistia come soluzione politica per quello che è stato il fenomeno della lotta armata in Italia. In Francia e Germania non ci sono più detenuti di percorsi simili a quelli italiani. Qui ancora tanti e tante sono in carcere. La storia della lotta armata in Italia è definitivamente finita. Nacque negli anni settanta ma intorno al 1985 era già completamente conclusa. Poi in pochissimi e realmente anacronisticamente l’hanno riproposta. Ma dal 2003 non esiste proprio più. Sono dati di fatto inconfutabili. Detto questo ci sono ancora durissimi strascichi di quella vicenda. Uomini e donne, una trentina, detenuti nel carceri di massima sicurezza da più di trentacinque anni, qualcuno vicino ai quaranta! Alcuni ancora in semilibertà. I quattro, cinque, dell’ultima generazione sono sepolti vivi nelle aree riservate del 41 bis. La pensione sociale è stata tagliata (sarebbe un minimo reddito per la sopravvivenza), per chi è stato condannato per quelle vicende. La soluzione politica lo dice la parola stessa, dopo la chiusura giudiziaria già avvenuta, sancirebbe anche la possibilità di una ricostruzione storico politica di quella storia, che può avvenire quando tutti i protagonisti saranno liberati. Come rilanciare questa battaglia dell’amnistia? Oggi francamente i movimenti e la nuova sinistra, sono in difficoltà. La cultura libertaria, non è mai stata forte in questo paese ma ora sembra essersi persa. I detenuti e le detenute ancora in carcere per quella vicenda sono chiusi in se stessi e non hanno una apertura verso l’amnistia. Ma secondo me va rilanciata lo stesso, come battaglia politica generale sul tema. I nuovi movimenti sociali antirazzisti e per i diritti dovrebbero farla propria. Ma per fare questo dobbiamo impegnarci tutti e unitariamente. La soluzione politica è l’unico strumento per rilanciare una discussione e ricostruzione di quegli anni e di quella storia. Ed è l’unico modo per chiuderla, con la liberazione di tutte e tutti. In Francia e in Germania, paesi attraversati dello stesso fenomeno italiano non hanno più nessuna persona di quella storia in carcere. Campania: Samuele Ciambriello nuovo Garante dei detenuti della Regione ntr24.tv, 13 settembre 2017 È Samuele Ciambriello il nuovo Garante dei detenuti della Regione Campania. Ieri pomeriggio si è svolta in seno al Consiglio regionale la votazione, che ha eletto l’ex consigliere regionale quale successore di Adriana Tocco, recentemente scomparsa. Ventidue i voti favorevoli, 24 le schede bianche ed una nulla, con la maggioranza dei due terzi che si è espressa a favore di Ciambriello. Sannita di nascita, laureato in Teologia, Ciambriello è presidente della associazione La Mansarda, che da anni di occupa di detenuti e persone in difficoltà. Nel corso di questi anni, Ciambriello da volontario ha promosso vari corsi di formazione professionale in favore dei detenuti delle carceri campane. Sulmona (Aq): detenuto di 24 anni si uccide impiccandosi in cella di Ornella La Civita Il Messaggero, 13 settembre 2017 In quello che era noto come il "carcere dei suicidi" un 24enne della Campania si è soffocato con i lacci delle proprie scarpe. Trasferito da poco dal penitenziario di Benevento, il giovane era inserito nel registro dei "collaboratori di giustizia". Lo hanno ritrovato, morto, nella sua cella. Intorno al collo i lacci delle sue scarpe. Si è tolto la vita così, soffocandosi, F.Z., un 24enne detenuto arrivato nel supercarcere di Sulmona solo da qualche giorno. Trasferito dal carcere di Benevento, il giovane era nel registro dei collaboratori di giustizia. Dopo la visita psichiatrica che, pare, non abbia riscontrato alcun turbamento nell’uomo e certamente nulla che facesse ipotizzare che potesse arrivare a togliersi la vita, il ventiquattrenne è stato accompagnato nella sua cella. Poi, lunedì scorso, sebbene la notizia sia trapelata solo nella tarda serata di ieri, gli uomini di guardia hanno capito che stava accadendo qualcosa. Sono entrati nella cella e lo hanno trovato esanime. Hanno immediatamente allertato i soccorsi ma per il pentito non c’era già più niente da fare. Ai sanitari arrivati sul posto non è rimasto altro da fare se non certificarne il decesso. Nel supercarcere di Sulmona, già tristemente noto alle cronache come il carcere dei suicidi, l’ultimo episodio di questo tipo risale allo scorso 2012. Ma è il 2010 l’anno horribilis del supercarcere di via Lamaccio. Diciassette anni fa si tolsero la vita tre detenuti e ben undici furono i tentativi di suicidio. E in questi anni, chi ha diretto il supercarcere ha provato a lavare via quel marchio di carcere della morte. Ci sono state piccole trasformazioni. Una su tutte l’apertura al mondo esterno. Una azione che sembra aver funzionato. Almeno fino a ieri. Ora, con la morte del giovane detenuto, ancora una volta, si torna a parlare delle condizioni in cui vivono i carcerati e, con loro, delle situazioni che giornalmente vivono i baschi blu. Attualmente nel carcere di Sulmona il numero dei detenuti si aggira attorno ai 315. Ci sono carcerati che si trovano nella sezione reclusione ordinaria; quelli in alta sicurezza 1 e in alta sicurezza 3. Poi, ancora, ci sono detenuti nella sezione collaboratori e in quella degli internati. Prepotente si ripropone la questione del sovraffollamento del carcere che, spesso, oltre ad azioni di autolesionismo, sfociano in aggressioni nei confronti degli agenti. È di queste ultime ore, infatti, il dossier presentato dalle parti sociali che evidenzia come, le carceri in Abruzzo siano sempre più maglia nera. E Sulmona non fa eccezione. Il sindacato è sul piede di guerra al punto da non essersi seduto al tavolo convocato per contrattare la riorganizzazione del lavoro del penitenziario di via Lamaccio. Spoleto (Pg): "per noi detenuti al 41 bis solo 10 minuti al mese per chiamare casa" La Città, 13 settembre 2017 Lettera aperta di Luigi Iannaco, all’ergastolo a Spoleto. "Colloqui resi difficili, questa non è tortura?". Sofferenza, difficoltà fisiche e psicologiche, tortura. È questo il quadro descritto da una lettera sottoscritta lo scorso 19 luglio dall’ergastolano Luigi Iannaco, ex capo dell’omonimo clan con il nome dì "O Zi" Maisto, detenuto in regime di massima sicurezza al carcere di Spoleto. La lettera, vistata dalla censura prevista per legge e rigirata da una parente del detenuto, è un lungo racconto che denuncia e spiega in diciotto punti il calvario dietro le sbarre, senza risparmiare nulla. L’episodio più duro è un tentativo di suicidio, durante la permanenza in regime dì isolamento al carcere dì Novara. "Rimango in questa area riservata per mesi - racconta Iannaco - il magistrato di sorveglianza mi dà ragione ordinando la mia rimozione ma il Dap temporeggia per mesi, fino a portarmi al punto di non ritorno. Un giorno lego la corda alle sbarre della finestra e mi salvano gli agenti di Polizia penitenziaria. Qualcuno ha il coraggio di dire che questa non è tortura?". Il lungo testo affronta in diciotto punti l’estinzione del suo clan, imperante nei primi anni Duemila nel territorio tra Angri, Sant’Egidio e San Marzano sul Sarno. "Dal 2008 si asserisce che è estinto. Due collaboratori del 2010 e 2011 lo dicono a chiare lettere. Eppure sono ancora al 41bis. Perché?". L’attenzione punta sulle difficili condizioni quotidiane per i detenuti al 41bis, definito da Iannaco "anticostituzionale", ancora più inasprito dal decreto sicurezza del 2009 voluto dall’allora ministro Alfano. "Un padre può stare nel colloquio dì un’ora solo dicci minuti senza vetro divisorio, e gli altri 50 con il vetro - scrive Iannaco - l’amministrazione concede il dolce di tenere il bambino per dicci minuti e poi l’amaro per il resto del colloquio. E questa non la chiamate tortura psicologica continuata". Ancora, l’ex boss parla di sanità: "La Costituzione sancisce che tutti devono avere accesso alla sanità pubblica. Ma non aveva previsto i tagli alla sanità penitenziaria, infatti ho da anni una patologia alla schiena ormai cronica". Ancora, parla del garante. "C’è questa figura per ì diritti dei detenuti, ma in questo istituto c’è una regola che viola tale diritto. Chiunque chieda un colloquio con il garante deve rinunciare al colloquio famiglia. Non è possibile protestare pacificamente, anche senza oltraggio, danni o violenza. Qui protestare ti fa essere sottoposto a consiglio disciplinare, con il rischio di 15 giorni d’isolamento e di non poter ricevere il pacco viveri. Non posso ascoltare musica con il lettore cd o mp3 perché c’è un problema di sicurezza. Che c’entra la sicurezza? È meglio tenermi 22 ore a spappolarmi il cervello fino a impazzire? Questa non è tortura?". Iannaco parla dell’assurdo della telefonata mensile di dieci minuti ai familiari. "Sì era fatto richiesta per svolgere la telefonata in commissariati, caserme o questure, al posto del carcere più vicino, come dice la regola. E la risposa è stata no, nonostante la distanza e i familiari anziani o malati". Foggia: "separazione delle carriere in magistratura", 317 firme dai detenuti statoquotidiano.it, 13 settembre 2017 Si è prolungata oltre il tempo previsto ieri la raccolta firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere nel carcere di Foggia da parte di una delegazione del Partito Radicale: 317 le sottoscrizioni raccolte su 528 detenuti presenti, a fronte dei 368 da capienza regolamentare. "Facendo sottoscrivere la proposta di legge ai detenuti vogliamo dare anche a loro il diritto di poter determinare la vita del Paese", dichiara Rita Bernardini della Presidenza del Partito Radicale. Di seguito una trascrizione parziale del dibattito che si è tenuto ieri a Foggia - Libreria Ubik (a cura del giornalista di Radio Radicale inviato in Puglia, Emiliano Silvestri) Avv. Antonietta De Carlo - Responsabile della raccolta firme della Camera Penale della Capitanata. "Capita che magistrati passino da P.M. a giudicante e noi non siamo tranquilli sul fatto di trovarci davvero di fronte a un giudice terzo. Resta una "forma mentis" da accusatore. Il manifesto che abbiamo creato per la campagna mostra un arbitro che indossa la maglia di una delle squadre in gioco". Armando Dello Iacovo - Giudice Indagini Preliminari - Tribunale di Foggia. "Si tratta di un problema reale che pone dei condizionamenti; vedo con favore l’iniziativa per la separazione delle carriere seppure nutro qualche perplessità. I magistrati associati commettono l’errore di opporsi a priori; è tuttavia vero che c’è un momento, nella fase iniziale del processo, nel quale il Pubblico Ministero è davvero aperto a 360°. Si dimentica poi che, nell’80% dei casi il PM archivia: è funzione (imparziale) di filtro. Quando decide di accusare, ha già fatto un filtro; c’è un punto in cui ha fatto la scelta. Statisticamente è molto più probabile (logico) che il giudice sia d’accordo con il PM. D’altra parte ci sono anche abitudini, come il "dammi del tu" che anche i magistrati anziani rivolgono al giovane appena entrato in magistratura oppure il "cerca di appiattirti" alle richieste del PM. che i magistrati dell’accusa rivolgono ai colleghi giudici. Riflessi psicologici difficili da estirpare (anche se non conosco colleghi succubi). A Crotone i colleghi mi tolsero il saluto perché bocciavo le loro richieste. I magistrati sbagliano a rifiutare queste proposte come tabu; d’altra parte la separazione delle carriere non deve divenire un feticcio, un totem. È necessario individuare soluzioni plausibili, senza dimenticare che siamo in guerra e che Caino è persino difficile da identificare. La parte non può essere arbitro. Bisogna scindere le due facce del P.M. - Una buona idea potrebbe essere l’istituzione dell’avvocatura dello Stato". Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale. "C’è anche la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale: come fate? La strategia dovrebbe essere decisa da chi è stato eletto democraticamente e non da una persone che, fondamentalmente, ha vinto un concorso. La proposta di legge (costituzionale) di iniziativa popolare va a incidere sulla obbligatorietà dell’azione penale, anche se il prof. Di Federico preferisce che la decisione venisse affidata al Governo e non al Parlamento. Dopo l’approvazione del "nuovo" processo accusatorio, nell’art. 111 della Costituzione la figura del giudice "terzo". Ricordo dei "referendum Tortora" del 1987; ricordo della raccolta di firme del 1999 sui referendum su giustizia. La sentenza Cedu del 2013 (Torreggiani n.d.r.) che condannava l’Italia per trattamenti inumani e degradanti ; le condanne seriali per la non ragionevole durata dei processi. La questione della pena fatta scontare anni dopo il reato a persone che, faticosamente, erano riuscite a farsi una famiglia e trovare un lavoro. I casi psichiatrici: in carcere persone cui i giudici non danno più l’infermità mentale a causa della pessima legge sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. I magistrati non si fidano delle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza) che non hanno personale adeguato ad assicurare la sorveglianza". Foggia: in sei dentro una cella per due, carcere al collasso immediato.net, 13 settembre 2017 Anche in sei in una cella per due persone. Questa è solo una delle tante criticità del carcere di Foggia e di altri istituti penitenziari pugliesi. Situazione invivibile ormai da anni per la quale si sta battendo il Co.s.p, Coordinamento Sindacale Penitenziario. Stamattina nel capoluogo dauno, il segretario nazionale, Domenico Mastrulli per fare il punto della situazione con la dirigenza del penitenziario e con i rappresentanti istituzionali locali. La situazione è drammatica, basti pensare allo stallo nel quale versa la polizia penitenziaria. Quasi 600 detenuti a fronte di 290 agenti. "Mancano 80 uomini e 20 donne", fa sapere Mastrulli. Servono sicurezza e maggiore presenza. Troppi episodi violenti negli ultimi anni. Ormai non si contano più le aggressioni nei confronti degli agenti nel carcere foggiano. In Puglia sono circa 3.500 i detenuti ospitati in dieci istituti penitenziari e in residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza ma la ricettività tollerabile è di 2.400 detenuti. A oggi il tasso di occupazione è pari al 135% rispetto al dato nazionale. In Italia i detenuti sono complessivamente 57mila a fronte di una capienza massima del sistema carcerario di 49mila persone. Nel carcere di Foggia - aggiunge il segretario nazionale del Co.s.p. Mastrulli - ci sono 600 reclusi, ma tra questi figurano anche numerosi pregiudicati sottoposti a misure di protezione e di alta sorveglianza. I recenti episodi legati alla criminalità organizzata e il recente potenziamento delle misure di massima sicurezza dovrebbero far riflettere nell’ambito di un sistema carcerario non più idoneo". Brindisi: "Morire per la legalità", a lezione con il fratello di Peppino Impastato Quotidiano di Puglia, 13 settembre 2017 "Mio fratello, Peppino Impastato, era un ragazzo come voi, animato di giustizia e legalità": le parole sono quelle del fratello Giovanni che ieri mattina - ospite presso l’auditorium del Liceo "Ettore Palumbo" di Brindisi - ha inaugurato il primo giorno di scuola. Una visita quasi a sorpresa, ma molto gradita, agli studenti delle quinte classi, i docenti e la preside Maria Oliva, che ha detto: "L’anno scolastico non poteva iniziare meglio per noi tutti, siamo stati davvero felici di ospitare il fratello di una persona così speciale, un giovane che in Sicilia voleva cambiare un sistema di vita così male radicato in quel piccolo paese dove era nato, rimanendone vittima". A distanza di 39 anni dalla morte di Peppino Impastato (avvenuta il 9 maggio 1978 per mano della mafia siciliana, nonché giorno della scoperta del cadavere di Aldo Moro a Roma), il ricordo del fratello Giovanni è passato nelle sue parole attraverso l’emozione di chi non vuole dimenticare un tale dolore. Parole e fatti che sono arrivati al cuore di tanti giovani che in silenzio hanno ascoltato una serie di episodi che molti di loro avevano già visto nel film "I cento passi" del regista Marco Tullio Giordana. Elementi che Giovanni Impastato riprende nel nuovo libro "Oltre i cento passi", edito proprio quest’anno dalla casa editrice Piemme, dove scrive nella prefazione: "Non ci sono davvero cento passi per andare da casa di Peppino a quella del boss: si tratta solo di attraversare la strada. La mafia è ancora più vicina di quanto sembra. Eppure quella distanza, anche se minima, segna un abisso tra due mentalità opposte". In questa strada di Cinisi, un paese alle porte di Palermo, il "profumo" della mafia - ben radicato nella stessa fa- miglia Impastato grazie al matrimonio della sorella di Peppino con il capomafia Cesare Manzella, considerato uno dei boss che individuarono nei traffici di droga il nuovo terreno per accumulare denaro, il giovane Peppino (che frequenta il Liceo Classico di Partinico) non ha mai accettato di emulare tale vita, staccandosi man mano da quell’ambiente malavitoso, fino ad essere cacciato da casa dal padre. Ha raccontato in merito Giovanni Impastato: "Quando Peppino fonda il giornale "L’idea socialista", mia madre usciva di casa per comprare tutte le copie: alla metà degli anni Sessanta erano pagine molto scomode nella piccola realtà del nostro paese. Aveva paura che a mio fratello potesse accadere qualcosa, ma nonostante tutto lo sosteneva e lo incoraggiava anche se moglie di un mafioso". Peppino non si ferma dopo il sequestro del giornale e negli anni Settanta organizza il Circolo "Musica e Cultura", un’associazione che promuove attività culturali e musicali e che diventa il principale punto di riferimento per i giovani del suo paese. Un gruppo che a breve realizzerà "Radio Aut", un’emittente autofinanziata che indirizza i suoi sforzi nel campo della controinformazione e soprattutto in quello della satira nei confronti della mafia e degli esponenti della politica locale. Diventato scomodo in quella piccola realtà, Peppino Impastato viene assassinato qualche giorno dopo l’esposizione di una documentata mostra fotografica sulla devastazione del territorio operata da speculatori e gruppi mafiosi: il suo corpo è dilaniato da una carica di tritolo posta sui binari della linea ferrata Palermo-Trapani. Le indagini, in un primo tempo saranno orientate sull’ipotesi di un attentato terroristico consumato dallo stesso Impastato: ci vorranno più di 20 anni prima di parlare di delitto di mafia e di ergastolo per alcuni mandanti. ca, di sostituzione della pavimentazione. Insomma diversi interventi che riguarderebbero a vario titolo gli istituti "De Marco", "Fermi", "Pertini", "Palumbo", "Marzolla", "Morvillo - Falcone", "Ferraris". Per la restante parte delle scuole del capoluogo la situazione sarebbe meno critica con la previsione di manutenzioni ordinarie e opere di sistemazione generale. Nell’elenco degli edifici sui quali prevedere la priorità figurano anche l’istituto professionale "Pertini" di Carovigno, il "Fermi" di Francavilla Fontana, il commerciale "Ferdinando" di Mesagne, il "Fermi" di San Pancrazio Salentino e il "Calò" di Oria. Il quadro si completa, in ultima istanza, con le voci di spesa, piuttosto consistenti, relative ai certificati antincendio e di agibilità, alle verifiche di sicurezza generale con tutti gli annessi servizi di ingegneria, certificazioni e controlli di riferimento. Per nessun istituto è stata prevista l’ipotesi di chiusura, come invece era stato ipotizzato nel periodo estivo alla luce delle difficoltà finanziarie dell’Ente. Lo stesso consigliere delegato Cesare Epifani ha voluto sottolineare che la situazione sarebbe sotto controllo, non sussistendo condizioni di particolare preoccupazione. Rientro garantito, dunque, per centinaia di studenti. Ma sul fronte "amministrativo" sarà un anno scolastico caldo, durante il quale occorrerà capire in che modo rispondere alle diverse questioni dell’edilizia scolastica. La soluzione a diversi problema sembra essere il finanziamento regionale ed europeo con la partecipazione ai bandi che saranno attivati. Fronte rispetto al quale dovrebbero essere già pronti alcuni progetti preventivamente preparati. Sul tavolo odierno è presumibile che i dirigenti scolastici portino diverse istanze ma il Presidente Bruno ha comunque annunciato piena disponibilità all’ascolto e alla collaborazione. Trapani: Piscitello (Dap) incontra il segretario della Uil-Pa Veneziano tp24.it, 13 settembre 2017 Dopo il tentativo di fuga di quattro detenuti dal carcere di San Giuliano, a Trapani ha fatto visita il consigliere ministeriale a capo dell’Ufficio detenuti e trattamento del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Roberto Piscitello. Ha incontrato il segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria della Sicilia, Gioacchino Veneziano, che ha denunciato il tentativo di fuga, e in questi mesi ha evidenziato i tanti problemi dei lavoratori della polizia penitenziaria nel carcere di Trapani. "Ho voluto esprimere complimenti e ringraziamenti - dice Piscitello - al personale della polizia penitenziaria che ha condotto un’azione pregevole evitando un tentativo di fuga dal carcere. Ai sindacati di polizia penitenziaria ho assicurato la vicinanza del dipartimento e del Ministero rispetto alle esigenze espresse a proposito di risorse. Voglio ricordare che l’attuazione delle disposizioni che prevedono che i detenuti trascorrano 8 ore fuori dalla celle discendono da una condanna ricevuta dall’Italia in sede Europea. E dunque in questi reparti è prevista la vigilanza dinamica. Vigilanza dinamica che funziona bene dappertutto". "A nome mio e di tutta la UIL la ringrazio per la grande sensibilità verso i lavoratori della Polizia Penitenziaria di Trapani che oggi Lei ha posto in primo piano incontrando la UIL e le altre OO.SS., poiché la Polizia Penitenziaria ha solo bisogno di più rispetto". Con queste parole Gioacchino Veneziano Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria della Sicilia ha commentato l’incontro con il Consigliere Ministeriale a Capo dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Roberto Piscitello, dopo lo sventato tentativo di evasione che si stava verificando presso il carcere Trapanese. "A Piscitello è stato detto che noi non siamo contrari al regime aperto" - ha dichiarato Veneziano - "ma è impensabile attuarlo in queste strutture arcaiche senza tecnologia, in condizioni di sovraffollamento di detenuti e con la grave carenza di personale di Polizia. Inoltre è stato ribadito con forza, che non è prudente elargire benefici e agevolazioni premiali a quei detenuti che hanno dimostrato avversione verso le regole penitenziarie quindi contravvenendo al patto di "responsabilità", quale prerogativa che doveva consentire di beneficiare del regime aperto. Per di più oramai è sotto gli occhi di tutti, che ogni giorno le carceri italiane emettano bollettini di guerra che raccontano episodi di aggressioni, violenza, suicidi, atti autolesionistici; è solo la Polizia Penitenziaria che con grande sacrificio, abnegazione coraggio si contrappone a questa "deriva gestionale buonista" voluta da una parte della politica e dell’amministrazione penitenziaria che sostanzialmente si è rivelata Fallimentare; quindi per la UIL è giunto il momento di modificare profondamente le modalità del regime aperto, coinvolgendo i tecnici dell’area sicurezza e non solo quelli del trattamento". Il Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Sicilia ha dato delle indicazioni rispetto la questione proponendo al Consigliere Piscitello cinque punti per poter partire con una nuova spinta propulsiva;1) modifica del regime aperto al fine di evitare i problemi di sicurezza sempre segnalati dalla Uil è cioè il bivacco dei detenuti nei ballatoi; 2) modifica dei presupposti per l’inserimento dei detenuti nella qualità di lavoranti tenendo conto dei precedenti disciplinari ed escludendo dal regime aperto chi si è macchiato di violazioni delle regole penitenziarie; 3) attuare i trasferimenti per motivi di ordine e sicurezza con maggiore celerità; 4) trasferimento immediato dei detenuti con problemi psichiatrici; 5) alleggerimento della presenza di detenuti extracomunitari. Solidarietà dell’Osapp - La Segreteria Regionale dell’Osapp esprime solidarietà ai colleghi della Casa Reclusione di Favignana per le violenze subite nei giorni scorsi, le aggressioni gratuite e violente hanno scosso molto il personale, gli auguri vanno ai colleghi, soprattutto all’ultimo che ha subito un forte trauma. "Abbiamo trascorso un’intera estate apprendendo notizie di violenze ai danni del personale di Polizia Penitenziaria in quasi tutte le regioni, la Sicilia non è stata di meno, dice il Segretario Regionale dell’Osapp, Rosario Di Prima. "Ancora, aggiunge Di Prima, gli ultimi fatti accaduti, in ordine di tempo, presso la Casa Reclusione di Favignana, ci da la misura del pericolo che quotidianamente si corre negli Istituti siciliani ma, soprattutto dove la carenza di personale è abnorme come Favignana. Pare opportuno ricordare che la carenza degli organici della Polizia Penitenziaria, più volte segnalato, sta portando allo stremo delle forze il personale che, oltre alle quotidiane sofferenze organizzative soffrono lassenza di un Direttore effettivo. E stato richiesto, con una nota indirizzata al Provveditore Regionale Dr. De Gesu e al Dap, un urgente e immediato intervento concreto, con azioni di rivisitazione degli organici con la conseguenziale assegnazione presso le realtà che hanno maggiori sofferenze e, la Casa Reclusione di Favignana è tra i primi Istituti. Di Prima - afferma che il modello trattamentale posto in essere negli ultimi tempi presso gli Istituti penitenziari è stato fallimentare, pertanto non si possono accettare le lezioncine dei Dirigenti Generali che, pur in presenza di oggettive difficoltà asseriscono che i detenuti devono continuare a stare fuori dalle celle. Tutti sanno quali sono le difficoltà trattamentali, legate a carenza di personale ma forse per rendersi visibilmente immuni da responsabilità, continuano ad invitare ad adottare maggiori provvedimenti per incentivare il trattamento in istituti strutturalmente inefficienti con azioni assolutamente inefficaci, mentono sapendo di mentire, ultimo in ordine di tempo il Dirigente Generale che ha fatto visita alla C.C. di Trapani. Se l’Italia ha il problema del sovraffollamento delle carceri è un problema della magistratura, soprattutto quella di Sorveglianza, che dovrebbe adottare laddove ve ne sono le condizioni maggiori provvedimenti alternativi alla detenzione in carcere. Torino: "Freedhome", store che dà un futuro ai detenuti vendendo i prodotti fatti in carcere nonsprecare.it, 13 settembre 2017 Dai dolci della "Banda Biscotti" della casa circondariale di Verbania ai cosmetici che arrivano dalla Giudecca di Venezia. In questo store di Torino si possono trovare gli articoli realizzati dalle imprese attive in tutta Italia all’interno del mondo penale. L’obiettivo è sostenere la creazione di lavoro. Un negozio che mette in vendita i prodotti di chi sta provando ad approfittare di una seconda possibilità. È questo "Freedhome", uno spazio espositivo nel centro della città di Torino, in via Milano 2/C, dove è possibile acquistare articoli realizzati dalle imprese attive in tutta Italia nel mondo delle carceri. Così tra gli scaffali si possono trovare i "Brutti e Buoni" dei detenuti di Brissogne, i dolci della "Banda Biscotti" della casa circondariale di Verbania, ma anche i cosmetici che arrivano dalla Giudecca di Venezia. L’iniziativa, realizzata grazie all’aiuto del comune di Torino e della Compagnia di San Paolo, e stata resa possibile dal lavoro di un gruppo di detenuti che si sono occupati dei restauri. L’obiettivo del negozio, hanno dichiarato gli organizzatori, è dare visibilità a determinate iniziative sociali, ma soprattutto sostenere la creazione di lavoro nell’ottica del recupero sociale dei detenuti. L’economia carceraria in Italia vanta un giro d’affari sui 5-6 milioni di euro e impiega un migliaio di detenuti. Una realtà economica e sociale che, però, necessità posti come Freedhome per crescere in visibilità e soprattutto per avere uno sbocco sul mercato. Il lavoro in carcere, infatti, consente ai detenuti un percorso di crescita in vista della riabilitazione che, per essere piena, non può che passare attraverso l’apprendimento di un lavoro da poter svolgere una volta rintrodotto nella società. Di esempi virtuosi tra i scaffali del negozio di Torino ce ne sono moltissimi e vanno dalle t-shirt che arrivano dal carcere di Torino (Extraliberi) e dal carcere di Genova Marassi, al caffè, le tisane e il thè lavorato dai detenuti di Pozzuoli (Caffè Lazzarelle il nome della cooperativa di lavoro creata nella casa circondariale del Napoletano). Inoltre a breve comincerà un periodo di sperimentazione che consentirà a un ex detenuto di lavorare nello store di Torino. Ma Freedhome non vuole essere solo un negozio, ma piuttosto un laboratorio di idee e progetti per ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo efficace un sistema penitenziario in profonda crisi come quello italiano. E quale modo migliore se non partire dalle eccellenze prodotte da chi cerca riscatto? In questo negozio di Torino credono sia la chiave giusta per rianimare vite che troppo spesso vengono dimenticate. Rovigo: arriva l’arte-terapia per i detenuti rovigooggi.it, 13 settembre 2017 La direzione della Casa circondariale e la garante delle persone private della libertà partono con una serie di laboratori. Si comincia con Gianni Cagnoni. Incontri di arte-terapia riservati ai detenuti: una forma di arte terapia avente lo scopo di favorire il reinserimento delle persone al momento private della libertà personale nella società, una volta espiata la propria pena. Giovedì 7 settembre, alla casa circondariale di Rovigo, si è tenuto il primo di una serie di incontri di arte terapia riservati ai detenuti e condotti da Gianni Cagnoni, artista rodigino e dottore in Psicologia clinica. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla collaborazione tra la direzione e l’area giuridico pedagogica del carcere, con la garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo Giulia Belllinello e vuole essere un segno concreto della volontà di favorire un dialogo tra la società civile e le persone che scontano una pena ma cercano la via del cambiamento. Il laboratorio si svilupperà in una serie di incontri settimanali per la durata di sei mesi e il materiale occorrente per lo svolgimento delle attività è stato donato dalla "Galleria Il Melone Arte Contemporanea" di Rovigo. "È noto che la pittura - spiega la nota - così come le altre espressioni artistiche quali il teatro, la musica e le altre discipline affini, aiuti a ricercare il benessere psicofisico attraverso l’espressione artistica dei pensieri, dei vissuti e delle emozioni. Utilizzando le potenzialità, che ogni persona possiede, è possibile elaborare creativamente tutte quelle sensazioni che non si riescono a far emergere con le parole nei diversi contesti quotidiani - afferma Gianni Cagnoni - Per mezzo dell’azione creativa l’immagine interna diventa, pertanto, immagine esterna, visibile e condivisibile e comunica all’altro il proprio mondo". L’arte terapia è una tecnica moderna affermatasi in Inghilterra e negli Usa negli anni ‘60, che ha riscontrato interesse in Italia solo di recente e che aiuta a conoscere e ad esprimere le emozioni utilizzando immagini, permette un’espressione diretta, immediata, spontanea, arcaica ed istintiva di se stessi. I materiali e le tecniche che vengono utilizzati alimentano nelle persone l’azione di esprimere, plasmare e dare una identità precisa ai vissuti interni, sia emotivi che cognitivi, a liberare le emozioni represse favorendo il ritorno ad una vita più equilibrata. Essendo una attività di gruppo è anche una modalità di entrare in relazione con l’altro senza l’utilizzo della parola e un viaggio interiore che favorisce la conoscenza di se stessi e dei componenti del gruppo col quale si lavora. Bologna: "Cinevasioni", aperte le prenotazioni per partecipare come pubblico di Ambra Notari Redattore Sociale, 13 settembre 2017 "Più libero di prima" di Adriano Sforzi; "Chi salverà le rose" di Davide Furesi; "Sicilian Ghost Story" di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza: sono questi i primi film in concorso alla seconda edizione di Cinevasioni, il Festival del cinema in carcere organizzato dall’Associazione documentaristi dell’Emilia-Romagna in calendario alla Dozza di Bologna dal 9 al 14 ottobre. "I film in concorso, in totale, sono 10. Nei prossimi giorni scopriremo anche tutti gli altri", fanno sapere Filippo Vendemmiati, direttore artistico, e Angelita Fiore, direttore scientifico. In programma due film al giorno, uno alla mattina e uno al pomeriggio. L’apertura è prevista lunedì 9 ottobre alle ore 9, l’evento speciale di chiusura e le premiazioni sabato 14 ottobre dalle 9.30. L’evento di inaugurazione sarà la proiezione del documentario (fuori concorso) "Shalom! La musica viene da dentro. Viaggio nel coro Papageno" di Enza Negroni, un viaggio nel coro misto composto dai detenuti della Dozza, nato nel 2011 da un’idea di Claudio Abbado. Il film - presentato in anteprima lo scorso giugno al Biografilm Festival - porta lo spettatore in carcere attraverso il racconto dei coristi: più di 30 elementi di 20 diverse nazionalità diretti, insieme con volontari esterni, dal Maestro Michele Napolitano. In giuria, come per la prima edizione, i detenuti che hanno preso parte al laboratorio di cinema coordinato da Angelita Fiore Ciak in carcere: una quindicina tra vecchi e nuovi, pronti a confrontarsi con il presidente di giuria, il cui nome, però, ancora non è stato annunciato (nella prima edizione, quando vinse "Lo chiamavano Jeeg Robot" di Gabriele Mainetti, era l’attore Ivano Marescotti). Come l’anno scorso, al vincitore sarà consegnata la Farfalla di Ferro realizzata presso l’officina metalmeccanica Fare impresa in Dozza all’interno dell’istituto penitenziario, nella quale lavorano insieme detenuti e metalmeccanici in pensione. Novità di quest’anno, la possibilità di far parte della redazione stampa del festival offerta a tutti gli studenti universitari appassionati di cinema: a loro il compito di documentare lo svolgimento della kermesse e recensire i film in concorso. "L’accredito darà loro la possibilità di assistere alle proiezioni e alle conferenze stampa che ogni giorno avranno come protagonisti grandi nomi del cinema italiano, intervistando in prima persona gli ospiti del festival", spiega la segreteria organizzativa. Per prenotarsi è necessario mandare una mail a Irene Sapone (info@inevasioni.it), con oggetto "Redazione Citem" entro sabato 30 settembre. Chiunque può partecipare come pubblico. Per farlo è necessario prenotarsi: i posti sono limitati. Le prenotazioni devono essere inviate entro mercoledì 20 settembre sempre mandando una mail a Irene Sapone (info@inevasioni.it), mettendo come oggetto "Pubblico esterno" e allegando la copia di un documento d’identità. Nel caso il richiedente sia minorenne, è necessaria la liberatoria da parte di entrambi i genitori. Tra le nuove partnership di Cinevasioni - oltre a quella con Hera per la ristrutturazione della sala cinematografica all’interno della Dozza, perché possa essere a disposizione dei detenuti quotidianamente - si aggiunge quella con il Sindacato nazionale critici cinematografici italiani (Sncci), che durante il festival, cureranno le presentazioni dei film in concorso prima delle proiezioni. Un’altra novità è la collaborazione anche con il Cinema Edison di Parma, che da qualche tempo ha allestito una vera e propria sala cinematografica all’interno del carcere di Parma, portando un film al mese in lingua originale e con i sottotitoli e due proiezioni, una per i detenuti in alta sicurezza, una per quelli in media. Roma: "Tutto quello che vuoi", apre a Rebibbia la rassegna Altri Sguardi Redattore Sociale, 13 settembre 2017 Cinema e solidarietà in carcere. Al via oggi con "Tutto quello che vuoi" di Francesco Bruni la rassegna che porta il cinema all’interno dell’Istituto romano di Rebibbia. Fino al 19 ottobre cinque appuntamenti con altrettanti film seguiti da un focus sui temi che affrontano. Ad una Giuria speciale, composta da 20 detenuti, il compito di scegliere il migliore. Un progetto ideato e promosso dall’Associazione Mètide. Si apre oggi, mercoledì 13 settembre, con la proiezione di "Tutto quello che vuoi" di Francesco Bruni, protagonista uno straordinario Giuliano Montaldo con il giovane Andrea Carpenzano, Altri Sguardi, la rassegna che - attraverso cinque appuntamenti dedicati ad altrettanti film tra i più interessanti dell’ultima stagione - porterà il cinema all’interno della struttura penitenziaria romana di Rebibbia. Non è la prima volta che i detenuti affrontano, anche attraverso un confronto e un dibattito sui temi proposti dai film selezionati, un’esperienza che nasce dalle suggestioni e dagli spunti di riflessione del racconto cinematografico. È senza dubbio l’occasione di un confronto speciale, però, la formula che Altri Sguardi, ideata e promossa dall’Associazione Mètide, mette in campo da domani costruendo sugli spunti suggeriti dalle sceneggiature dei film scelti per questa prima esperienza: ogni proiezione sarà seguita, infatti, da domani e per i prossimi appuntamenti (oltre il primo di mercoledì 13 settembre, tutti programmati al giovedì pomeriggio) da un dibattito su alcuni focus condivisi con la Direzione di Rebibbia. Con questa rassegna l’Istituto accoglie un progetto articolato, oltre i film, sulla creazione di uno sportello di counseling, un supporto insomma per il personale al lavoro nell’Istituto, e un laboratorio che seguirà la rassegna - esclusivamente destinato alle detenute - con un’esperienza formativa attraverso la sceneggiatura. Presentata nei giorni scorsi anche alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, la rassegna nasce per iniziativa dell’associazione fondata da Ilaria Spada, attrice e presidente dell’Associazione, e Raffaella Mangini, esperta di marketing, anche lei cofondatrice di Mètide. Collabora con Mètide per quest’esperienza, come consulente scientifico, Clementina Montezemolo, psicologa psicoterapeuta. A Laura Delli Colli, esperta di cinema e presidente dei Giornalisti Cinematografici SNGCI, il compito, infine, di coordinare i contenuti e i dibattiti sui quali si articoleranno i cinque incontri con i detenuti, a commento dei film. Tema del primo incontro, dopo il film di Bruni, "L’amicizia", anche tra generazioni diverse. Il rispetto dei più anziani e dei giovanissimi. L’amore per una pagina scritta o una poesia. Perché - come propone il focus al quale interverranno regista e protagonisti del film, al termine della proiezione - non è mai troppo tardi per scoprire il piacere della cultura e per creare l’opportunità di uno scambio capace di rivelare l’importanza di valori che cambiano la vita, possono far crescere e scoprire una realtà meno ostile. Gli altri film in concorso e i temi di approfondimento. Giovedì 21 settembre "La ragazza del mondo" di Marco Danieli, con Sara Serraiocco, Michele Riondino, Marco Leonardi, Stefania Montorsi, Lucia Mascino, Pippo Del Bono. Focus: La ricerca della propria identità più autentica attraverso il superamento degli schemi dettati dall’imprinting familiare. Giovedì 28 settembre "L’ora legale" di Ficarra e Picone, con Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Tony Sperandeo, Leo Gullotta. Focus: L’importanza della legalità sulle scorciatoie di comodo, il vizio italiano della raccomandazione e la qualità del cinema civile anche quando la commedia è comicità. Giovedì 5 ottobre "Non è un paese per giovani" di Giovanni Veronesi, con Filippo Scicchitano, Giovanni Anzaldo, Sara Serraiocco, Sergio Rubini, Nino Frassica. Focus: L’amicizia, i sogni da realizzare, gli errori, la rinascita dopo la delusione. Il senso dell’avventura ma anche i rischi di un progetto senza la certezza di un "paracadute". Giovedì 12 ottobre "Lasciati andare" di Francesco Amato, con Toni Servillo, Carla Signoris, Luca Marinelli, Veronica Echegui. Focus: L’importanza di non dimenticare i sentimenti, una critica dichiarata all’egoismo, al lasciarsi andare alla noia e all’indifferenza nei confronti degli altri. Un morbo contagioso, da combattere. Per partecipare scrivi a fosforo@fosforopress.com. Saluzzo (Cn): alla Castiglia la premiazione del festival letterario "LiberAzioni" targatocn.it, 13 settembre 2017 Si svolgerà martedì 19 settembre alle ore 21 presso il Salone Rovasenda della Castiglia la consegna del Premio Menzione speciale "Museo della memoria carceraria di Saluzzo" nell’ambito del concorso letterario nazionale "LiberAzioni, storia tra dentro e fuori". Alla serata parteciperanno Claudio Sarzotti (Antigone Piemonte, già curatore del Museo della Memoria carceraria), Roberto Pignatta (Assessore alla Cultura del Comune di Saluzzo) e alcuni componenti della giuria del premio. Nel corso della serata verrà presentato anche il video Dea bendata prodotto nell’ambito del progetto Biografi del carcere. LiberAzioni rappresenta il primo festival nazionale di cinema, fotografia e scrittura che unisce, con le proprie sezioni di concorso e attraverso il lavoro delle giurie, persone recluse under 35 (compresi i minori e quelle in misura alternativa) e liberi cittadini residenti in Italia. Il progetto ha vinto il bando nazionale Sillumina - Sezione Periferie, promosso dalla Siae, ed è stato coordinato dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema in partenariato con Antigone Piemonte, Stalker Teatro - Officine Caos, Casa di Quartiere Vallette, Videocommunity, EtaBeta e SaperePlurale e la collaborazione della Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, Comune di Saluzzo, Museo della Memoria Carceraria di Saluzzo, SocietàINformazione, FluxLab, PubCoder, ManaManà e Witty Kiwi, con il patrocinio della Circoscrizione 5 della Città di Torino, Città di Torino e Regione Piemonte. LiberAzioni si è basato sull’organizzazione partecipata, attraverso una serie di laboratori propedeutici, di un festival a carattere nazionale che si è svolto l’8 e 9 settembre 2017 nel quartiere Vallette di Torino. I temi del progetto sono stati la reclusione, la pena, la libertà e la relazione dentro/fuori. Le sezioni del concorso sono stati cinema, fotografia e scrittura. Le opere vincitrici hanno ricevuto tre premi in denaro per ogni sezione, per un ammontare complessivo di 7.500 euro. I premi sono stati assegnati da giurie interne ed esterne al carcere che hanno visto la partecipazione di professionisti dei settori di competenza, detenuti e giovani del quartiere. Il concorso di scritture è stato rivolto esclusivamente ai detenuti. La sezione speciale Museo della memoria carceraria di Saluzzo prevede un premio di 300 euro per la sezione scritti dal carcere e un premio di 300 euro per la sezione filmati. I premi sono stati donati dal Comune di Saluzzo, dall’associazione Bella Ciao e dall’associazione Antigone Piemonte. Per favorire la partecipazione della cittadinanza giovanile del quartiere all’intero arco progettuale, durante il periodo di apertura dei bandi e dopo il festival, sono stati organizzati una serie di laboratori gratuiti la cui funzione è stata quella di attivare l’osmosi, a livello di dialogo e azioni, tra l’interno e l’esterno del carcere. Sono stati previsti, in vista della partecipazione all’organizzazione del festival, un laboratorio per giovani operatori culturali dislocato in differenti sedi pubbliche del quartiere e un laboratorio video; a seguito del festival un laboratorio per giovani detenuti di editing e grafica per convogliare le scritture sul carcere giunte al concorso su una piattaforma web e un laboratorio di teatro in carcere, aperto anche alla partecipazione di giovani liberi. La serata del 19 settembre si inserisce inoltre nel più ampio programma della Summer school di alta formazione sulla privazione delle libertà e dei diritti fondamentali, organizzata dall’Associazione Antigone e dal Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino: la Summer school, dopo un avvio presso il Campur Luigi Einaudi di Torino, si svolgerà anche quest’anno a Saluzzo presso i locali della Castiglia (dal 18 al 23 settembre). Alessandria: la favola della bimba e del gatto "prigioniero" di Valentina Stella Il Dubbio, 13 settembre 2017 15 detenuti hanno collaborato al fumetto. Nella Casa di reclusione di San Michele di Alessandria l’arte prende forma in una graphic novel dal titolo "Secureworld": la storia è quella di bambina che smarrisce il suo gatto. L’animale si infila all’interno del carcere e viene adottato dai detenuti. La diffidenza iniziale della piccola e soprattutto della sua famiglia viene superata quando un detenuto racconta la sua storia e si prende cura del piccolo felino. Il finale non lo sveliamo, con la speranza che "arrivi presto un editore", racconta al Dubbio Valentina Biletta, illustratrice e autrice che ha coordinato il progetto. Una quindicina di detenuti hanno lavorato alla realizzazione del fumetto: "All’inizio non sapevano cosa aspettarsi, alcuni hanno lasciato, altri sono rimasti entusiasti e hanno contribuito anche a riscrivere la storia insieme ad alcuni alunni di quinta elementare della scuola Galileo Galilei". Le tavole incise su legno con la tecnica della xilografia sono state portate anche fuori dal carcere, in mostre ed esposizioni. "Si tratta di un vero lavoro manuale che richiede forza e pazienza". Molti detenuti hanno lunghe pene da scontare e hanno il tempo per dedicarsi a lavori che richiedono tempo, altri purtroppo sono costretti ad abbandonare a causa dei trasferimenti. L’iniziativa nasce grazie all’artista Piero Sacchi dell’associazione Ics Onlus che dirige da anni una decina di laboratori nelle due carceri di Alessandria, coinvolgendo un centinaio di detenuti in attività artistiche. Al Dubbio traccia una fotografia di quello che fanno dietro le sbarre: "A San Michele siamo in un grande locale attrezzato con computer, e con tutti gli strumenti per fare pittura, fotografia e incisioni, quindi anche un torchio. Siamo aperti dal lunedì al venerdì, mattina e pomeriggio. La nostra produzione è di alto livello, partecipiamo ai Saloni del Libro, e la nostra mostra fotografica gira per tutta la penisola. Abbiamo intrapreso dei percorsi trattamentali che dovrebbero portar fuori i detenuti ma per carenze strutturali all’interno degli istituti di pena questo non avviene spesso". Ma il pittore ci tiene a precisare: "Non ho la filosofia di redimere nessuno, né quella di sostenere che l’arte è terapeutica. Il problema di qualsiasi persona, quindi anche del detenuto, è quello di esprimersi. Siamo dei laboratori artigianali, non propiniamo delle lezioni ex cathedra, noi lavoriamo con loro e diamo strumenti culturali e umani che li cambiano, che li fanno entrare in un percorso di vita diverso. Soprattutto i collaboratori di giustizia iniziano questo percorso di cambiamento e si rimettono in discussione". Dal 2016 la stamperia artistica all’interno del carcere è attiva per stampe d’arte, stage di incisione, produzione di xilografie di grosso formato. "Vorremmo anche far trovare sbocchi lavorativi ai detenuti. Tra i progetti c’è anche quello di stampare immagini per packaging - conclude Biletta Ad esempio, i loghi per il panificio attivo all’interno del San Michele che potrebbero essere stampati sui sacchetti del pane". "Me la sono andata a cercare", di Tommy Dibari recensione di Antonio Galluzzo spettacolinews.it, 13 settembre 2017 Detenuti, ragazzi "a rischio", bambini problematici... un libro che affronta i temi delle relazioni umane e delle responsabilità educative. Quando Tommy trova il coraggio di dire a suo padre che vorrebbe diventare scrittore e chissà, magari, insegnare ad altri l’amore per la scrittura, si sente rispondere un laconico: "Ti passerà!". Manco fosse una malattia esantematica. Inizia da qui, in una Barletta bellissima e pettegola, il lungo cammino di un ragazzo verso la realizzazione del sogno di una vita. Sì, perché a Tommy, nel frattempo diventato uomo, la malattia non passa, anzi si aggrava, e lo spinge a inondare di richieste le scuole della sua regione. Finché un giorno, finalmente, il suo telefono squilla e lui si ritrova davanti a una classe di adolescenti, la prima di tante. Sa come provocarli, i ragazzi, come spiazzarli costringendoli ad aprirsi, abituati come sono a una scuola sempre più simile a un ospedale che respinge i malati e cura i sani. La scrittura creativa gli apre anche la porta verso mondi abitati da un’umanità fragile: il carcere, un centro di salute mentale, un ricovero per anziani, dove Tommy frequenta la sua personale scuola di vita. Incontra Pino, detto Pinuccia, che coltiva aspirazioni da vamp imprigionato in un corpo maschile, Peppe il bambino che vuole essere uno squalo, Gino che parla della morte in cambio di una caramella al limone e poi Michele, Pierluigi, Domenico, Carmine e Matteo che combattono i loro demoni con un rap: volti che non dimenticherà più, voci che lo accompagneranno per sempre. Migranti. Lo Ius soli sparisce dal calendario del Senato di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 settembre 2017 Zanda: "noi la legge la vogliamo ma non ci sono i numeri". "Lo ius soli escluso dal calendario? Non mi risulta". Essendo l’ignaro in questione Luigi Zanda, capo dei senatori Pd e appena uscito dalla conferenza dei capigruppo che ha appunto stilato l’agenda dei lavori di Palazzo Madama se ne dovrebbe evincere che la legge sulla cittadinanza rientra in quell’agenda fresca di stampa. Invece no, anche se sono i giornalisti a dover smentire Zanda dimostrandogli nero su bianco che nel calendario quella legge più volte promessa non c’è. Non significa niente, replica il capogruppo dem: "Noi la legge la vogliamo assolutamente. È una priorità. Però noi non vogliamo parlare di ius soli. Vogliamo approvarlo e per ora non ci sono i numeri". L’opposizione di destra interpreta in altro modo: "La legge è affossata senza neppure votarla", ripetono il forzista Gasparri e il leghista Calderoli. Quella di sinistra concorda: "Ci eravamo addirittura detti pronti a votare la fiducia e i voti necessari si sarebbero potuti trovare. Con l’alibi dei numeri si sta di fatto affondando la legge", dicono le presidenti di Si e Mdp Loredana De Petris e Cecilia Guerra. È probabile che sia proprio così. Zanda spera in un colpo di mano tra l’approvazione del Def, il prossimo 27 settembre, e l’avvio del dibattito sulla legge di Bilancio, un mese dopo. Ma al momento sono parole o al più buone intenzioni. Nella situazione data la certezza di un’approvazione della legge non può esserci: si tratterebbe di cercare i voti uno per uno nell’esercito di senatori più o meno a piede libero. E anche se probabilmente, con qualche provvidenziale uscita dall’Aula, la fiducia (che sarebbe comunque necessaria) passerebbe, il rischio della clamorosa bocciatura c’è. Ma ancor più di questo pericolo è la paura dell’impatto su un’opinione pubblica diventata ostile che terrorizza il Pd e che, quasi certamente, decreterà l’inabissamento della legge sulla cittadinanza. Alla faccia dei circa 800mila bambini e ragazzi nati in Italia e che italiani si sentono ma non lo sono, e dunque sono destinati a incontrare difficoltà sia sul piano emotivo che su quello materiale. Il secondo scoglio che grava sulla navigazione del Senato nell’ultimo scorcio di legislatura non si può risolvere così drasticamente: è la legge sui vitalizi dei parlamentari che all’opposto dello ius soli è un provvedimento fortemente apprezzato dal pubblico votante. La legge arriverà in commissione Affari costituzionali oggi stesso con il presidente della stessa, il centrista Salvatore Torrisi, come relatore. Persino questo passaggio iniziale si è rivelato arduo. Torrisi non voleva saperne: in fondo la legge è di un Pd impegnato a rincorrere l’M5S, spetterebbe dunque a un senatore dem incaricarsi della sgradita bisogna. Il problema è che il Pd è al Senato molto più lacerato che alla Camera, con l’ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti che ha allestito una fronda di tutto rispetto. Mette in campo un argomento solido: perché approvare una legge che verrà molto probabilmente bocciata dalla Cassazione, dal momento che interviene su un diritto acquisito e che, in caso contrario, aprirebbe la strada a un allargamento potenzialmente illimitato della retroattività del passaggio dalle pensioni erogate col sistema retribuitivo a quello contributivo per tutte le categorie? Alla fine, giusto per limitare il regalo ai 5S sul piano della propaganda spiccia, la legge sarà probabilmente approvata. Tutto sta a farlo tardi e con qualche modifica che imporrà il ritorno a Montecitorio oltre tempo utile. Legge spacciata ma almeno con la speranza che il fattaccio non risulti troppo fragoroso. Infine la commissione d’inchiesta sulle banche. I partiti che ancora non hanno presentato i nomi designati per farne parte (Pd, Ap e Gal) si sono impegnati farlo entro giovedì. Così la commissione potrà finalmente salpare. Non arriverà lontano, con una legislatura che probabilmente non arriverà oltre la seconda metà di gennaio. Migranti. Senza Ius soli democrazia più povera di Luigi Manconi Il Manifesto, 13 settembre 2017 Solo un ottimismo irresponsabilmente giulivo e una buona volontà tanto ilare da farsi velleitarismo, possono indurre, ancora, a ritenere che la legge sullo ius soli venga approvata in questa legislatura. Nella più favorevole delle ipotesi, l’aula del Senato potrebbe esaminare quel testo nelle prime settimane di ottobre: ma - come ha appena detto Emanuele Fiano, capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali - non ci sono i numeri. Il che, nella sfera politica e nel dibattito pubblico, vuol dire una cosa semplice, variamente argomentabile ma dall’esito univoco: siamo minoranza e non siamo stati capaci di ottenere un maggior numero di consensi. Sia chiaro: oggi il tema è a dir poco incandescente. Ma, se ad appiccare il fuoco e ad attizzarlo è la destra, sarebbe finalmente ora che la sinistra si domandasse seriamente perché tutto ciò sia accaduto; e se, quindi, un atteggiamento corrivo, spesso tronfio nelle declamazioni ma inerte nei programmi e nelle politiche, non abbia favorito - o non adeguatamente contrastato - lo spostamento di una parte dell’opinione pubblica su posizioni di ostilità verso la riforma della cittadinanza. In altre parole, è plausibile che la sinistra si sia affidata troppo alla retorica di categorie come solidarietà e fraternità: e abbia utilizzato troppo poco strumenti propri dell’economia e della demografia. Ovvero, i soli che possono consentire una gestione intelligente dei flussi migratori, sostenuta da progetti di accoglienza capaci di garantire la convivenza pacifica tra residenti e nuovi arrivati; e un’integrazione lungimirante che sappia tutelare, allo stesso tempo, la sicurezza delle popolazioni locali più vulnerabili e quella di migranti e profughi, esuli e fuggiaschi, tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia. Un’impresa enorme, dall’esito tutt’altro che scontato e che comporterà fatiche e sofferenze. Ma che - ecco il punto - non ha alternative. Questo è il vero terreno politico, ed è stato disertato da anni. Si pensi a come questa assenza della politica abbia comportato implicazioni profonde nella mentalità diffusa e nel senso comune. Un quarto di secolo fa, la frase "non sono razzista ma" aveva tra i molti significati uno particolarmente rivelatore: registrava, cioè, l’indebolirsi del tabù del razzismo non più sottoposto, con l’acutizzarsi dei conflitti, a quell’interdizione morale e politica che rendeva il concetto di superiorità gerarchica di una razza qualcosa di sommamente riprovevole, osceno da portare in società e messo ai margini della discussione pubblica. E, tuttavia, quelle stesse parole già introducevano delle deroghe al rifiuto assoluto del razzismo nelle società democratiche. "Non sono razzista (ho addirittura molti amici di colore), ma qui i romeni sono troppi". Oggi, in quella frase, c’è ancora tutto questo, portato all’esasperazione e a una sorta di parossismo paranoide. Ma c’è qualcos’altro, persino più significativo e drammatico. C’è anche un grido d’aiuto e una richiesta di soccorso: aiutatemi a non diventare razzista. Fate in modo che la mia inquietudine nei confronti di un altro - diverso e ignoto - non si traduca in intolleranza, aggressività, violenza. È, in quello spazio tra l’ansia collettiva verso lo straniero (xenofobia) e la volontà di sopraffazione nei suoi confronti (razzismo) che avrebbe dovuto agire, sin dalla fine degli anni Ottanta, la politica. Così non è stato. E, nell’autunno del 2017, siamo ancora alle prese con una legge sulla cittadinanza che risale al 1992. E rischiamo di dovercela trascinare ancora per i prossimi anni. E se pure fosse vero che "non ci sono i numeri", quella mobilitazione politica che non è stata attivata finora, andrebbe intrapresa con la massima urgenza e determinazione. Il che vorrebbe dire, ad esempio, che al Senato la battaglia dovrebbe esser condotta fin da subito. Sono convinto che queste non siano astrazioni, bensì il loro esatto contrario e c’è un piccolo esempio che è lì a dimostrarlo. Da qualche giorno, alcuni intellettuali hanno promosso un testo indirizzato al Presidente della Repubblica e ai presidenti di Senato e Camera, nel quale si chiede l’immediata discussione della legge sullo Ius soli. Fra loro, tre degli studiosi più schivi che il nostro Paese conosca: Ginevra Bompiani, Goffedo Fofi e Carlo Ginzburg. Persone il cui valore intellettuale è accompagnato dalla più scabra sobrietà e dal più severo stile di vita; e che hanno intrattenuto, nel tempo, un rapporto di equilibrato interesse per la politica verso la quale hanno sempre mantenuto una giusta distanza e un prudente sospetto. Se oggi hanno deciso di esporsi su un piano che può apparire impopolare (ma già in migliaia hanno sottoscritto il loro testo) è perché credono che questo tema possa sfuggire alle dinamiche della politica politicante, pena il restarne vittima. E perché, soprattutto, hanno compreso che in gioco non c’è un obiettivo politico-programmatico tra i molti, bensì la qualità della nostra democrazia e del nostro ordinamento giuridico. Cresce la paura degli immigrati: il 46% si sente in pericolo, il dato più alto da dieci anni di Ilvo Diamanti La Repubblica, 13 settembre 2017 L’indagine dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza curato da Demos: la sensazione di scarsa protezione aumenta nonostante il calo dei numeri degli sbarchi di questa estate. L’immigrazione, ormai, è "l’emergenza". Che divide la società. Ma anche la politica. Tanto da indurre Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd, a rinviare il voto del Senato sullo "Ius soli". A data da destinarsi. Sul Ddl, la maggioranza di governo oggi non ha la maggioranza. Domani si vedrà. Il diritto dei figli di immigrati nati in Italia: negato. Per paura. Per paura delle paure. Che, certo, in Italia, sono diffuse. Ma, forse, non quanto in Parlamento. Un segno, l’ultimo, dell’impotenza della politica in Italia. Incapace di decidere. Tanto più, in attesa delle prossime elezioni. L’indagine dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos (con la Fondazione Unipolis e l’Osservatorio di Pavia) rileva, d’altronde, come la percezione di insicurezza, suscitata dagli immigrati, nelle ultime settimane, abbia raggiunto gli indici più elevati, da 10 anni a oggi: il 46%. Bisogna risalire all’autunno del 2007 per trovare un indice più elevato: 51%. Mentre nel 1999, quasi vent’anni fa, il timore degli immigrati risultava altrettanto diffuso. In entrambi i casi, si trattava di stagioni elettorali molto "calde". Nel 1999: elezioni amministrative ed europee. Ma anche vigilia delle elezioni regionali, che si sarebbero svolte l’anno seguente. Il 2007: passaggio fra due elezioni politiche di svolta. Quelle del 2006, vinte dal Centro-sinistra guidato da Prodi. Di misura. Le consultazioni del 2008, vinte dal Polo di Centro-destra, costruito intorno a Silvio Berlusconi (accanto alla Lega e ad An). In entrambe le occasioni, l’immigrazione ha costituito un tema di scontro. Nel 2007, in particolare, collegato alla paura della criminalità. Immigrazione e criminalità: un binomio quasi inscindibile. Ha segnato il dibattito pubblico e favorito il Centro-destra. E, parallelamente, compromesso i consensi al Centro-sinistra. Da allora, solo in questa fase la questione migratoria ha ripreso altrettanto rilievo. Certo: le misure e le vicende contano. L’afflusso dei migranti dall’Africa verso le nostre coste, i fatti di violenza che hanno suscitato sdegno e paura. A Rimini, in particolare. Ma non bisogna dimenticare il calendario politico. In primavera si vota. Per eleggere il nuovo Parlamento. E il rapporto con gli "altri", che vengono da "fuori", e ci invadono: diventa una questione importante. "La" questione. Amplificata dai "media", come mostrano con efficacia i dati dell’Osservatorio di Pavia (per l’Associazione Carta di Roma). I picchi nel numero di notizie proposte dai principali TG nazionali di prima serata coincidono, non per caso, con i cicli e gli anni elettorali: 2008-2009, poi 2013. Fino agli anni recenti. Visto che dal 2015 ad oggi viviamo tempi di campagna elettorale permanente. D’altronde, l’Osservatorio di Pavia rileva come, nell’ultimo mese e mezzo, nel 10% dei servizi dei telegiornali si parli di immigrazione, mentre nel 2016 la percentuale era dell’8%. Nel mese di agosto e nella prima decade di settembre, inoltre, nel 38% dei servizi incontriamo notizie di crimini compiuti da immigrati. Un anno fa, invece la media dei 7 telegiornali era del 24%. Lo stupro di Rimini, in particolare, ha ottenuto una visibilità record: una media di 5 notizie a edizione in quattro giorni. Così la "pìetas" che, negli ultimi anni, aveva caratterizzato l’atteggiamento mediale e, al tempo stesso, sociale, verso gli sbarchi dei disperati sulle nostre coste, di recente, ha cambiato di segno. È divenuta distacco. Paura. A dispetto dei "numeri". Perché gli sbarchi dei migranti in Italia, di recente, si sono dimezzati: da più di 23 mila nel luglio 2016 a circa 11 mila, nell’ultimo mese (dati Unhcr, confermati dal Quirinale, agosto 2017). Così, non sorprende il grado elevato di inquietudine verso gli immigrati rilevato da questo sondaggio. Né il sensibile calo di consenso verso la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati, nati in Italia. Il cosiddetto "Ius Soli". Condiviso dall’80% degli italiani nel 2014. E da circa il 70% alla fine del 2016 e nei primi mesi del 2017. Mentre negli ultimi mesi il sostegno sociale allo "Ius Soli" è si è ridotto: al 57%, nello scorso giugno, e ancora, fino al 52%, negli ultimi giorni. Così si spiegano le paure della politica che invece di governare la società la inseguono. Ne riflettono ed enfatizzano i ri-sentimenti. D’altronde l’impronta sociale della xeno-fobia - letteralmente: paura dello straniero - appare evidente, dai dati del sondaggio. Cresce fra le persone più anziane, soprattutto: con un grado di istruzione più basso. Ma è la posizione politica a marcare le divisioni più evidenti. Gli immigrati: generano "paura" e "paure" più marcate a destra. Fra gli elettori della Lega (3 su 4), ma anche dei FdI e di Fi (64 -69%). All’opposto, il senso di insicurezza scende sensibilmente a Sinistra, in primo luogo nella base del Pd. Mentre l’elettorato del M5s, politicamente trasversale, è diviso a metà: fra accoglienza e paura. La paura verso gli immigrati, infine, si associa all’apertura ai diritti di figli (nati in Italia) degli immigrati. Fra chi non ha paura, il consenso allo Ius soli sale fino al 77%. Mentre fra chi ha più paura degli altri si riduce a poco più del 27%. Per questo, non ho "paura" di dire che ieri al Senato ha vinto la "paura". Degli altri. Perché non crediamo nella nostra capacità di integrare. Non ci fidiamo degli altri. Ma neppure di noi. Tanto meno della politica. Anche perché la politica, in Italia, oggi: è emigrata. Nascono gli "ambulatori popolari" per stranieri, poveri e clandestini di Michele Sasso La Stampa, 13 settembre 2017 Per chi vive nel limbo della mancanza di documenti, ottenere una diagnosi o un certificato è un dramma, per questo alcuni medici si autofinanziano e curano chi non ha nulla. Fa ancora caldo alle 7 di sera a Milano. Ahmed aspetta paziente il suo turno. Ha 27 anni ed è arrivato dall’Algeria da otto mesi, ha una brutta ferita alla mano e le uniche parole che conosce in italiano sono "Dottore, male". È in fila per essere visitato all’ambulatorio medico popolare di via dei Transiti. A metà tra i popolosi e multietnici quartieri di via Padova e viale Monza, assiste gratuitamente tutti gli abitanti della zona, soprattutto migranti senza permesso di soggiorno. La fuga dalla sanità di base colpisce soprattutto gli "irregolari": chi non ha la tessera sanitarià né il medico di base né tantomeno il codice Stp (straniero temporaneamente presente) che dà diritto alle cure di urgenza del Pronto soccorso e basta. Pochi medici di base conoscono questo codice e ancora meno tra le comunità di nuovi arrivati. Risultato? Niente prescrizioni per esami o visite e addio prevenzione. Per chi vive nel limbo della mancanza di documenti anche un certificato o una diagnosi è un dramma. Occupano gli ultimi gradini della scala sociale e il diritto alla salute è un optinal per loro. Chi può va a farsi curare in stazione centrale dall’ambulanza della Croce Rossa, oppure nel centro per i migranti di via Sammartini. Tanti, tantissimi dimessi dopo l’ospedale o donne che hanno appena partorito approdano negli spazi affianco alla casa occupata dal centro autogestito Transiti 28. Ottocento ogni anno, quasi 20 mila persone curate dal 1994. Altre esperienze simili a Bologna e Napoli e piccoli sportelli ovunque c’è un centro sociale. "Siamo nati più come progetto politico che come assistenza vera e propria, con l’idea di chiudere subito con l’estensione delle cure a tutti. È successo esattamente il contrario e oggi i migranti hanno meno diritti e noi siamo ancora qua", racconta la fondatrice dell’associazione ambulatorio medico popolare Francesca Di Girolamo. Nel frattempo, dopo anni di tentativi di sfratto, hanno trovato un accordo con il proprietario dello stabile e dal 2012 versano un affitto di 150 euro al mese. E per autofinanziarsi in programma hanno anche cene, presentazioni di libri e collette. È la risposta dal basso alla mancanza di cure, una "sanità alternativa" che non tiene conto dei documenti di soggiorno che spinge i sette medici e altrettanti volontari dell’associazione nata su misura ad aprire questo spazio di appena 40 metri quadrati ogni lunedì e giovedì, dalle 19 a quando si finiscono le visite. Ancora Di Girolamo: "Ci sono sere che non c’è nessuno ed altre che arrivano 30 pazienti. Non facciamo ricette perché non possiamo, medichiamo e distribuiamo solo farmaci che ci hanno donato. Cerchiamo di indirizzare le persone, spiegare i propri diritti e nei casi più gravi chiamare l’ambulanza". In più di vent’anni di attività sono cambiati anche i pazienti: fino a dieci anni fa erano persone del Maghreb, oggi sono soprattutto bengalesi che vivono nei dintorni. "Molti di loro vendono fiori ai semafori o tra i banchi del mercato. Condividono il letto con altre persone, vivono in tanti nello stesso appartamento. In queste condizioni di igiene precaria è facile che si presentino con dermatiti, allergie o un mal di schiena cronico dopo 14 ore di lavoro", spiega Pietro, 27 anni e una specializzazione in medicina d’urgenza. Nello stesso piccolo spazio dell’ambulatorio negli anni sono spuntate altre iniziative: il telefono viola per parlare del disagio sociale e un consultorio tutto dedicato alle donne: cicli di incontri, contraccezione d’emergenza, informazioni sull’interruzione di gravidanza. Da un anno è in stand-by ma le volontarie sperano di riaprirlo "coinvolgendo altre donne, ginecologhe, ostetriche". Gode invece di ottima salute il progetto "Spampanato", spazio psicologico di mutuo aiuto grazie all’idea di una psicologa argentina, Lulù. Non è terapia ma è uno scambio di sostegno psicologico per favorire l’integrazione tra chi è ancora spaesato. Il senso di tutte queste ricette dal basso lo spiega Rosa, 33 anni, medico al Policlinico e volontaria: "Concettualmente è giusto e bello fare il medico per tutti. Per questo non è accettabile che la sanità non sia un diritto universale. Non possiamo negare la salute in nome del rispetto delle regole". Stati Uniti. Sulle droghe Trump contro la scienza di Marco Perduca Il Manifesto, 13 settembre 2017 Donald Trump una ne fa e cento ne pensa, ma sono tutte sbagliate. Infatti, dopo avere scelto il congressman repubblicano Jim Bridenstine, senza nessuna competenza scientifica, a capo della Nasa, ha ora nominato Tom Marino, un avvocato deputato, fedelissimo della prima ora, a guida dell’Ufficio nazionale per le politiche di controllo delle droghe. Il nuovo Zar anti-droga è noto per essersi opposto negli anni a qualsiasi legge di riforma della penalizzazione del consumo della marijuana, anche medica, e per aver proposto degli "ospedali/prigioni" per chi viene arrestato per "crimini nonviolenti" ritenendo che chi spaccia sia comunque da ritenersi un "drogato" e un criminale. Quando il suo nome era stato avanzato in primavera, Marino aveva declinato l’offerta accampando una malattia familiare; non si sa se questo impedimento sia stato risolto, quel che è certo è invece il fatto che, quando lavorava per Bush, esercitò particolare clemenza per un amico condannato per possesso di cocaina in tempi in cui mostrava poca misericordia per le altre vittime della giustizia penale che amministrava. Da membro del Congresso, Marino si era opposto a un emendamento che vietava al Dipartimento della Giustizia di interferire con le leggi sulla cannabis medica adottate da 29 stati. I suoi "ospedali/prigioni" dovrebbero essere "aperti" anche a consumatori di marijuana. Decine di studi, anche made in Usa, dimostrano che il trattamento forzato di "tossicodipendenti", oltre che esser ad alto rischio di violazione di diritti umani, raramente risulta essere efficace. Se a questa "agenda Marino" si aggiunge poi il fatto che già oggi negli Usa esistono le cosiddette Drug Court, una sorta di sistema alternativo alla giustizia penale che prevede obbligo di disintossicazione per ottenere pene minori, e si pensa che a capo del Dipartimento della giustizia c’è l’ultra-conservatore Jeff Sessions, è ragionevole ipotizzare un ritorno al passato in termini di politiche anti-droga e l’apertura di un aspro confronto, che potrebbe tornare a interessare la Corte Suprema, tra Washington e gli Stati che hanno legalizzato la cannabis. Eppure mesi fa Trump aveva minacciato di tagliare quasi del tutto i finanziamenti all’Ufficio per le politiche di controllo delle droghe ritenendoli soldi sprecati, mentre in campagna elettorale non aveva criticato la cannabis medica ritenendo che le decisioni degli Stati non dovessero essere materia di competenza della Capitale. La necessaria caratterizzazione "repubblicana" deve aver concorso a questo cambiamento d’orientamento su questioni tradizionalmente conservatrici. La nomina di Marino avviene in una fase politica sicuramente calda in generale per l’Amministrazione Tump e particolarmente per stati come la California che stanno definendo il quadro normativo e amministrativo della loro regolamentazione legale della cannabis. A oggi sono 29 gli stati che hanno legalizzato la marijuana per uso medico mentre otto, più la capitale Washington, l’hanno legalizzata per qualsiasi fine. Secondo la Drug Policy Alliance i sondaggi confermano che la maggioranza degli elettori crede che la marijuana dovrebbe essere legalizzata come l’alcol; numeri che aumentano ulteriormente quando si chiede se gli Stati possano impostare le proprie politiche sulla cannabis senza interferenze federali. Nel frattempo, decine di stati hanno riformato le pene per consumo personale e al Congresso una coalizione bipartisan per poco ha fallito una riforma penale federale relativa alle "droghe". Anche sugli stupefacenti l’Amministrazione Trump sembra andare nella direzione opposta agli orientamenti popolari; quanto mai potrà resistere? Libia. Per i migranti le alternative al carcere ci sono: il negoziato con le autorità di Tripoli La Repubblica, 13 settembre 2017 L’Unhcr potenzia gli sforzi per promuovere soluzioni diverse dalla detenzione per i rifugiati vulnerabili. Durante una recente visita a Tripoli, per esempio, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha incontrato rifugiati e migranti nei centri di detenzione e ha dichiarato di essere "scioccato dalle condizioni proibitive in cui vengono trattenuti i rifugiati e i migranti". La Libia continua a presentare una delle situazioni di flussi misti più complesse al mondo, con rifugiati e migranti che percorrono insieme rotte molto pericolose, attraverso il deserto e il mare, sopravvivendo ad abusi tra cui violenze sessuali, torture, detenzioni in condizioni inumane e rapimenti a scopo di estorsione. Tutto ciò avviene prima ancora che riescano ad imbarcarsi per attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia, lungo una delle rotte più mortali, dove una persona su 39 rischia di perdere la vita. La Libia si trova inoltre al centro di un conflitto che ha costretto centinaia di migliaia di cittadini libici ad abbandonare le proprie case. La detenzione non può essere la soluzione. Se i flussi migratori misti irregolari possono rappresentare una sfida per gli Stati, la detenzione non è la soluzione. In qualità di Agenzia per la protezione dei rifugiati, l’UNHCR si oppone alla detenzione di rifugiati e si è espressa molto nettamente su questa prassi, anche ad alti livelli, e sulle terribili condizioni dei rifugiati e dei migranti nei centri di detenzione libici. Durante una recente visita a Tripoli, per esempio, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha incontrato rifugiati e migranti nei centri di detenzione e ha dichiarato di essere "scioccato dalle condizioni proibitive in cui vengono trattenuti i rifugiati e i migranti", aggiungendo che nessun rifugiato o richiedente asilo dovrebbe essere detenuto. Si negozia con le autorità libiche per aprire un centro. Al tempo stesso, l’UNHCR sta negoziando con le autorità libiche affinché venga aperto un centro di accoglienza che assicuri libertà di movimento ai rifugiati e ai richiedenti asilo, dando priorità ai più vulnerabili. In questo centro, l’UNHCR potrebbe fornire servizi di registrazione, alloggio, cibo, servizi sociali, consulenza e sostegno ai sopravvissuti a violenze sessuali e di genere, e soluzioni in Stati terzi per i più vulnerabili. L’UNHCR sta lavorando per assistere e proteggere oltre 535.000 persone in Libia, tra le quali oltre 226.000 libici sfollati interni a seguito del conflitto, 267.000 libici che sono tornati alle loro case ma rimangono in condizioni di vulnerabilità e 42.834 rifugiati e richiedenti asilo registrati. È comunque importante mantenere un dialogo. Nell’esprimere preoccupazione nei confronti delle condizioni riscontrate nei centri di detenzione, l’UNHCR ritiene importante mantenere un dialogo con le autorità competenti in Libia per assicurare l’accesso e l’assistenza salva-vita e per rafforzare le procedure di controllo, identificazione e registrazione, così come le misure volte a prevenire i rischi di violenza sessuale e di genere. "Effettuiamo visite regolari nei centri di detenzione ufficiali per fornire assistenza salva-vita," spiega Roberto Mignone, Rappresentante dell’UNHCR per la Libia. "La nostra presenza in questi centri non significa che appoggiamo tali strutture, né tantomeno ciò che vi accade. È nostro dovere, comunque, fornire aiuto ai rifugiati e ai richiedenti asilo e promuovere la loro protezione, anche quando si trovano in detenzione. Quest’anno l’UNHCR e i suoi partner hanno effettuato 658 visite nei centri di detenzione. Grazie ai nostri sforzi congiunti, sono stati rilasciati circa 1.000 rifugiati e richiedenti asilo". Le numerose restrizioni. In Libia, l’UNHCR è impegnato nel migliorare la situazione di centinaia di migliaia di civili colpiti dal conflitto. Lavora inoltre per offrire protezione internazionale, assistenza umanitaria e soluzioni per le persone a rischio che vivono nel paese o che sono in transito verso l’Europa. Lavora in stretto coordinamento con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) e altri partner. Le restrizioni che si affrontano in Libia sono molteplici, tra le quali l’accesso limitato su tutto il territorio a causa dell’attuale situazione di insicurezza. Ciononostante l’UNHCR sta facendo il massimo per estendere la sua presenza e il suo intervento in Libia attraverso il suo staff nazionale, i partner, e la regolare presenza a rotazione dello staff internazionale che attualmente opera da Tunisi. Gli sforzi per alleviare le sofferenze delle detenzioni. Considerati gli urgenti bisogni umanitari e le terribili condizioni nei centri di detenzione, è essenziale che l’UNHCR continui a essere impegnato nel fornire assistenza salva-vita, protezione e soluzioni, insieme alla promozione di alternative alla detenzione, che rappresentano la principale priorità. "L’assistenza fornita dall’UNHCR nei centri di detenzione contribuisce ad alleviare la sofferenza delle persone detenute," afferma Mignone. "Forniamo kit igienici, coperte, calzature e vestiti. Inoltre, attraverso il nostro partner IMC (International Medical Corps), siamo riusciti a offrire a chi ne aveva bisogno assistenza sanitaria primaria, spesso l’unica assistenza medica di cui i detenuti possano usufruire". Egitto. Confermato l’arresto dell’avvocato della famiglia Regeni di Giuliano Foschini La Repubblica, 13 settembre 2017 Accuse dall’Egitto: voleva sovvertire il governo Al Sisi. Gentiloni al Copasir: "Trovare la verità sull’uccisione di Giulio Regeni è un dovere di Stato". L’avvocato egiziano Ibrahim Metwally Hegazy, uno dei componenti dell’associazione che cura la difesa di Giulio Regeni in Egitto, è apparso davanti al magistrato della sicurezza in stato di arresto. L’uomo era stato fermato domenica sera mentre saliva su un volo per Ginevra dove era stato invitato dalle Nazioni Unite per raccontare dell’ultimo report presentato dalla sua associazione Ecrf (Egyprian Commission for right and freedom) sulle sparizioni forzate in Egitto. L’uomo è accusato, da quanto fa sapere la Ercf, di vari reati tra cui l’aver collaborato con entità straniere per sovvertire l’ordine costituzionale in Egitto e aver creato gruppi di persone per sovvertire il governo di Al Sisi (probabilmente il riferimento è alla sparizione delle famiglie degli scomparsi in Egitto di cui Metwally faceva parte). Metwally era il padre di un ragazzo sparito nel nulla due anni fa. Gentiloni al Copasir - Trovare la verità sull’uccisione di Giulio Regeni "è un dovere di Stato". È quanto ha detto, secondo quanto si apprende da fonti parlamentari, il premier Paolo Gentiloni in audizione oggi davanti al Copasir. Il premier ha tra l’altro difeso la decisione di mandare al Cairo l’ambasciatore Giampaolo Cantini anche per aiutare l’indagine sul ricercatore italiano ucciso. Il presidente del Copasir - "È importante l’indirizzo che darà il governo all’ambasciatore al Cairo, Giampaolo Cantini, perché in quel frangente potremmo avere la dimostrazione che si vuole cercare la verità". Lo ha detto il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, al termine dell’audizione del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Riguardo la scomparsa dell’avvocato avvocato della ong che assiste la famiglia Regeni in Egitto, Stucchi ha osservato che "attendiamo ulteriori elementi". Sul ruolo dell’Università di Cambridge il numero 1 del Copasir ha spiegato che "ci sono situazioni sulle quali valutazioni devono essere fatte". Bosnia. Ancora nessuna giustizia per le 20.000 donne stuprate durante la guerra La Repubblica, 13 settembre 2017 L’ultima speranza per le sopravvissute alle violenze sessuali nel corso del conflitto degli anni ‘90. Il rapporto diffuso oggi da Amnesty International, "Abbiamo bisogno di sostegno, non di pietà", nel quale l’organizzazione per i diritti umani denuncia le devastanti conseguenze fisiche e psicologiche di quei crimini e gli ostacoli per ottenere sostegno e risarcimenti legali. Un quarto di secolo dopo l’inizio del conflitto, oltre 20.000 sopravvissute alla violenza sessuale nella guerra della Bosnia ed Erzegovina si vedono ancora negare la giustizia. Lo ha dichiarato oggi Amnesty International, pubblicando il rapporto "Abbiamo bisogno di sostegno, non di pietà. L’ultima speranza di giustizia per le sopravvissute agli stupri di guerra", nel quale l’organizzazione per i diritti umani denuncia le devastanti conseguenze fisiche e psicologiche di quei crimini e gli ingiustificabili ostacoli che le donne devono affrontare per ottenere il sostegno necessario e i risarcimenti legali cui hanno diritto. La fatica di rimettere assieme i pezzi delle loro vite. "Oltre due decenni dopo la guerra, decine di migliaia di donne in Bosnia stanno ancora rimettendo insieme i pezzi delle loro vite distrutte potendo contare ben poco sul sostegno medico, psicologico ed economico di cui hanno disperatamente bisogno", ha dichiarato Gauri van Gulik, vicedirettrice di Amnesty International per l’Europa. "Via via che passano gli anni, passa anche la speranza di ottenere giustizia o ricevere il sostegno cui hanno diritto. Queste donne non riescono a dimenticare ciò che è accaduto e noi, a nostra volta, non dovremmo dimenticarlo", ha aggiunto van Gulik. Molte vennero ridotte in schiavitù. Secondo il rapporto, frutto di ricerche condotte nel corso di due anni, una serie di ostacoli sistemici e l’assenza di volontà politica hanno condannato una generazione di sopravvissute agli stupri del 1992-1995 a una vita di stenti e penuria. Durante il conflitto migliaia di donne e ragazze vennero stuprate e sottoposte ad altre forme di violenza sessuale da soldati e appartenenti a gruppi paramilitari. Molte vennero ridotte in schiavitù, torturate e persino messe incinte a forza nei cosiddetti "campi degli stupri". Elma era al quarto mese di gravidanza quando venne portata in uno di quei campi e sottoposta ogni giorno a stupri di gruppo. "Erano ragazzi del posto, avevano tutti il passamontagna. A turno mi chiedevano se fossi in grado di riconoscere chi mi stava sopra", ha raccontato ad Amnesty International. Elma ha perso il bambino e ha riportato danni permanenti alla spina dorsale. Disoccupata, a distanza di quasi 25 anni non ha ricevuto alcun significativo aiuto finanziario da parte dello stato e ha disperato bisogno di cure mediche e assistenza psicologica. Gli interminabili ritardi della giustizia. Dal 2004, quando in Bosnia sono iniziati i processi per i crimini di guerra, neanche l’1 per cento del totale stimato dei casi di violenza sessuale durante il conflitto è arrivato in tribunale. I procedimenti portati a termine sono stati solo 123 e, sebbene negli ultimi anni il loro numero sia aumentato, molto di più dev’essere fatto per garantire che i responsabili compaiano di fronte alla giustizia. Dopo la guerra Sanja, che era stata fatta prigioniera e ripetutamente stuprata da un comandante e dai suoi sottoposti, ha denunciato il suo aguzzino. La polizia e la magistratura non hanno intrapreso alcun’azione e i servizi sociali non hanno riconosciuto la gravità della situazione di Sanja, negandole di conseguenza l’assistenza. "Non credo più a nessuno, specialmente allo stato. Mi hanno tradito", ha detto ad Amnesty International. Alcuni passi avanti ma ancora molte assoluzioni. Sono stati fatti passi avanti significativi nel campo della protezione e del sostegno alle testimoni, ma l’alto tasso di assoluzioni in alcune giurisdizioni e di sentenze ridotte in appello potrebbero pregiudicare questi progressi. L’incremento dei procedimenti giudiziari non riesce a porre rimedio agli enormi ritardi. Questa giustizia lenta e non all’altezza ha scoraggiato molte sopravvissute a farsi avanti, compromesso la fiducia nel sistema giudiziario e dato luogo a una generale sensazione d’impunità. Una donna stuprata numerose volte dai paramilitari nella sua abitazione e anche in una stazione di polizia ha detto ad Amnesty International: "Molte sopravvissute non vivranno abbastanza a lungo per ricevere giustizia. In pochi anni, i tribunali avranno chiuso tutti i casi e non ci saranno più sopravvissuti, criminali o testimoni vivi per poter avviarne altri". Donne lasciate prive di sostegno. Di recente vi sono stati cambiamenti destinati a rafforzare l’accesso al sostegno e a migliorare i servizi per le sopravvissute. Ma si tratta di modifiche frammentarie e attuate in modo discontinuo nelle varie parti del paese. Se queste modifiche non saranno pienamente istituzionalizzate in tutta la Bosnia ed Erzegovina, il loro impatto sarà limitato e risulteranno applicate a casaccio. Tra le donne che hanno subito violenza sessuale i livelli di disoccupazione e di povertà tendono a essere alti. Sono tra i gruppi più vulnerabili dal punto di vista economico. Solo 800 sopravvissute possono accedere a una pensione mensile e ad altri servizi fondamentali. In assenza di un sistema ufficiale di riparazioni, per cercare di rivendicare i loro diritti le sopravvissute devono aggirarsi in un labirinto di diverse prestazioni pensionistiche e adire i tribunali civili e penali. Negato l’accesso alle pensioni. L’accesso alle pensioni e ai servizi non è garantito né armonizzato nel paese e dipende dal luogo di residenza. Ad esempio, la Republika Srpska non riconosce le sopravvissute alla violenza sessuale in tempo di guerra come categoria specifica di vittime di crimini di guerra e limita fortemente l’accesso alle forme di riparazione e di sostegno. In questo modo la maggior parte delle sopravvissute che vivono nell’entità serbo-bosniaca non riceve una pensione mensile né ha diritto a cure mediche gratuite e a servizi di riabilitazione psicologica e sostegno sociale. Ostacoli del genere scoraggiano molte vittime dal farsi avanti e costringono altre a ricorrere ad acrobazie amministrative, rinunciando a un diritto per ottenerne un altro, nel tentativo di ricevere aiuti. Diverse donne hanno riferito ad Amnesty International di essere state costrette a cambiare residenza ufficiale per ottenere una pensione mensile, rinunciando però in questo modo ai servizi pubblici e all’assistenza sanitaria e sociale nei luoghi dove effettivamente abitano. "Un trauma che non si annulla, ma non è mai troppo tardi". "Le autorità devono rimuovere questi ostacoli discriminatori che impediscono l’accesso alle riparazioni e sostituirli con misure che garantiscano la stessa protezione e lo stesso sostegno a tutte le sopravvissute, a prescindere da dove vivono", ha commentato van Gulik. "Negli ultimi anni abbiamo registrato importanti passi avanti ma la distanza da percorrere è ancora grande. Se il trauma del passato non potrà mai essere annullato, non è troppo tardi per assicurare a queste donne un futuro in cui i loro diritti e la loro dignità potranno essere finalmente recuperati", ha concluso van Gulik. Appello del Bangladesh alla Birmania: "Dovete riprendervi i 300mila profughi Rohingya" La Repubblica, 13 settembre 2017 La primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina ha anche chiesto che cessino le violenze contro la popolazione musulmana nello Stato di Rakhine. La primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina, in visita ad un campo profughi di musulmani rohingya a Cox’s Bazar, nel sud-est del Paese, ha rivolto un appello alla Birmania affinché cessino le violenze contro la popolazione musulmana nello Stato di Rakhine. La Birmania, ha insistito, "dovrebbe aprire una inchiesta per identificare quelli che sono veramente colpevoli. Da parte nostra, come Paese vicino, faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità per facilitare questo sforzo". "Non c’è dubbio - ha aggiunto - che quello che sta succedendo là è una violazione dei diritti umani" e che "è difficile trattenere le lacrime quando si vedono i centinaia di cadaveri di uomini, donne e bambini che galleggiano nel fiume Naf". Le accuse al premio Nobel San Suu Kyi - Alludendo quindi all’ondata di 300.000 profughi rohingya giunti in Bangladesh nelle ultime settimane, Hasina ha spiegato che "li stiamo ricevendo ed accogliendo per ragioni umanitarie" ma che "la Birmania dovrà appena possibile riprenderli tutti sul suo territorio, condizione imprescindibile questa per mantenere rapporti di buon vicinato con i birmani".